Odissea

 

LIBRO XVII

 

Tosto che aperse del mattin la figlia

Con rosea man l'eteree porte al Sole,

Telemaco, d'Ulisse il caro germe,

Che inurbarsi volea, sotto le piante

S'avvinse i bei calzari, e la nodosa

Lancia che in man ben gli s'attava, tolse,

E queste al suo pastor drizzò parole:

"Babbo, a cittade io vo, perché la madre

Véggami, e cessi il doloroso pianto,

Che altramente cessar, credo, non puote.

Tu l'infelice forestier la vita

Guìdavi a mendicar: d'un pan, d'un colmo

Nappo non mancherà chi lo consoli:

Nello stato in ch'io sono, a me non lice

Sostener tutti. Monteranne in ira?

Non farà che il suo male. Io dal mio lato

Parlerò sempre con diletto il vero".

"Amico", disse allora il saggio Ulisse,

"Partire intendo anch'io. Più che ne' campi,

Nella cittade accattar giova: un frusto

Chi vorrà, porgerammi. In più d'etade

Non sono a rimaner presso le stalle,

E obbedire un padron, checché m'imponga.

Tu vanne: a me quest'uom sarà per guida,

Come tu ingiungi, sol che prima il foco

Mi scaldi alquanto, e più s'innalzi il Sole.

Triste, qual vedi, ho vestimenta, e guardia

Prender degg'io dal mattutino freddo,

Che sul cammin che alla città conduce

Ed è, sento, non breve, offender puommi".

Telemaco senz'altro in via si pose,

Mutando i passi con prestezza, e mali

Nella sua mente seminando ai proci.

Come fu giunto al ben fondato albergo,

Portò l'asta, e appoggiolla ad una lunga

Colonna, e in casa, la marmorea soglia

Varcando, penetrò. Primiera il vide

La nutrice Euriclèa, che le polite

Pelli stendea su i varïati seggi,

E a lui diritta, lagrimando, accorse:

Poi tutte gli accorrean l'altre d'Ulisse

Fantesche intorno, e tra le braccia stretto

Su le spalle il baciavano e sul capo.

Frattanto uscìa della secreta stanza,

Pari a Dïana e all'aurea Vener pari,

La prudente Penelope, che al caro

Figlio gettò le man, piangendo, al collo,

E la fronte baciògli ed ambo gli occhi

Stellanti; e non restandosi dal pianto:

"Telemaco", gli disse, "amata luce,

Venisti adunque! Io non credea più i lumi,

Fissare in te, dacché una ratta nave,

Contra ogni mio desir, dietro alla fama

Del genitor furtivamente a Pilo

T'addusse. Parla: quale incontro avesti?"

"Madre, del grave rischio ond'io campai",

Replicava Telemaco, "il dolore

Non rinnovarmi in petto e lo spavento.

Ma in alto sali con le ancelle: quivi

Lavata e cinta d'una pura veste

Le membra delicate, a tutti i numi

Ecatombe legittime prometti,

Se mi consente il vendicarmi Giove.

Io per un degno forestier, che venne

Meco da Pilo, andrò alla piazza. Innanzi

Co' miei fidi compagni io lo spedii,

E commisi a Pirèo, che in una magione

L'introducesse e fino al mio ritorno

Con onore il trattasse e con affetto".

Non indarno ei parlò. Lavata e cinta

Di veste pura il delicato corpo,

Penelope d'intègre a tutti i numi

Ecatombe votavasi, ove al figlio

Il vendicarsi consentisse Giove.

Né Telemaco a uscir fuor del palagio

Molto tardò: l'asta gli empiea la mano,

E due bianchi il seguìan cani fedeli.

Stupìa ciascun, mentr'ei mutava il passo:

Tal grazia sovra lui Palla diffuse.

Gli alteri proci stavangli da questo

Lato e da quel, voci parlando amiche,

Ma nel profondo cor fraudi covando.

Se non ch'ei tosto si sciogliea da essi;

E là, dove sedea Mentore, dove

Antifo ed Aliterse, che paterni

Gli eran compagni dalla prima etade,

A posar s'avvïò: quei d'ogni cosa

L'addimandaro. Sopraggiunse intanto

Pirèo, lancia famosa, il qual nel foro

Per la cittade il forestier menava,

A cui s'alzò Telemaco e s'offerse.

E così primo favellò Pirèo:

"Telemaco, farai che al mio soggiorno

Vengan le donne tue per que' superbi

Doni, onde Menelao ti fu cortese".

E il prudente Telemaco: "Pirèo,

Ignoto è ancor di queste cose il fine.

Se i proci, me secretamente anciso,

Tutto divideransi il mio retaggio,

Prima che alcun di loro, io di que' doni

Vo' che tu goda. E dove io lor dia morte

A me lieto recar li potrai lieto".

Disse, e guidò nella sua bella casa

L'ospite sventurato. Ivi, deposte

Sovra i troni le clamidi vellute,

Sceser nel bagno: e come astersi ed unti

Per le servili man fûro, e di manto

Vago e di vaga tunica vestiti,

Su i ricchi seggi a collocarsi andaro.

E qui l'ancella da bell'aureo vaso

Purissim'acqua nel bacil d'argento

Versava, e stendea loro un liscio desco,

Su cui la saggia dispensiera i bianchi

Pani venne ad imporre, e non già poche

Delle dapi non fresche, ond'è custode.

Penelope sedea di fronte al caro

Figlio, e non lungi dalle porte; e fini

Velli purpurei, a una polita sede

Poggiandosi, torcea. Que' due la destra

Stendeano ai cibi: nè fu pria repressa

La fame loro, e la lor sete spenta,

Che in tai voci la madre i labbri apriva:

"Io, figlio, premerò, salita in alto,

Quel che divenne a me lugubre letto

Dappoi che Ulisse inalberò le vele

Co' figliuoli d'Atrèo; lugubre letto,

Ch'io da quel giorno del mio pianto aspergo.

Non vorrai dunque tu, prima che i proci

Entrino alla magion, dirmi, se nulla

Del ritorno del padre udir t'avvenne?"

E il prudente Telemaco a rincontro:

"Madre, il tutto io dirò. Pilo trovammo

Ed il pastor de' popoli Nestorre.

Qual padre accoglie con carezze un figlio

Dopo lunga stagion d'altronde giunto,

Tal me in sua reggia e tra l'illustre prole,

La bianca testa di Nestorre accolse.

Ma diceami, che nulla udì d'Ulisse,

O vivo fosse, o fatto polve ed ombra.

Quindi al pugnace Menelao mandommi

Con buon cocchio e destrieri; ed io là vidi

L'argiva Elèna, per cui Teucri e Greci,

Così piacque agli dèi, tanto sudâro.

Il bellicoso Menelao repente

Chiedeami, qual bisogno alla divina

Sparta m'avesse addotto. Io non gli tacqui

Nulla, e l'Atride: "Ohimè! d'un eroe dunque

Volean giacer nel letto uomini imbelli?

Siccome allor che malaccorta cerva,

I cerbiatti suoi teneri e lattanti

Deposti in tana di leon feroce,

Cerca, pascendo, i gioghi erti e l'erbose

Valli profonde: e quello alla sua cava

Riede frattanto e cruda morte ai figli

Porta, e alla madre ancor: non altrimenti

Porterà cruda morte ai proci Ulisse.

Ed oh piacesse a Giove, a Febo e a Palla,

Che qual si levò un dì contra l'altero

Filomelìde nella forte Lesbo,

E tra le lodi degli Achivi a terra

Con mano invitta, lotteggiando, il pose,

Tal costoro affrontasse! Amare nozze

Foran le loro, e la lor vita un punto.

Quanto alla tua domanda", il re soggiunse,

"Ciò raccontarti senza fraude intendo

Che un oracol verace, il marin vecchio

Proteo, svelommi. Asseverava il nume

Che molte e molte lagrime dagli occhi

Spargere il vide in solitario scoglio,

Soggiorno di Calipso, inclita ninfa,

Che rimandarlo niega; ond'ei, cui solo

Non avanza un naviglio, e non compagni

Che il careggin del mar su l'ampio dorso,

Star gli convien della sua patria in bando".

Ciò in Isparta raccolto, io ne partii:

E un vento in poppa m'inviâro i numi,

Che rattissimo ad Itaca mi spinse.

Con tai voci Telemaco alla madre

L'anima in petto scompigliava. Insorse

Teoclimèno allora: "O veneranda

Della gran prole di Laerte donna,

Tutto ei già non conobbe. Odi i miei detti:

Vero e intégro sarà l'oracol mio.

Primo tra i numi in testimonio Giove

E la mensa ospital chiamo ed il sacro

Del grande Ulisse limitar, cui venni:

Lo sposo tuo nella sua patria terra

Siede o cammina, le male opre ascolta,

E morte a tutti gli orgogliosi proci

Nella sua mente sémina. Mel disse

Chiaro dal cielo un volator, ch'io scôrsi,

E al tuo figlio mostrai, sedendo in nave".

E la saggia Penelope: "Deh questo,

Ospite, accada! Tali e tanti avresti

Del mio sincero amor pegni, che ognuno

Ti chiamerìa, scontrandoti, beato".

Mentre così parlando, e rispondendo

Di dentro ivan la madre, il figlio e il vate,

Gli alteri proci alla magion davante

Dischi lanciavan per diletto, e dardi

Sul pavimento lavorato e terso,

Della baldanza lor solito arringo.

Ma giunta l'ora della mensa, e addotte

Le vittime da tutti intorno i campi,

Medonte, che nel genio ai proci dava

Più che altro in fra gli araldi e ai lor banchetti

Sempre assistea: "Giovani", disse, "quando

Godeste omai de' giochi, entrar v'aggradi,

Sì che il convivio s'imbandisca. Ingrata

Cosa non parmi il convivare al tempo".

Sursero immantinente, ed alle voci

Del banditor non repugnaro. Entrati,

Deposer su le sedie i manti loro.

Pingui capre scannavansi e più grandi

Montoni e grossi porci e una buessa

Di branco; e il prandio s'apprestava. E intanto

Dai campi alla cittade andar d'un passo

Preparavansi Ulisse ed il pastore.

Pria favellava Eumèo d'uomini capo:

"Stranier, se il mio piacere io far potessi,

Tu delle stalle rimarresti a guardia.

Ma poiché partir brami, e ció pur vuolsi

Dal mio signor, le cui rampogne io temo,

Però che gravi son l'ire de' grandi,

Moviam: già vedi che scemato è il giorno,

E infredderà più l'aere in ver la sera".

"Tai cose ad uom, che non le ignora, insegni",

Ripigliò il Laerzìade. "Ebben, muoviamo:

Ma vammi innanzi, e da', se da una pianta

Il recidesti, un forte legno, a cui

Per la via, che malvagia odo, io mi regga".

Disse, e agli omeri suoi per una torta

Corda il suo rotto e vil zaino sospese,

E il bramato baston porsegli Eumèo.

Quindi le stalle abbandonar, di cui

Rimaneano i famigli a guardia e i cani.

Così vêr la città, sotto le forme

D'un infelice mendicante e vecchio,

E curvo sul bastone e con le membra

Nelle vesti più turpi, il suo re stesso

L'amoroso pastore allor guidava.

Già, vinto il sentiero aspro, alla cittade

Si fean vicini, ed apparìa la bella,

Donde attignea ciascun, fonte artefatta,

Che una pura tra l'erbe onda volvea.

Construsserla tre regi: Itaco prima,

Poi Nerito e Polittore. Rotondo

D'alni acquidosi la cerchiava un bosco.

Fredda cadea l'onda da un sasso, e sovra

Un altar vi sorgea sacro alle Ninfe

Dove offria preci il vïandante e doni.

Qui di Dolio il figliuol, Melanzio, in loro

S'incontrò: conducea le capre, il fiore

Del gregge, ai proci; e il seguìan due pastori.

Li vide appena che bravolli, e indegne

Saettò in loro e temerarie voci,

Che tutto commovean d'Ulisse il core.

"Or sì", dicea, "che un tristo a un tristo è guida.

Giove li forma, indi gli accoppia. Dove

Meni tu quel ghiottone, o buon porcaio,

Quel mendìco importuno, e delle mense

Pêste che a molte signorili porte

Logorerassi gli omeri, di pane

Frusti chiedendo, non treppiedi o conche?

Se tu le stalle a custodir mel dessi,

E a purgarmi la corte, e a' miei capretti

La frasca molle ad arrecar, di solo

Bevuto siere ingrosserìa ne' fianchi.

Ma poiché solo alle tristi opre intese,

Travagliar non vorrà; vorrà più presto,

Di porta in porta domandando, un ventre

Pascere insazïabile. Ma senti

Cosa che certo avvenir dee. Se all'alta

Magion s'accosterà del grande Ulisse,

Molti sgabelli di man d'uom lanciati

Alla sua testa voleranno intorno,

E le coste trarrànnogli di loco".

Ciò disse ed appressollo, e nella coscia

Gli dièe'd'un calcio, come stolto ch'era,

Nè dalla via punto lo mosse: fermo

Restava Ulisse e in sé volgea, se l'alma

Col nodoso baston tôrgli dovesse,

O in alto sollevarlo, e su la nuda

Terra gettarlo capovolto. Ei l'ira

Contenne e sopportò. Se non ch'Eumèo

Al caprar si converse e improverollo,

E, levate le man, molto pregava:

"O belle figlie dell'Egioco, Ninfe

Nàiadi, se il mio re v'arse giammai

D'agnelli e di capretti i pingui lombi,

Empiete il voto mio. Rieda, ed un nume

La via gli mostri. Ti cadrìa, capraio,

Quella superbia dalle ardite ciglia,

Con cui vieni oltraggioso e sì frequente

Dai campi alla città. Quindi per colpa

De' cattivi pastori a mal va il gregge".

"Oh oh", Melanzio ripigliò di botto,

Che mi latra oggi quello scaltro cane,

Che un giorno io spedirò sovra una bruna

Nave dalla serena Itaca lunge,

Perché a me in copia vettovaglia trovi?

Così il dio dal sonante arco d'argento

Telemaco uccidesse oggi, o dai proci

Domo fosse il garzon, come ad Ulisse

Non sorgerà della tornata il giorno!"

Ciò detto, ivi lasciolli ambo, che lento

Moveano il piede, e, suo cammin seguendo,

D'Ulisse alla magion ratto pervenne.

Subito entrava, e s'assidea tra i proci

Di rimpetto ad Eurimaco, che tutto

Era il suo amore; né i donzelli accorti,

E la solerte dispensiera, innanzi

Un solo istante s'indugiâro a porgli

Quei parte delle carni, e i pani questa.

Ulisse ed il pastore al regio albergo

Giungeano intanto. S'arrestaro, udita

L'armonia dolce della cava cetra:

Ché l'usata canzon Femio intonava.

Tale ad Eumèo, che per man prese, allora

Favellò il Laerzìade: "Eumèo, d'Ulisse

La bella casa ecco per certo. Fôra,

Cinto il cortile e di steccati, doppie

Sono e salde le porte. Or chi espugnarla

Potrìa? Gran prandio vi si tiene, io credo:

Poiché l'odor delle vivande sale,

E risuona la cetera, cui fida

Voller compagna de' conviti i numi".

E tu cosi gli rispondesti Eumèo:

"Facile a te, che lunge mai dal segno

Non vai, fu il riconoscerla. Su via,

Ciò pensiam che dee farsi. O tu primiero

Entra e ai proci ti mesci, ed io qui resto;

O tu rimani, e metterommi io dentro.

Ma troppo a bada non istar: ché forse,

Te veggendo di fuor, potrebbe alcuno

Percuoterti o scacciarti. Il tutto pesa".

"Quel veggio anch'io, che alla tua mente splende",

Gli replicava il pazïente Ulisse.

"Dentro mettiti adunque: io rimarrommi.

Nuovo ai colpi non sono e alle ferite,

E la costanza m'insegnâro i molti

Tra l'armi e in mar danni sofferti, a cui

Questo s'aggiungerà. Tanto comanda

La forza invitta dell'ingordo ventre,

Per cui cotante l'uom dura fatiche,

E navi arma talor, che guerra altrui

Dell'infecondo mar portan su i campi".

Così dicean tra lor, quando Argo, il cane,

Ch'ivi giacea, del pazïente Ulisse

La testa ed ambo sollevò gli orecchi.

Nutrillo un giorno di sua man l'eroe,

Ma côrne, spinto dal suo fato a Troia,

Poco frutto poté. Bensì condurlo

Contro i lepri ed i cervi e le silvestri

Capre solea la gioventù robusta.

Negletto allor giacea nel molto fimo

Di muli e buoi sparso alle porte innanzi,

Finché i poderi a fecondar d'Ulisse,

Nel togliessero i servi. Ivi il buon cane,

Di turpi zecche pien, corcato stava.

Com'egli vide il suo signor più presso,

E benché tra que' cenci, il riconobbe,

Squassò la coda festeggiando, ed ambe

Le orecchie, che drizzate avea da prima,

Cader lasciò: ma incontro al suo signore

Muover, siccome un dì, gli fu disdetto.

Ulisse, riguardatolo, s'asterse

Con man furtiva dalla guancia il pianto,

Celandosi da Eumèo, cui disse tosto:

"Eumèo, quale stupor! Nel fimo giace

Cotesto, che a me par cane sì bello.

Ma non so se del pari ei fu veloce,

O nulla valse, come quei da mensa,

Cui nutron per bellezza i lor padroni".

E tu così gli rispondesti, Eumèo:

"Del mio re lungi morto è questo il cane.

Se tal fosse di corpo e d'atti, quale

Lasciollo, a Troia veleggiando, Ulisse,

Sì veloce a vederlo e sì gagliardo

Gran maraviglia ne trarresti: fiera

Non adocchiava, che del folto bosco

Gli fuggisse nel fondo, e la cui traccia

Perdesse mai. Or l'infortunio ei sente.

Perì d'Itaca lunge il suo padrone,

Nè più curan di lui le pigre ancelle;

Ché pochi dì stanno in cervello i servi,

Quando il padrone lor più non impera.

L'onniveggente di Saturno figlio

Mezza toglie ad un uom la sua virtude,

Come sopra gli giunga il dì servile".

Ciò detto, il piè nel sontuoso albergo

Mise, e avvïossi drittamente ai proci;

Ed Argo, il fido can, poscia che visto

Ebbe dopo dieci anni e dieci Ulisse,

Gli occhi nel sonno della morte chiuse.

Ma l'egregio Telemaco fu il primo

Che scorgesse il pastor nella superba

Sala passato; e a sé il chiamò d'un cenno.

Ed ei, rivolto d'ogni intorno il guardo,

Levò uno scanno ivi giacente, dove

Seder solea lo scalco, e le infinite

Carni partire ai banchettanti proci.

Levollo, ed a Telemaco di contra

Il piantò presso il desco, e vi s'assise;

E delle carni a lui pose davanti

Lo scalco, e pani dal canestro tolti.

Ulisse ivi a non molto anch'egli entrava

Simil ne' cenci e nel baston nodoso,

Su cui piegava il tergo, a un infelice

Paltonier d'anni carco. Entrato appena,

Sopra il frassìneo limitar sedea,

Con le spalle appoggiandosi ad un saldo

Stipite cipressin, cui già perito

Fabbro alzò a piombo e ripolì con arte.

Telemaco il pastor chiama, e, togliendo

Quanto avea pane il bel canestro, e quanta

Carne nelle sue man capìr potea:

"Questo", gli dice, "all'ospite tu reca.

E gli comanda che a ciascun de' proci

S'accosti mendicando. A cui nel fondo

Dell'inopia cascò, nuoce il pudore".

Andò il pastor repente, e, allo straniero

Soffermandosi in faccia: "Ospite, disse

Ciò ti manda Telemaco, e t'ingiunge

Che mendicando ti presenti a ognuno

De' proci in giro. "A cui nel fondo", ei dice,

"Dell'inopia cascò, nuoce il pudore"".

E il Laerzïade rispondea: Re Giove,

Telemaco dal ciel con occhio guarda

Benigno sì, ch'ei nulla brami indarno".

Detto ciò solo, prese ad ambe mani

Ulisse il tutto, e colà innanzi ai piedi

Su la bisaccia ignobile sel pose.

Finché il divin Demodoco cantava,

Cibavasi l'uom saggio; al tempo stesso

L'un dal cibo cessò, l'altro dal canto.

Strepitavano i proci entro la sala:

Ma Palla, al figlio di Laerte apparsa

L'esortò i pani ad accattar dai proci,

Tastando chi più asconda o men tristezza,

Benché a tutti la dea scempio destini.

Ei volse a destra, e ad accattar da tutti

Gìa, stendendo la man, come se mai

Esercitato non avesse altr'arte.

Mossi a pietade il soccorreano e forte

Stupìano, e domandavansi a vicenda

Chi fosse e d'onde il forestier venisse.

E qui Melanzio: "Udite, o dell'illustre

Penelope, dicea vagheggiatori.

L'ospite io vidi, a cui la via mostrava

De' porci il guardïan: ma da qual chiara

Stirpe disceso egli si vanti, ignoro".

"Guardïan famosissimo", Antinòo

Così Eumèo rimbrottò, "perché costui

Guidasti alla città? Ci mancan forse

Vagabondanti paltonieri infesti,

Delle mense flagello? O che d'Ulisse

Qui si nutra ciascun, poco ti cale,

Che questo ancor, donde io non so, chiamasti?"

E tal risposta tu gli fésti, Eumèo:

"Prode, Antinoo, sei tu, ma ben non parli.

Chi un forestiero a invitar mai d'altronde

Va, dove tal non sia che al mondo giovi,

Come profeta, o sanator di morbi,

O fabbro industre in legno, o nobil vate,

Che le nostr'alme di dolcezza innondi?

Questi invìtansi ognor, non un mendìco

Che ci consumi, e non diletti, o serva.

Ma tu i ministri del mio re lontano

Più che ogni altro de' proci, e de' ministri

Me più, che ogni altro, tormentar non cessi.

Non men curo io però, finché la saggia

Penelope e Telemaco deiforme

Vivono a me nella magion d'Ulisse".

Ma Telemaco a lui: "Taci, parole

Non cangiar molte con Antinoo. È usanza

Di costui l'assalir con aspri detti

Chi non l'offende, e incitar gli altri ancora".

Poi, converso a quel tristo: "In ver, soggiunse,

Cura di me, qual padre, Antinoo, prendi,

Tu che l'ospite vuoi sì duramente

Quinci sbandire. Ah nol consenta Giove!

Dagline: io, non che oppormi, anzi l'esigo.

La madre d'annoiare, o alcun de' servi

Del padre mio, tu non temer per questo.

Ma cosa tal non è da te, cui solo

La propria gola soddisfar talenta".

"O alto di favella e d'alma indómo",

D'Eupite disse incontanente il figlio,

"Che parlasti, Telemaco? Se i proci

Quel don, ch'io serbo a lui, gli fesser tutti

Starsi almeno ei dovrìa tre lune in casa

Da noi lontano". E lo sgabello preso,

Su cui tenea beendo i molli piedi,

Alto in aria il mostrò. Gli altri cortesi

Gli eran pur d'alcun che, sì ch'ei trovossi

Di carni e pani la bisaccia colma.

Mentre alla soglia, degli Achivi i doni

Per gustar, ritornava, ad Antinòo

Si fermò innanzi e disse: "Amico, nulla

Dunque mi porgi? degli Achivi il primo

Mi sembri, come quei che a re somiglia.

Quindi più ancor che agli altri, a te s'addice

Largo mostrarti: io le tue lodi, il giuro,

Per tutta spargerò l'immensa terra.

Tempo già fu ch'io, di te al par felice,

Belle case abitava, e ad un ramingo,

Qual fosse e in quale stato a me venisse,

Del mio largìa: molti avea servi, e nulla

Di ciò fallìami, onde gioiscon quelli

Che ricchi e fortunati il mondo chiama.

Giove, il perché ei ne sa, strugger mi volle,

Ei, che in Egitto, per mio mal, mi spinse

Con ladroni moltivaghi; vïaggio

Lungo e funesto. Nell'Egitto fiume

Fermai le ratte navi, ed ai compagni

Restarne a guardia ingiunsi, e quell'ignota

Terra ire alcuni ad esplorar dall'alto.

Ma questi da un ardir folle e da un cieco

Desìo portati, a saccheggiar le belle

Campagne degli Egizî, a via menarne

Le donne e i figli non parlanti, i grami

Coltivatori a uccidere. Volonne

Tosto il rumore alla città: né prima

L'Alba s'imporporò, che i cittadini

Vennero, e pieno di cavalli e fanti

Fu tutto il campo, e del fulgor dell'armi

Cotale allora il Fulminante pose

Desir di fuga de' compagni in petto,

Che un sol far testa non osava: uccisi

Fur parte e parte presi, e ad opre dure

Sforzati; e ovunque rivolgeansi gli occhi,

Un disastro apparìa. Me consegnâro

A Demetore Iaside, che in quelle

Parti era giunto, e dominava in Cipro,

Dond'io carco di mali al fin qua venni".

E di nuovo così d'Eupìte il figlio:

"Qual Genio avverso una sì fatta lue,

Le nostre mense a conturbar, ci addusse?

Tienti nel mezzo, e dal mio desco lunge,

Se un altro Egitto amaro e un'altra Cipro

Trovar non brami in Itaca. Io mendìco

Mai non conobbi più impudente e audace.

T'offri a ciascun l'un dopo l'altro, e allarga

Ciascun per te la man senza consiglio:

Ché rotto cade ogni ritegno, dove

Regna la copia, e dell'altrui si dona".

"Poh!" replicava il Laerzìade, indietro

Ritirandosi alquanto, "alla sembianza

Poco l'animo adunque in te risponde.

Chi mai creder potrìa che pur di sale

A supplicante tu daresti un grano

Dalla tua mensa, tu che un frusto darmi

Dall'altrui non sapesti, e così ricca?"

Montò Antinoo in più furia, e, torve in lui

Fissando le pupille: "Ora io non penso

Che uscirai quinci con le membra sane,

Poscia che all'onte ne venisti". Disse,

E afferrò lo sgabello, ed avventollo,

E in sulla punta della destra spalla

Percosse il forestiero. Ulisse fermo

Stette qual rupe, né d'Antìnoo il colpo

Smòsselo: bensì tacito la testa

Crollò, agitando la vendetta in core.

Indi sul limitar sedea di nuovo,

Deposto il zaino tutto pieno, e ai proci

Favellava così: "Competitori

Dell'illustre Reina: udir vi piaccia

Ciò che il cor dirvi mi comanda. Dove

Pe' campi, per la greggia o per l'armento

Pugnando è l'uom ferito, il porta in pace.

Me, per la trista ed importuna fame,

Gran fonte di disastri, Antìnoo offese.

Ma se ha prôpizî dèi, se ha Furie ultrìci,

Chi non ha nulla, della morte il giorno

Pria che quel delle nozze, Antìnoo colga".

E d'Eupìte il figliuol: "Tranquillo e assiso,

Cibati, o forestiere, o quinci sgombra

Acciò gli schiavi, poiché si favelli,

Per li piedi e le man te del palagio

Non traggan fuori, e tu ne vada in pezzi".

Tutti d'ira s'accesero, ed alcuno;

"Mal", disse, "festi, Eupìtide, un tapino

Vïandante a ferir. Sciaurato! S'egli

Degli abitanti dell'Olimpo fosse?

Spesso d'estrano pellegrino in forma

Per le cittadi si raggira un nume,

Vestendo ogni sembianza, e alle malvage

De' mortali opre ed alle giuste guarda".

Tai voci Antìnoo dispregiava. Intanto

Della percossa rea gran duol nel petto

Telemaco nodrìa. Non però a terra

Dalle ciglia una lagrima gli cadde.

Sol crollò anch'ei tacitamente il capo,

Ruminando nel cor l'alta vendetta.

Ma la saggia Penelope, cui giunse

L'annunzio in alto dell'indegno colpo,

Tra le ancelle proruppe in questi accenti:

"Deh così lui d'un de' suoi dardi il nume

Dal famoso d'argento arco ferisca!"

Ed Eurìnome a lei: "Se gl'Immortali

Fesser pieni i miei voti, a un sol de' proci

Non mostrerìasi la nuov'alba in cielo".

"Nutrice mia", Penelope riprese,

"Mi spiaccion tutti, perché tutti ingiusti:

Ma del par che la morte Antìnoo abborro.

Move per casa un ospite infelice

Dalla sua fame a mendicar costretto.

Ciascun gli dà, tal ch'ei n'ha il zaino colmo;

E d'Eupite il figliuol d'uno sgabello

Nella punta dell'òmero il percuote".

Cotesti accenti tra le ancelle assisa

Liberò dalle labbra; e in quella Ulisse

il suo prandio compiea. Ma la Regina,

Eumèo chiamato a sè: "Va, gli dicea,

De' pastori il più egregio, ed a me invia

Quel forestiere, onde in colloquio io seco

Mi restringa, e richiedagli, se mai

D'Ulisse udì, se il vide mai con gli occhi.

Ei, che di gran vïaggi uom mi rassembra".

E tu così le rispondesti, Eumèo:

"Oh volesser gli Achei per te, regina,

Tacersi alcuni istanti! Ei tal favella,

Che somma in cor ti verserìa dolcezza.

Io tre giorni appo me l'ebbi e tre notti;

Che fuggito era da un'odiata nave:

Né però tutti mi narrò i suoi guai.

Qual racceso dai numi illustre vate

Voce sì grata agli ascoltanti innalza,

Che l'orecchio, fissando in lui le ciglia,

Se dal canto riman, tendono ancora:

Tal mi beava nella mia capanna.

Dissemi che di padre in figlio a Ulisse

Dell'ospitalità stringealo il nodo;

Che nativo di Creta era, del grande

Minosse culla; e che di là, cadendo

D'un mal sempre nell'altro, a' tuoi ginocchi

Venìa di gramo supplicante in atto.

M'affermò che d'Ulisse avea tra i ricchi

Tesproti udito, che vive anco, e molti

All'avìta magion tesori adduce".

La prudente Penelope a rincontro:

"Vanne ed a me l'invia, sì ch'io l'ascolti.

Gli altri o fuor delle porte o nel palagio

Trastullin pur, poscia che han lieto il core.

Crescono i monti delle lor sostanze,

Di cui solo una parte i servi loro

Toccano; ed essi qui l'intero giorno

Banchettan lautamente, e il fior del gregge

Struggendo e dell'armento, e le ricolme

Della miglior vendemmia urne votândo,

Fanno una strage: né v'ha un altro Ulisse,

Che atto a fermarla sia. Ma l'eroe giunge,

E piena con Telemaco di tanti

Barbari oltraggi prenderà vendetta".

Finito non avea, che il figlio ruppe

In un alto starnuto, onde la casa

Risonò tutta. La Regina rise,

E: "Va, disse ad Eumèo, corri, e il mendìco

Mandami. Starnutare alle mie voci

Non udisti Telemaco? Maturo

De' proci è il fato, né alcun fia che scampi.

Ciò senti ancora, e in mente il serba. Quando

Verace in tutto ei mi rïesca, i cenci

Gli cangerò di botto in vesti belle".

Corse il fido pastore, e allo straniero,

Standogli presso: "Ospite padre, disse,

Te la saggia Penelope, la madre

Di Telemaco vuole: il cor la spinge

D'Ulisse a ricercar, benché sol dato

Le abbian sin qui le sue ricerche duolo.

Quando verace ti conosca, i cenci

Ti cangerà di botto in vesti belle:

Cibo non mancherà chi ti largisca,

Se tu l'andrai per la città chiedendo".

"Eumèo", rispose il pazïente Ulisse,

"Alla figlia d'Icario, alla prudente

Penelope, da me nulla del vero

Si celerà. So le vicende appieno

D'Ulisse, con cui sorte io m'ebbi eguale:

Ma la turba difficile de' proci,

Di cui del ciel sino alla ferrea volta

Monta l'audace tracotanza, io temo.

Pur testé, mentr'io gìa lungo la sala,

Nulla oprando di mal, percosso io fui;

E non prevenne il doloroso insulto

Telemaco, non che altri. Il sol cadente

Ad aspettar nelle sue stanze adunque

Tu la conforta. Mi domandi allora

Del ritorno d'Ulisse innanzi al foco:

Poiché il vestito mio mal mi difende.

Tu il sai, cui prima supplicante io venni".

Diè volta, udito questo, il buon pastore;

E Penelope a lui, che già la soglia

Col piè varcava: "Non mel guidi, Eumèo?

Che pensa il forestier? Tema de' proci,

O vergogna di sé, forse occupollo?

Guai quel mendico cui ritien vergogna!"

Ma tu così le rispondesti, Eumèo:

"Ei, come altri farebbe in pari stato,

De' superbi schivar l'onte desìa.

Bensì t'esorta sostener, Regina,

Finché il dì cada. Cosi meglio voi

Potrete ragionar, sola con solo".

"Gran senno in lui, chïunque sia, dimora",

Ella riprese: "ché sì audaci e ingiusti

Non ha l'intero mondo uomini altrove".

Eumèo ritornò ai proci, e di Telemaco

Parlando, onde altri non potesse udirlo,

All'orecchia vicin: "Caro", gli disse,

"Le mandre, tua ricchezza e mio sostegno,

A custodire io vo'. Tu su le cose

Qui veglia, e più sovra te stesso, e pensa

Che i giorni passi tra una gente ostile,

Cui, prima ch'ella noi, Giove disperda".

"Sì, babbo mio", Telemaco rispose.

"Parti, ma dopo il cibo, e al dì novello

Torna e vittime pingui adduci teco".

Tacque; ed Eumèo sovra il polito scanno

Novamente sedea. Cibato, ai campi

Ire affrettossi, gli steccati addietro

Lasciando e la magion d'uomini piena

Gozzoviglianti, cui piacere il ballo

Era e il canto piacer, mentre spiegava

L'ali sue nere sovra lor la notte.

 

LIBRO XVIII

 

Un accattante pubblico sorvenne,

Di mendicar per la cittade usato,

Famoso vorator, che mai non disse

Per molto cibo, e per vin molto: "Basta!"

E gigante a vederlo, ancor che poco

Di forza e cuore in sì gran corpo fosse.

Egli avea nome Arnèo: così chiamollo,

Nel dì che nacque, la diletta madre.

Ma dai giovani tutti Iro nomato

Era, come colui che le imbasciate

Portar solea, qual gliene desse il carco.

Giunto fu appena, che scacciava Ulisse

Dalla sua casa, ed il mordea co' detti:

"Vecchio, via dal vestibolo, se vuoi

Ch'io non ti tragga fuor per un de' piedi,

Non vedi l'ammiccar, perch'io ti tragga,

Di tutti a me? Pur m'arrossisco, e stommi.

Ma lèvati, o alle prese io con te vegno".

Bieco Ulisse guatollo, e: "Sciagurato",

Rispose, "in opra io non t'offendo o in voce,

Né che alcuno a te doni, anco a man piene,

T'invidio io punto. Questa soglia entrambi

Ci capirà. Tu non dovresti noia

Del mio bene sentir, tu, che un mendico

Mi sembri al par di me. Dispensatori

Delle ricchezze all'uom sono i celesti.

Invitarmi a pugnar non ti consiglio,

Onde infiammato, benché vecchio, d'ira

Le labbra io non t'insanguini ed il petto.

Più assai tranquillo io ne sarei domane:

Ché alla magion del figlio di Laerte

Ritorno far tu non potresti, io credo".

"Poh", sdegnato il pezzente Iro riprese,

"Più volubili i detti a questo ghiotto

Corrono e ratti più, che non a vecchia

Che sempre al focolar s'aggira intorno.

S'io queste man pongogli addosso, tutti

Dalle mascelle, come a ingordo porco

Entrato fra le biade, i denti io schianto.

Or bene, un cinto senza più ti copra,

E questi ci conoscano alla pugna

Che tosto avremo. Io veder voglio, come

Con uom combatterai tanto più verde".

Così sul liscio limitar dell'alte

Porte garrìan d'ingiurïosi motti.

Avvisossene Antinoo, e, dolcemente

Ridendo, sciolse tai parole: "Amici,

Nulla di sì giocondo a questi alberghi

Gli abitator dell'etra unqua mandaro.

Si bisticcian tra lor l'ospite ed Iro,

E già le man frammischiano. Su via,

Meglio alla zuffa raccendiamli ancora".

Tutti s'alzâro, nelle risa dando,

E ai due straccioni s'affollâro intorno.

Ed Antinoo così: "Nobili proci,

Sentite un pensier mio. Di que' ventrigli

Di capre, che di sangue e grasso empiuti

Sul foco stan per la futura cena

Scelga qual più vorrà chi vince, e quindi

D'ogni nostro convito a parte sia;

Né più tra noi s'aggiri altro cencioso".

Ciò piacque a tutti. Ma l'accorto eroe,

Cui non fallìan le astuzie: "Amici disse,

Ad uom dagli anni e dai disastri rotto

Con giovane pugnar non parmi bello.

E pur botte a ricevere, e ferite

La rea mi spinge imperïosa fame.

Ma voi giurate almen che nessuno, Iro

Per favorir, me della man gagliarda

Percuoterà, male adoprando: troppo

Mi tornerebbe allor duro il cimento".

Giurâro. E di Telemaco in tal guisa

La sacra possa favellò: "Straniero,

Di respinger costui ti detta il core?

Respingilo: né alcun temer de' proci.

Chi t'oserà percuotere, con molti

A combattere avrà. Gli ospiti io curo,

E tal favella non condannan certo

Eurimaco ed Antinoo, ambo prudenti".

Disse, e ciascuno approvò il detto. Ulisse

Si spogliò tutto, e de' suoi panni un cinto

Formossi, e nudi i lati omeri, nudo

Mostrò il gran petto e le robuste braccia

E i magni fianchi discoprì: Minerva,

Che per lui scese dall'Olimpo, tutte

De' popoli al pastor le membra crebbe.

Stupîro i proci fieramente, e alcuno

Così dicea, volgendosi al vicino:

"Iro, già non più Iro, in su la testa

S'avrà tratto egli stesso il suo malanno;

Tai fianchi ostenta e tali braccia il veglio!"

A queste voci malamente d'Iro

L'animo commoveasi. E non pertanto

Col cinto ai lombi e pallido la faccia,

Gli schiavi a forza il conducean: su l'ossa

Tremavangli le carni. Antinoo allora

Prendealo a rimbrottar: "Millantatore,

Perché or non muori, o a che nascesti un giorno,

Tu, che sì temi e tremi, uom dagli affanni,

Non men che dall'età, snervato e domo?

Ma odi quel che di te fia. Se a terra

Con vincitrice man colui ti mette,

Io te gettato in una ratta nave

Manderò nell'Epiro al rege Echeto,

Flagello de' mortali, il qual ti mozzi

Gli orecchi e il naso con acerbo ferro,

E, da stracciarsi crudi, a un can vorace

Butti gli svelti genitali in preda".

Un tremor gli entrò in corpo ancor più forte:

Ma il condusser nel mezzo. I due campioni

Le mani alzâro: dubitava Ulisse,

Se del pugno così dar gli dovesse,

Che lui caduto abbandonasse l'alma,

O atterrarlo, e non più, con minor colpo.

Questo partito scelse, onde agli Achivi

Celarsi meglio. Iro la destra spalla

Ad Ulisse colpì, ma Ulisse in guisa

Sotto l'orecchia l'investì nel collo,

Che l'ossa fracassògli: uscìagli il rosso

Sangue fuor per la bocca; ed ei mugghiando

Cascò, digrignò i denti, e il pavimento

Calcitrando batté. Gli amanti a quella

Vista, levate le lor braccia in alto,

Scoppiavan delle risa. Intanto Ulisse,

L'un de' piedi afferratogli, il traea

Pel vestibolo fuor sino alla corte,

E all'entrata del portico. Ciò fatto,

Col dosso al muro l'appoggiò, gli pose

Bastone in mano e: "Qui", gli disse, "or siedi.

E scaccia dal palagio i cani e i ciacchi,

Né più arrogarti, così vil qual sei

Su gli ospiti dominio e su i mendichi:

Ché un'altra volta non t'incontri peggio".

Così dicendo, si gittava intorno

Alle spalle il suo zaino, e al limitare

Ritornava, e sedeavi. Rientraro

Con dolce riso in su le labbra i proci,

Ed a lui blande rivolgean parole:

"Ospite, Giove a te con gli altri numi

Quanto più brami, e t'è più caro, invii,

A te, che la città smorbasti a un tratto

Di questo insazïabile accattone,

Che ad Echeto, degli uomini flagello,

Tra poco andrà su gli Epiroti lidi".

Così parlâro; e dell'augurio Ulisse

Godea nell'alma, e Antinoo un gran ventriglio

Di sangue e di pinguedine ripieno

Gli recò innanzi. Ma il valente Anfinomo

Due presentògli dal canestro tolti

Candidissimi pani, e, propinando

Con aurea tazza: "Salve", disse, "o padre,

Forestier, salve: se infelice or vivi,

Lieti scórranti almeno i dì futuri".

"Anfinomo", l'eroe scaltro rispose,

"D'intendimento e di ragion dotato

Mi sembri, e in questo tu ritrai dal padre,

Da Niso Dulichiense, ond'io la fama

Sonare udìa, buono del par che ricco,

Da cui diconti nato; e fede ancora

Ne fa il tuo senno e le parole e gli atti.

A te dunque io favello, e tu i miei detti

Ricevi, e serba in te. Sai tu di quanto

Spira e passeggia su la terra o serpe,

Ciò che al mondo havvi di più infermo? È l'uomo.

Finché stato felice i dèi gli dánno,

E il suo ginocchio di vigor fiorisce,

Non crede che venir debbagli sopra

L'infortunio giammai. Sopra gli viene?

Con repugnante alma indegnata il soffre:

Ché quali i giorni son, che foschi o chiari,

De' mortali il gran padre e de' celesti

D'alto gli manda, tal dell'uomo è il core.

Vissi anch'io vita fortunata e illustre,

E, secondando la mia forza, e troppo

Nel genitor fidando e ne' germani,

Non giuste, vaglia il vero, opre io commisi.

Ma ciascuno a ben far dee per l'ingegno,

E quel, che dai numi ha, fruir tranquillo:

Né costoro imitar, che iniquamente

Struggono i beni, e la pudica donna

Oltraggian d'un eroe, che lungo tempo

Dalla sua patria e dagli amici, io credo,

Lontano ancor non rimarrà; che a questi

Luoghi anzi è assai vicino. Al tuo ricetto

Quindi possa guidarti un dio pietoso,

E torti agli occhi suoi, com'egli appaia:

Poiché decisa senza molto sangue

Messo ch'egli abbia in sua magione il piede,

Non fia tra i proci e lui l'alta contesa".

Libò, ciò detto, e accostò ai labbri il nappo,

E tornollo ad Anfinomo. Costui

Per la sala iva, conturbato il core,

E squassando la testa, ed il suo male

Divinando, ma invan: fuggir non puote,

Legato anch'ei da Palla, onde cadesse

Per l'asta di Telemaco. Nel seggio,

Donde sorto era, si ripose intanto.

Ma d'Icario alla figlia, alla prudente

Penelope, la dea dai glauchi lumi

Spirò il disegno di mostrarsi ai proci,

Perché lor s'allargasse il core in petto

Di nuova speme, ed in onor più grande

Presso il consorte e il figlio ella salisse.

Diede, né ben sa come, in un gran riso,

E tai detti formò: "Sento un desire

Non pria sentito di mostrarmi ai proci,

Eurinome, bench'io tutti gli abborra.

Utile avviso in lor presenza io bramo

A Telemaco dare, il qual troppo usa

Con que' superbi giovani, che accenti

Ti drizzan blandi, e insidianti da tergo".

"Saggio è il consiglio", Eurinome rispose.

"Va' figlia, dunque, ed il tuo nato assenna.

Ma pria ti lava, e su le guance poni

L'usato unguento. Apparir vuoi con faccia

Dalle lagrime tue solcata e guasta?

Quel pianger sempre e dall'un giorno all'altro

Nullo divario far, poco s'addice.

Già venne il figlio nell'età fiorita,

In cui vederlo con l'onor del mento

Sì ardentemente supplicavi ai numi".

"Per zelo che di me l'alma ti scaldi",

Replicava Penelope, "di bagni,

Eurinome, o di lisci, or non parlarmi.

Il dì che Ulisse s'imbarcò per Troia,

Tolsermi ogni beltà dal volto i numi,

Bensì Autonòe mi chiama e Ippodamìa,

Che da lato mi stieno. Ai proci sola

Non offrirommi: ché pudor mel vieta".

Tacque; e la vecchia Eurinome le donne

A chiamar tosto e ad affrettarle, uscìo.

Ma l'occhiazzurra dea, nuovo pensiero

Formando nella mente, alla pudica

Figlia d'Icario un molle sonno infuse.

Mentre giacea sovra il suo seggio, e tutte

Il molle sonno le sciogliea le membra,

Palla Minerva di celesti doni

La rifornìa, perché di lei più sempre

Invaghisser gli Achei. Pria su le guance

Quella, che tien dalla bellezza il nome,

Sparse divina essenza, onde si lustra

La inghirlandata d'ôr Vener, se mai

Va delle Grazie al dilettoso ballo:

Poi di corpo la crebbe, e ricolmolla

Nel volto, e tal su lei candor distese,

Che l'avorio tagliato allora allora

Ceder dovesse al paragon. La diva

Risalì dell'Olimpo in su le cime.

Venner le ancelle strepitando, e ratto

Si riscosse Penelope dal sonno;

E con man gli occhi stropicciossi e disse:

"Qual dolce sonno della sua fosc'ombra

Me infelice coprì! Deh così dolce

Morte subitamente in me la casta

Artemide scoccasse; ed io l'etade

Più non avessi a consumar nel pianto,

Sospirando il valor sommo, infinito,

D'un eroe, cui non sorse in Grecia il pari".

Così detto, scendea dalle superne

Lucide stanze al basso, e non già sola:

Ma con Autonoe e Ippodamia da tergo.

Sul limitar della dedàlea sala,

Ove i proci sedean, trovasi appena,

Che arresta il pié tra l'una e l'altra ancella

L'ottima delle donne, e co' sottili

Veli del capo ambo le guance adombra.

Senza forza restaro e senza moto:

L'alma più intenerìa, si raddoppiava

Delle nozze il desire in ogni petto.

Ella queste a Telemaco parole:

"Figlio, io te più non riconosco. Sensi

Nutrivi in mente più maturi e scorti

Nella tua fanciullezza; ed or che grande

Ti veggio, e in un'età più ferma entrato,

Or, che stranier, che a riguardar si fesse

La tua statura e la beltà, te prole

D'uom beato dirìa, più non dimostri

Giustizia o senno. Tollerar sì indegno

Trattamento d'un ospite in tua reggia?

Oltraggio sì crudel, che vendicato

Non siagli, puote a un forestier qui usarsi,

Che su te non ne cada eterno scorno?"

Il prudente Telemaco rispose:

"Madre, perché ti crucci, io non mi sdegno.

Meglio, che pria ch'io di fanciullo uscissi,

Le umane cose, il pur mi credi, intendo,

E tra lor non confondo il torto e il dritto.

Ma tutto operare o antiveder non valgo,

Circondato qual sono e insidïato

Da fiera gente, e d'assistenti solo.

Quanto alla lotta tra l'estranio ed Iro,

Parte i proci non v'ebbero, e del primo

Fu la vittoria. Ed oh! piacesse al padre

Giove e alla diva Pallade e ad Apollo,

Che tentennasse a cotestor già domi

La testa e si sfasciassero le membra,

Nel vestibolo agli uni, e agli altri in sala

Come a quell'Iro, che alle porte or siede

Dell'atrio, il capo qua e là piegando,

D'un ebbro in guisa e che su i piedi starsi

Non può, né a casa ricondursi: tanto

Le membra riportonne afflitte e peste".

Così la madre e il figlio. Indi tai voci

Eurimaco a Penelope drizzava:

"Figlia d'Icario, se te vista tutti

Avesser per l'Iasio Argo gli Achivi,

Turba qui di rivali assai più folta

Banchetterìa dallo spuntar dell'alba:

Ché non v'ha donna che per gran sembiante

Per bellezza e per senno a te s'agguagli".

E la nobile a lui d'Icario figlia:

"Eurimaco, virtù, sembianza tutto

Mi rapiro gli dèi, quando gli Argivi

Sciolser per Troia, e con gli Argivi Ulisse.

S'egli, riposto in sua magione il piede,

A reggere il mio stato ancor prendesse,

Ciò mia gloria sarebbe e beltà mia.

Ora io m'angoscio: tanti a me sul capo

Mali piombaro. Ei, d'imbarcarsi in atto,

Prese la mia con la sua destra, e: "Donna",

Disse "non credo io già che i forti Achei

Da Troia tutti riederanno illesi:

Poiché sento pugnaci essere i Teucri,

Gran sagittari e cavalieri egregi.

Che pel campo agitar sanno i destrieri

Rapidamente: quel che in breve il fato

Delle guerre terribili decide.

Quindi, se me ricondurran gli eterni,

O Troia riterrà morto o cattivo,

Sposa, io non so. Tu, sovra tutto, veglia.

Rispetta il padre mio, la madre onora,

Come oggi, od ancor più, finch'io son lunge.

E allor che del suo pel vedrai vestito

Del figlio il mento, a qual ti fia più in grado,

Lasciando la magion, vanne consorte."

Tal favellava; ed ecco giunto il tempo.

L'infausta notte apparirà, che dee

Portare a me queste odïose nozze,

A me, cui Giove ogni letizia spense.

Ma ciò la mia tristezza oggi più aggrava,

Che gli usi antichi non si guardan punto.

Color, che donna illustre e d'uom possente

Figlia un dì ambìano e contendean tra loro,

Belle conducean vittime, gli amici

Per convitar della bramata donna,

E doni a questa offrìan: non già l'altrui

Struggeano impunemente a mensa assisi".

Disse, e l'eroe gioì ch'ella in tal modo

De' proci i doni procurasse, e loro

Molcesse il petto con parole blande,

Mentre in fondo del cor altro volgea.

Ma così Antìnoo allor: "Nobil d'Icario

Figlia, saggia Penelope, ricevi

I doni che gli Achei già per offrirti

Sono, e cui fora il ricusar stoltezza;

Ma noi di qua non ci torrem, se un prima

De' più illustri fra noi te non acquista".

Piacquero i detti: e alla sua casa ognuno

Per li doni spedì. L'araldo un grande

Recò ad Antìnoo e vario e assai bel peplo,

Che avea dodici d'ôr fibbie lampanti

Con ardiglioni ben ricurvi attate.

Eurimaco un monile addur si fece

D'oro e intrecciato d'ambra, opra da insigne

Mastro sudata, che splendea qual sole.

Due serventi portaro a Euridamante

Finissimi orecchini a tre pupille,

Donde grazia infinita uscìa di raggi.

Fregio non fu men prezïoso il vezzo,

Che re Pisandro, di Polittor figlio,

Dalle mani d'un servo ebbe; e non meno

Belli d'ogni altro Acheo parvero i doni.

La divina Penelope, seguita

Dall'ancelle, co' doni alle superne

Stanze montava; e i proci al ballo e al canto

Finché, a romper nel mezzo i lor diletti,

L'ombra notturna sovra lor cadesse.

Caduta sovra lor l'ombra notturna,

Tre gran bracieri saettanti luce,

Cui legne secche e dure e fesse appena

Nodrìano, i servi collocar nel mezzo;

E allumâr qua e là più faci ancora.

Cura di questi fuochi aveano alterna

Le donne del palagio. A queste feo

Tai detti il ricco di consigli Ulisse:

"Schiave d'Ulisse, del re vostro assente

Per sì lunga stagion, la veneranda

Regina vostra a ritrovar salite.

Fusi rotando o pettinando lane,

Sedetele vicino, e ne' suoi mali

La confortate. Mio pensier frattanto

Sarà, che ai proci non fallisca il lume.

Quando attendere ancor volesser l'alba,

Me non istancheran: ché molto io sono

Da molto tempo a tollerare avvezzo".

Questi detti lor feo. Riser le ancelle,

E a vicenda guardavansi, e schernirlo

Con villane parole una Melanto,

Bella guancia, s'ardìa. Dolio costei

Generò, ma Penelope nutrilla,

Siccome figlia, nulla mai di quanto

Lusinga le fanciulle, a lei negando:

Né s'afflisse per ciò con la Regina

Melanto mai, che anzi tradìala, e s'era

A Eurimaco d'amor turpe congiunta.

Costei pungea villanamente Ulisse:

"Ospite miserabile, tu sei

Un uomo, io credo, di cervello uscito,

Tu, che in vece d'andar nell'officina

D'un fabbro a coricarti o in vil taverna

Qui tra una schiera te ne stai di prenci,

Lungo cianciando, e intrepido. Alla mente

Ti salì senza forse il molto vino,

O d'uom brïaco hai tu la mente, e quindi

Senza construtto parli. O esulti tanto,

Perchè il ramingo Iro vincesti? Bada,

Non alcun qui senza indugiare insorga,

Che, d'Iro assai miglior, te nella testa

Con le robuste man pesti, e t'insozzi

Tutto di sangue, e del palagio scacci".

Bieco guatolla, e le rispose Ulisse:

"Cagna, io ratto a Telemaco i tuoi sensi

Perch'ei ti tagli qui medesimo in pezzi,

A riportare andrò". Così dicendo,

Le femmine atterrì, che per la casa

Mosser veloci, benché a tutte forte

Le ginocchia tremassero: sì presso

Ciò ch'ei lor detto avea, credeano al vero.

Ei si fermò presso i bracieri ardenti,

La luce ravvivandone, e tenendo

Gli occhi ne' proci ognor, mentre nemiche

Cose agitava, e non indarno, in petto.

Minerva intanto non lasciava i proci

Rimanersi dall'onte, acciò in Ulisse

Crescer dovesse col dolor lo sdegno.

Eurimaco di Pòlibo parlava

Primo, l'eroe mordendo e a nuovo riso

Provocando i compagni: Udite, amanti

Dell'inclita regina, un mio pensiero,

Che tacer non poss'io. Non senza un nume

Venne costui nella magion d'Ulisse.

Splender gli veggo, come face, il capo,

Sovra cui non ispunta un sol capello".

Quindi, al rovesciator delle munite

Città, converso: "Forestier", soggiunse,

"Vorréstu a me servir, s'io ti pigliassi

Per assestar nel mio poder le siepi,

E gli alberi piantar? Buona mercede

Tu ne otterresti: cotidiano vitto

E vestimenti al dosso e ai piè calzari.

Ma perché sol fosti di vizî a scuola,

Anzi che faticar, pitoccar vuoi,

Onde, se t'è possibile, sfamarti.

"Eurimaco", rispose il saggio Ulisse,

"Se tra noi gara di lavor sorgesse

A primavera, quando il giorno allunga,

E con adunche in man falci taglienti

Ci ritenesse un prato ambo digiuni

Sino alla notte, e non mancasse l'erba;

O fosser da guidare ad ambo dati

Grandi rossi, gagliardi e d'erba sazî

Tauri d'etade e di virtude eguali,

E date quattro da spezzar sul campo

Sode bubulce col pesante aratro:

Vedresti il mio vigor, vedresti, come

Aprir saprei dritto e profondo il solco!

Poni ancor, che il Saturnio un'aspra guerra

Da qualche parte ci volgesse addosso,

Ed io scudo e due lance, ed alle tempie

Salda celata di metallo avessi,

Misto ai primi guerrier mi scorgeresti

Nella battaglia, e l'importuna fame

Gittare a me non oseresti in faccia.

Or protervo è il tuo labbro e duro il core,

E forte in certa guisa e grande sembri,

Perché con poca gente usi e non brava:

Ma Ulisse giunga, o appressi almeno, e queste

Porte, benché assai larghe, a te già vôlto

Negli amari, cred'io, passi di fuga

Deh come a un tratto sembreriano anguste!"

Eurimaco in maggior collera salse,

E, guardandolo bieco: "Ah! Doloroso",

Disse, "vuoi tu ch'io ti diserti? Ardisci

Così gracchiar fra tanti, e nulla temi?

O il vin t'ingombra, o tu nascesti pazzo,

O quel vinto Iro ti cavò di senno".

Ciò detto, prese lo sgabel: ma Ulisse

S'abbassava d'Anfinomo ai ginocchi

Per cansarsi da Eurimaco, che in vece

Nella man destra del coppier percosse.

Cascata rimbombò la coppa in terra,

E il pincerna ululando andò riverso.

Strepitavano i proci entro la sala

Dall'ombre cinta della notte, e alcuno

Mirando il suo vicin: "Morto", dicea,

"Prima che giunto qua, l'ospite fosse!

Portato non ci avrìa questo sì grave

Tumulto. Or si battaglia, e per chi dunque?

Per un mendìco, e già svanì de' nostri

Prandî il diletto ed il più vil trionfa".

E Telemaco allor: "Che insania è questa,

Miseri, a cui non cal più della mensa?

Certo vi turba e vi commuove un dio.

Su via, poiché de' cibi e de' licori

Tacerà il desiderio in tutti voi,

Ite a corcarvi, se vel detta il core,

Ne' vostri alberghi: ché nessuno io scaccio".

Tutti, mordendo il labbro, alle sicure

Parole di Telemaco stupîro.

Ma tra lor sorse Anfinomo, l'illustre

Figliuol di Niso: "Amici, a chi ben parla

Sinistro più non si risponda o acerbo,

Né l'ospite s'oltraggi, o alcun de' servi,

Che in corte son del rinomato Ulisse.

Muova il coppiere in giro; e poscia, fatti

I libamenti, nelle nostre case,

Le membra al sonno per offrir, si vada,

E si lasci a Telemaco la cura

Dello stranier, quando al suo tetto ei venne".

Disse, e non fu cui non piacesse il detto.

L'inclito Mulio, il Dulichiense araldo

D'Anfinomo, versò dall'urna il vino,

E a tutti in giro nelle tazze il porse;

Ed i proci libaro, e del licore

Dolce, qual mele, s'innondaro il petto.

Ma com ebber libato, e piena voglia

Bevuto, ognun, per dar le membra al sonno,

Affrettò di ritrarsi al proprio albergo.

 

LIBRO XIX

 

Nell'ampia sala rimanea l'eroe,

Strage con Palla macchinando ai proci.

Subito al figlio si converse, e disse:

"Telemaco, levar di questi luoghi

L'armi conviene, e trasportarle in alto.

Se le bell'armi chiederanno i proci,

Con parolette a lusingarli vôlto:

"Io", lor dirai, "dal fumo atro le tolsi,

Perché non eran più quali lasciolle

Ulisse il giorno che per Troia sciolse:

Ma deturpate, scolorate, ovunque

Il bruno le toccò vapor del foco.

Sovra tutto io temei, né senza un nume

Destossi in me questo timor, non forse

Dopo molto vôtar di dolci tazze

Tra voi sorgesse un'improvvisa lite,

E l'un l'altro ferisse, ed il convito

Contaminaste e gli sponsali. Grande

Allettamento è all'uom lo stesso ferro"."

Telemaco seguì del suo diletto

Padre il comando, e alla nutrice, cui

Tosto a sé dimandò: "Mamma", dicea,

Su via, ritieni nelle stanze loro

Le femmine rinchiuse, in sin ch'io l'armi,

Che qui nella mia infanzia, e nell'assenza

Del padre, mi guastò neglette il fumo,

Trasporti in alto. Collocarle io voglio,

Dove del foco non le attinga il vampo.

Ed Euriclèa: "Figlio", rispose, "in petto

Deh ti s'annidi al fin senno cotanto,

Che regger possa la tua casa, e intatti

Serbar gli averi tuoi! Ma chi la strada

Ti schiarerà? Quando non vuoi che innanzi

Con le fiaccole in man vadan le ancelle".

"Il forestier", Telemaco riprese;

"Chi si nutre del mio, benché venuto

Di lunge, io mai non patirollo inerte".

Tanto bastò a colei, perché ogni porta

Del ben construtto ginecèo fermasse.

Ulisse incontanente e il caro figlio

Correano ad allogar gli elmi chiomati,

Gli umbilicati scudi e l'aste acute;

E avanti ad ambo l'Atenèa Minerva,

Tenendo in mano una lucerna d'oro,

Chiarissimo spargea lume d'intorno.

E Telemaco al padre: "O padre, quale

Portento! Le pareti ed i bei palchi,

E le travi d'abete e le sublimi

Colonne a me rifolgorare io veggio.

Scese, io credo, qua dentro alcun de' numi".

"Taci", rispose Ulisse: "i tuoi pensieri

Rinserra in te, né cercare oltre. Usanza

Degli abitanti dell'Olimpo è questa.

Or tu vanne a corcarti: io qui rimango

Le ancelle a spïar meglio, e della saggia

Madre le inchieste a provocar, che molte

Certo, ed al pianto miste, udire avviso".

Disse; e il figliuolo indi spiccossi, e al vivo

Delle faci splendor nella remota

Cella si ritirò de' suoi riposi,

L'Aurora ad aspettar. Ma nella sala,

Strage con Palla agli orgogliosi proci

Architettando, rimanea l'eroe.

La prudente Reina intanto uscìa

Pari a Dïana, e all'aurea Vener pari,

Della stanza secreta. Al foco appresso

L'usato seggio di gran pelle steso,

E cui d'Icmalio l'ingegnosa mano

Tutto d'avorî e argenti avea commesso,

Le collocaro: sostenea le piante

Un polito sgabello. In questa sede

La madre di Telemaco posava.

Venner le ancelle dalle bianche braccia

A tor via dalle mense il pan rimasto,

E i vòti nappi, onde bevean gli amanti.

Poi dai bracieri il mezzospento foco

Scossero a terra, e nuove legna e molte

Sopra vi accatastâr, perché schiarata

La sala fosse e riscaldata a un tempo.

Melanto allor per la seconda volta

Ulisse rampognava: "Ospite, adunque

La notte ancor t'avvolgerai molesto

Per questa casa, e adocchierai le donne?

Fuori, sciagurato, esci, e del convito,

Che ingoiasti, t'appaga; o ver, percosso

Da questo tizzo, salterai la soglia".

Con torvo sguardo le rispose Ulisse:

"Malvagia, perché a me guerra sì atroce?

Perché la faccia mia forse non lustra?

Perch'io mal vesto, e, dal bisogno astretto,

Qual tapino uomo e vïandante, accatto?

Felice un giorno anch'io splendidi ostelli

Tra le genti abitava, e ad un ramingo,

Qual fosse, o in quale stato a me s'offrisse,

Del mio largìa; molti avea servi, e nulla

Di ciò mi venìa meno, ond'è chiamato

Ricco, e beata l'uom vita conduce.

Ma Giove, il figlio di Saturno, e nota

La cagione n'è a lui, disfar mi volle.

Guarda però, non tutta un giorno cada,

Donna, dal viso tuo quella beltade,

Di cui fra l'altre ancelle or vai superba:

Guarda, non monti in ira o ti punisca

La tua padrona, o non ritorni Ulisse,

Come speme ne' petti ancor ne vive.

E s'ei perì, tal per favor d'Apollo

Fuor venne il figlio dell'acerba etade,

Che femmina, di cui sien turpi i fatti,

Mal potrìa nel palagio a lui celarsi".

Udì tutto Penelope, e l'ancella

Sgridò repente: "O temerario petto,

Cagna sfacciata, io pur nelle tue colpe,

Che in testa ricadrannoti, ti colgo.

Sapevi ben, poiché da me l'udisti,

Ch'io lo straniero interrogar volea,

Un conforto cercando in tanta doglia".

Dopo questo, ad Eurìnome si volse

Con tali accenti: "Eurìnome, uno scanno

Reca, e una pelle, ove, sedendo, m'oda

L'ospite favellargli e mi risponda".

Disse; e la dispensiera un liscio scanno

Recò in fretta, e giù pose, e d'una densa

Pelle il coprì. Vi s'adagiava il molto

Dai casi afflitto, e non mai domo, Ulisse,

Cui Penelope a dir così prendea:

"Ospite, io questo chiederotti in prima.

Chi? di che loco? e di che stirpe sei?"

E Ulisse, che più là d'ogni uomo seppe:

"Donna, esser può giammai pel mondo tutto

Chi la lingua snodare osi in tuo biasmo?

La gloria tua sino alle stelle sale,

Qual di re sommo, che sembiante a un nume,

E su molti imperando uomini e forti,

Sostiene il dritto: la ferace terra

Di folti gli biondeggia orzi e frumenti,

Gli arbor di frutti aggravansi: robuste

Figlian le pecorelle, il mar dà pesci

Sotto il prudente reggimento; e giorni

L'intera nazïon mena felici.

Ma pria che della patria e del lignaggio,

Di tutt'altro mi chiedi, acciò non cresca

Di tai memorie il dolor mio più ancora.

Un infelice io son, né mi conviene

Seder, piagnendo, nella tua magione;

Che i suoi confini ha il pianto, e ai luoghi vuolsi

Mirare e ai tempi. Se non tu, sdegnarsi

Ben potrìa contro a me delle serventi

Tue donne alcuna, e dire ancor che quello,

Che fuor m'esce degli occhi, è il molto vino".

E la saggia Penelope a rincontro:

"Ospite, a me virtù, sembianza, tutto

Rapito fu dagl'immortali, quando

Co' Greci ad Ilio navigava Ulisse:

S'ei, rïentrando negli alberghi avìti,

A reggere il mio stato ancor togliesse,

Ciò mia gloria sarebbe, e beltà mia.

Or le cure m'opprimono, che molte

Mandâro a me gli abitator d'Olimpo.

Quanti ha Dulichio e Same e la selvosa

Zacinto, e la serena Itaca prenci,

Mi ambiscon ripugnante; e sottosopra

Volgon così la reggia mia, che poco

Agli ospiti omai fommi e ai supplicanti

Veder, né troppo degli araldi io curo.

Io mi consumo, sospirando Ulisse.

Quei m'affrettano intanto all'abborrito

Passo, ed io contra lor d'inganni m'armo.

Pria grande a oprar tela sottile, immensa,

Nelle mie stanze, come un dio spirommi,

Mi diedi, e ai proci incontanente io dissi:

"Giovani, amanti miei, tanto vi piaccia,

Quando già Ulisse tra i defunti scese,

Le mie nozze indugiar, ch'io questo possa

Lugubre ammanto per l'eroe Laerte,

Acciocchè a me non pêra il vano stame,

Prima fornir, che l'inclemente Parca

Di lunghi sonni apportatrice il colga.

Non vo' che alcuna delle Achee mi morda,

Se ad uom, che tanto avea d'arredi vivo,

Fallisse un drappo, in cui giacersi estinto".

A questi detti s'acchetâro. Intanto

Io, finché il dì splendea, l'insigne tela

Tesseva, e poi la distessea la notte,

Di mute faci alla propizia fiamma.

Un trïennio così l'accorgimento

Sfuggii degli Achei tutti, e fede ottenni.

Ma, giuntomi il quarto anno, e le stagioni

Tornate in sé con lo scader de' mesi,

E de' celeri dì compiuto il giro,

Côlta da proci, per viltà di donne

Nulla di me curanti, alla sprovvista,

E gravemente improverata, il drappo

Condurre al termin suo dovei per forza.

Ora io né declinar le odiate nozze

So, né trovare altro compenso. A quelle

M'esortano i parenti, e non comporta

Che la sua casa gli si strugga il figlio,

Che ormai tutto conosce, e al suo retaggio

Intender può, qual cui dà gloria Giove.

Ad ogni modo la tua patria dimmi,

Dimmi la stirpe; d'una pietra certo

Tu non uscisti o d'una quercia, come

Suona d'altri nel mondo antica fama".

"O veneranda", le rispose Ulisse,

"Donna del Laerzìade, il mio lignaggio

Saper vuoi dunque? Io te l'insegno. È vero

Che augumento ne avran gli affanni miei,

Natural senso di chïunque visse

Misero pellegrin molt'anni e molti

Dalla patria lontan: ma tu non cessi

D'interrogarmi, e satisfarti io voglio.

Bella e feconda sovra il negro mare

Giace una terra che s'appella Creta,

Dalle salse onde d'ogni parte attinta.

Gli abitanti v'abbondano, e novanta

Contien cittadi, e la favella è mista;

Poiché vi son gli Achei, sonvi i natìi

Magnanimi Cretesi ed i Cidonî,

E i Dorî in tre divisi, e i buon Pelasgi.

Gnosso vi sorge, città vasta, in cui

Quel Minosse regnò, che del Tonante

Ogni nono anno era agli arcani ammesso.

Ei generò Deucalïone, ond'io,

Cui nascendo d'Etón fu posto il nome,

Nacqui, e nacque il mio frate Idomenèo,

Di popoli pastor, che di virtute

Primo, non che d'età, co' degni Atridi

Ad Ilio andò su le rostrate navi.

Là vidi Ulisse, ed ospitali doni

Gli feci. A Creta spinto avealo un forte

Vento, che, mentr'ei pur vêr la superba

Troia tendea, dalle Malèe lo svolse,

E il fermò nell'Amniso, ove lo speco

D'Ilitia s'apre in disastrosa piaggia,

Sì che scampò dalle burrasche appena.

Entrato alla città, d'Idomenèo,

Che venerando e caro egli chiamava

Ospite suo, cercò: se non che il giorno

Correa decimo o undecimo, che a Troia

Passato il mio fratello era sul mare.

Ma io l'addussi nel palagio, a cui

Nulla d'agi mancava, e dove io stesso

Quell'onor gli rendei ch'io seppi meglio.

E fu per opra mia che la cittade

Bianco pan, dolce vino e buoi da mazza,

I suoi compagni a rallegrar, gli diede.

Dodici dì nell'isola restâro,

Perché levato da un avverso nume

Imperversava un Aquilon sì fiero,

Che a stento si reggea l'uomo sui piedi.

Quello il dì terzodecimo al fin cadde;

E solcavan gli Achei l'onde tranquille".

Così fingea, menzogne molte al vero

Simili proferendo: ella, in udirle,

Pianto versava e distruggeasi tutta.

E come neve che su gli alti monti

Sùbito vento d'occidente sparse,

Sciogliesi d'Euro all'improvviso fiato,

Sì che gonfiati al mar corrono i fiumi:

Tal si stemprava in lagrime, piangendo

L'uom suo diletto, che sedeale al fianco.

Della consorte lagrimosa Ulisse

Pietà nell'alma risentìa: ma gli occhi

Stávangli, quasi corno o ferro fosse,

Nelle palpebre immoti, e gli stagnava

Nel petto ad arte il ritenuto pianto.

Ella, poiché di lagrime fu sazia,

Così ripigliò i detti: "Ospite io voglio

Far prova ora di te, se, qual racconti

Ulisse e i suoi tu ricettasti in Creta.

Dimmi: quai panni rivestìanlo? e quale

Di lui, de' suoi compagni era l'aspetto?"

Rispose il ricco di consigli Ulisse:

"Vigesim'anno è omai ch'egli da Creta

Si drizzò a Troia, e il favellare, o donna,

Di sì antica stagion duro mi sembra.

Io tutta volta ubbidirò, per quanto

Potrà sovra di sé tornar la mente.

Un folto Ulisse avea manto velloso

Di porpora, cui doppio unìa sul petto

Fermaglio d'oro, e nel dinanzi ornava

Mirabile ricamo: un can da caccia

Tenea co' piedi anterïori stretto

Vaio cerbiatto, e con aperta bocca

Sovra lui, che tremavane, pendea;

E stupìa il mondo a rimirarli in oro

Effigïati ambo così, che l'uno

Soffoca l'altro e già l'addenta, e l'altro

Fuggir si sforza e palpita ne' piedi.

In dosso ancora io gli osservai sì molle

Tunica e fina sì, qual di cipolla

Vidi talor l'inaridita spoglia,

E splendea, come il Sol; tal che di molte

Donne, che l'addocchiâr, fu maraviglia.

Ma io non so, se in Itaca gli stessi

Vestiti usasse, o alcun di quei che seco

Partiro su la nave, o in lor magioni

Viaggiante l'accolsero, donati

Gli avesse a lui: che ben voluto egli era,

E pochi l'agguagliâro in Grecia eroi.

So che una spada del più fino rame

E un bel manto purpureo, e una talare

Veste in dono io gli porsi, e all'impalcata

Nave il guidai, di riverenza in segno.

Araldo, che d'età poco il vincea,

L'accompagnava, alto di spalle e grosso,

Dov'io rappresentarlo a te dovessi,

Nero la cute ed i capelli crespo,

E chiamavasi Eurìbate. Fra tutti

I suoi compagni l'apprezzava Ulisse,

Come più di pensieri a sé conforme".

A queste voci maggior voglia in lei

Surse di pianto, conosciuti i segni

Che sì chiari e distinti esporsi udiva.

Fermato il lagrimare: "Ospite", disse,

"Di pietà mi sembrasti, e d'ora innanzi

Di grazia mi parrai degno e d'onore.

Io stessa gli recai dalla secreta

Stanza piegate le da te descritte

Vesti leggiadre, io nel purpureo manto

La sfavillante d'ôr fibbia gli affissi.

Or né vederlo più, né accôrlo in questa

Sua dolce terra sperar posso. Ahi crudo

Destin ben fu, che alla malvagia Troia,

Nome abborrito, su per l'onda il trasse!"

"D'Ulisse", egli riprese, "inclita donna,

Al bel corpo, che struggi, omai perdona,

Né più volerti macerar nell'alma,

L'uom tuo piangendo. Non già ch'io ten biasmi

Ché ognuna spento quell'uom piange, a cui

Vergine si congiunse e diede infanti,

Benché diverso nel valor da Ulisse,

Che agli dèi somigliar canta la fama.

Ma resta dalle lagrime, e l'orecchio

Porgi al mio dir, che sarà vero e intègro.

Io de' Tespròti tra la ricca gente

Ch'ei vive, intesi, e già ritorna, e molti

Tesor, che qua e là raccolse, adduce.

È ver che perdé il legno e i suoi compagni

Della Trinacria abbandonando i lidi,

Per la giusta di Giove ira e del Sole

Di cui morto que' folli avean l'armento.

Il mar, che tutti gl'inghiottì, sospinse

Lui su gli avanzi della nave infranta

Al caro degli dèi popol Feace.

Costor di cuore il riverian qual nume,

Colmávanlo di doni, e in patria salvo

Ricondurre il volean: se non che nuove

Terre veder pellegrinando e molti

Tesori radunar, più saggio avviso

Parve all'eroe d'accorgimenti mastro,

E cui non v'ha chi di saver non ceda.

Così a me de' Tespròti il re Fidone

Disse e giurava, in sua magion libando,

Che varata la barca era, e parati

Quei che dovean ripatrïarlo. Quindi

Mi congedò: ché per Dulichio a sorte

Le vele alzava una Tesprozia nave.

Ma ei mostrommi in pria quanto avea Ulisse

Raccolto errando, e che una casa intera

Per dieci etadi a sostener bastava.

Poi soggiungeami, che a Dodona ir volle,

Giove per consultare, e udir dall'alta

Quercia indovina, se ridursi ai dolci

Campi d'Itaca sua dopo sì lunga

Stagion dovesse alla scoperta, o ignoto.

Salvo è dunque e vicin; né dagli amici

Disgiunto e schiuso dalle avite mura

Gran tempo rimarrà. Vuoi tu ch'io giuri?

Prima il Saturnio in testimonio io chiamo,

Sommo tra i numi ed ottimo, e d'Ulisse

Poscia il sacrato focolar, cui venni:

Tutto, qual dico, seguir dee. Quest'anno,

L'uno uscendo de' mesi o entrando l'altro,

Varcherà Ulisse le paterne soglie.

"Oh s'avveri!" Penelope rispose.

"Tai dell'affetto mio pegni tu avresti,

Che quale, o forestiero, in te con gli occhi

Dêsse, dirìa: "Vedi mortal beato!"

Ma altro io penso, e quel ch'io penso, fia:

Né riedere il consorte, né tu scorta

Impetrerai; ché non v'ha più un Ulisse

Qui, se pur v'era un giorno e non fu sogno,

Un Ulisse non v'ha, che i venerandi

Ospiti accôr nel suo real palagio

Sappia ed accommiatarli. Or voi mie donne

Lavate i piedi allo straniero, e un denso

Di coltri e vesti e splendidi mantelli

Letto gli apparecchiate, ov'ei corcato

Tutta notte si scaldi in sino all'alba.

L'alba comparsa in orïente appena,

Voi tergetelo e ungetelo; ed ei mangi

Seduto in casa col mio figlio, e guai

De' servi a quel che ingiurïarlo ardisse!

Ufficio più non gli sarà commesso,

Per cruccio ch'ei mostrassene. Deh come

Sapresti, o forastier, ch'io l'altre donne

Vinco, se vinco, di bontate e senno,

Mentre di cenci e di squallor coverto

Pasteggiar ti lasciassi entro l'albergo?

Cose brevi son gli uomini. Chi nacque

Con alma dura e duri sensi nutre,

Le sventure a lui vivo il mondo prega,

E il maledice morto. Ma se alcuno

Ciò che v'ha di più bello ama ed in alto

Poggia con l'intelletto, in ogni dove

Gli ospiti portan la sua gloria, e vola

Eterno il nome suo di bocca in bocca".

"Saggia del figlio di Laerte donna",

Ripigliò Ulisse, "le vellose vesti

Cadeanmi in odio ed i superbi manti,

Da quel dì che su nave a lunghi remi

Lasciai di Creta i nevicosi monti.

Io giacerò, qual pur solea, passando

Le intere notti insonne. Oh quante notti

Giacqui in sordido letto, e dell'Aurora

Mal corcato affrettai la sacra luce!

Né a me de' piedi la lavanda piace:

Né delle donne, che ne' tuoi servigi

Spendonsi, alcuna toccherà il mio piede,

Se non è qualche annosa e onesta vecchia,

Che al par di me sofferto abbia a' suoi giorni

A questa il piede non disdirei toccarmi".

E l'egregia Penelope di nuovo:

"Ospite caro, pellegrin di senno

Non capitò qua mai ché di te al core

Mi s'accostasse più, di te, che in modo

Leggiadro esprimi ogni prudente senso.

Una vecchia ho, molto avvisata e scorta,

Che nelle braccia sue quell'infelice

Raccolse uscito del materno grembo,

E buon latte gli dava ed il crescea.

Ella, benché di vita un soffio in lei

Rimanga sol, ti laverà le piante.

Via, fedele Euriclèa, sorgi e a chi d'anni

Pareggia il tuo signor, le piante lava.

Tal ne' piedi vederlo e nelle mani

Parmi in qualche da noi lontana parte:

Ché ratto l'uom tra le sciagure invecchia".

Euriclèa con le man coperse il volto

E versò calde lagrime, e dolenti

Parole articolò: "Me sventurata,

Figlio, per amor tuo! Più che altri al mondo,

Te, che nol merti, odia il Saturnio padre.

Tanti non gli arse alcun floridi lombi,

Tante ecatombe non gli offerse, come

Tu, di giunger pregandolo a tranquilla

Vecchiezza, e un prode allevar figlio; ed ecco

Che del ritorno il dì Giove ti spense.

O buon vegliardo, allor che a un alto albergo

D'alcun signor lontano ei pellegrino

S'appresserà, l'insulteran le donne,

Qual te insultâro tutte queste serpi,

Da cui, l'onte schivandone e gli oltraggi,

Venir tocco ricusi; ed a me quindi

La figlia saggia del possente Icario

Tal ministero impon, che non mi grava.

Io dunque il compierò, sì per amore

Della reina, e sì per tuo: ché forte

Commossa dentro il sen l'alma io mi sento.

Ma tu ricevi un de' miei detti ancora:

Fra molti grami forestier, che a questa

Magion s'avvicinâro, un sol, che Ulisse

Nella voce, ne' piedi, in tutto il corpo,

Somigliasse cotanto io mai nol vidi".

"Vecchia", rispose lo scaltrito eroe,

"Così chïunque ambo ci scôrse, afferma:

Correr tra Ulisse e me, qual tu ben dici,

Somiglianza cotal, che l'un par l'altro".

L'ottima vecchia una lucente conca

Prese, e molta fredd'acqua entro versovvi

E su vi sparse la bollente. Ulisse,

Che al focolar sedea, vêr l'ombra tutto

Si girò per timor, non Euriclèa

Scorgesse, brancicandolo, l'antica

Margine ch'ei portava in su la coscia,

E alla sua fraude si togliesse il velo.

Euriclèa nondimen, che già da presso

Fatta gli s'era ed il suo re lavava,

Il segno ravvisò della ferita

Dal bianco dente d'un cinghiale impressa

Sul monte di Parnaso; e ciò fu, quando

Della sua madre al genitor famoso

Garzone andò ad Autolico, che tutti

Del rapir vinse e del giurar nell'arti,

Per favor di Mercurio, a cui sì grate

Cosce d'agnelli ardeva e di capretti,

Che ogni suo passo accompagnava il nume.

Autolico un dì venne all'Itacese

Popolo in mezzo e alla città, che nato

Era di poco alla sua figlia un figlio.

Questo Euriclèa su le ginocchia all'avo

Dopo il convito pose, e feo tai detti:

"Autolico, tu stesso il nome or trova

Da imporre in fronte al grazïoso parto,

Per cui stancasti co' tuoi voti i numi".

E prontamente Autolico in risposta:

"Genero e figlia mia, quel gl'imporrete

Nome, ch'io vi dirò. D'uomini e donne

Su l'altrìce di molti immensa terra

Spavento io fui: dunque si chiami Ulisse.

Io poi, se, di bambin fatto garzone,

Nel superbo verrà materno albergo

Sovra il Parnaso, ove ho le mie ricchezze,

Doni gli porgerò, per cui più lieto

Discenderà da me che a me non salse".

A ricevere Ulisse andò tai doni,

E Autolico l'accolse ed i suoi figli,

Con amiche parole e aperte braccia;

E l'avola Anfitèa, strettolo al petto,

Il capo ed ambi gli baciò i begli occhi.

Ai figli il padre comandò, né indarno,

La mensa: un bue di cinque anni menaro,

Lo scoiâr, l'acconciâr, tutto il partiro;

E i brani, che ne fur con arte fatti,

Negli schidoni infissero, e ugualmente

Li dispensâr, domi che gli ebbe il foco.

Così tutto quel dì d'ugual per tutti

Prandio godean sino all'occaso. Il sole

Caduto e apparsa della notte l'ombra,

La dolcezza provâr, cui reca il sonno.

Ma come figlia del mattin l'Aurora

Si mostrò in ciel ditirosata e bella,

I figliuoli d'Autolico ed Ulisse

Con molti cani a una gran caccia usciro.

La vestita di boschi alta montagna

Salgono, e in breve tra i ventosi gioghi

Veggonsi di Parnaso. Il sol recente,

Dalle placide sorto acque profonde

Dell'Oceán, su i rugiadosi campi

Saettava i suoi raggi, e i cacciatori

Scendeano in una valle: innanzi i cani

Ivan, fiutando le salvatic'orme,

E co' figli d'Autolico, pallando

Una lancia, che lunga ombra gittava,

Tra i cani e i cacciatori andava Ulisse.

Smisurato cinghiale in così folta

Macchia giacea, ché di venti acquosi

Forza, né raggio mai d'acuto sole

La percoteva, né le piogge affatto

V'entravano: coprìa di secche foglie

Gran dovizia la terra. Il cinghial fiero,

Che al calpestìo, che gli sonava intorno,

Appressare ognor più sentìa la caccia,

Sbucò del suo ricetto, e orribilmente

Rizzando i peli della sua cervice,

E con pregni di foco occhi guatando,

Stette di contra. Ulisse il primo, l'asta

Tenendo soprammano, impeto fece

In lui, ch'ei d'impiagare ardea di voglia:

Ma la fera prevennelo, ed il colse

Sovra il ginocchio con un colpo obliquo

Della gran sanna e ne rapì assai carne;

Né però della coscia all'osso aggiunse.

Ferilla Ulisse allor nell'omer destro,

Dove il colpo assestò: scese profonda

L'aguzza punta della fulgid'asta;

E il mostro su la polvere cadé,

Mettendo un grido e ne volò via l'alma.

Ma d'Autolico i figli a Ulisse tutti

Travagliavansi intorno: acconciamente

Fasciâr la piaga, e con possente incanto

Il sangue ne arrestâro, e dell'amato

Padre all'albergo il trasportaro in fretta.

Sanato appieno e di bei doni carco,

Contenti alla cara Itaca contento

Lo rimandaro. Il padre suo Laerte

E la madre Anticlèa gioìan pur troppo

Del suo ritorno; e il richiedean di tutto,

E più della ferita; ed ei narrava,

Come, invitato a una silvestre guerra

Da' figliuoli dell'avo, il bianco dente

Piagollo d'un cinghial sovra il Parnaso.

Tal cicatrice l'amorosa vecchia

Conobbe, brancicandola, ed il piede

Lasciò andar giù: la gamba nella conca

Cadde, ne rimbombò il concavo rame,

E piegò tutto da una banda; e in terra

L'acqua si sparse. Gaudio a un'ora e duolo

La prese, e gli occhi le s'empiêr di pianto,

E in uscir le tornò la voce indietro.

Proruppe al fin, prendendolo pel mento:

"Caro figlio, tu sei per certo Ulisse,

Né io, né io ti ravvisai, che tutto

Pria non avessi il mio signor tastato".

Tacque; e guardò Penelope, volendo

Mostrar che l'amor suo lungi non era.

Ma la reina né veder di contra

Poteo, né mente por: che Palla il core

Le torse altrove. Ulisse intanto strinse

Con la man destra ad Euriclèa la gola,

E a sé tirolla con la manca, e disse:

"Nutrice, vuoi tu perdermi? Tu stessa,

Sì, mi tenesti alla tua poppa un giorno,

E nell'anno ventesimo, sofferte

Pene infinite, alla mia patria io venni.

Ma, poiché mi scopristi, e un dio sì volle,

Taci, e di me qui dentro altri non sappia:

Però ch'io giuro, e non invan, che s'io

Con l'aiuto de' numi i proci spegno,

Né da te pur, benché mia balia, il braccio,

Che l'altre donne ucciderà, ritengo".

"Figlio, qual mai dal core osò parola

Salirti in su le labbra?" ella riprese.

"Non mi conosci tu nel petto un'alma

Ferma ed inespugnabile? Il segreto

Io serberò, qual dura selce o bronzo.

Ciò senti ancora, e tel rammenta: dove

Spengan gli dèi per la tua mano i proci

Delle donne in palagio ad una ad una

Qual t'ingiuria io dirotti, e qual t'onora".

"Nutrice, del tuo indizio uopo non havvi",

Ripigliò Ulisse, "io per me stesso tutte

Le osserverò, conoscerolle: solo

Tu a tacer pensa, e lascia il resto ai numi".

La vecchia tosto per nuov'acqua uscìo,

Sparsa tutta la prima. Asterso ch'ebbe

Ulisse ed unto, ei nuovamente al foco,

Calde aure a trarne, s'accostò col seggio,

E co' panni la margine coverse.

E Penelope allor: "Brevi parole,

Ospite, ancora. Già de' dolci sonni

Il tempo è giunto per color, cui lieve

Doglia consente il ricettarli in petto.

Ma doglia a me non lieve i numi diero.

Finché riluce il dì, solo ne' pianti

Piacere io trovo e ne' sospiri, mentre

Guardo ai lavori dell'ancelle e a' miei.

La notte poi, quando ciascun s'addorme,

Che val corcarmi, se le molte cure

Crudele intorno al cor muovonmi guerra?

Come allor che di Pándaro la figlia,

Ne' giorni primi del rosato aprile,

La fioriscente Filomela, assisa

Degli arbor suoi tra le più dense fronde,

Canta soavemente, e in cento spezza

Suoni diversi la instancabil voce;

Iti, che a Zeto partorì, piangendo,

Iti caro, che poi barbara uccise

Per insania, onde più sé non conobbe:

Non altrimenti io piango, e l'alma incerta

In questa or piega ed ora in quella parte,

S'io stia col figlio, e intègro serbi il tutto,

Le sostanze, le serve e gli alti tetti,

Del mio consorte rispettando il letto,

E del popol le voci; o quello io siegua

Degli Achei tra i miglior, che alle mie nozze,

Doni infiniti presentando, aspira.

Sino a tanto che il figlio era di senno,

Come d'età, fanciullo ancor, lasciata

Questa io mai non avrei per altra casa:

Ma or ch'ei crebbe, e della pubertade

Già la soglia toccò, men priega ei stesso

Non potendo mirar lo strazio indegno

Che di lui fan gli Achivi. Or tu, su via,

Spiegami un sogno, ch'io narrarti intendo.

Venti nella mia corte oche nutrisco,

E di qualche diletto emmi il vederle

Coglier da limpid'acqua il biondo grano.

Mentr'io le osservo, ecco dall'alto monte

Grande aquila calar curvorostrata,

Frangere a tutte la cervice, tutte

L'una su l'altra riversarle spente.

E risalir vèr l'etere divino.

Io mettea lai, benché nel sogno, e strida,

E le nobili Achee dal crin ricciuto

Venìano a me, che miserabilmente

L'oche plorava dall'aguglia morte,

E a me intorno affollavansi. Ma quella,

Rivolando dal ciel, su lo sporgente

Tetto sedeasi, e con umana voce:

"Ti accheta", diceami, "e spera, o figlia

Del glorïoso Icario: un vano sogno

Questo non è, ma visïon verace

Di ciò che seguirà. Nell'oche i proci"

Ravvisa, e in queste d'aquila sembianze

Il tuo consorte, che al fin venne, e tutti

Stenderà nel lor sangue a terra i proci.

Tácquesi: ed il sonno abbandonommi, ed io,

Gittando gli occhi per la corte, vidi

Le oche mie, che nel truògolo, qual prima,

I graditi frumenti ivan beccando".

"Donna", rispose di Laerte il figlio,

"Altramente da quel che Ulisse feo

Non lice il sonno interpretar: l'eccidio

Di tutti i proci manifesto appare".

E la saggia Penelope: "Non tutti,

Ospite, i sogni investigar si ponno.

Scuro parlano e ambiguo, e non risponde

L'effetto sempre. Degli aerei sogni

Son due le porte, una di corno, e l'altra

D'avorio. Dall'avorio escono i falsi,

E fantasmi con sé fallaci e vani

Portano: i veri dal polito corno,

E questi mai l'uom non iscorge indarno.

Ah! creder non poss'io che quinci uscisse

L'immagin fiera d'un evento, donde

Tanta verrebbe a me gioia e al mio figlio.

Ma odi attento i detti miei. Già l'Alba,

Che rimuover mi dee da questi alberghi,

Ad apparir non tarderà. Che farmi?

Un giuoco io propor vo'. Dodici pali,

Quai puntelli di nave, intorno a cui

Va del fabbro la man, piantava Ulisse

L'un dietro all'altro con anelli in cima;

Ed ei, lunge tenendosi, spingea

Per ogni anello la pennuta freccia.

Io tal cimento proporrò. Chi meglio

Tender l'arco saprà fra tutti i proci,

E d'anello in anello andar col dardo,

Lui seguir non ricuso, abbandonando

Questa sì bella e ben fornita e ricca

Magion de' miei verd'anni, ond'anche in sogno

Dovermi spesso ricordare io penso".

"O veneranda", ripigliava Ulisse,

Donna del Laerzìade, una tal prova

Punto non differir: pria che un de' proci

Questo maneggi arco lucente, e il nervo

Ne tenda e passi pe' ritondi ferri,

Ti s'offrirà davante il tuo consorte".

E Penelope al fine: "Ospite, quando,

Vicino a me sedendoti, il diletto

Protrar della tua voce a me volessi,

Non mi cadrebbe su le ciglia il sonno.

Ma non può sempre l'uom vivere insonne:

Ché legge a tutto stabilîro e meta

Su la terra fruttifera gli eterni.

Io, nelle stanze alte salita, un letto

Premerò, che divenne a me lugubre

Dal dì che Ulisse il canape funesto

Per la nemica sciolse infanda Troia.

Tu nel palagio ti riposa, e a terra

Sdráiati, o, se ti piace, a te le mie

Donne apparecchieran, dove corcarti".

La Regina, ciò detto, alle superne

Montò sue stanze, e non già sola; ed ivi

Sino a tanto piangea l'amato Ulisse,

Che un dolce sonno sovra lei spargesse

La cilestra negli occhi augusta diva.

 

LIBRO XX

 

 Il magnanimo figlio di Laerte

Giacea nell'atrio. Una recente pelle

Steso aveasi di bue con altre molte

Di pingui agnelle, dagl'ingordi Achei

Sacrificate; e d'un velloso manto

Lui già corcato Eurìnome coverse.

Qui co' pensieri suoi l'eroe vegliava,

Sventure ai proci divisando. Intanto

Le ancelle, che soleano ai proci darsi,

Usciro di lor camere, in gran riso

Prorompendo tra loro e in turpe gioia.

Ei forte l'alma si sentìa commossa,

E bilanciava, se avventarsi, e tutte

Porle a morte dovesse in un istante,

O consentir che per l'estrema volta

Delinquesser le tristi; e in sé fremea.

E come allor che ai cagnolini intorno

Gira la madre, e, se un ignoto spunta,

Latra e brama pugnar: non altrimenti

Egli, che mal patìa l'opre nefande,

Alto fremea nel generoso petto.

Pur, battendosi l'anca e rampognando

Egli stesso il suo cor: "Soffri", gli disse,

"Tu che assai peggior male allor soffristi

Che il Ciclope fortissimo gli amici

Mi divorava. Tollerar sapesti,

Finché me fuor dell'antro il senno trasse

Quand'io già della vita era sull'orlo".

Ei così i moti reprimea del core

Che ne' recinti suoi cheto si stette.

Non lasciava però su l'un de' fianchi

Di voltarsi o sull'altro, a quella guisa

Che pien di sangue e d'ádipe ventriglio

Uom, che si strugge di vederlo incotto,

D'un gran foco all'ardor volge e rivolge.

Su questo ei si voltava o su quel fianco,

Meditando fra sé, come potesse

Scagliarsi al fin contra i malnati prenci,

Contra molti egli solo; ed ecco, scesa

Di cielo, a lui manifestarsi, in forma

D'una mortale, l'Atenèa Minerva.

Stettegli sovra il capo, e tai parole

Gli volse: "O degli umani il più infelice,

Perché i conforti rifiutar del sonno?

Sei pur nel tuo palagio, appo la fida

Tua donna, e al fianco d'un figliuolo, a cui

Vorrìano aver l'uguale i padri tutti".

"Il ver parlasti, o dea", rispose Ulisse:

"Se non che meco io mi consiglio, come

Scagliarmi ai proci svergognati incontro,

Mentre in folla ognor son quelli, ed io solo.

In oltre io penso, e ciò più ancor mi turba,

Che, quando col favore anco m'avvenga

Del Tonante e col tuo, cacciarli a Dite;

Non so dove sottrarmi a quella turba

Che vengiarli vorrà. Tu questo libra".

"Tristo!" riprese la negli occhi Azzurra,

"L'uomo a un compagno suo crede, a un mortale

Peggior di sé talvolta e meno esperto,

E tu non a me diva, e a me, che in ogni

Travaglio tuo sempre ti guardo? Sappi,

Che se cinquanta d'uomini parlanti

Fosserci intorno pugnatrici schiere,

Sparsi per la campagna i greggi loro

Tua preda diverrìano e i loro armenti.

Chétati, e il sonno nel tuo sen ricevi:

Ché vegliando passar la notte in guardia

Troppo è molesto. Uscirai fuor tra poco

Da tutti senza dubbio i mali tuoi".

Disse, e un sopor dolcissimo gl'infuse:

Né pria le membra tutte quante sciolte

Gli vide, e sgombra d'ogni affanno l'alma

Che all'Olimpo tornò l'inclita diva.

Ma il sonno sen fuggì dagli occhi a un tratto

Della reina, che già sovra il molle

Letto sedeasi e ricadea nel pianto.

Come sazia ne fu, calde a Dïana

Preghiere alzò la sconsolata donna:

"O del Saturnio figlia, augusta dea.

Deh! nel mio seno un de' tuoi dardi scocca,

E ratto poni in libertà quest'alma,

O mi rapisca il turbine, e trasporti

Per l'aria, e nelle rapide correnti

Dell'Oceàn retrogrado mi getti.

Così già le Pandàridi spariro,

Che per voler de' numi, alla lor madre

Crucciati e al padre, nella mesta casa

Orfanelle rimaste erano e sole;

Venere le nutrì di dolce mele,

Di vin soave e di rappreso latte:

Senno e beltade sovra ogni altra donna

Giuno compartì loro, Artemi un'alta

Statura, ed ai lavori i più leggiadri

Mano e intelletto la gran dea d'Atene.

Già Venere d'Olimpo i gioghi eccelsi

Montato avea, per dimandar le nozze

Delle fanciulle al fulminante Giove,

Che nulla ignora e i tristi eventi e i lieti

Conosce de' mortali, e quelle intanto

Dalle veloci Arpie fûro rapite,

E in balìa date alle odïose Erinni.

Cosi d'Itaca me tolgano i numi,

O d'un de' dardi suoi l'orocrinita

Dïana mi ferisca; ond'io ritrovi,

Benché ne' regni della morte, Ulisse,

E del mio maritaggio uom non rallegri,

Che di lui fia tanto minore. Ahi lassa!

Ben regger puossi la più ria sventura,

Quando, passati lagrimando i giorni,

Le notti almen ci riconforta il sonno,

Che su i beni l'obblìo sparge e su i mali.

Ma sogni a me fallaci un nume invìa:

E questa notte ancor mi si corcava

Da presso il mio consorte in quel sembiante

Che avea nel dì che su la nave ascese".

Tacque; e sul trono d'ôr l'Aurora apparve.

Ulisse udì le lagrimose voci,

Ed in sospetto entrò, che fatta accorta

Di lui si fosse, e già pareagli al capo

Vedersela vicina. Alzossi, e il manto

E i cuoi, tra cui giacea, raccolse e pose

Sovra una sedia, e la bovina pelle

Fuor portò del palagio. Indi, levate

Le mani, a Giove supplicava: "O Giove

Padre e dèi tutti, che per terra e mare

Me dopo tanti affanni al patrio nido

Riconduceste, un lieto augurio in bocca

Mettete ad un di quei che nell'interno

Végghiano; e all'aria aperta un tuo prodigio

Giove, mi mostra". Così orando, disse.

Udillo il sommo Giove, e incontanente

Dal sublime tonò lucido Olimpo

E l'eroe giubilonne. Al tempo istesso

Donna, che il grano macinava, detti

Presàghi gli mandò, donde non lungi

Del pastor delle genti eran le mole,

Dodici donne con assidua cura

Giravan ciascun dì dodici mole

E in bianca polve que' frumenti ed orzi

Riducean, che dell'uom son forza e vita.

Le altre dormìan dopo il travaglio grave:

Ma quella, cui reggean manco le braccia,

Compiuto non l'avea. Costei la mola

Fermò di botto, e feo volar tai voci,

Che segnale al re fûro: "O padre Giove,

Degli uomini signore e degli dèi,

Forte tonasti dall'eterea volta,

E non v'ha nube. Tal portento è al certo

Per alcun de' mortali. Ah! le preghiere

Anco di me infelice adempi, o padre;

Cessi quest'oggi nella bella sala

Il disonesto pasteggiar de' proci,

Che di fatica m'hanno e di tristezza

Presso un grave macigno omai consunta.

L'ultimo sia de' lor banchetti questo!"

Della voce allegravasi e del tuono

L'illustre figlio di Laerte, e l'alta

Già in pugno si tenea giusta vendetta.

L'altre fantesche raccoglieansi intanto,

E un foco raccendean vivo e perenne.

Ma il deiforme Telemaco di letto

Surse, vestì le giovanili membra,

L'acuto brando all'òmero sospese,

Legò sotto i piè molli i bei calzari,

E una valida strinse asta nodosa

Con fino rame luminoso in punta.

Giunto alla soglia, s'arrestò col piede

E ad Euriclèa parlò: "Cara nutrice,

Il trattaste voi ben di cibo e letto

L'ospite? O forse non curato giacque?

Anco la madre mia, benché sì saggia,

Sfallisce in questo: chi è men degno, onora,

E non cura onorar chi più sel merta".

Ed Euriclèa: "Figliuol, non incolparmi

La innocente tua madre. A suo piacere

Bevea l'ospite assiso; e quanto all'esca,

Domandato da lei, disse, mestieri

Non ne aver più. Come appressava l'ora

Del riposo e del sonno, apparecchiargli

C'impose un letto: ma i tappeti molli

Rifiutò, qual chi vive ai mali in grembo.

Corcossi nel vestibolo su fresca

Pelle di tauro e cuoi d'agnelli: noi

D'una vellosa clamide il coprimmo".

Telemaco, ciò udito, uscìa dell'alte

Stanze, al foro per ir, con l'asta in mano;

E due seguìanlo pieveloci cani.

Colà gli Achei dagli schinieri egregi

Raccolti l'attendean: mentre l'antica

D'Opi di Pisenòr figlia, le ancelle

Stimolando: "Affrettatevi", dicea,

"Parte a nettar la sala e ad inaffiarla,

E le purpuree su i ben fatti seggi

Coverte a dispiegar; parte le mense

Con le umide a lavar forate spugne

E i vasi a ripolire e i lavorati

Nappi ritondi; ed al profondo fonte

Parte andate per l'acqua, e nel palagio

Recatela di fretta. I proci molto

Non tarderan: sollecitar li dee

Questo dì, che festivo a tutti splende".

Tutti ascoltâro ed ubbidîro. Venti

Al fonte s'avvïâr dalle nere acque:

L'altre gli altri compieano interni uffici.

Vennero i servi degli Achivi, e secche

Legna con arte dividean; le donne

Venner dal fonte; venne Eumèo, guidando

Tre, della mandra fior, nitidi verri,

Che nel vasto cortil pascer lasciava.

Quindi, fermate nel suo re le ciglia:

"Vecchio, imparâro a rispettarti forse,

O", disse, "a t'oltraggiar seguon gli Achei?"

"Eumèo", rispose il re, "piacesse ai numi

Questa gente punir, che nell'altrui

Magion rei fatti, ingiurïando, pensa,

E dramma di pudor non serba in petto!"

Così tra lor dicean, quando il capraio

Co' più bei della greggia eletti corpi,

L'avido ventre a rïempir de' proci,

Giunse, Melanzio; e seco due pastori.

Ei le capre legò sotto il sonante

Portico, e morse nuovamente Ulisse:

"Stranier, molesto ci sarai tu ancora,

Mendicando da ognun? Fuori una volta

Non uscirai? Difficilmente, io credo,

Noi ci dividerem, che l'un dell'altro

Assaggiate le man non abbia in prima:

Però che tu villanamente accatti.

Altra mensa in città dunque non fuma?"

Nulla l'offeso eroe: ma sol crollava

Tacitamente il capo, e la risposta,

Che farà con la man, tra sé volgea.

Filezio in quella sopraggiunse terzo,

Grassa vacca menando e pingui capre,

Cui traghettò su passeggiera barca

Gente di mar, che a questa cura intende.

Le avvinse sotto il portico, e, vicino

Fattosi a Eumèo, l'interrogava: "Eumèo,

Chi è quello stranier che ai nostri alberghi

Testé arrivò? Quali esser dice, e dove

La sua terra nativa e i padri suoi?

Lasso! un monarca egli mi sembra in vista.

Certo piace agli dèi metter nel fondo

Delle sventure i vïandanti, quando

Si destina da loro ai re tal sorte".

Disse, e appressando il forestiero e a lui

La man porgendo: "Ospite padre, salve!"

Soggiunse: "almen, se nella doglia or vivi,

Sorganti più sereni i giorni estremi!

Giove, qual mai di te nume più crudo,

Che alla fatica e all'infortunio in preda

Lasci i mortali, cui la vita desti?

Freddo sudor bagnommi e mi s'empiêro

Gli occhi di pianto, immaginando Ulisse,

Cui veder parmi con tai panni in dosso

Tra gli uomini vagar, se qualche terra

Sostienlo ancora, e gli risplende il Sole.

Sventurato di me! L'inclito Ulisse

A me fanciullo delle sue giovenche

La cura diè ne' Cefalleni campi;

Ed io sì le guardai, che in infinito

L'armento crebbe dalle larghe fronti.

Questo sul mare trasportar per esca

Deggio a una turba di signori estrani,

Che né guarda al figliuol, né gli dèi teme:

Mentre de' beni del mio sir lontano

La parte, cui finor perdonò il dente,

Con gli occhi ella divora e col desìo.

Ora io stommi fra due: perché rea cosa

Certo sarìa, vivo il figliuolo, a un'altra

Gente con l'armento ir; ma d'altra parte

Pesami fieramente appo una mandra

Restar, che a me divenne omai straniera.

E se non fosse la non morta speme

Che quel misero rieda e sperda i proci,

Io di qualche magnanimo padrone

Già nella corte riparato avrei:

Ché tai cose durar più non si ponno".

E l'eroe sì gli rispondea: "Pastore,

Poiché malvagio non mi sembri e stolto,

E senno anche dimostri, odi i miei detti,

E il giuramento che su questi siede.

Io pria tra i numi in testimonio Giove,

E la mensa ospital chiamo, e d'Ulisse

Il venerando focolar, cui venni:

Giungerà il figlio di Laerte, e all'Orco

Precipitar gli usurpatori proci

Vedranlo, se tu vuoi, gli occhi tuoi stessi".

"Ospite, questo il Saturnìde adempia",

Replicò il guardïan: "vedresti, come

Intrepido seguir del mio signore

La giusta ira io saprei". Tacque; ed Eumèo

S'unìa con esso, e agl'immortali tutti

Pel ritorno del re preghiere fea.

Morte intanto a Telemaco s'ordìa

Dai proci. È ver che alla sinistra loro

Un'aquila comparve altovolante,

Che avea colomba trepida tra l'ugne.

Tosto Anfinomo sorse, e: "Amici", disse,

"Lasciam da un lato la cruenta trama,

Cui più che invan, si pensa; ed il convito

Ci sovvenga più presto". E il detto piacque.

I proci entraro nel palagio, e i manti

Sovra i seggi deposero: le pingui

Capre e i montoni s'immolaro, corse

De' verri il sangue, e la buessa, onore

Dell'armento, cadé. Fûro spartite

Le abbrustolate viscere, e mesciuto

Nell'urne il rosso vino. Eumèo le tazze,

Filezio i pani dispensò ne' vaghi

Canestri: ma dall'urne il buon licore

Melanzio nelle ciòtole versava.

E già i prenci volgeano all'apprestate

Mense il pensier, quando d'Ulisse il figlio,

Non senza un suo perché, seder fe' il padre

Presso il marmoreo limitar, su rozzo

Scanno ed a picciol desco; e qui una parte

Gl'imbandì delle viscere, e gl'infuse

Vermiglio vino in tazza d'oro, e tale

Parlò: "Tu pur siedi co' prenci, e bevi.

Io dalle lingue audaci e dalle mani

Ti schermirò: ché non è questo albergo

Pubblico, ma d'Ulisse, ed a me solo

Egli acquistollo. E voi frenate, o proci,

Le man, non che le lingue, onde contesa

Qui non s'accenda e subitana rissa".

Strinser le labbra, ed inarcâr le ciglia.

Ed Antìnoo così: "La minacciosa,

Compagni, di Telemaco favella,

Per molesta che sia, durarla vuolsi.

Giove il protegge: ché altramente imposto,

Benché canoro arringator, gli avremmo

Silenzio eterno da gran tempo". Disse;

E il dispregiò Telemaco, e si tenne.

Già i banditori l'ecatombe sacra

Degli dèi conducean per la cittade,

E raccoglieansi i capelluti Achivi

Sotto il bosco frondifero d'Apollo,

Di cui per cotanto aere il dardo vola.

E al tempo stesso, incotte omai le carni,

Nel palagio d'Ulisse, e dagli acuti

Schidoni tratte, e poi divise in brani,

L'alto vi si tenea prandio solenne.

Parte uguale con gli altri anco ad Ulisse

Fu posta innanzi dai ministri, come

Volle il caro figliuol: né degli oltraggi

Però Minerva consentìa che i proci

Rimettessero un punto, acciocché al Rege

L'ira più addentro penetrasse in petto.

V'era tra loro un malvagio uom, che avea

Nome Ctesippo, e dimorava in Same.

Costui, fidando ne' tesor paterni,

La consorte del re con gli altri ambiva.

Surse, e tal favellò: "Proci, ascoltate.

Il forestier, qual convenìasi, ottenne

Parte uguale con noi. Chi mai vorrìa

Di Telemaco un ospite fraudarne,

Chïunque fosse? Ora io di fargli intendo

Un nobil don, ch'egli potrà in mercede

Dar poscia o al bagnaiuolo, o a qual tra i servi

Gli piacerà dell'immortale Ulisse".

Così dicendo, una bovina zampa

Levò su da un canestro, e con gagliarda

Mano avventolla. L'inconcusso eroe

Sfuggilla, il capo declinando alquanto,

Ed in quell'atto d'un cotal suo riso

Sardonico ridendo; e il piè del bue

A percuotere andò nella parete.

"Meglio d'assai per te, che nol cogliesti",

Sì Telemaco allora il tracotante

Ctesippo rabbuffò: "meglio, che il colpo

L'oste schivasse; però ch'io nel mezzo

Del cor senz'alcun dubbio un'asta acuta

T'avrei piantata, e delle nozze in vece

Celebrate t'avrìa l'esequie il padre.

Fine dunque agl'insulti. Io più fanciullo

Non son, tutto m'è noto, ed i confini

Segnar del retto e del non retto, io valgo

Credete voi ch'io soffrirei tal piaga

Nelle sostanze mie, se forte troppo

Non fosse impresa il frenar molti a un solo?

Su via, cessate dall'offese, o, dove

Sete del sangue mio l'alme vi pugna,

Prendetevi il mio sangue. Io ciò pria voglio.

Che veder ciascun giorno opre sì indegne:

I forestieri dileggiati e spesso

Battuti, e nello splendido palagio

Contaminate, oh reità! le ancelle".

Tutti ammutiro, e sol, ma tardi molto,

Favellò il Damastòride Agelao:

"Nobili amici, a chi parlò con senno,

Nessun risponda ingiurioso e avverso;

Né forestier più si percuota, o altr'uomo

Che in corte serva del divino Ulisse.

Io poi darò a Telemaco e alla madre

Util consiglio con parole blande,

Se in cor loro entrerà. Finché speranza

Del ritorno d'Ulisse a voi fioriva,

Gl'indugi perdonare ed i pretesti

Vi si poteano, e il trarre in lungo i proci:

Ché, quando apparsa la sua faccia fosse,

Di prudenza lodati avrìavi il mondo.

Ma chiaro parmi che più in man d'Ulisse

Il ritorno non è. Trova la madre

Dunque e la pressa tu, che a quel de' proci,

Che ha più virtude e più doni offre, vada:

Onde tu rïentrar ne' beni tutti

Del padre possa, e alla tua mensa in gioia,

Non che in pace, seder, mentre la madre

Del nuovo sposo allegrerà le mura.

E il prudente Telemaco: "Per Giove",

Rispose "e per li guai del padre mio,

Ch'erra o perì, dalla sua patria lunge,

Ti protesto, Agelao, ch'io della madre

Non indugio le nozze, anzi la esorto

Quello a seguir che più le aggrada, ed offre

Doni in copia maggior: ma i Dii beati

Tolgan che involontaria io la sbandisca

Da queste soglie con severi accenti".

Disse, e Minerva inestinguibil riso

Destò ne' proci e ne travolse il senno.

Ma il riso era stranier su quelle guance:

Ma sanguigne inghiottìan delle sgozzate

Bestie le carni, e poi dagli occhi a un tratto

Sgorgava loro un improvviso pianto,

E di prevista disventura il duolo

Ne' lor petti regnava. E qui levossi

Teoclimèno, il gran profeta, e disse:

"Ah miseri, che veggio? E qual v'incontra

Caso funesto? Al corpo intorno, intorno

D'atra notte vi gira al capo un nembo.

Urlo fiero scoppiò; bagnansi i volti

D'involontarie lagrime; di sangue

Tingonsi le pareti ed i bei palchi;

L'atrio s'empie e il cortil d'ombre, che in fretta

Giù discendon nell'Erebo; disparve

Dal cielo il sole, e degli aerei campi

Una densa caligine indonnossi".

Tutti beffarsi del profeta, e queste

Voci Eurimaco sciolse: "Il forestiero,

Che qua venne testé non so da dove,

Vaneggia, io penso. Giovani, su via,

Mettetel fuori, acciocché in piazza ei vada,

Poscia che qui per notte il giorno prende".

E l'indovino: "Eurimaco", rispose,

"Coteste guide, che vuoi darmi, tienti.

Occhi ho in testa ed orecchi, e due piè sotto,

E di tempra non vile un'alma in petto.

Con tai soccorsi io sgombrerò, scorgendo

Il mal che sopra voi pende, e a cui torsi

Non potrà un sol di voi, che gli stranieri

Oltraggiate, e studiate iniquitadi

Nella magion del pari ai numi Ulisse".

Ciò detto, uscì da loro, ed a Pirèo,

Che di buon grado il ricevé, s'addusse.

Ma i proci, riguardandosi a vicenda,

E beffe d'ambo i forestier facendo,

Provocavan Telemaco. "Non havvi,

Talun dicea, chi ad ospiti stia peggio,

Telemaco, di te. L'uno è un mendìco

Errante, omai di fame e sete morto,

Senza prodezza, senza industria, peso

Disutil della terra; e l'altro un pazzo,

Che, per far del profeta, in piè si leva.

Vuoi tu questo seguir, ch'io ti propongo,

Sano partito? Ambo gittiamli in nave,

E li mandiam della Sicilia ai lidi.

Più gioveranno a te, se tu li vendi".

Telemaco di lui nulla curava,

Ma levati tenea tacito gli occhi

Nel genitor, sempre aspettando il punto

Ch'ei fatto contra i proci impeto avrebbe.

In faccia della sala, e in su la porta

Del ginecèo, da un suo lucente seggio

Tutti i lor detti la regina udìa.

E quei, ridendo, il più soave e lauto,

Però che molte avean vittime uccise,

Convito celebrâr: ma più ingioconda

Cena di quella non fu mai, che ai proci,

Degna mercé della nequizia loro.

Stavan per imbandir Palla ed Ulisse.

 

LIBRO XXI

  

Ma Palla, occhio azzurrino, alla prudente

Figlia d'Icario entro lo spirto mise

Di propor l'arco ai proci e i ferrei anelli,

Nella casa d'Ulisse: acerbo gioco,

E di strage principio e di vendetta.

La donna salse alla magion più alta,

E dell'abil sua man la bella e ad arte

Curvata chiave di metallo prese

Pel manubrio di candido elefante.

Ciò fatto, andò con le fedeli ancelle

Nella stanza più interna, ove i tesori

Serbavansi del re: rame, oro e ferro

Ben travagliato. E qui giacea pur l'arco

Ritorto e il sagittifero turcasso,

Che molte dentro a sé frecce chiudea

Dolorifere: doni, che ad Ulisse,

Cui s'abbatté nella Laconia un giorno,

Feo l'Eurìtide Ifìto, ai numi eguale.

S'incontrâro gli eroi nella magione

D'Ortìloco in Messenia. Di Messene

Una masnada pecore trecento

Co' lor custodi su le lunghe navi,

Rapito avea dagl'Itacesi paschi;

E a richiederle il padre e gli altri vecchi,

Giovane ambasciator per lunga strada,

Mandâro Ulisse. D'altra parte Ifìto

In traccia sen venìa delle perdute

Sue dodici cavalle, e delle forti

Alla lor mamma pazïenti mule,

Donde ruina derivògli e morte:

Però che Alcide, il gran figliuol di Giove,

D'opere grandi fabbro, a lui, che accolto

Nel suo palagio avea, non paventando

Né la giustizia degli dèi, né quella

Mensa ospital che gli avea posta innanzi,

Tolse iniquo la vita, e le giumente

Dalla forte unghia in sua balìa ritenne.

Queste cercando, s'abbatté ad Ulisse,

E l'arco gli donò, che il chiaro Eurìto

Portava, e in man del suo diletto figlio

Pose morendo negli eccelsi alberghi.

E il Laerzìade un'affilata spada

Diede e una lancia noderosa a Ifìto,

D'un'amistà non lunga unico pegno:

Ché di mensa conoscersi a vicenda

Lor non fu dato, e il figliuol di Giove

L'Euritìde divino innanzi uccise.

Quest'arco Ulisse, allorché in negra nave

Alle dure traea belliche prove,

Nol togliea mai; ma per memoria eterna

Del caro amico alla parete appeso

Lasciar solealo, e sol gravarne il dosso

Nell'isola natìa gli era diletto.

Come pervenne alla secreta stanza

L'egregia donna, e il limitar di quercia

Salì construtto a squadra e ripolito

Da fabbro industre, che adattòvvi ancora

Le imposte ferme e le lucenti porte,

Tosto la fune dell'anello sciolse,

E introdusse la chiave, ed i serrami

Respinse: un rimugghiar come di tauro,

Che di rauco boato empie la valle

S'udì, quando le porte a lei s'aprîro.

Ella montò su l'elevato palco,

Dove giaceano alle bell'arche in grembo

Le profumate vesti, e, distendendo

Quindi la man, dalla cavicchia l'arco

Con tutta distaccò la luminosa

Vagina, entro cui stava. Indi s'assise;

E quel posato su le sue ginocchia,

Ne' pianti dava e ne' lamenti: al fine

Dalla custodia sua l'arco fuor trasse.

Ma poiché fu di lai sazia e di pianti,

Scese, e de' proci nel cospetto venne,

Quello in man sostenendo, e la faretra

Gravida di mortifere saette:

Mentre le ancelle la seguìan con cesta

Del ferro piena, che leggiadro a Ulisse

Di forza esercizio era e di destrezza.

Giunta ove quei sedean, fermava il piede

Della sala dedalea in su la soglia

Tra l'una e l'altra ancella, e co' sottili

Veli del crine ambo le guance ombrava,

Poi sciogliea tali accenti: "O voi, che in questa

Casa, lontano Ulisse, a forza entraste,

Gl'interi giorni a consumar tra i nappi,

Né di tal reità miglior difesa

Sapeste addur che le mie nozze, udite:

Quando sorse il gran dì, che la mia mano

Ritener più non deggio, ecco d'Ulisse

L'arco, che per certame io vi propongo.

Chi tenderallo, e passerà per tutti

Con la freccia volante i ferrei cerchi,

Lui seguir non ricuso, abbandonata

Questa sì bella, e di ricchezza colma

Magion de' miei verd'anni, ond'anche in sogno

Dovermi spesso ricordare io penso".

Disse; e, chiamato Eumèo, recare ai proci

L'arco gl'ingiunse, e degli anelli il ferro.

Ei lagrimando il prese, e nella sala

Depóselo; e Filezio in altra parte,

Vista l'arma del re, pianto versava.

Ma sgridavali Antìnoo in tai parole:

"Sciocchi villani, la cui mente inferma

Oltre il presente dì mai non si stende,

Perché tal piagnisteo? Perché alla donna

L'alma nel petto commovete, quasi

Per se stessa non dolgasi abbastanza

Del perduto consorte? O qui sedete

Taciti a bere, o a singhiozzare uscite,

E lasciate a noi l'arco, impresa molto,

Vaglia il ver, forte per noi tutti, e a gabbo

Da non pigliar: ché non havvi uom tra noi

Pari ad Ulisse per curvarlo. Il vidi

Negli anni miei più teneri, ed impressa

Me ne sta in mente da quel dì l'imago".

Così d'Eupite il figlio; e non pertanto

Il nervo confidavasi piegarne,

E d'anello in anel mandar lo strale.

Ma dovea prima l'infallibìl freccia

Gustare in vece dall'eroe scoccata,

Cui poc'anzi oltraggiava, e incontro a cui

Aizzava i compagni a mensa assiso.

Qui tra i proci parlò la sacra forza

Di Telemaco: "Oh dèi! Me Giove al certo

Cavò di senno. La diletta madre

Dice un altro consorte, abbandonando

Queste mura, seguir, benché sì saggia,

E folle io rido e a sollazzarmi attendo.

Su via, poiché a voi donna in premio s'offre,

Cui non l'Acaica terra e non la sacra

Pilo ed Argo, Micene, Itaca stessa

Vanta l'eguale, o la feconda Epiro;

E il sapete voi ben, né ch'io vi lodi

La genitrice, oggi è mestier; su via,

Con vane scuse non tirate in lungo

Questo certame, e non rifugga indietro

Dalla tesa dell'arco il vostro braccio.

Cimenterommi anch'io. S'io tenderollo,

E ne' ferri entrerò con la mia freccia,

Me qui lasciar per nuove nozze in duolo

La genitrice non vorrà, fuggire

Non vorrà da un figliuol, che ne' paterni

Giochi la palma riportar già vale".

Surse, ciò detto, ed il purpureo manto

Dagli omeri deposto e il brando acuto,

Scavò, la prima cosa, un lungo fosso;

Le colonnette con gli anelli in cima

Piantovvi, a squadra dirizzolle, e intorno

La terra vi calcò. Stupìano i proci,

Vedendole piantare a lui sì bene,

Bench'egli a nessun pria viste le avesse.

Ciò fatto, delle porte andò alla soglia,

E, fermatovi il piè, l'arco tentava.

Tre fiate trar volle il nervo al petto,

Tre dalla man gli scappò il nervo. Pure

Non disperava che la quarta prova

Più felice non fosse. E già, la corda

Traendo al petto per la quarta volta,

Teso avrìa l'arco: ma il vietava Ulisse

D'un cenno, e lui, che tutto ardea, frenava.

E Telemaco allor: "Numi!" soggiunse,

"O debile io vivrò dunque e dappoco

Tutto il mio tempo, o almen la poca etade

Forze da ributtar chi ad oltraggiarmi

Si scagliasse primier, non dammi ancora.

Ma voi, che siete più gagliardi, l'arma

Tastate adunque, e si compisca il gioco".

Detto così, l'arco ei depose a terra,

E all'incollate tavole polite

L'appoggiò della porta, e posò il dardo

Sul cerchio, che dell'arco il sommo ornava.

Poi s'assise di nuovo."E Antìnoo, il figlio

D'Eupìte, favellò: Tutti, o compagni,

Dalla destra per ordine v'alzate,

Cominciando ciascun, donde il vermiglio

Licor si versa". Il detto piacque, e primo

L'Enòpide Leòde alzossi, ch'era

Loro indovino, e alla bell'urna sempre

Sedea più presso. Odio alla colpa ei solo

Portava, e gli altri riprendea. Costui

L'arco lunato ed il pennuto strale

Si recò in mano, e alla soglia ito e fermo

Su i piedi, tentò il grave arco e nol tese:

Ché sentì intorno alla ribelle corda

Prima stancarsi la man liscia e molle:

"Altri", disse, "sel prenda; io certo, amici,

Nol tenderò: ma credo ben, che a molti

Sarà morte quest'arco. È ver che meglio

Torna il morire, che il giù tôrsi vivi

Da quella speme altissima, che in queste

Mura raccolti sino a qui ci tenne.

Spera oggi alcun, non che in suo core il brami,

La regina impalmar; ma, come visto

Questo arnese abbia e maneggiato, un'altra

Chiederà dell'Achee peplo-addobbate,

Nuzïali presenti a lei porgendo,

E a Penelope il fato uom, che di doni

Ricolmeralla, condurrà d'altronde".

Così parlato, ei mise l'arco a terra,

E all'incollate tavole polite

L'appoggiò della porta, e posò il dardo

Sul cerchio che dell'arco il sommo ornava.

Quindi tornò al suo seggio. E Antìnoo in tali

Voci proruppe: "Qual molesto, acerbo

Dalla chiostra de' denti a te, Leode,

Detto sfuggì, che di furor m'infiamma?

A noi dunque sarà morte quest'arco?

Se tu curvar nol puoi, la madre incolpa,

Che d'archi uom non ti fece e di saette:

Ma gli altri proci il curveranno, io penso".

Disse, e al custode del caprino gregge

Questo precetto diè: "Melanzio, accendi

Possente foco nella sala, e appresso

Vi poni seggio che una pelle cuopra.

Poi di bianco e indurato adipe reca

Grande, ritonda massa, acciocché s'unga

Per noi l'arco e si scaldi, ed in tal guisa

Questo certame si conduca a fine".

Melanzio accese un instancabil foco,

E con pelle di sopra un seggio pose.

Poi di bianco e indurato adipe massa

Grande e tonda recò. L'arco unto e caldo

Piegar tentaro i giovani. Che valse,

Se lor non rispondean le braccia imbelli?

Ma dalla prova s'astenean finora

Eurìmaco ed Antinoo, che de' proci

Eran di grado e di valore i primi.

Usciro intanto del palagio a un tempo

Il pastor de' maiali, e quel de' buoi,

E Ulisse dopo. Delle porte appena

Fuor si trovâro e del cortil, ch'ei, dolci

Parole ad ambi rivolgendo: "Eumèo",

Disse, "e Filezio, favellar degg'io,

O i detti ritener? Di ritenerli

L'animo non mi dà. Quali sareste

D'Ulisse a pro, se d'improvviso al vostro

Cospetto innanzi il presentasse un nume?

Ai proci, o a lui, soccorrereste voi?

Ciò che nel cor vi sta venga sul labbro".

"O Giove padre", sclamò allor Filezio,

"Adempi il voto mio! L'eroe qua giunga,

E un nume il guidi. Tu vedresti, o vecchio,

Quale in me l'ardir fora e quale il braccio".

Ed Eumèo nulla meno agli dèi tutti

Pel ritorno del re preghiere alzava.

Ei, come certo a pien fu della mente

Sincera e fida d'ambiduo, soggiunse:

"In casa eccomi io stesso, io, che, sofferte

Sventure senza numero, alla terra

Nativa giunsi nel vigesim'anno.

So che a voi soli desïato io spunto

Tra i servi miei: poiché degli altri tutti

Non udii che un bramasse il mio ritorno.

Quel ch'io farò per voi, dunque ascoltate.

Voi da me donna e robe, ove dai numi

D'esterminar mi si conceda i proci,

Voi case, dalla mia non lunge estrutte,

Riceverete: ed io terrovvi in conto

Di compagni a Telemaco e fratelli.

Ma perché in forse non restiate punto,

Eccovi a segno manifesto il colpo,

Che d'un fiero cinghial la bianca sanna

M'impresse il dì ch'io sul Parnaso salsi

Co' figliuoli d'Autolico". Ciò detto,

Dalla gran cicatrice i panni tolse.

Quei, tutto visto attentamente e tocco,

Piagnean, gittate di Laerte al figlio

Le mani intorno e gli omeri, e la testa,

Stringendol, gli baciavano; ed Ulisse

Lor baciò similmente e mani e capo.

E già lasciati il tramontato sole

Lagrimosi gli avrìa, se così Ulisse

Non correggeali: "Fine ai pianti! Alcuno

Potrìa vederli, uscendo, e riportarli

Di dentro. Udite. Nella sala il piede

Riponiam tutti, io prima, e poscia voi,

E d'un segnale ci accordiamo. I proci,

Che a me si porga la faretra e l'arco,

Non patiran: ma tu, divino Eumèo,

L'uno e l'altra mi reca, e di' alle donne,

Che gli usci chiudan delle stanze loro;

E per romor nessuna, o per lamento,

Che l'orecchio a ferir le andasse a un tratto,

Mostrisi fuori, ma quell'opra siegua,

Che avrà tra mano allor, né se ne smaghi.

Raccomando a te poi, Filezio illustre,

Serrar la porta del cortile a chiave,

E con ritorte rafforzarla in fretta".

Entrò, ciò detto, e donde pria sorto era,

S'assise; ed ivi a poco entraro i servi.

Già per le mani Eurimaco il grand'arco

Si rivolgeva, ed a' rai quinci e quindi

Della fiamma il vibrava. Inutil cura!

Meglio che gli altri non per questo il tese;

Gemé nel cor superbo, e queste voci

Tra i sospiri mandò: "Lasso! un gran duolo

Di me stesso e di voi sento ad un'ora.

Né già sol piango le perdute nozze:

Ché nell'ondicerchiata Itaca e altrove,

Sul capo a molte Achee s'increspa il crine.

Piango, che, se di forze al grande Ulisse

Tanto cediam da non curvar quest'arco,

Si rideran di noi l'età future".

"No", l'Eupitìde Antìnoo a lui rispose,

"Ciò, Eurimaco, non fia: tu stesso il vedi.

Sacro ad Apollo è questo dì. Chi l'arco

Tender potrebbe? Deponiamlo, e tutti

Lasciamo star gli anelli, e non temiamo

Che alcun da dove son rapirli ardisca.

Su via, l'abil coppier vada co' nappi

Ricolmi in giro, e, poiché avrem libato,

Mettiam l'arco da parte. Al dì novello

Melanzio a noi le più fiorenti capre

Guidi da tutti i branchi, onde, bruciati

I pingui lombi al glorïoso Arciero,

Si riprenda il cimento, e a fin s'adduca".

Piacque il suo detto. I banditori tosto

L'acqua diero alle man, l'urne i donzelli

Di vino incoronaro, e il dispensaro

Con le tazze augurando a tutti in giro.

Come libato e a piena voglia tutti

Bevuto ebber gli amanti, il saggio Ulisse,

Che stratagemmi in cor sempre agitava,

Così lor favellò: "Competitori

Dell'inclita Regina, udir v'aggradi

Ciò che il cor dirvi mi consiglia e sforza.

Eurimaco fra tutti e il pari a un nume

Antinoo, che parlò sì acconciamente,

L'orecchio aprire alle mie voci io priego.

Perdonate oggi all'arco, e degli eterni

Non ostate al voler: forza domane

A cui lor piacerà, daranno i numi.

Ma intanto a me, proci, quell'arma: io prova

Voglio far del mio braccio, e veder s'io

Nelle membra pieghevoli l'antico

Vigor mantengo, o se i miei lunghi errori

Disperso l'hanno e i molti miei disagi".

Rinfocolârsi a ciò, forte temendo,

Non il polito arco ei piegasse. E Antinoo

Lo sgridava in tal guisa: "O miserando

Degli ospiti, sei tu fuor di te stesso?

Non ti contenti, che tranquillo siedi

Con noi principi a mensa, e, che a null'altro

Stranier mendico si concede, vieni

Delle vivande e de' sermoni a parte?

Certo te offende il saporoso vino,

Che tracannato avidamente, e senza

Modo e termine alcuno, a molti nocque.

Nocque al famoso Eurizïon Centauro,

Quando venne tra i Lápiti, e nell'alta

Casa ospitale di Piritoo immensi,

Compreso di furor, mali commise.

Molto ne dolse a quegli eroi, che incontro

Se gli avventaro, e del vestibol fuori

Trasserlo, e orecchie gli mozzaro e nari

Con affilato brando; ed ei, cui spento

Dell'intelletto il lume avean le tazze,

Sen gìa manco nel corpo e nella mente.

Quindi s'accese una cruenta pugna

Tra gli sdegnati Làpiti e i Centauri:

Ma, gravato dal vin, primo il disastro

Eurizïon portò sovra se stesso.

Così te pur grave infortunio aspetta,

Se l'arco tenderai. Del popol tutto

Non fia chi s'alzi in tua difesa, e noi

Ad Echeto, degli uomini flagello,

Dalle cui man né tu salvo uscirai,

Ti manderem su rapido naviglio.

Chetati adunque, ed il pensiero impronto

Di contender co' giovani ti spoglia".

Qui Penelope disse: "Antìnoo, quali

Di Telemaco mio gli ospiti sieno,

Turpe ed ingiusto è il tempestarli tanto.

Pensi tu forse, che ove lo straniero,

Fidandosi di sé, l'arco tendesse,

Me quinci condurrìa moglie al suo tetto?

Né lo spera egli, né turbato a mensa

Dee per questo sedere alcun di voi.

Cosa io veder non so, che men s'addica".

Ed Eurimaco a lei: "D'Icario figlia,

Non v'ha fra noi, cui nella mente cada,

Che te pigli a consorte uom che sì poco

Degno è di te. Ma degli Achei le lingue

Temiamo e delle Achee. La più vil bocca:

"Ve'" griderìa, "quai d'un eroe la donna

Chiedono a gara giovinotti imbelli,

Che né valgon piegare il suo bell'arco,

Mentre un tapino, un vagabondo, un giunto

Testé, curvollo agevolmente, e il dardo

Per gli anelli mandò". Tal griderebbe;

E tinto andrìa d'infamia il nostro nome.

E così a lui Penelope rispose:

"Eurimaco, non lice un nome illustre

Tra i popoli agognare a chi d'egregio

Signor la casa dal suo fondo schianta.

Perché tinger voi stessi il nome vostro

D'infamia? È lo stranier di gran sembiante,

Ben complesso di membra, e generosa

La stirpe vanta, e non vulgare il padre;

Dategli il risplendente arco, e veggiamo.

Se il tende, e gloria gli concede Apollo,

Prometto, e non invan, tunica bella

Vestirgli e bella clamide, ed in oltre

Un brando a doppio taglio, e un dardo acuto

Mettergli in mano, e sotto ai piè calzari;

E là invïarlo, dove il suo cor mira.

"Madre", disse Telemaco, "a me solo

Sta in mano il dare, o no, quell'arco, io credo:

Né ha in lui ragione degli Achivi alcuno,

Che son nell'alpestra Itaca signori,

O nell'isole prossime alla verde

Elide, chiara di cavalli altrice.

E quando farne ancor dono io volessi

Al forestier, chi 'nvidïar mel puote?

Ma tu rïentra; ed al telaio e al fuso,

Come pur suoli, con le ancelle attendi.

Cura sarà degli uomini quell'arma,

E più che d'altri, mia: ché del palagio

Il governo in me sol, madre risiede".

Attonita rimase, e del figliuolo

Con la parola, che nell'alma entrolle,

Risalì in alto tra le fide ancelle.

Quivi, aprendo alle lagrime le porte:

Ulisse Ulisse a nome iva chiamando:

Finché un dolce di tanti e tanti affanni

Sopitor sonno le mandò Minerva.

L'arco Eumèo tolse intanto; e già il portava,

E i proci tutti nel garrìano, e alcuno

Così dicea de' giovani orgogliosi:

"Dove il grand'arco porti, o dissennato

Porcaio sozzo? Appo le troie in breve

Te mangeran fuor d'ogni umano aiuto

Gli stessi cani di tua man nutriti,

Se Apollo è a noi propizio e gli altri numi".

Impaurito delle lor rampogne,

L'arco ei depose. Ma dall'altra parte

Con minacce Telemaco gridava:

"Orsù, va innanzi con quell'arco. Credi

Che l'obbedire a tutti in pro ti torni?

Pon cura ch'io con iscagliati sassi

Dalla cittade non ti cacci al campo,

Io, minor d'anni, ma di te più forte.

Oh così, qual di te, più forte io fossi

De' proci tutti che qui sono! Alcuno

Tosto io ne sbalzerei fuor del palagio,

Dove il tesser malanni è lor bell'arte".

Tutti scoppiâro in un giocondo riso

Sul custode de' verri, e della grave

Contra il garzone ira allentâro. Eumèo,

Traversata la sala, innanzi a Ulisse

Fermossi, ed il grande arco in man gli mise.

Poi, chiamata Euriclèa, parlò in tal forma:

"Saggia Euriclèa, Telemaco le stanze

Chiuder t'ingiunge, e dell'ancelle vuole,

Che per rumor nessuna, o per lamento,

Che l'orecchio a ferir le andasse a un tratto,

Mostrisi fuori, ma quell'opra siegua,

Che avrà tra mano allor, né se ne smaghi".

Non parlò al vento. La nutrice annosa

Tutte impedì le uscite; e al tempo istesso

Filezio si gittò tacitamente

Fuor del palagio, e rinserrò le porte

Del cortil ben munito. Una gran fune

D'Egizio giunco per navigli intesta

Giacea sotto la loggia; ed ei con quella

Più ancor le porte rafforzò. Ciò fatto,

Rïentrava, e la sedia, ond'era sorto,

Premea di nuovo, riguardando Ulisse.

Ulisse l'arco maneggiava, e attento

Per ogni parte rivoltando il giva,

Qua tastandolo e là, se i muti tarli

Ne avesser mai ròse le corna, mentre

N'era il signor lontano. E alcun, rivolti

Gli sguardi al suo vicino: "Uom", gli dicea,

"Che si conosce a maraviglia d'archi,

È certo, o un arco somigliante pende

A lui dalla domestica parete,

O fabbricante un dì tal fatta ei pensa:

Così questo infelice vagabondo

L'arco tra le sua man volta e rivolta!"

E un altro ancor de' giovani protervi:

"Deh così in bene gli rïesca tutto,

Come teso da lui sarà quell'arco!"

Ma il Laerzìade, come tutto l'ebbe

Ponderato e osservato a parte a parte,

Qual perito cantor, che, le ben torte

Minuge avvinte d'una sua novella

Cetera ad ambo i lati, agevolmente

Tira, volgendo il bìschero, la corda:

Tale il grande arco senza sforzo tese.

Poi saggio far volle del nervo: aperse

La mano, e il nervo mandò un suono acuto,

Qual di garrula irondine è la voce.

Gran duolo i proci ne sentiro, e in volto

Trascoloraro; e con aperti segni

Fortemente tonò Giove dall'alto.

Gioì l'eroe, che di Saturno il figlio,

Di Saturno, che obliqui ha pensamenti,

Gli dimostrasse il suo favor dal cielo;

E un aligero stral, che su la mensa

Risplendea, tolse: tutte l'altre frecce,

Che gli Achivi assaggiar dovean tra poco,

In sé chiudeale il concavo turcasso.

Posto su l'arco ed incoccato il dardo,

Traeva seduto, siccom'era, al petto

Con la man destra il nervo: indi la mira

Tra i ferrei cerchi prese, e spinse il telo,

Che, senza quinci devïare o quindi,

Passò tutti gli anelli alto ronzando.

Subitamente si rivolse al figlio,

E: "Telemaco", disse, "il forestiero

Non ti svergogna, parmi. Io punto lunge

Dal segno non andai, né a tender l'arco

Faticai molto; le mie forze intere

Serbo, e non merto villanìe dai proci.

Ma tempo è omai che alla cadente luce

Lor s'appresti la cena; e poi si tocchi

La cetra molticorde, e s'alzi il canto,

In che più di piacer la mensa acquista".

Disse, e accennò co' sopraccigli. Allora

Telemaco, d'Ulisse il pegno caro,

La spada cinse, impugnò l'asta, e, tutto

Risplendendo nell'armi, accanto al padre,

Che pur seduto rimanea, locossi.

 

LIBRO XXII

  

Surse e spogliossi de' suoi cenci Ulisse,

E sul gran limitare andò d'un salto,

L'arco tenendo e la faretra. I ratti

Strali, onde gravida era, ivi gittossi

Davante ai piedi, e ai proci disse: "A fine

Questa difficil prova è già condotta.

Ora io vedrò, se altro bersaglio, in cui

Nessun diede sin qui, toccar m'avviene,

E se me tanto privilegia Apollo".

Così dicendo, ei dirigea l'amaro

Strale in Antinoo. Antinoo una leggiadra

Stava per innalzar coppa di vino

Colma a due orecchie, e d'oro: ed alle labbra

Già l'appressava: né pensier di morte

Nel cor gli si volgea. Chi avrìa creduto

Che fra cotanti a lieta mensa assisi

Un sol, quantunque di gran forze, il nero

Fabbricar gli dovesse ultimo fato?

Nella gola il trovò col dardo Ulisse,

E sì colpillo, che dall'altra banda

Pel collo delicato uscì la punta.

Ei piegò da una parte e dalle mani

La coppa gli cadé: tosto una grossa

Vena di sangue mandò fuor pel naso;

Percosse colle piante, e da sé il desco

Respinse; sparse le vivande a terra;

Ed i pani imbrattavansi e le carni.

Visto Antìnoo cader, tumulto i proci

Fêr nella sala, e dai lor seggi alzâro,

Turbati raggirandosi, e guardando

Alle pareti qua e là: ma lancia

Dalle pareti non pendea, né scudo.

Allor con voci di grand'ira Ulisse

Metteansi a improverare: "Ospite, il dardo

Ne' petti umani malamante scocchi;

Parte non avrai più ne' giuochi nostri:

Anzi grave ruina a te sovrasta.

Sai tu che un uomo trafiggesti ch'era

Dell'Itacense gioventude il fiore?

Però degli avoltoi sarai qui pasto".

Così, pensando involontario il colpo,

Dicean: né s'avvedean folli, che posto

Ne' confini di morte avean già il piede.

Ma torvo riguardolli, e in questa guisa

Favellò Ulisse: "Credevate, o cani,

Che d'Ilio io più non ritornassi, e intanto

La casa disertar, stuprar le ancelle,

E la consorte mia, me vivo, ambire

Costumavate, non temendo punto

Né degli dèi la grave ira, né il biasmo

Permanente degli uomini. Ma venne

La fatale per voi tutti ultima sera".

Tutti inverdiro del timore, e gli occhi,

Uno scampo a cercar, volsero intorno.

Solo, e in tal forma, Eurimaco rispose:

"Quando il vero tu sii d'Itaca Ulisse

Fra noi rinato, di molt'opre ingiuste,

Che sì nel tuo palagio e sì ne' campi

Commesse fûro, ti quereli a dritto.

Ma costui, che di tutto era cagione,

Eccolo in terra, Antìnoo. Ei dell'ingiuste

Opre fu l'autor primo: e non già tanto

Pel desiderio delle altere nozze,

Quanto per quel del regno, a cui tendea,

Insidïando il tuo figliuolo: occulte

Macchine, che il Saturnio in man gli ruppe.

Poiché morto egli giace, alla tua gente

Perdona tu. Pubblica emenda farti

Noi promettiamo: promettiam con venti

Tauri ciascun e con oro e con bronzo,

Quel vôto rïempir, che ne' tuoi beni

Gozzovigliando aprimmo; in sin che il core

Alla letizia ti si schiuda, e sgombri

L'ira, onde a gran ragione arse da prima".

Bieco mirollo, e replicògli Ulisse:

"Dove, Eurimaco, tutte ancor mi deste

L'eredità vostre paterne, e molti

Beni stranieri vi poneste accanto,

Io questa man non riterrei dal sangue,

Che la vendetta mia piena non fosse.

Or, qual de' due vi piacerà, scegliete,

Combattere o fuggir, se pur v'ha fuga

Per un solo di voi: ciò ch'io non credo".

Ciascuno de' proci il cor dentro mancarsi

Sentì, e piegarsi le ginocchia sotto.

Ed Eurimaco ad essi: "Amici, indarno

Sperate che le braccia egli non muova.

L'arco una volta ed il turcasso assunti,

Disfrenerà dal limitare i dardi,

Finché tutti ci atterri. Alla battaglia

Dunque si pensi: distringiam le spade,

E, delle mense alle letali frecce

Scudo facendo a noi, piombiamgli sopra

Tutti in un groppo. Se da quella porta

Scacciarlo ne rïesce, e la cittade

Scorrere, alzando al ciel subite voci,

Dal saettar si rimarrà per sempre".

Disse, e l'acuto di temprato rame

Brando a due tagli strinse, e su lui corse

Con terribili grida. In quella Ulisse,

Vôtato l'arco, al petto il colse, e il pronto

Nel fegato gl'infisse acerbo strale.

Lasciò Eurimaco il brando, e dopo alquanti

Giri, curvato su la mensa cadde,

E i cibi riversaronsi e la coppa.

Ma ei batté sopra la terra il capo,

Nell'alma tapinandosi, ed il seggio,

Che già premer solea, con ambo i piedi

Forte springando, scosse: al fine un'atra

Tutto il coverse sempiterna notte.

Ma d'altra parte Anfinomo avventossi

Col brando in man contra l'eroe, se mai

Dalla soglia disvellerlo potesse.

Il prevenne Telemaco, e da tergo

Tra le spalle il ferì con la pungente

Lancia, che fuor gli rïuscì del petto.

Quell'infelice rimbombò caduto,

E con tutta la fronte il suol percosse.

Ma il garzon sottraeasi, abbandonando

La lancia entro d'Anfinomo: temea,

Non alcun degli Achei, mentr'egli chino

Starìasi l'asta a sconficcare intento,

Di furto il martellasse, o con la spada

Sopra mano il ferisse alla scoperta.

Quindi ricovrò ratto, e in un baleno

Al caro padre fu vicino e a lui:

Padre, disse, uno scudo e lance due,

E un adatto alle tempie elmo lucente

Ti recherò, m'armerò io stesso, ed armi

A Filezio darò, darò ad Eumèo:

De' consigli il miglior sembrami questo".

"Sì, corri", Ulisse gli rispose, "e riedi,

Finché restano a me dardi a difesa:

Ma riedi prestamente, onde gli Achei

Me, che son solo, non ismuovan quinci".

Ubbidì il figlio, e alla superna stanza,

Dove l'armi giaceano, andò di passo

Lanciato, e targhe quattro ed otto lance

Prese, e quattro lucenti elmi di chioma

Equina folti, e in brevi istanti al caro

Genitor si rendé. Qui del metallo

Munì egli primo la persona, e i servi

Parimente le belle armi vestîro,

Ed all'accorto eroe stettero intorno.

Questi, finché le frecce a lui bastâro,

Togliea la mira ed imbroccava ognora,

E cadean l'un su l'altro i suoi nemici.

Ma poiché le infallibili saette

Gli fûr venute men, l'arco ei depose,

E l'appoggiò del ben fondato albergo

Al nitido parete. Indi le spalle

Si carcò d'uno scudo a quattro doppi,

L'elmo dedàleo con l'equina chioma

Piantossi in capo, e due possenti lance

Nella man si recò: sovra la testa

Gli ondeggiava il cimier terribilmente.

Era in capo alla sala, e nel parete

Del ben fondato albergo una seconda

Di congiunte assi rinforzata porta,

Che in pubblico mettea non largo calle.

Di questa, per cui sol s'apriva un passo,

Ulisse volle il fido Eumèo per guardia.

Agelao v'ebbe l'occhio, e disse: "Amici,

Non ci sarà chi quella porta sforzi,

E sparga voce, o il popolo a romore

Levi, perché costui cessi dai colpi?"

"Ciò", rispose Melanzio, "ad alcun patto

Non possiamo, Agelao di Giove alunno.

Le porte del cortil troppo vicine

Sono, ed angusta è quell'uscita, e un solo

Cui non manchi valor, cento respinge.

Pur non temete. Io porterò a voi l'armi

Dalla stanza superna, in cui riposte

Da Ulisse e dal figliuol senz'altro fûro".

Detto, andar su e giù per l'alta scala,

Entrar, pigliar dodici targhe e lance

Tante e tanti criniti elmi, ed il tutto

Mettere in man de' palpitanti proci,

Fu di pochi momenti opra felice.

Turbar l'animo Ulisse e le ginocchia

Languir sentì, ratto che ai proci vide

Prender gli elmi e gli scudi, e le lunghe aste

Ir con la destra palleggiando; e allora

L'arduo conobbe dell'assunta impresa.

Si converse al figliuol tosto, e: "Telemaco",

Con dolenti gli disse alate voci,

"Certo il capraio, o delle donne alcuna

Raccende contro noi quest'aspra guerra".

E Telemaco a lui: "Padre", rispose,

"Io sol peccai, non altri, io, che la salda

Porta lasciai mezzo tra chiusa e aperta;

Ed un esplorator di me più astuto

Si giovò intanto del mio fallo. Or vanne

Tu, prode Eumèo, chiudi la porta, e sappi,

Se ciò vien da un'ancella, o dalla trista,

Come parmi più ver, di Dolio prole".

Mentre tali correan voci tra loro,

Melanzio per le belle armi di nuovo

Salse. Adocchiollo Eumèo, né a dir tardava

Così ad Ulisse, che lontan non gli era:

"Laerzìade divin, quella rea peste,

Di cui noi sospettiam, sale di nuovo.

Parlami chiaro: deggio porlo a morte,

Se rimángogli sopra, o qua condurlo,

Perché a te innanzi d'ogni suo delitto

Meritamente il fio paghi una volta?"

E il saggio Ulisse: "A sostenere i proci,

Come che ardenti, io col mio figlio basto.

Filezio dunque, e tu, poiché l'avrete

Entro la stanza rovesciato a terra,

Ambo i piedi stringetegli, e le mani

Sul tergo, chiusa dietro a voi la porta;

E lui, d'una insolubile catena

Cinto, tirate sino all'alte travi

Lungo una gran colonna, acciocché il tutto

Sconti con morte dolorosa e lunga".

Pronti i servi ubbidîro. Alla sublime

Camera s'affrettâr, da lui, che dentro

Era e cercava nel più interno l'arme,

Non visti e non sentiti; e si piantâro

Quinci e quindi alla porta. Ei per la soglia

Passava ratto in una man portando

Luminosa celata, ed un vetusto

Nell'altra e largo e arrugginito scudo,

Che gli omeri gravò del buon Laerte

Sul primo fior dell'età sua, deposto

Poscia e dimenticato, e da cui rotte

Le corregge pendevano. Veloci

L'assaltâr, l'abbracciâr, lo strascinâro

Dentro pel ciuffo, e l'atterrâr dolente,

Indi ambo i piedi gli legâro, ed ambo

Sovra il tergo le man, qual di Laerte

Comandò il figlio; e lui d'una catena

Insolubile cinto in sino all'alte

Travi tirar lungo una gran colonna.

"E così allor tu il deridesti, Eumèo:

Melanzio, or certo veglierai la notte

Su letto molle, come a te s'addice,

Corcato; né uscirà dalle correnti

Dell'Ocean, che tu non la vagheggi,

L'Aurora in trono d'ôr, quando le pingui

Capre alla mensa condurrai de' proci".

Tal fu Melanzio fra legami acerbi

Sospeso e abbandonato; e quei con l'arme

Sceser, la porta risplendente chiusa;

E presso al ricco di consigli Ulisse,

Forza spiranti e ardire, il piè fermâro.

Così quattro guerrier in su la soglia

Erano e nella sala un numeroso

Drappello e non ignobile. Ma Palla

L'armipotente del Saturnio figlia,

Con la faccia di Mentore e la voce,

Tra le due parti d'improvviso apparve.

Gioì a vederla il Laerzìade, e disse:

Mentore, mi seconda, e ti rammenta

Del tuo dolce compagno, onde a lodarti

Non raro avesti, e a cui sei d'anni eguale".

Così l'eroe: ma non gli tace il core,

Che la sua diva in Mentore s'asconde.

Dall'altra parte la garrìano i proci,

E primo il Damastòride Agelao

A minacciarla fu: "Mentore, bada,

Che a pugnare in suo pro contra gli Achivi

Non ti seduca favellando Ulisse.

Però che quando per man nostra uccisi

Giaceran, come ho fede, il padre e il figlio,

Morrai tu ancora, e il sangue tuo darai

Per ciò che oprar nella magione or pensi.

Che più? Te fatto cenere, co' beni

D'Ulisse in monte andrà quant'or possiedi

Nel tuo palagio e fuor, né a figli o a figlie

Menare i dì sotto il natìo lor tetto

Consentirem, né alla tua casta donna

D'Itaca soggiornar nella cittade".

Vie più s'accende a così fatte voci

L'ira di Palla, ed in rimbrotti scoppia

Contra Ulisse lanciáti: "Io nulla, Ulisse,

Di quel fermo vigor, nulla più veggio

Di quell'ardire in te, che allor mostrasti,

Che innanzi a Troia per le bianche braccia

Della nata di Giove inclita Elèna

Combattesti un decennio. Entro il lor sangue

Molti stendesti de' nemici, e prima

S'ascrive a te, se la dall'ampie strade

Città di Priamo in cenere fu vòlta.

Ed or che giunto alle paterne case

La tua donna difendi e i beni tuoi,

Mollemente t'adopri? Orsù, vicino

Stammi, ed osserva, quale il figlio d'Alcìmo,

Mentore, fra una gente a te nemica

De' benefici tuoi merto ti rende".

Tal favellava: ma perché l'innata

Virtù del padre e del figliuol volea

Provare ancor, per alcun tempo incerta

La vittoria lasciò tra loro e i proci.

Quindi, montando rapida, su trave

Lucido ed alto, a rimirar la pugna,

Di rondine in sembianza, ella s'assise.

Frattanto il Damastòride Agelao,

Anfimedonte, Eurinomo, e il prudente

Pòlibo, e Demoptòlemo, e Pisandro,

Di Polittore il figlio, alla coorte

Spirti aggiungean, come color che i primi

Eran di forza tra i rimasti in piedi,

E l'alma difendean; gli altri avean domi

L'arco famoso e le frequenti frecce.

Parlò a tutti Agelao: "Compagni, io penso

Che le indomite man frenare un tratto

Costui dovrà. Già Mentore disparve

Dopo il bravar suo vano, e su la soglia

Quattro sono, e non più. Voi non lanciate

Tutti, io ven priego, unitamente: sei

Aste volino in prima; e il vanto Giove

Di colpire in Ulisse a noi conceda.

Caduto lui, nulla del resto io curo".

Sei, com'egli bramava, aste volâro,

E tutte andar le feo Pallade a vôto.

L'un de' pungenti frassini la porta

Percosse, un altro su la soglia cadde,

Ed un terzo investì nella parete.

Scansáti i colpi, di Laerte il figlio:

"Amici", disse, "nello stuol de' proci,

Che, non contenti alle passate offese,

Della vita spogliar voglionci ancora,

Io crederei che saettar si debba".

Ciascun la mira di rincontro tolse,

E trasse d'una lancia. Il divo Ulisse

Demoptòlemo uccise, e scagliò morte

Telemaco ad Eurìade, a Elato Eumèo,

Ed a Pisandro il buon Filezio: tutti

Del pavimento morsero la polve.

Gli altri nel fondo della sala il piede

Tiraro indietro: Ulisse e i tre compagni

Corsero, e svelser dagli estinti l'aste.

Allor lanciaro novamente i proci

Di tutta forza, e tutti quasi i colpi

Nuovamente svïò Pallade amica.

La gran soglia, la porta e la parete

Li ricevette o li respinse: solo

Anfimedonte tanto o quanto lese

La destra di Telemaco nel polso,

E appena ne graffiò la somma cute;

E la lung'asta di Ctesippo, a Eumèo

Lo scudo rasentando, e lievemente

Solcandogli la spalla, il suo tenore

Seguì, e ricadde sovra il palco morta.

Ma non così dall'altra parte spinte

Fûr contra i proci le pungenti travi.

Quella del distruttor de' muri Ulisse

Fulminò Euridamante; Anfimedonte

Per quella giacque del suo figlio: Eumèo

Scontrò con la sua Pòlibo, e Filezio

Ctesippo colse con la sua nel petto,

E su lui stette alteramente, e disse:

"Politersìde, degli oltraggi amante,

Cessa dal secondar la tua stoltezza,

Con vana pompa favellando, e ai numi

Cedi, che di te son molto più forti.

Questo è il dono ospital di quello in merto,

Che al nostro re, che mendicava festi:

Alla zampa del bue l'asta rispose".

Così d'Ulisse l'armentario illustre.

In questo mezzo di Laerte il figlio

Conquise il Damastoride da presso

Di profonda ferita; e a Leocrito

Telemaco piantò nel ventre il telo,

Che delle reni fuor gli ricomparve.

L'Evenorìde stramazzò boccone,

E la terra batté con tutto il fronte.

Pallade allor, che rivestì la diva,

Alto levò dalla soffitta eccelsa

La funesta ai mortali egida, e infuse

Ne' superstiti proci immensa tema.

Saltavan qua e là, come le agresti

Madri talvolta del cornuto armento,

Se allo scaldarsi ed allungar de' giorni

Le punge il fiero assillo e le scompiglia.

Ma in quella guisa che avoltori, il rostro

Ricurvi e l'unghia, piombano, calando

Dalla montagna, su i minori augelli,

Che trepidi vorrìano ir vêr le nubi:

E quei su lor ripiombano e ne fanno,

Quando difesa non rimane o scampo,

Strazio e rapina del villano agli occhi,

Che di tale spettacolo si pasce:

Non altrimenti Ulisse e i tre compagni

Si scagliavan su i proci, e tale strage

Ne menavan, che fronte omai non v'era

Che non s'aprisse sotto i gran fendenti;

E un gemer tetro alzavasi, e di nero

Sangue ondeggiava il pavimento tutto.

Leode le ginocchia a prender corse

Del figliuol di Laerte, e in supplice atto

Gli drizzò tali accenti: "Eccomi, Ulisse,

Alle ginocchia tue, che di te imploro

Gli sguardi e la pietade. Io delle donne

In fatto o in detto non offesi alcuna:

Anzi gli altri alle sozze opre rivolti

Di ritenere io fea. Non m'obbedîro:

Però una morte subitana e acerba

Delle sozze opre lor fu la mercede.

Ma io, io, che indovin tra i proci vissi

Io, che nulla commisi unqua di male,

Qui spento giacerò degli altri al paro?

È questo il pregio che a virtù si serba?"

E Ulisse, torvi in lui gli occhi fissando:

"Poiché tra i proci indovinar ti piacque,

Spesso chiedesti nel palagio ai numi,

Che del ritorno il dì non mi splendesse;

Che te seguisse, e procreasse figli

La mia consorte a te: quindi e tu al grave

Sonno perpetuo chiuderai le ciglia".

Così dicendo, con la man gagliarda

Dal suol raccolse la tagliente spada,

Che Agelao su la morte avea perduto;

E di percossa tal diede al profeta

Pel collo, che di lui, che ancor parlava,

Rotolò nella polvere la testa.

Ma di Terpio il figliuol, l'inclito Femio,

Che tra i proci sciogliea per forza il canto,

Morte schivò. Della seconda porta

Con la sonante in man cetra d'argento

Vicino erasi fatto, e in due pensieri

Dividea la sua mente: o fuori uscito

Sedersi all'ara del gran Giove Ercèo,

Dove Laerte e il suo diletto figlio

Molte solean bruciar cosce taurine;

O ad Ulisse prostrarsi, e le ginocchia

Stringergli e supplicarlo; e delle due

Questa gli parve la miglior sentenza.

Prima tra una capace urna e un distinto

D'argentei chiovi travagliato seggio

Depose a terra l'incavata cetra:

Poi vêr l'eroe si mosse, e le ginocchia

Stringeagli, e gli dicea con voci alate:

"Ulisse, ascolta queste mie preghiere,

E di Femio pietà l'alma ti punga.

Doglia tu stesso indi ne avrai, se uccidi

Uom che agli uomini canta ed agli dèi.

Dotto io son da me solo, e non già l'arte,

Ma un dio mi seminò canti infiniti

Nell'intelletto. Gioirai, qual nume,

Della mia voce al suono. E tu la mano

Insanguinar ti vuoi nel corpo mio?

Ne domanda Telemaco, il tuo dolce

Figlio, ed ei ti dirà, che né vaghezza

Di plauso mai, né scarsità di vitto,

Tra i proci alteri a musicar m'indusse.

Ma co' molti, co' giovani, co' forti,

Uom che potea debile, vecchio e solo?"

Tal favellava: e la sacrata possa

Di Telemaco udillo, e ratto al padre,

Che non gli era lontan: "T'arresta", disse,

"E di questo innocente i dì rispetta.

Medonte ancor, che de' miei giorni primi

Cura prendea, noi serberemo in vita:

Sol ch'ei non sia per man d'un de' pastori

Caduto, e in te dato non abbia, mentre

Per la sala menavi in furia i colpi".

L'udì Medonte, il banditor solerte,

Che sdraiato giacea sotto un sedile,

E, l'atro fato declinando, s'era

D'una fresca di bue pelle coverto.

Surse da sotto il seggio, e il bovin cuoio

Svestissi, e andò a Telemaco, e, gittate

A' suoi ginocchi ambe le braccia: "Caro",

Gridava, "eccomi qua: salvami, e al padre

Di', che irato co' proci, onde scemati

Gli erano i beni, e vilipeso il figlio,

Non s'inaspri in me ancora e non m'uccida".

Sorrise Ulisse, e a lui: "Sta' di buon core.

Già di rischio Telemaco ti trasse,

E in salvo pose, acciocché sappi, e il narri,

Quanto più del far male il ben far torna.

Tu, araldo, intanto, e tu, vate immortale,

Fuor del palagio e della strage usciti,

Sedete nel cortil, finch'io di dentro

Tutta l'impresa mia conduco a riva".

Tacque; ed uscîro, e appo l'altar del sommo

Giove sedean, guardandosi all'intorno,

Qual se ad ogni momento, e in ogni loco,

Dovesse lor sopravvenir la Parca.

Lo sguardo allora per la casa in giro

L'eroe mandò, se mai de' proci alcuno

Fuggito avesse della morte il fato.

Non rimanea di tanti un che nel sangue

Steso non fosse e nella polve. Come

Gli abitatori del canuto mare,

Che il pescator con rete a molti vani

Su dall'onda tirò nel curvo lido,

Giaccion, bramando le native spume,

Per l'arena odïata, e loro il sole

Con gl'infiammati rai le anime fura:

Così giacean l'un presso l'altro i proci.

Subitamente Ulisse in questa forma

Si converse a Telemaco: "Telemaco,

La nutrice Euriclèa, su via, mi chiama,

Ciò per udir, che a me di dirle è in grado.

Ubbidì egli e incamminossi, e, dato

D'urto alla porta: "O d'anni carca", disse,

"Sorgi, Euriclèa, che nella nostra casa

Vegli sovra le ancelle. Il padre mio,

Che desìa favellarti, a sé ti vuole".

Non sen portava le parole il vento.

Aprì Euriclèa le porte, e in via con lui,

Che precedeala, entrò veloce, e brutto

Di polve tra i cadaveri e di sangue

Ulisse ritrovò. Qual par leone,

Che vien da divorar nel campo un toro,

E il vasto petto e l'una guancia e l'altra

Ne riporta cruenta, e dalle ciglia

Spira terror: tale insozzati Ulisse

Mostrava i piedi e delle mani i dossi.

Quella, come i cadaveri ed il molto

Sangue mirò, volle gridar di gioia

A spettacolo tal: ma ei frenolla,

Benché anelante, e con parole alate:

"Godi dentro di te", disse, "ma in voci,

Vecchia, non dar di giubilo: ché vampo

Menar non lice sovra gente uccisa.

Questi domò il destino, e morte a loro

Le stesse lor malvagitadi fûro:

Quando non rispettâro alcun giammai,

Buon fosse o reo, che in Itaca giungesse,

Dunque a dritto periro. Or tu, nutrice,

Di' delle donne a me, quai nel palagio

Son macchiate di colpa, e quali intatte".

E la diletta a lui vecchia Euriclèa:

"Figliuol, da me tu non avrai che il vero.

Cinquanta chiude il tuo palagio, a cui

Le lane pettinar, tesser le tele,

E sostener con animo tranquillo

La servitute, io stessa un giorno appresi.

Dodici tra costor tutta spogliâro

La verecondia, e, non che me, la stessa

Dispregiâro Penelope. Non era

Troppo innanzi venuto ancor negli anni

Il figlio tuo, né su le donne alcuno

Gli consentìa la saggia madre impero.

Ma che fo io, che alle lucenti stanze

Non salgo di Penelope, che giace

Da un dio sepolta in un profondo sonno?"

"Non la destare ancor", rispose Ulisse,

"Bensì alle donne, il cui peccar t'è noto,

Che a me si rappresentino, dirai".

La balia senza indugio a invitar mosse

Le peccatrici e ad esortarle tutte,

Che si rappresentassero all'eroe.

E intanto egli, Telemaco a sé avuto,

E il custode de' verri, e quel de' tori,

Tai parole lor feo: "Le morte salme

Più non si tardi a trasportare altrove,

E dell'infìde ancelle opra sia questa.

Poi con l'acqua e le spugne a molte bocche,

I bei sedili tergeransi e i deschi.

Tutta rimessa la magione in punto,

Le ancelle ne trarrete, e, poste in mezzo

Tra la picciola torre ed il superbo

Recinto del cortil, tanto co' lunghi

Le cercherete feritori brandi,

Che si disciolga dai lor corpi l'alma,

E dalle menti lor fugga l'immonda

Venere, onde s'unìan di furto ai proci".

Ciò detto appena, ecco venire a un corpo

Le grame, sollevando alti lamenti,

E una pioggia di lagrime versando,

Pria trasportâr gl'inanimati corpi,

Che del cortile, aitandosi a vicenda,

Sotto alla loggia collocâro. Instava

Co' suoi comandi Ulisse; e quelle il tristo

Ministero compiean, benché a mal cuore.

Poi con l'acqua e le spugne a molte bocche,

I bei sedili si tergeano e i deschi.

Ma Telemaco, e seco i due pastori,

Con rigide scorrean pungenti scope

Sul pavimento del ben fatto albergo;

E la bruttura raccogliean le afflitte

Donne, e fuori recavanla. Né prima

Rimessa fu la magion tutta in un punto,

Che fra la torre ed il recinto poste

Le malvage si videro, e in tal guisa

Serrate là, che del fuggir nulla era.

E Telemaco: "Io, no, con morte onesta

Non torrò l'alma da coteste donne,

Che a me sul capo od alla madre, scherni

Versaro; e che s'unìan d'amor co' proci".

Disse; e di nave alla cerulea prora

Canape, che partìa da un gran pilastro,

Gittò alla torre a tale altezza intorno,

Che le ancelle, per cui gittarlo piacque,

Non potesser del piè toccar la terra.

E come incontra che o colombe o torde

Che al verde chiuso d'una selva entraro,

Van con ali spiegate a dar di petto

Nelle pèndule reti, ove ciascuna

Trova un letto feral: tali a mirarle

Eran le donne con le teste in fila,

E con avvinto ad ogni collo un laccio,

Di morte infelicissima strumento.

Guizzan co'piedi alquanto e più non sono.

Telemaco indi, e i due pastori seco,

Nella corte per l'atrio il mal capraio

Conducean: recideangli orecchie e nari,

E i genitali, da buttarsi crudi

Ai can voraci, gli svelleano, i piedi

Mozzavangli e le man; tanta fu l'ira.

Punito al fine ogni misfatto, e mani

Con pura onda di fonte e piè lavati,

Ritorno fêr nella magione a Ulisse.

Questi allor tai parole alla diletta

Nutrice rivolgea: "Portami, o vecchia,

Il zolfo salutifero ed il fuoco,

Perché l'albergo vaporare io possa,

E Penelope a me con le fedeli

Sue donne venga; e tu l'altre per casa

Femmine tutte a qua venir conforta".

Ed ella: "Figlio mio, quanto dicesti

Io lodo assai. Ma non vuoi tu che prima

Manto a coprirti e tunica io ti rechi?

Indegno fora con tai cenci indosso

Nel tuo palagio rimaner più a lungo".

"Prima il zolfo ed il fuoco", ad Euriclèa

Rispose il pien d'accorgimenti eroe.

La nutrice, ubbidendo, il sacro zolfo

Portògli e il fuoco prestamente; e Ulisse

La sala ed il vestibolo e il cortile

Più volte vaporò. Salì frattanto

Colei le ancelle a confortar, che franche

Vedere omai si fessero. Le ancelle

Delle camere usciro, in man tenendo

Lucide faci: poscia intorno a lui

Si spargeano e abbracciavanlo, ed il capo

Baciavangli, stringendolo e le spalle,

E l'afferravan nelle mani. Ulisse

Tutte le riconobbe ad una ad una

Nel consapevol petto, e un dolce il prese

Di sospiri e di lagrime desìo.

 

LIBRO XXIII

  

La buona vecchia gongolando ascese

Nelle stanze superne, alla padrona

Per nunzïar, ch'era il marito in casa.

Non le tremavan più gl'invigoriti

Ginocchi sotto; ed ella a salti giva.

Quindi le stette sovra il capo, e: "Sorgi",

Disse, "Penelopèa, figlia diletta,

Se il desìo rimirar de' giorni tutti

Vuoi co' propri occhi. Ulisse venne, Ulisse

Nel suo palagio entrò dopo anni tanti,

E i proci temerari, onde turbata

La casa t'era, consumati i beni,

Molestato il figliuol, ruppe e disperse".

E Penelope a lei: "Cara nutrice,

Gl'Iddii, che fanno, come lor talenta,

Del folle un saggio e del più saggio un folle,

La ragion ti travolsero. Guastâro

Cotesta mente, che fu sempre intègra,

Senza dubbio gl'Iddii. Perché ti prendi

Gioco di me, cui sì gran doglia preme,

Favole raccontandomi, e mi scuoti

Da un sonno dolce, che, abbracciate e strette

Le mie tenea care palpebre? Io mai,

Dacché Ulisse levò nel mar le vele

Per la malvagia innominanda Troia,

Così, no, non dormìi. Su via, discendi,

Balia, e ritorna onde movesti, e sappi,

Che se tali novelle altra mi fosse

Delle mie donne ad arrecar venuta,

E me dal sonno scossa, io rimandata

Tostamente l'avrei con modi acerbi:

Ma giovi a te, che quel tuo crin sia bianco".

"Diletta figlia", ripigliò la vecchia,

"Io di te gioco non mi prendo. Ulisse

Capitò veramente, ed il suo tetto

Rivide al fin: quel forestier da tutti

Svillaneggiato nella sala è Ulisse.

Telemaco il sapea: ma scortamente

I paterni consigli in sé celava,

Delle vendette a preparar lo scoppio".

Giubbilò allor Penelope, e, di letto

Sbalzata, al seno s'accostò la vecchia,

Lasciando ir giù le lagrime dagli occhi,

E con parole alate: "Ah! non volermi,

Balia cara, deludere", rispose.

"S'ei, come narri, in sua magione alberga,

Di qual guisa poté solo agli audaci

Drudi, che in folla rimaneanvi sempre,

Le ultrici far sentir mani omicide?"

"Io nol vidi, né il so", colei riprese:

"Solo il gemer di quei, ch'eran trafitti,

L'orecchio mi ferìa. Noi delle belle

Stanze, onde aprir non potevam le porte,

Nel fondo sedevam, turbate il core;

Ed ecco a me Telemaco mandato

Dal genitor, che mi volea. Trovai

Ulisse in piè tra i debellati proci,

Che giacean l'un su l'altro, il pavimento

Tutto ingombrando. Oh come ratto in gioia

La tua lunga tristezza avresti vôlta:

Se di polve e di sangue asperso e brutto,

Qual feroce leon, visto l'avessi!

Or, del palagio fuor tutti in un monte

Stannosi; ed ei con solforati fuochi,

Ei, che a te m'inviò nunzia fedele,

La nobile magion purga e risana.

Seguimi adunque; e dopo tanti mali

Ambo schiudete alla letizia il core.

Già questo lungo desiderio antico,

Che distruggeati, cessa: Ulisse vivo

Venne al suo focolare, e nel palagio

Trovò la sposa e il figlio, e di coloro,

Che gli noceano, vendicossi a pieno".

"Tanto non esultar, non trïonfare,

Nutrice mia", Penelope soggiunse,

"Perché t'è noto, quanto caro a tutti,

E sovra tutti a me caro, e al cresciuto

Suo figlio e mio, capiterebbe Ulisse.

Ma tu il ver non parlasti. Un nume, un nume

Fu, che dell'opre ingiuste e de' superbi

Scherni indegnato, mandò all'Orco i proci,

Che dispregiavan sempre ogni novello

Stranier, buon fosse, o reo: quindi perîro.

Ma Ulisse lungi dall'Acaica terra

Il ritorno perdé, perdé la vita".

"Deh quale, o figlia, ti sfuggì parola

Dalla chiostra de' denti?" a lei la vecchia.

"Il ritorno perdé, perdé la vita,

Mentre in sua casa e al focolar suo sacro

Dimora? Il veggio: chiuderai nel petto

Un incredulo cor, finché vivrai.

Se non che un segno manifesto in prova

Ti recherò; la cicatrice onesta

Della piaga, che in lui di guerreggiato

Cinghial feroce il bianco dente impresse;

Quella, i piedi lavandogli, io conobbi

E volea palesartela: ma egli,

Con le mani afferrandomi alla bocca,

D'accortezza maestro, il mi vietava.

Séguimi, io dico. Ecco me stessa io metto

Nelle tue forze: s'io t'avrò delusa,

La morte più crudel fammi morire".

E di nuovo Penelope: "Nutrice,

Chi le vie degli dèi conoscer puote?

Né tu col guardo a penetrarle basti.

Ogni modo a Telemaco si vada,

E la morte de' proci e il nostro io vegga

Liberatore, un uomo ei siasi o un nume".

Detto così, dalla superna stanza

Scese con mente in due pensier divisa:

Se di lontano a interrogar l'amato

Consorte avesse o ad appressarlo in vece,

E nelle man baciarlo e nella testa.

Varcata, entrando, la marmorea soglia,

Da quella parte, contra lui s'assise,

Dinanzi al foco, che su lei raggiava;

Ed ei, poggiato a una colonna lunga,

Sedea con gli occhi a terra, e le parole

Sempre attendea della preclara donna,

Poiché giunti su lui n'eran gli sguardi.

Tacita stette e attonita gran tempo:

Il riguardava con immote ciglia,

E in quel che ravvisarlo ella credea,

Traeanla fuor della notizia antica

Gli abiti vili, onde scorgealo avvolto.

Non si tenne Telemaco, che lei

Forte non rampognasse: "O madre mia,

Madre infelice e barbara consorte,

Perché così dal genitor lontana?

Ché non siedi appo lui? ché non gli parli?

Null'altra fôra così fredda e schiva

Con marito alla patria, ed a lei giunto

Dopo guai molti nel ventesim'anno.

Ma una pietra per cuore a te sta in petto".

E a rincontro Penelope: "Sospesa,

Figlio, di stupor sono, ed un sol detto

Formar non valgo, una dimanda sola,

E né, quant'io vorrei, mirarlo in faccia.

Ma s'egli è Ulisse e la sua casa il tiene,

Nulla più resta che il mio stato inforsi.

Però che segni v'han dal nuzïale

Ricetto nostro impenetrabil tratti,

Ch'esser noti sappiamo a noi due solo".

Sorrise il saggio e pazïente Ulisse,

E converso a Telemaco: "La madre

Lascia", diceagli, "a suo piacer tentarmi:

Svanirà, figlio, ogni suo dubbio in breve.

Perché in vesti mi vede umili e abbiette,

Spregiami, e penetrar non san per queste

Sino ad Ulisse i timidi suoi sguardi,

Noi quel partito consultiamo intanto

Che abbracciar sarà meglio. Uom, che di vita

Spogliò un uom solo e oscuro, e di cui pochi

Sono i vendicator, pur fugge, e il dolce

Nido abbandona ed i congiunti cari.

Or noi della città tolto il sostegno,

E il fior dell'Itacese gioventude

Mietuto abbiamo. Qual è il tuo consiglio?"

E il prudente Telemaco: "A te spetta,

Diletto padre, il consigliar", rispose:

"A te, con cui non v'ha chi d'accortezza

Contendere osi. Io seguirotti pronto

In ogni tuo disegno, e men, cred'io,

Le forze mi verran pria, che il coraggio".

"Questo a me sembra", ripigliava Ulisse.

"Bagnatevi, abbigliatevi, e novelle

Prenda ogni donna e più leggiadre vesti.

Poi con l'arguta cetera il divino

Cantore inviti a una gioconda danza.

Acciò chi di fuori ode, o passa, o alberga

Vicin, le nozze celebrarsi creda.

Così pria non andrà per la cittade

Della strage de' proci il sanguinoso

Grido, che noi non siam nell'ombreggiata

Campagna nostra giunti, in cui vedremo

Ciò che inspirarci degnerà l'Olimpio".

Scoltato ed ubbidito ei fu ad un'ora.

Si bagnâr, s'abbigliâr, vesti novelle

Prese ogni donna, e più fregiata apparve.

Femio la cetra nelle man recossi,

E del canto soave e dell'egregia

Danza il desìo svegliò. Tutta sonava

Quella vasta magion del calpestìo

Degli uomini trescanti e delle donne,

Cui bella fascia circondava i fianchi.

E tal che udìa di fuor, tra sé dicea:

"Alcun per fermo la cotanto ambita

Regina ottenne. Trista! che gli eccelsi

Tetti di quel, cui vergine congiunta

S'era, non custodì, finch'ei venisse".

Così parlava; e di profonda notte

Lo strano caso rimanea tra l'ombre.

In questo mezzo Eurìnome cosperse

Di lucid'onda il generoso Ulisse,

E del biondo licor l'unse, ed il cinse

Di tunica e di clamide: ma il capo

D'alta beltade gl'illustrò Minerva.

Ei de' lavacri uscì pari ad un nume,

E di nuovo s'assise, ond'era sorto,

Alla sua moglie di rincontro, e disse:

"Mirabile! a te più che all'altre donne,

Gli abitatori dell'Olimpie case

Un cuore impenetrabile formâro.

Quale altra accoglierìa con tanto gelo

L'uom suo, che dopo venti anni di duolo

Alla sua patria ritornasse e a lei?

Su via, nutrice, per me stendi un letto,

Dov'io mi corchi, e mi riposi anch'io:

Quando di costei l'alma è tutta ferro".

"Mirabil", rispondea la saggia donna,

"Io né orgoglio di me, né di te nutro

Nel cor disprezzo, né stupor soverchio

M'ingombra: ma guardinga i dèi mi fero.

Ben mi ricorda, quale allor ti vidi,

Che dalle spiagge d'Itaca naviglio

Ti allontanò di remi lungo armato.

Or che badi, Euriclèa, che non gli stendi

Fuor della stanza maritale il denso

Letto, ch'ei di sua mano un dì costrusse,

E pelli e manti e sontuose coltri

Su non vi getti?" Ella così dicea,

Far volendo di lui l'ultima prova.

Crucciato ei replicò: "Donna, parola

T'usci da' labbri fieramente amara.

Chi altrove il letto collocommi? Dura

Al più saputo tornerìa l'impresa.

Solo un nume potrebbe agevolmente

Scollocarlo: ma vivo uomo nessuno,

Benché degli anni in sul fiorir, di loco

Mutar potrìa senza i maggiori sforzi

Letto così ingegnoso, ond'io già fui,

Né compagni ebbi all'opra, il dotto fabbro.

Bella d'olivo rigogliosa pianta

Sorgea nel mio cortile, i rami larga,

E grossa molto, di colonna in guisa.

Io di commesse pietre ad essa intorno

Mi architettai la maritale stanza,

E d'un bel tetto la coversi, e salde

Porte v'imposi e fermamente attate.

Poi, vedovata del suo crin l'oliva,

Alquanto su dalla radice il tronco

Ne tagliai netto, e con le pialle sopra

Vi andai leggiadramente, v'adoprai

La infallibile squadra e il succhio acuto.

Così il sostegno mi fec'io del letto;

E il letto a molta cura io ripolìi,

L'intarsïai d'oro, d'avorio e argento

Con arte varia, e di taurine pelli,

Tinte in lucida porpora, il ricinsi.

Se a me riman, qual fabbricailo, intatto,

O alcun, succiso dell'olivo il fondo,

Portollo in altra parte, io, donna, ignoro".

Questo fu il colpo che i suoi dubbi tutti

Vincitore abbatté. Pallida, fredda,

Mancò, perdé gli spiriti e disvenne.

Poscia corse vêr lui dirittamente,

Disciogliendosi in lagrime; ed al collo

Ambe le braccia gli gettava intorno,

E baciavagli il capo e gli dicea:

"Ah! tu con me non t'adirare, Ulisse,

Che in ogni evento ti mostrasti sempre

Degli uomini il più saggio. Alla sventura

Condannavanci i numi, a cui non piacque

Che de' verdi godesse anni fioriti

L'uno appo l'altro, e quindi a poco a poco

L'un vedesse imbiancar dell'altro il crine.

Ma, se il mirarti e l'abbracciarti un punto

Per me non fu, tu non montarne in ira.

Sempre nel caro petto il cor tremavami,

Non venisse a ingannarmi altri con fole:

Ché astuzie ree covansi a molti in seno.

Né la nata di Giove Elena Argiva

D'amor sarìasi e sonno a uno straniero

Congiunta mai, dove previsto avesse

Che degli Achei la bellicosa prole

Nuovamente l'avrebbe alla diletta

Sua casa in Argo ricondotta un giorno.

Un dio la spinse a una indegna opra; ed ella

Pria che di dentro ne sentisse il danno,

Non conobbe il velen, velen da cui

Tanto cordoglio a tutti noi discorse.

Ma tu mi desti della tua venuta

Certissimo segnale: il nostro letto,

Che nessun vide mai, salvo noi due,

E Attoride la fante, a me già data

Dal padre mio, quand'io qua venni, e a cui

Dell'inconcussa nuzïale stanza

Le porte in guardia son, tu quello affatto

Mi descrivesti; e al fin pieghi il mio core,

Ch'esser potrìa, nol vo' negar, più molle".

A questi detti s'eccitò in Ulisse

Desìo maggior di lagrime. Piagnea,

Sì valorosa donna e sì diletta

Stringendo al petto. E il cor di lei qual era?

Come ai naufraghi appar grata la terra

Se Nettuno fracassò nobile nave,

Che i vasti flutti combatteano e i venti,

Tanto che pochi dal canuto mare

Scampâr nôtando a terra e con le membra

Di schiuma e sal tutte incrostate, e lieti

Su la terra montâr, vinto il periglio:

Così gioìa Penelope, il consorte

Mirando attenta, né staccar sapea

Le braccia d'alabastro a lui dal collo.

E già risorta lagrimosi il ciglio

Visti gli avrìa la ditirosea Aurora,

Se l'occhio azzurro di Minerva un pronto

Non trovava compenso. Egli la Notte

Nel fin ritenne della sua carriera,

Ed entro all'Ocean fermò l'Aurora,

Giunger non consentendole i veloci

Dell'alma luce portator destrieri,

Lampo e Fetonte, ond'è guidata in cielo

La figlia del mattin su trono d'oro.

Ulisse allor queste parole volse

Non liete alla donna: "O donna, giunto

Non creder già de' miei travagli il fine.

Opra grande rimane, immensa, e cui

Fornir, benché a fatica, io tutta deggio.

Tanto mi disse di Tiresia l'ombra

Il dì ch'io per saver del mio ritorno,

E di quel de' compagni, al fosco albergo

Scesi di Dite. Or basta. Il nostro letto

Ci chiama e il sonno, di cui tutta in noi

Entrerà l'ineffabile dolcezza".

E Penelope a lui così rispose:

"Quello a te sempre apparecchiato giace,

Poiché di ritornar ti diêro i numi.

Ma tu quest'opra, di cui qualche dio

Risvegliò in te la rimembranza, dimmi.

Tu non vorrai da me, penso, celarla

Poscia; e il tosto saperla a me par meglio".

"Sventurata, perché", l'altro riprese,

"Tal nel tuo petto e sì fervente brama?

Nulla io t'asconderò: benché goderne

Certo più che il mio core, il tuo non deggia.

L'ombra ir m'impose a città molte, un remo

Ben fabbricato nelle man tenendo,

Né prima il piè fermar, che ad una nuova

Gente io non sia, che non conosce il mare,

Né cosperse di sal vivande gusta,

Né delle navi dalle rosse guance

O de' remi, che sono ale alle navi,

Notizia vanta. E mi diè un segno il vate.

Quel dì, che un altro pellegrino, a cui

M'abbatterò per via, me un ventilabro

Portar dirà su la gagliarda spalla,

Allora, infitto nella terra il remo,

E vittime perfette a re Nettuno

Svenate, un toro, un arïete, un verro,

Riedere io debbo alle paterne case,

E per ordine offrir sacre ecatombi

Agli dèi tutti che in Olimpo han seggio.

Quindi a me fuor del mare, e mollemente

Consunto al fin da una lenta vecchiezza,

Morte sopravverà placida e dolce,

E beate vivran le genti intorno.

Ecco il destin che il tuo consorte aspetta".

Ed ella ripigliò: "Se una vecchiezza

Migliore i dèi prométtonti, che tutta

L'altra etade non fu, t'allegra dunque,

O d'ogni angoscia vincitor felice".

Eurìnome frattanto ed Euriclèa

Di molli coltri e di tappeti il casto

Letto adornavan delle faci al lume.

Ciò in brev'ora compiuto, a' suoi riposi

Euriclèa si ritrasse, ed Eurinòme

In vêr la stanza maritale Ulisse

Precedeva, e Penelope, tenendo

Fiaccola in man: poi ritirossi anch'ella;

E con pari vaghezza i due consorti

Del prisco letto rinnovaro i patti.

Telemaco non meno ed i pastori,

Fatti i lor piè cessar dalla gioconda

Danza, e quei delle donne, al sonno in preda

S'abbandonaro nell'oscura sala.

Ma Penelope e Ulisse un sovrumano

De' mutui lor ragionamenti vari,

Che la notte coprìa, prendean diletto.

Ella narrava, quanto a lei di doglia

Diè la vista de' proci, ed il trambusto

In ch'era la magion, mentre, velando

La loro audacia dell'amor del manto,

Sempre a terra stendean pecora o bue,

E dai capaci dogli il delicato

Vino attigneano. D'altra parte Ulisse

Que' mali, che in se stesso o a gente avversa

Sofferti avea pellegrinando, o inflitti,

Le raccontava: un non so che di dolce

L'anima ricercavale ed a lei,

Finch'ei per tutte andò le sue vicende,

Non abbassava le palpèbre il sonno.

Tolse a dir, come i Cìconi da prima

Vinse, e poi de' Lotòfagi alla pingue

Terra sen venne; e rammentò gli eccessi

Del barbaro Ciclope, e la sagace

Vendetta fatta di color tra i suoi,

Ch'ei metteasi a vorar senza pietade.

Come ad Eolo approdò, da cui gentile

Accoglienza e licenza ebbe del pari:

Ma non ancor gli concedeano i fati

La contrada natìa, donde rapillo

Subitana procella, e sospirante

Molto e gemente, il ricacciò nell'alto.

Quindi l'amaro descriveale arrivo

Alla funesta dalle larghe porte

Cittade de' Lestrìgoni, e gli ancisi

Compagni tanti, e i fracassati legni,

Fuor che uno, sovra cui salvossi appena.

Gli scaltrimenti descrivea di Circe

E il vïaggio impensato in salda nave,

Per consultar del Teban vate l'alma,

Alla casa inamabile di Pluto,

Dove s'offrîro a lui gli antichi amici,

Ombre guerriere, ed Anticlèa, che in luce

Poselo, e intese alla sua infanzia cara.

Aggiunse le Sirene, innanzi a cui

Passare ardì con disarmati orecchi;

E gl'instabili scogli, e la tremenda

Cariddi e Scilla, cui non vider mai

I più destri nocchieri impunemente.

Né l'estinto tacea del Sole armento,

E la vermiglia folgore di Giove

Altitonante, che percosse il legno,

E i compagni sperdé. Campò egli a terra

Solo, e afferrò all'Ogigia isola; ed ivi

Calipso, che bramava essergli sposa,

Il ritenea nelle sue cave grotte,

L'adagiava di tutto, e giorni eterni

Senza canizie prometteagli: pure

Nel seno il cor mai non piegògli. Al fine

Dopo infiniti guai giunse ai Feaci,

Che al par d'un nume l'onorâro, e in nave

Di rame carca e d'oro e di vestiti,

All'aere dolce de' natii suoi monti

Rimandârlo. Quest'ultima parola

Delle labbra gli uscìa, quando soave

Scioglitor delle membra e d'ogni cura

Disgombrator, sovra lui cadde il sonno.

Ma in questo mezzo la Pupilleazzurra

Di Laerte il figliuol non obblïava.

Come le parve ch'ei goduto avesse

Di notturna quïete appo la fida

Moglie abbastanza, incontanente mosse

E a levarsi eccitò dall'Oceàno

Sul trono d'ôr la ditirosea Aurora,

Perché la terra illuminasse e il cielo.

Sorse allora l'eroe dal molle letto,

E questi accenti alla consorte volse:

"Consorte, sino al fondo ambi la coppa

Bevemmo del dolor; tu, che piangevi

Il mio ritorno disastroso, ed io,

Cui Giove e gli altri dèi, dalla bramata

Patria volean tra mille affanni in bando.

Or, che agli Eterni rïunirci piacque,

Cura tu prenderai di quanto in casa

Rèstami; ed io di ciò, che gli orgogliosi

Proci usurpâro a me, parte co' doni

Del popol mio, parte co' miei conquisti,

Ristorerommi a pieno, in sin che tutte

Si rïempian di nuovo a me le stalle.

Io nella folta di diverse piante

Campagna sua corro a veder l'antico

Genitor, che per me tanto dolora.

Tu, benché saggia, il mio precetto ascolta.

Sorto il novello sol, per la cittade

Della morte de' proci andrà la fama.

Sali nell'alto con le ancelle e siedi,

Ed in guisa ivi sta, che non t'accada

Né voce ad alcun volgere, né sguardo".

Detto, vestissi le bell'armi, e il prode

Figlio animava e i due pastori, e a tutti

Prendere ingiunse i marzïali arnesi.

Quelli, obbedendo, armavansi, e, dischiuse

Le porte, uscìano: precedeali Ulisse.

Già si spargea su per la terra il lume;

Ma fuor della città tosto li trasse

Di nube cinti l'Atenèa Minerva.

 

LIBRO XXIV

 

 Mercurio intanto, di Cillene il dio

L'alme de' proci estinti a sé chiamava.

Tenea la bella in man verga dell'oro,

Onde i mortali dolcemente assonna,

Sempre che il vuole, e li dissonna ancora.

Con questa conducea l'alme chiamate,

Che stridendo il seguìano. E come appunto

Vipistrelli nottIvaghi nel cupo

Fondo talor d'una solenne grotta,

Se avvien che alcun dal sasso ove congiunti

L'uno appo l'altro s'atteneano, caschi,

Tutti stridendo allor volano in folla:

Così movean gli spirti, e per la fosca

Via precedeali il mansueto ErmEte.

L'Oceàn trapassavano, e la bianca

Pietra e del sole le lucenti porte,

Ed il popol de' sogni: indi ai vestiti

D'asfodèlo immortale inferni prati

Giunser, dove soggiorno han degli estinti

Le aeree forme e i simulacri ignudi.

L'alma trovâro del Pelìade Achille,

Di Pátroclo, d'Antiloco e d'Aiace,

Che i Danai tutti, salvo il gran Pelìde,

Di corpo superava e di sembiante,

Corona fean di Pèleo al figlio: ed ecco

Dolente presentarsegli lo spirto

Dell'Atride Agamennone, cui tutti

Seguìan coloro che d'Egisto un giorno

Nella casa infedel con lui periro.

Primo gli volse le parole Achille:

Noi credevamti sovra tutti, Atride

Della Grecia gli eroi diletto al vago

Del fulmin Giove, poiché a molta e forte

Gente imperavi sotto l'alte mura

Di Troia, lungo degli Achivi affanno.

Pur te assalir dovea, primo tra quelli

Che ritornâro, la severa Parca,

Da cui scampar non lice ad uom che nacque.

Ché non moristi almeno in quell'eccelso

Grado, di cui godevi, ad Ilio innanzi?

Qual tomba i Greci, che al tuo figlio ancora

Somma gloria sarìa ne' dì futuri,

Non t'avrìano innalzata? Oh miseranda

Fine che in vece ti prescrisse il fato!"

"Felice te", gli rispondea l'Atride,

"Figlio di Pèleo, Achille ai numi eguale,

Tu che a Troia cadesti, e lunge d'Argo,

E a cui de' Greci e de' Troiani i primi,

Che pugnavan per te, cadeano intorno!

Tu de' cavalli immemore e de' cocchi,

Cadaver grande sovra un grande spazio,

Giacevi in mezzo a un vortice di polve;

E noi combattevam da mane a sera,

Né cessava col dì, credo, l'atroce

Pugna ostinata, se da Giove mosso

Gli uni non dividea dagli altri un turbo.

Tosto che fuor della battaglia tratto,

E alle navi per noi condotto fosti,

Asperso prima il tuo formoso corpo

Con tepid'acque e con fragranti essenze,

Ti deponemmo in su funèbre letto;

E molte sovra te lagrime calde

Spargeano i Danai e recideansi il crine.

Ma la tua madre, il grave annunzio udito,

Del mare uscì con le Nereidi eterne,

E un immenso clamor corse per l'onde,

Tal che tremarsi le ginocchia sotto

Gli Achei tutti sentiro. E già salite

Precipitosi avrìan le ratte navi,

S'uom non li ritenea, la lingua e il petto

Pien d'antico saver, Nestor, di cui

Ottimo sempre il consigliar tornava:

"Arrestatevi, Argivi, non fuggite",

Disse il profondo del Nelìde senno,

"O figli degli Achei: questa è la madre,

Ch'esce dall'onda con l'equòree Dive

E al figliuol morto viene". A tai parole

Ciascun risté. Ti circondaro allora

Del vecchio Nereo le cerulee figlie,

Lugubri lai mettendo, e a te divine

Vesti vestiro. Il coro anche plorava

Delle nove sorelle, alternamente

Sciogliendo il canto or l'una, or l' altra; e tale

Il poter fu delle canore Muse,

Che un sol Greco le lagrime non tenne.

Dieci dì e sette ed altrettante notti,

Uomini e dèi ti piangevam del pari:

Ma il giorno che seguì, ti demmo al foco,

E agnelle di pinguedine fiorite

Sgozzammo e buoi dalla lunata fronte.

Tu nelle vesti degli dèi, nel dolce

Mele fosti arso e nel soave unguento;

E mentre ardevi, degli Acaici eroi

Molti corser con l'arme intorno al rogo,

Chi sul cocchio, chi a piedi; ed un rimbombo

Destossi che salì fino alle stelle.

Come consunto la vulcania fiamma,

Achille, t'ebbe, noi le candide ossa,

Del più puro tra i vini e del più molle

Tra gli unguenti irrigandole, su l'Alba

Raccoglievamo; e la tua madre intanto

Portò lucida d'oro urna, che dono

Dicea di Bacco e di Vulcan fattura.

Entro quest'urna le tue candide ossa

Con quelle di Patròclo, illustre Achille,

Giaccion: ed ivi pur, benché disgiunte,

L'ossa posan d'Antìloco, cui tanto

Sovra tutti i compagni onor rendevi,

Spento di vita il Menezìade. Quindi

Massima ergemmo e sontuosa tomba

Noi de' pugnaci Achivi oste temuta,

Su l'Ellesponto, ove più sporge il lido:

Perché chi vive e chi non nacque ancora,

Solcando il mar la dimostrasse a dito.

La madre tua, che interrogonne i numi,

Splendidi in mezzo il campo al fior dell'oste

Giuochi propose. Io molte esequie illustri

Dove all'urna d'un re la gioventude

Si cinge i fianchi, e a lotteggiar s'appresta,

Vidi al mio tempo: ma più assai, che gli altri

Certami tutti, con le ciglia in arco

Quelle giostre io mirai, che per te diede

Sì belle allor la piediargentea Teti.

Così caro vivevi agl'immortali!

Però il tuo nome non si spense teco:

Anzi la gloria tua pel mondo tutto

Rifiorirà, Pelìde, ognor più bella.

Ma io qual pro di così lunga guerra

Da me finita, se cotal ruina

Per man d'Egisto e d'una moglie infame,

Pronta mi tenea Giove al mio ritorno?"

Cotesti avean ragionamenti, quando

Lor s'accostò l'interprete Argicida,

Che de' proci testé da Ulisse vinti

L'alme guidava. Agamennòne e Achille

Non prima li sguardâr che ad incontrarli

Maravigliando mossero. L'Atride

Ratto conobbe Anfimedonte, il caro

Figlio di quel Melanio, onde ospizio ebbe

In Itaca, e così primo gli disse:

"Anfimedonte, per qual caso indegno

Scendeste voi sotterra, eletta gente,

E tutti d'una età? Scêrre i migliori

Meglio non si potrìa nella cittade.

Nettuno forse vi annoiò sul mare,

Fieri venti eccitando e immani flutti?

O v'offesero in terra uomini ostili,

Mentre buoi predavate e pingui agnelle?

O per la patria e per le care donne

Combattendo cadeste? A un tuo paterno

Ospite, che tel chiede, manifesta.

Non ti ricorda di quel tempo, ch'io

Col divin Menelao venni al tuo tetto,

Ulisse a persuader, che su le armate

Di saldi banchi e ben velate navi

Ci accompagnasse a Troia? Un mese intero

Durò il passaggio per l'immenso mare,

Poiché svelto da noi fu a stento il prode

Rovesciator delle cittadi Ulisse".

E di rincontro Anfimedonte: "O figlio

Glorïoso d'Atrèo, re delle genti,

Serbo in mente ciò tutto; e qual reo modo

Ci toccasse di morte, ora io ti narro.

D'Ulisse, ch'era di molt'anni assente,

La consorte ambivamo. Ella nel core

Morte a noi macchinava, e non volendo

Né rifiutar, né trarre a fin le nozze,

Un compenso inventò. Mettea la trama

In sottile ampia, immensa tela ordita

Da lei nel suo palagio; e, noi chiamati:

"Giovinetti", dicea, "miei proci, Ulisse

Sensa dubbio morì. Tanto a voi dunque

Piaccia indugiar le nozze mie ch'io questo

Lugubre ammanto per l'eroe Laerte,

Onde a mal non mi vada il vano stame,

Pria fornir possa, che la negra il colga

D'eterno sonno apportatrice Parca.

Volete voi che mòrdanmi le Achee,

Se ad uom, che tanto avea d'arredi vivo,

Fallisse un drappo, in cui giacersi estinto?"

Con siffatte parole il core in petto

Ci tranquillò. Tessea di giorno intanto

L'insigne tela e la stessea di notte,

Di mute faci al consapevol raggio.

Un trïennio così nella sua frode

Celavasi e tenea gli Achivi a bada.

Ma sorgiunto il quart'anno, e le stagioni,

Uscendo i mesi, nuovamente apparse,

E compiuta de' giorni ogni rivolta,

Noi, da un ancella non ignara instrutti,

Penelope trovammo al suo notturno

Retrogrado lavoro, e ripugnante

Pur di condurlo la sforzammo a riva.

Quando ci mostrò alfin l'inclito ammanto,

Che risplendea, come fu asterso tutto,

Del sole al pari o di Selene, allora

Ulisse, non so d'onde, un genio avverso

Menò al confin del campo, ove abitava

Il custode de' verri, ed ove giunse

D'Ulisse il figlio, che ritorno fea

Dall'arenosa Pilo in negra nave.

Morte a noi divisando, alla cittade

Vennero; innanzi il figlio e il padre dopo.

Questi in lacero arnese e somigliante

A un infelice paltoniere annoso,

Che sul bastone incurvasi, condotto

Fu dal pastor de' verri; i più meschini

Vestiti appena il ricoprìan, né alcuno

Tra i più attempati ancor, seppe di noi,

Com'ei s'offerse, ravvisarlo. Quindi

Motteggi e colpi le accoglienze fûro.

Colpi egli pazïente in sua magione

Per un tempo soffrìa, non che motteggi;

Ma, come spinto dall'Egìoco Giove

Sentissi, l'armi dalla sala tolse,

E con l'aìta del figliuol nell'alto

Le serrò del palagio. Indi con molto

Prevedimento alla reina ingiunse

Che l'arco proponesse e il ferro ai proci:

Funesto gioco, che finì col sangue.

Nessun di noi del valid'arco il nervo

Tender potea: ché opra da noi non era.

Ma dell'eroe va in man l'arma. Il pastore

Noi tutti sgridavam, perché all'eroe

Non la recasse. Indarno fu. Telemaco

Comandògli recarla, e Ulisse l'ebbe.

Ei, prese in man l'arco famoso, il tese

Così e il tirò, che ambo le corna estreme

Si vennero ad unir: poi la saetta

Per fra tutti gli anei sospinse a volo.

Ciò fatto, stette in su la soglia, e i ratti

Strali versossi ai piedi, orrendamente

Guardando intorno. Antìnoo colse il primo,

E dopo lui, sempre di contra or l'uno

Tolto e or l'altro di mira, i sospirosi

Dardi scoccava, e cadea l'un su l'altro.

Certo un nume l'aitava. I suoi compagni,

Seguendo qua e là l'impeto suo,

A gara trucidavanci: lugùbri

Sorgean lamenti, rimbombar s'udìa

Delle teste percosse ogni parete;

E correa sangue il pavimento tutto.

Così, Atride, perimmo e i nostri corpi

Giaccion negletti nel cortil d'Ulisse:

Poiché nulla ne san gli amici ancora,

Che dalla tabe a tergerci e dal sangue

Non tarderìano e a piangerci deposti,

De' morti onor, sovra un funèbre letto".

"O fortunato", gridò allor l'Atride

"Di Laerte figliuol, con qual valore

La donna tua riconquistasti! E quanto

Saggia o memore ognor dell'uomo, a cui

Nel pudico suo fiore unita s'era

Visse d'Icario la figliuola illustre!

La rimembranza della sua virtude

Durerà sempre, e amabile ne' canti

Ne sonerà per l'universo il nome.

Non così la Tindaride, che, osando

Scellerata opra, con la man, che data

Vergine aveagli, il suo marito uccise.

Costei fia tra le genti un odïoso

Canto perenne: ché di macchia tale

Le donne tutte col suo fallo impresse,

Che le più oneste ancor tinte n'andranno".

Tal nell'oscure, dove alberga Pluto,

Della terra caverne, ivan quell'alme

Di lor vicende ragionando insieme.

Ulisse e il figlio intanto e i due pastori

Giunser, dalla città calando, in breve

Del buon Laerte al poder culto e bello,

De' suoi molti pensier frutto, e de' molti

Studi e travagli suoi. Comoda casa

Gli sorgea quivi di capanne cinta,

Ove cibo e riposo ai corpi, e sonno

Davan famigli, che, richiesti all'uopo

Delle sue terre, per amor più ancora,

Che per dover, servìanlo; ed una buona

Pur v'abitava Siciliana fante,

Che in quella muta solitudin verde

De' canuti anni suoi cura prendea.

Ulisse ai due pastori e al caro pegno:

"Entrate", disse, "nella ben construtta

Casa, e per cena un de' più grassi porci

Subito apparecchiate. Io voglio il padre

Tentar, s'ei dopo una sì lunga assenza

Mi ravvisa con gli occhi, o estinta in mente

Gli abbia di me la conoscenza il tempo".

Detto, consegnò lor l'armi; e Telemaco,

E i due pastor rapidi entrâro. Ulisse

Del grande orto pomifero alla volta

Mosse, né Dolio, discendendo in quello,

Trovò, né alcun de' figli o degli schiavi,

Che tutti a raccôr pruni, onde il bell'orto

D'ispido circondar muro campestre,

S'eran rivolti; e precedeali Dolio.

Sol trovò il genitor, che ad una pianta

Curvo zappava intorno. Il ricoprìa

Tunica sozza ricucita e turpe:

Dalle punture degli acuti rovi

Le gambe difendevan gli schinieri

Di rattoppato cuoio e le man guanti:

Ma berretton di capra in su la testa

Portava il vecchio; e così ei la doglia

Nutriva ed accrescea nel caro petto.

Tosto che Ulisse l'avvisò dagli anni

Suoi molti, siccom'era, e da' suoi molti

Mali più ancor, che dall'età, consunto,

Lagrime, stando sotto un alto pero,

Dalle ciglia spandea. Poi nella mente

Volse e nel cor, qual de' due fosse il meglio,

Se con amplessi a lui farsi e con baci,

E narrar del ritorno il quando e il come,

O interrogarlo prima, e punzecchiarlo

Con detti forti risvegliando il duolo,

Per raddoppiar la gioia; e a ciò s'attenne.

Si drizzò dunque a lui, che basso il capo

Tenea zappando ad una pianta intorno,

E: "Vecchio", disse, "della cura ignaro,

Cui domanda il verzier, certo non sei,

Arbor non v'ha, non fico, vite, oliva

Che l'abil mano del cultor non mostri,

Né sfuggì all'occhio tuo di terra un palmo.

Altro, e non adirartene, io dirotti:

Nulla è negletto qui, fuorché tu stesso.

Coverto di squallor véggioti e avvolto

In panni rei, non che dagli anni infranto.

Se mal ti tratta il tuo signor, per colpa

Della pigrizia tua non è ciò, penso:

Anzi tu nulla di servil nel corpo

Tieni o nel volto, chi ti guarda fisso.

Somigli ad un re nato; ad uom somigli,

Che, dopo il bagno e la gioconda mensa,

Mollemente dormir debba su i letti

Com'è l'usanza de' vegliardi. Or dimmi

Preciso e netto chi tu servi, e a cui

L'orto governi, e fa' ch'io sappia in oltre,

Se questa è veramente Itaca, dove

Son giunto, qual testé colui narrommi

Che in me scontrossi, uom di non molto senno,

Quando né il tutto raccontar, né volle

Me udir, che il richiedea, se in qualche parte

D'Itaca un certo vive ospite mio,

O morte il chiude la magion di Dite.

A te parlerò in vece, e tu l'orecchio

Non ricusar di darmi. Ospite un tale

Nella mia patria io ricevei, di cui

Non venne di lontano al tetto mio

Forestier mai, che più nel cor m'entrasse.

Nato ei diceasi in Itaca, e Laerte,

D'Arcesio il figlio, a genitor vantava.

Il trattai, l'onorai, l'accarezzai

Nel mio di beni ridondante albergo,

E degni in sul partir doni io gli porsi:

Sette di lavorato oro talenti,

Urna d'argento tutta e a fiori sculta,

Dodici vesti tutte scempie, e tanto

Di tappeti, di tuniche e di manti;

E quattro belle, oneste, e di lavori

Femmine sperte ch'egli stesso elesse".

"Stranier", rispose lagrimando il padre,

"Sei nella terra di cui chiedi, ed ove

Una pessima gente ed oltraggiosa

Regna oggidì. Que' molti doni, a cui

Ei con misura eguale avrìa risposto,

Come degno era bene, or, che qui vivo

Nol trovi più, tu gli spargesti al vento.

Ma schiettamente mi favella: quanti

Passâro anni dal dì che ricevesti

Questo nelle tue case ospite gramo,

Che s'ei vivesse ancor sarìa il mio figlio?

Misero! in qualche parte, e dalla patria

Lungi, o fu in mar pasto de' pesci, o in terra

De' volatori preda e delle fere:

Né ricoperto la sua madre il pianse,

Né il pianse il genitor; né la dotata

Di virtù, come d'ôr, Penelopèa

Con lagrime onorò l'estinto sposo

Sopra fùnebre letto, e gli occhi prima

Non gli compose con mal ferma destra.

Ciò palesami ancor: chi sei tu? e donde?

Dove a te la città? la madre? il padre?

A qual piaggia s'attiene il ratto legno

Che te condusse e i tuoi compagni illustri?

O passeggier venisti in nave altrui,

E, te sbarcato, i giovani partiro?"

"Tutto", riprese lo scaltrito eroe,

"Narrerò acconciamente. Io figlio sono

Del re Polipemònide Afidante.

In Alibante nacqui, ove ho un eccelso

Tetto, e mi chiamo Epèrito. Me svelse

Dalla Sicilia un Genio avverso, e a queste

Piagge sospinse; ed or vicino ai campi,

Lungi della città, stassi il mio legno.

Volge il quint'anno omai che Ulisse sciolse

Dalla mia patria. Sventurato! a destra

Gli volavano allor gli augelli, ed io

Lui, che lieto partì, congedai lieto:

Quando ambi speravam che rinnovato

L'ospizio avremmo e ricambiati i doni".

Disse, e fosca di duol nube coverse

La fronte al padre, che la fulva polve

Prese ad ambo le mani, e il venerando

Capo canuto se ne sparse, mentre

Nel petto spesseggiavangli i sospiri.

Ulisse tutto commoveasi dentro,

E un acre si sentìa pungente spirto

Correre alle narici, il caro padre

Mirando attento: al fin su lui gittossi,

E stretto il si recava in fra le braccia,

E il baciava più volte, e gli dicea:

"Quell'io, padre, quell'io, che tu sospiri,

Ecco nel ventesmo anno in patria venni.

Cessa dai pianti, dai lamenti cessa,

E sappi in breve, perché il tempo stringe,

Ch'io tutti i proci uccisi, e vendicai

Tanti e sì gravi torti in un dì solo".

"Ulisse tu?" così Laerte tosto,

"Tu il figlio mio? Dammene un segno, e tale,

Che in forse io non rimanga un solo istante".

E Ulisse: "Pria la cicatrice mira

Della ferita che cinghial sannuto

M'aperse un dì sovra il Parnaso, quando

Ad Autolico io fui per quei che in Itaca

M'avea doni promessi, accompagnando

Col moto della testa i detti suoi.

Gli arbori inoltre io ti dirò, di cui

Nell'ameno verzier dono mi festi.

Fanciullo io ti seguìa con ineguali

Passi per l'orto, e or questo árbore, or quello

Chiedeati; e tu, come andavam tra loro,

Mi dicevi di lor l'indole e il nome.

Tredici peri a me donasti e dieci

Meli e fichi quaranta, e promettesti

Ben cinquanta filari anco di viti,

Che di bella vendemmia eran già carche:

Poiché vi fan d'ogni sorta uve, e l'Ore,

Del gran Giove ministre, i lor tesori

Versano in copia su i fecondi tralci".

Quali dar gli potea segni più chiari?

Laerte, a cui si distemprava il core,

E vacillavan le ginocchia, avvolse

Subito ambe le mani al collo intorno

Del figlio; e il figlio lui, ch'era di spirti

Spento affatto, a sé prese ed il sostenne.

Ma come il fiato in seno, e nella mente

I dispersi pensieri ebbe raccolti:

"O Giove padre", sclamò egli, "e voi,

Numi, voi certo su l'Olimpo ancora

Siete e regnate ancor, se la dovuta

Pena portâr de' lor misfatti i proci.

Ma un timore or m'assal, non gl'Itacesi

Vengan tra poco a queste parti in folla,

E messi qua e là mandino a un tempo

De' Cefalleni alle città vicine.

"Sta di buon core", gli rispose Ulisse,

"Né ti prenda di ciò cura o pensiero.

Alla magion, che non lontana siede,

Moviamo: io là Telemaco invïai

Con Filezio ed Eumèo, perché allestita

Prestamente da lor fosse la cena".

In via, ciò detto, entraro, e, come giunti

Fûro al rural non disagiato albergo,

Telemaco trovâr co' due pastori,

Che incidea molte carni, ed un possente

Vino mescea. La Siciliana fante

Lavò Laerte e di biond'olio l'unse

E d'un bel manto il rivestì: ma Palla,

Scesa per lui di ciel, le membra crebbe

De' popoli al pastore; e di persona

Più alto il rese, e più ritondo in faccia.

Maravigliava Ulisse, allor che il vide

Simile in tutto agl'Immortali, e: "Padre",

Disse, "opra fu, cred'io, d'un qualche nume

Cotesta tua statura, e la novella

Beltà, che in te dopo i lavacri io scorgo".

"Oh", riprese Laerte, "al padre Giove

Stato fosse e a Minerva e a Febo in grado,

Che quale allora io fui, che su la terra

Continental, de' Cefalleni duce,

La ben construtta Nerico espugnai,

Tal potuto avess'io con l'arme in dosso

Starmi al tuo fianco nella nostra casa,

E i proci ributtar, quando per loro

Splendea l'ultimo sol! Di loro a molti

Sciolte avrei le ginocchia, e a te sarebbe

Infinito piacer corso per l'alma".

Così Laerte e il figlio. E già, cessata

Dell'apparecchio la fatica, a mensa

Tutti sedeansi. Non aveano ai cibi

Stese l'avide man, che Dolio apparve.

E seco i figli dal lavoro stanchi:

Poiché uscita a chiamarli era la buona

Sicula madre, che nudrìali sempre,

E il vecchio Dolio dall'etade oppresso

Con amor grande governava. Ulisse

Veduto e ravvisatolo, restâro

Tutti in un piè di maraviglia colmi:

Ma ei con blande voci: "O vecchio", disse,

Siedi alla mensa, e lo stupor deponi.

Buon tempo è già che, desïando ai cibi

Stender le nostre mani, e non volendo

Cominciar senza voi, cen rimanemmo".

Dolio a tai detti con aperte braccia

Mosse dirittamente incontro a Ulisse,

E la man, che afferrò, baciògli al polso.

Poi così gli dicea: "Signor mio dolce,

S'è ver che a noi, che di vederti brama

Più assai che speme, chiudevam nel petto,

Te rimenâro alfin gli stessi numi,

Vivi, gioisci, d'ogni dolce cosa

Ti consolino i dèi. Ma dimmi il vero:

Sa la regina per indizio certo

Che ritornasti, o vuoi che a rallegrarla

Di sì prospero evento un nunzio corra?"

"Dolio", ripigliò Ulisse, "la regina

Già il tutto sa. Perché t'affanni tanto?"

Il vecchio allora sovra un polito scanno

Prontamente sedé. Né men di lui,

Festa feano ad Ulisse i suoi figliuoli,

E or l'un le mani gli afferrava, or l'altro:

Indi sedean di sotto al caro padre

Conforme all'età loro. Ed in tal guisa

Della mensa era quivi ogni pensiero.

La fama intanto il reo destin de' proci

Per tutta la città portava intorno.

Tutti, sentite le funeste morti,

Chi di qua chi di là, con urli e pianti

Venìan d'Ulisse al tetto, e i corpi vani

Fuor ne traeano, e li ponean sotterra.

Ma quei, cui diede altra isola il natale,

Mettean su ratte pescherecce barche,

E ai lor tetti mandavanli. Ciò fatto,

Nel Foro s'adunâr dolenti e in folla.

Come adunati fûr, surse tra gli altri

Eupite, a cui per Antinòo sua prole,

Che primo cadde della man d'Ulisse,

Stava nell'alma un indelebil duolo.

Questi arringò, piangendo amaramente:

"Amici, qual costui strana fortuna

Agli Achei fabbricò! Molti ed egregi,

Ne addusse prima su le navi a Troia,

E le navi perdette, ed i compagni

Seppellì in mar: poi nella propria casa,

Tornato, altri ne spense, e d'Aide ai regni

Mandò di Cefallenia i primi lumi.

Su via, pria ch'egli a Pilo, e alla regnata

Dagli Epei divina Elide ricovri,

Vadasi; o infamia patiremo eterna.

Sì, l'onta nostra ne' futuri tempi

Rimbombar s'udrà ognor, se gli uccisori

De' figli non puniamo e de' fratelli.

Io certo più viver non curo, e, dove

Subito non si vada, e la lor fuga,

Non si prevenga, altro io non bramo, o voglio,

Salvo che rïunirmi ombra a quell'ombre.

Così ei, non restandosi dal pianto;

E la pietade in ogni petto entrava.

Giunsero allor dalla magion d'Ulisse

Medonte araldo ed il cantor divino,

Dal sonno sviluppatisi, e nel mezzo

Si collocâro. Alto stupore invase

Tutti, e il saggio Medonte i labbri aperse:

"O Itacesi, uditemi. Credete

Voi che Ulisse abbia tolto impresa tale

Contra il voler de' sempiterni? Un dio

Vidi io stesso al suo fianco, un dio, che affatto

Mentore somigliava. Or gli apparìa

Davanti, in atto d'animarlo, ed ora

Per l'atterrita sala impeto fea,

Sgominando gli Achei, che l'un su l'altro

Traboccavano". Disse; e di tai detti

Inverdì a tutti per timor la guancia.

Favellò ancor nel Foro un vecchio eroe,

Aliterse Mastòride, che solo

Vedea gli andati ed i venturi tempi,

E che, sentendo rettamente, disse:

"Or me udite, Itacesi. Egli è per colpa

Vostra che ciò seguì: però che sordi

Agli avvisi di Mentore ed a' miei,

Lasciar le briglie sovra il collo ai vostri

Figli vi piacque, che al mal far dirotti

La davano pel mezzo in ogni tempo,

Le sostanze rodendo, e ingiurïando

La casta moglie d'un signor preclaro,

Di cui sogno parea loro il ritorno.

Obbeditemi al fin, mossa non fate:

Onde pur troppo alcun quella sventura,

Che sarà ito a ricercar, non trovi".

Tacque; e s'alzaro i più con grida e plausi.

Gli altri uniti rimasero: ché loro

Non gustò il detto, ma seguìano Eupìte.

Poscia, chi qua, chi là, correano all'armi.

Cinti e splendenti del guerrier metallo

Si raccolser davanti alla cittade

Quasi in un globo; ed era incauto duce

Della stoltezza loro Eupìte stesso.

Credea la morte vendicar del figlio,

E lui, che redituro indi non era,

Coglier dovea la immansueta Parca,

Pallade, il tutto visto, al Saturnide

Si converse in tal guisa: "O nostro padre,

Di Saturno figliuol, re de' regnanti,

Mostrami ciò che nel tuo cor s'asconde.

Prolungar vuoi la guerra e i fieri sdegni?

O accordo tra le parti, e amistà porre?"

"Perché di questo mi richiedi, o figlia?"

Il nembifero Giove a lei rispose.

"Non fu consiglio tuo, che ritornato

Punisse i proci di Laerte il figlio?

Fa' come più t'aggrada: io quel che il meglio

Parmi, dirò. Poiché l'illustre Ulisse

De' proci iniqui vendicossi, ei fermi

Patto eterno con gli altri, e sempre regni.

Noi la memoria delle morti acerbe

In ogni petto cancelliam: risorga

Il mutuo amor nella città turbata,

E v'abbondin, qual pria, ricchezza e pace".

Con questi detti stimolò la diva,

Ch'era per sé già pronta, e che dall'alte

D'Olimpo cime rapida discese.

Ulisse intanto, che con gli altri avea

Sotto il campestre di Laerte tetto

Rinfrancati del cibo omai gli spirti:

"Esca", disse, "alcun fuori, e attento guardi

Se alla volta di noi vengon gli Achei".

Subitamente uscì di Dolio un figlio,

E su la soglia stette, e non lontani

Scôrse i nemici: "All'armi! All'armi!" ei tosto

Gridò, "vicini sono". Ulisse allora

Ed il figlio sorgeano e i due pastori.

E l'armi rivestìano: i sei figliuoli

Rivestìanle di Dolio, e poi gli stessi

Dolio e Laerte. In così picciola oste

Anco i bianchi capei premer dee l'elmo.

Ratto che armati fûr, le porte aperte,

Tutti sboccâro: precedeali Ulisse.

Né di muover con lor lasciò la figlia

Di Giove, Palla, a Mentore nel corpo

Tutta sembiante e nella voce. Ulisse

Mirolla e n'esultava, e volto al figlio:

"Telemaco", dicea, "nella battaglia,

Ove l'imbelle si conosce e il prode,

Deh non disonestar la stirpe nostra,

Che per forza e valor fu sempre chiara".

E Telemaco a lui: "Padre diletto,

Vedrai, spero, se vuoi, ch'io non traligno".

Gioì Laerte, ed esclamò: "Qual sole

Oggi risplende in cielo, amati numi!

Gareggian di virtù figlio e nipote.

Giorno più bello non mi sorse mai".

Qui l'appressò con tali accenti in bocca

La diva che ne' begli occhi azzurreggia:

"O d'Arcesio figliuol, che a me più caro,

Sei d'ogni altro compagno, a Giove alzáti

Prima, e alla figlia dal ceruleo sguardo,

Devotamente i prieghi tuoi, palleggia

Cotesta di lunga ombra asta, e l'avventa".

Così dicendo, una gran forza infuse

In Laerte Minerva. Il vecchio, a Giove

Prima e alla figlia dal ceruleo sguardo,

Alzati i prieghi, palleggiò la lunga

Sua lancia ed avventolla, e in fronte a Eupìte

Il forte trapassando elmo di rame,

La piantò e immerse: con gran suono Eupìte

Cadde, e gli rimbombâr l'armi di sopra.

Si scagliâro in quel punto Ulisse e il figlio

Contra i primieri, e con le spade scempio

Ne feano, e con le lance a doppio filo.

E già nessuno alla sua dolce casa

Tornato fora degli Achei, se Palla,

Dell'Egìoco la figlia, un grido messo,

Non mutava i lor cuori: "Cittadini

D'Itaca, fine all'aspra guerra. Il campo

Lasciate tosto, e non più sangue". Disse;

Ed un verde pallor tinse ogni fronte.

L'armi scappavan dalle man tremanti,

D'aste coverto il suolo era e di brandi,

Levata che Minerva ebbe la voce;

E tutti avari della cara vita

Alla città si rivolgeano. Ulisse

Con un urlo, che andò sino alle stelle,

Inseguìa ratto i fuggitivi, a guisa

D'aquila tra le nubi altovolante.

Se non che Giove il fulmine contorse;

E alla Sguardoazzurrina innanzi ai piedi

Cascò l'eterea fiamma: "O generoso",

Così la diva, "di Laerte figlio,

Contienti e frena il desiderio ardente

Della guerra, che a tutti è sempre grave,

Non contro a te di troppa ira s'accenda

L'ampia veggente di Saturno prole".

Obbedì Ulisse e s'allegrò nell'alma.

Ma eterno poi tra le due parti accordo

La figlia strinse dell'Egìoco Giove

Che a Mentore nel corpo e nella voce

Rassomigliava, la gran dea d'Atene.