Odissea
LIBRO XVII
Tosto
che aperse del mattin la figlia
Con
rosea man l'eteree porte al Sole,
Telemaco,
d'Ulisse il caro germe,
Che
inurbarsi volea, sotto le piante
S'avvinse
i bei calzari, e la nodosa
Lancia
che in man ben gli s'attava, tolse,
E queste
al suo pastor drizzò parole:
"Babbo,
a cittade io vo, perché la madre
Véggami,
e cessi il doloroso pianto,
Che
altramente cessar, credo, non puote.
Tu
l'infelice forestier la vita
Guìdavi a mendicar: d'un pan, d'un colmo
Nappo
non mancherà chi lo consoli:
Nello
stato in ch'io sono, a me non lice
Sostener
tutti. Monteranne in ira?
Non
farà che il suo male. Io dal mio lato
Parlerò
sempre con diletto il vero".
"Amico",
disse allora il saggio Ulisse,
"Partire
intendo anch'io. Più che ne' campi,
Nella
cittade accattar giova: un frusto
Chi
vorrà, porgerammi. In più d'etade
Non
sono a rimaner presso le stalle,
E
obbedire un padron, checché m'imponga.
Tu
vanne: a me quest'uom sarà per guida,
Come tu
ingiungi, sol che prima il foco
Mi
scaldi alquanto, e più s'innalzi il Sole.
Triste,
qual vedi, ho vestimenta, e guardia
Prender
degg'io dal mattutino freddo,
Che sul
cammin che alla città conduce
Ed è,
sento, non breve, offender puommi".
Telemaco
senz'altro in via si pose,
Mutando
i passi con prestezza, e mali
Nella sua
mente seminando ai proci.
Come fu
giunto al ben fondato albergo,
Portò
l'asta, e appoggiolla ad una lunga
Colonna,
e in casa, la marmorea soglia
Varcando,
penetrò. Primiera il vide
La
nutrice Euriclèa, che le polite
Pelli
stendea su i varïati seggi,
E a lui
diritta, lagrimando, accorse:
Poi
tutte gli accorrean l'altre d'Ulisse
Fantesche
intorno, e tra le braccia stretto
Su le
spalle il baciavano e sul capo.
Frattanto
uscìa della secreta stanza,
Pari a
Dïana e all'aurea Vener pari,
La
prudente Penelope, che al caro
Figlio
gettò le man, piangendo, al collo,
E la
fronte baciògli ed ambo gli occhi
Stellanti;
e non restandosi dal pianto:
"Telemaco",
gli disse, "amata luce,
Venisti
adunque! Io non credea più i lumi,
Fissare
in te, dacché una ratta nave,
Contra
ogni mio desir, dietro alla fama
Del
genitor furtivamente a Pilo
T'addusse.
Parla: quale incontro avesti?"
"Madre,
del grave rischio ond'io campai",
Replicava
Telemaco, "il dolore
Non
rinnovarmi in petto e lo spavento.
Ma in
alto sali con le ancelle: quivi
Lavata
e cinta d'una pura veste
Le
membra delicate, a tutti i numi
Ecatombe
legittime prometti,
Se mi
consente il vendicarmi Giove.
Io per
un degno forestier, che venne
Meco da
Pilo, andrò alla piazza. Innanzi
Co'
miei fidi compagni io lo spedii,
E commisi
a Pirèo, che in una magione
L'introducesse
e fino al mio ritorno
Con
onore il trattasse e con affetto".
Non
indarno ei parlò. Lavata e cinta
Di
veste pura il delicato corpo,
Penelope
d'intègre a tutti i numi
Ecatombe
votavasi, ove al figlio
Il
vendicarsi consentisse Giove.
Né
Telemaco a uscir fuor del palagio
Molto
tardò: l'asta gli empiea la mano,
E due
bianchi il seguìan cani fedeli.
Stupìa
ciascun, mentr'ei mutava il passo:
Tal
grazia sovra lui Palla diffuse.
Gli
alteri proci stavangli da questo
Lato e
da quel, voci parlando amiche,
Ma nel
profondo cor fraudi covando.
Se non
ch'ei tosto si sciogliea da essi;
E là,
dove sedea Mentore, dove
Antifo
ed Aliterse, che paterni
Gli
eran compagni dalla prima etade,
A posar
s'avvïò: quei d'ogni cosa
L'addimandaro.
Sopraggiunse intanto
Pirèo,
lancia famosa, il qual nel foro
Per la
cittade il forestier menava,
A cui
s'alzò Telemaco e s'offerse.
E così
primo favellò Pirèo:
"Telemaco,
farai che al mio soggiorno
Vengan
le donne tue per que' superbi
Doni,
onde Menelao ti fu cortese".
E il
prudente Telemaco: "Pirèo,
Ignoto
è ancor di queste cose il fine.
Se i
proci, me secretamente anciso,
Tutto
divideransi il mio retaggio,
Prima
che alcun di loro, io di que' doni
Vo' che
tu goda. E dove io lor dia morte
A me
lieto recar li potrai lieto".
Disse,
e guidò nella sua bella casa
L'ospite
sventurato. Ivi, deposte
Sovra i
troni le clamidi vellute,
Sceser
nel bagno: e come astersi ed unti
Per le
servili man fûro, e di manto
Vago e
di vaga tunica vestiti,
Su i
ricchi seggi a collocarsi andaro.
E qui
l'ancella da bell'aureo vaso
Purissim'acqua
nel bacil d'argento
Versava,
e stendea loro un liscio desco,
Su cui
la saggia dispensiera i bianchi
Pani
venne ad imporre, e non già poche
Delle
dapi non fresche, ond'è custode.
Penelope
sedea di fronte al caro
Figlio,
e non lungi dalle porte; e fini
Velli
purpurei, a una polita sede
Poggiandosi,
torcea. Que' due la destra
Stendeano
ai cibi: nè fu pria repressa
La fame
loro, e la lor sete spenta,
Che in
tai voci la madre i labbri apriva:
"Io,
figlio, premerò, salita in alto,
Quel
che divenne a me lugubre letto
Dappoi
che Ulisse inalberò le vele
Co'
figliuoli d'Atrèo; lugubre letto,
Ch'io
da quel giorno del mio pianto aspergo.
Non
vorrai dunque tu, prima che i proci
Entrino
alla magion, dirmi, se nulla
Del
ritorno del padre udir t'avvenne?"
E il
prudente Telemaco a rincontro:
"Madre,
il tutto io dirò. Pilo trovammo
Ed il
pastor de' popoli Nestorre.
Qual
padre accoglie con carezze un figlio
Dopo
lunga stagion d'altronde giunto,
Tal me
in sua reggia e tra l'illustre prole,
La
bianca testa di Nestorre accolse.
Ma
diceami, che nulla udì d'Ulisse,
O vivo
fosse, o fatto polve ed ombra.
Quindi
al pugnace Menelao mandommi
Con
buon cocchio e destrieri; ed io là vidi
L'argiva
Elèna, per cui Teucri e Greci,
Così
piacque agli dèi, tanto sudâro.
Il
bellicoso Menelao repente
Chiedeami,
qual bisogno alla divina
Sparta
m'avesse addotto. Io non gli tacqui
Nulla,
e l'Atride: "Ohimè! d'un eroe dunque
Volean
giacer nel letto uomini imbelli?
Siccome
allor che malaccorta cerva,
I
cerbiatti suoi teneri e lattanti
Deposti
in tana di leon feroce,
Cerca,
pascendo, i gioghi erti e l'erbose
Valli
profonde: e quello alla sua cava
Riede
frattanto e cruda morte ai figli
Porta,
e alla madre ancor: non altrimenti
Porterà
cruda morte ai proci Ulisse.
Ed oh
piacesse a Giove, a Febo e a Palla,
Che
qual si levò un dì contra l'altero
Filomelìde
nella forte Lesbo,
E tra
le lodi degli Achivi a terra
Con
mano invitta, lotteggiando, il pose,
Tal
costoro affrontasse! Amare nozze
Foran
le loro, e la lor vita un punto.
Quanto
alla tua domanda", il re soggiunse,
"Ciò
raccontarti senza fraude intendo
Che un
oracol verace, il marin vecchio
Proteo,
svelommi. Asseverava il nume
Che
molte e molte lagrime dagli occhi
Spargere
il vide in solitario scoglio,
Soggiorno
di Calipso, inclita ninfa,
Che
rimandarlo niega; ond'ei, cui solo
Non
avanza un naviglio, e non compagni
Che il
careggin del mar su l'ampio dorso,
Star
gli convien della sua patria in bando".
Ciò in
Isparta raccolto, io ne partii:
E un
vento in poppa m'inviâro i numi,
Che
rattissimo ad Itaca mi spinse.
Con tai
voci Telemaco alla madre
L'anima
in petto scompigliava. Insorse
Teoclimèno
allora: "O veneranda
Della
gran prole di Laerte donna,
Tutto
ei già non conobbe. Odi i miei detti:
Vero e
intégro sarà l'oracol mio.
Primo
tra i numi in testimonio Giove
E la
mensa ospital chiamo ed il sacro
Del
grande Ulisse limitar, cui venni:
Lo
sposo tuo nella sua patria terra
Siede o
cammina, le male opre ascolta,
E morte
a tutti gli orgogliosi proci
Nella
sua mente sémina. Mel disse
Chiaro
dal cielo un volator, ch'io scôrsi,
E al
tuo figlio mostrai, sedendo in nave".
E la
saggia Penelope: "Deh questo,
Ospite,
accada! Tali e tanti avresti
Del mio
sincero amor pegni, che ognuno
Ti
chiamerìa, scontrandoti, beato".
Mentre
così parlando, e rispondendo
Di
dentro ivan la madre, il figlio e il vate,
Gli
alteri proci alla magion davante
Dischi
lanciavan per diletto, e dardi
Sul
pavimento lavorato e terso,
Della
baldanza lor solito arringo.
Ma
giunta l'ora della mensa, e addotte
Le
vittime da tutti intorno i campi,
Medonte,
che nel genio ai proci dava
Più che
altro in fra gli araldi e ai lor banchetti
Sempre
assistea: "Giovani", disse, "quando
Godeste
omai de' giochi, entrar v'aggradi,
Sì che
il convivio s'imbandisca. Ingrata
Cosa
non parmi il convivare al tempo".
Sursero
immantinente, ed alle voci
Del
banditor non repugnaro. Entrati,
Deposer
su le sedie i manti loro.
Pingui
capre scannavansi e più grandi
Montoni
e grossi porci e una buessa
Di
branco; e il prandio s'apprestava. E intanto
Dai
campi alla cittade andar d'un passo
Preparavansi
Ulisse ed il pastore.
Pria
favellava Eumèo d'uomini capo:
"Stranier,
se il mio piacere io far potessi,
Tu
delle stalle rimarresti a guardia.
Ma
poiché partir brami, e ció pur vuolsi
Dal mio
signor, le cui rampogne io temo,
Però
che gravi son l'ire de' grandi,
Moviam:
già vedi che scemato è il giorno,
E
infredderà più l'aere in ver la sera".
"Tai
cose ad uom, che non le ignora, insegni",
Ripigliò
il Laerzìade. "Ebben, muoviamo:
Ma
vammi innanzi, e da', se da una pianta
Il
recidesti, un forte legno, a cui
Per la
via, che malvagia odo, io mi regga".
Disse,
e agli omeri suoi per una torta
Corda
il suo rotto e vil zaino sospese,
E il
bramato baston porsegli Eumèo.
Quindi
le stalle abbandonar, di cui
Rimaneano
i famigli a guardia e i cani.
Così
vêr la città, sotto le forme
D'un
infelice mendicante e vecchio,
E curvo
sul bastone e con le membra
Nelle
vesti più turpi, il suo re stesso
L'amoroso
pastore allor guidava.
Già,
vinto il sentiero aspro, alla cittade
Si fean
vicini, ed apparìa la bella,
Donde
attignea ciascun, fonte artefatta,
Che una
pura tra l'erbe onda volvea.
Construsserla
tre regi: Itaco prima,
Poi
Nerito e Polittore. Rotondo
D'alni
acquidosi la cerchiava un bosco.
Fredda
cadea l'onda da un sasso, e sovra
Un
altar vi sorgea sacro alle Ninfe
Dove
offria preci il vïandante e doni.
Qui di
Dolio il figliuol, Melanzio, in loro
S'incontrò:
conducea le capre, il fiore
Del
gregge, ai proci; e il seguìan due pastori.
Li vide
appena che bravolli, e indegne
Saettò
in loro e temerarie voci,
Che
tutto commovean d'Ulisse il core.
"Or
sì", dicea, "che un tristo a un tristo è guida.
Giove
li forma, indi gli accoppia. Dove
Meni tu
quel ghiottone, o buon porcaio,
Quel
mendìco importuno, e delle mense
Pêste che
a molte signorili porte
Logorerassi
gli omeri, di pane
Frusti
chiedendo, non treppiedi o conche?
Se tu
le stalle a custodir mel dessi,
E a
purgarmi la corte, e a' miei capretti
La
frasca molle ad arrecar, di solo
Bevuto
siere ingrosserìa ne' fianchi.
Ma
poiché solo alle tristi opre intese,
Travagliar
non vorrà; vorrà più presto,
Di
porta in porta domandando, un ventre
Pascere
insazïabile. Ma senti
Cosa
che certo avvenir dee. Se all'alta
Magion
s'accosterà del grande Ulisse,
Molti
sgabelli di man d'uom lanciati
Alla
sua testa voleranno intorno,
E le
coste trarrànnogli di loco".
Ciò
disse ed appressollo, e nella coscia
Gli
dièe'd'un calcio, come stolto ch'era,
Nè
dalla via punto lo mosse: fermo
Restava
Ulisse e in sé volgea, se l'alma
Col
nodoso baston tôrgli dovesse,
O in
alto sollevarlo, e su la nuda
Terra
gettarlo capovolto. Ei l'ira
Contenne
e sopportò. Se non ch'Eumèo
Al
caprar si converse e improverollo,
E,
levate le man, molto pregava:
"O
belle figlie dell'Egioco, Ninfe
Nàiadi,
se il mio re v'arse giammai
D'agnelli
e di capretti i pingui lombi,
Empiete
il voto mio. Rieda, ed un nume
La via
gli mostri. Ti cadrìa, capraio,
Quella
superbia dalle ardite ciglia,
Con cui
vieni oltraggioso e sì frequente
Dai
campi alla città. Quindi per colpa
De'
cattivi pastori a mal va il gregge".
"Oh
oh", Melanzio ripigliò di botto,
Che mi
latra oggi quello scaltro cane,
Che un
giorno io spedirò sovra una bruna
Nave
dalla serena Itaca lunge,
Perché
a me in copia vettovaglia trovi?
Così il
dio dal sonante arco d'argento
Telemaco
uccidesse oggi, o dai proci
Domo
fosse il garzon, come ad Ulisse
Non
sorgerà della tornata il giorno!"
Ciò
detto, ivi lasciolli ambo, che lento
Moveano
il piede, e, suo cammin seguendo,
D'Ulisse
alla magion ratto pervenne.
Subito
entrava, e s'assidea tra i proci
Di
rimpetto ad Eurimaco, che tutto
Era il
suo amore; né i donzelli accorti,
E la
solerte dispensiera, innanzi
Un solo
istante s'indugiâro a porgli
Quei
parte delle carni, e i pani questa.
Ulisse
ed il pastore al regio albergo
Giungeano
intanto. S'arrestaro, udita
L'armonia
dolce della cava cetra:
Ché
l'usata canzon Femio intonava.
Tale ad
Eumèo, che per man prese, allora
Favellò
il Laerzìade: "Eumèo, d'Ulisse
La
bella casa ecco per certo. Fôra,
Cinto
il cortile e di steccati, doppie
Sono e
salde le porte. Or chi espugnarla
Potrìa?
Gran prandio vi si tiene, io credo:
Poiché
l'odor delle vivande sale,
E
risuona la cetera, cui fida
Voller
compagna de' conviti i numi".
E tu
cosi gli rispondesti Eumèo:
"Facile
a te, che lunge mai dal segno
Non
vai, fu il riconoscerla. Su via,
Ciò
pensiam che dee farsi. O tu primiero
Entra e
ai proci ti mesci, ed io qui resto;
O tu
rimani, e metterommi io dentro.
Ma
troppo a bada non istar: ché forse,
Te
veggendo di fuor, potrebbe alcuno
Percuoterti
o scacciarti. Il tutto pesa".
"Quel
veggio anch'io, che alla tua mente splende",
Gli
replicava il pazïente Ulisse.
"Dentro
mettiti adunque: io rimarrommi.
Nuovo
ai colpi non sono e alle ferite,
E la
costanza m'insegnâro i molti
Tra
l'armi e in mar danni sofferti, a cui
Questo
s'aggiungerà. Tanto comanda
La
forza invitta dell'ingordo ventre,
Per cui
cotante l'uom dura fatiche,
E navi
arma talor, che guerra altrui
Dell'infecondo
mar portan su i campi".
Così
dicean tra lor, quando Argo, il cane,
Ch'ivi
giacea, del pazïente Ulisse
La
testa ed ambo sollevò gli orecchi.
Nutrillo
un giorno di sua man l'eroe,
Ma
côrne, spinto dal suo fato a Troia,
Poco
frutto poté. Bensì condurlo
Contro
i lepri ed i cervi e le silvestri
Capre
solea la gioventù robusta.
Negletto
allor giacea nel molto fimo
Di muli
e buoi sparso alle porte innanzi,
Finché
i poderi a fecondar d'Ulisse,
Nel
togliessero i servi. Ivi il buon cane,
Di
turpi zecche pien, corcato stava.
Com'egli
vide il suo signor più presso,
E
benché tra que' cenci, il riconobbe,
Squassò
la coda festeggiando, ed ambe
Le
orecchie, che drizzate avea da prima,
Cader
lasciò: ma incontro al suo signore
Muover,
siccome un dì, gli fu disdetto.
Ulisse,
riguardatolo, s'asterse
Con man
furtiva dalla guancia il pianto,
Celandosi
da Eumèo, cui disse tosto:
"Eumèo,
quale stupor! Nel fimo giace
Cotesto,
che a me par cane sì bello.
Ma non
so se del pari ei fu veloce,
O nulla
valse, come quei da mensa,
Cui
nutron per bellezza i lor padroni".
E tu
così gli rispondesti, Eumèo:
"Del
mio re lungi morto è questo il cane.
Se tal
fosse di corpo e d'atti, quale
Lasciollo,
a Troia veleggiando, Ulisse,
Sì
veloce a vederlo e sì gagliardo
Gran
maraviglia ne trarresti: fiera
Non
adocchiava, che del folto bosco
Gli
fuggisse nel fondo, e la cui traccia
Perdesse
mai. Or l'infortunio ei sente.
Perì
d'Itaca lunge il suo padrone,
Nè più
curan di lui le pigre ancelle;
Ché
pochi dì stanno in cervello i servi,
Quando
il padrone lor più non impera.
L'onniveggente
di Saturno figlio
Mezza
toglie ad un uom la sua virtude,
Come
sopra gli giunga il dì servile".
Ciò
detto, il piè nel sontuoso albergo
Mise, e
avvïossi drittamente ai proci;
Ed
Argo, il fido can, poscia che visto
Ebbe
dopo dieci anni e dieci Ulisse,
Gli
occhi nel sonno della morte chiuse.
Ma
l'egregio Telemaco fu il primo
Che scorgesse
il pastor nella superba
Sala
passato; e a sé il chiamò d'un cenno.
Ed ei,
rivolto d'ogni intorno il guardo,
Levò
uno scanno ivi giacente, dove
Seder
solea lo scalco, e le infinite
Carni
partire ai banchettanti proci.
Levollo,
ed a Telemaco di contra
Il
piantò presso il desco, e vi s'assise;
E delle
carni a lui pose davanti
Lo
scalco, e pani dal canestro tolti.
Ulisse
ivi a non molto anch'egli entrava
Simil
ne' cenci e nel baston nodoso,
Su cui
piegava il tergo, a un infelice
Paltonier
d'anni carco. Entrato appena,
Sopra
il frassìneo limitar sedea,
Con le
spalle appoggiandosi ad un saldo
Stipite
cipressin, cui già perito
Fabbro
alzò a piombo e ripolì con arte.
Telemaco
il pastor chiama, e, togliendo
Quanto
avea pane il bel canestro, e quanta
Carne
nelle sue man capìr potea:
"Questo",
gli dice, "all'ospite tu reca.
E gli
comanda che a ciascun de' proci
S'accosti
mendicando. A cui nel fondo
Dell'inopia
cascò, nuoce il pudore".
Andò il
pastor repente, e, allo straniero
Soffermandosi
in faccia: "Ospite, disse
Ciò ti
manda Telemaco, e t'ingiunge
Che
mendicando ti presenti a ognuno
De'
proci in giro. "A cui nel fondo", ei dice,
"Dell'inopia
cascò, nuoce il pudore"".
E il
Laerzïade rispondea: Re Giove,
Telemaco
dal ciel con occhio guarda
Benigno
sì, ch'ei nulla brami indarno".
Detto
ciò solo, prese ad ambe mani
Ulisse
il tutto, e colà innanzi ai piedi
Su la
bisaccia ignobile sel pose.
Finché
il divin Demodoco cantava,
Cibavasi
l'uom saggio; al tempo stesso
L'un
dal cibo cessò, l'altro dal canto.
Strepitavano
i proci entro la sala:
Ma
Palla, al figlio di Laerte apparsa
L'esortò
i pani ad accattar dai proci,
Tastando
chi più asconda o men tristezza,
Benché
a tutti la dea scempio destini.
Ei
volse a destra, e ad accattar da tutti
Gìa,
stendendo la man, come se mai
Esercitato
non avesse altr'arte.
Mossi a
pietade il soccorreano e forte
Stupìano,
e domandavansi a vicenda
Chi
fosse e d'onde il forestier venisse.
E qui
Melanzio: "Udite, o dell'illustre
Penelope,
dicea vagheggiatori.
L'ospite
io vidi, a cui la via mostrava
De'
porci il guardïan: ma da qual chiara
Stirpe
disceso egli si vanti, ignoro".
"Guardïan
famosissimo", Antinòo
Così
Eumèo rimbrottò, "perché costui
Guidasti
alla città? Ci mancan forse
Vagabondanti
paltonieri infesti,
Delle
mense flagello? O che d'Ulisse
Qui si
nutra ciascun, poco ti cale,
Che
questo ancor, donde io non so, chiamasti?"
E tal
risposta tu gli fésti, Eumèo:
"Prode,
Antinoo, sei tu, ma ben non parli.
Chi un
forestiero a invitar mai d'altronde
Va,
dove tal non sia che al mondo giovi,
Come profeta,
o sanator di morbi,
O
fabbro industre in legno, o nobil vate,
Che le
nostr'alme di dolcezza innondi?
Questi
invìtansi ognor, non un mendìco
Che ci
consumi, e non diletti, o serva.
Ma tu i
ministri del mio re lontano
Più che
ogni altro de' proci, e de' ministri
Me più,
che ogni altro, tormentar non cessi.
Non men
curo io però, finché la saggia
Penelope
e Telemaco deiforme
Vivono
a me nella magion d'Ulisse".
Ma
Telemaco a lui: "Taci, parole
Non
cangiar molte con Antinoo. È usanza
Di
costui l'assalir con aspri detti
Chi non
l'offende, e incitar gli altri ancora".
Poi,
converso a quel tristo: "In ver, soggiunse,
Cura di
me, qual padre, Antinoo, prendi,
Tu che
l'ospite vuoi sì duramente
Quinci
sbandire. Ah nol consenta Giove!
Dagline:
io, non che oppormi, anzi l'esigo.
La
madre d'annoiare, o alcun de' servi
Del
padre mio, tu non temer per questo.
Ma cosa
tal non è da te, cui solo
La
propria gola soddisfar talenta".
"O
alto di favella e d'alma indómo",
D'Eupite
disse incontanente il figlio,
"Che
parlasti, Telemaco? Se i proci
Quel
don, ch'io serbo a lui, gli fesser tutti
Starsi
almeno ei dovrìa tre lune in casa
Da noi
lontano". E lo sgabello preso,
Su cui
tenea beendo i molli piedi,
Alto in
aria il mostrò. Gli altri cortesi
Gli
eran pur d'alcun che, sì ch'ei trovossi
Di
carni e pani la bisaccia colma.
Mentre
alla soglia, degli Achivi i doni
Per
gustar, ritornava, ad Antinòo
Si
fermò innanzi e disse: "Amico, nulla
Dunque
mi porgi? degli Achivi il primo
Mi
sembri, come quei che a re somiglia.
Quindi
più ancor che agli altri, a te s'addice
Largo
mostrarti: io le tue lodi, il giuro,
Per
tutta spargerò l'immensa terra.
Tempo
già fu ch'io, di te al par felice,
Belle
case abitava, e ad un ramingo,
Qual
fosse e in quale stato a me venisse,
Del mio
largìa: molti avea servi, e nulla
Di ciò
fallìami, onde gioiscon quelli
Che
ricchi e fortunati il mondo chiama.
Giove,
il perché ei ne sa, strugger mi volle,
Ei, che
in Egitto, per mio mal, mi spinse
Con
ladroni moltivaghi; vïaggio
Lungo e
funesto. Nell'Egitto fiume
Fermai
le ratte navi, ed ai compagni
Restarne
a guardia ingiunsi, e quell'ignota
Terra
ire alcuni ad esplorar dall'alto.
Ma
questi da un ardir folle e da un cieco
Desìo
portati, a saccheggiar le belle
Campagne
degli Egizî, a via menarne
Le
donne e i figli non parlanti, i grami
Coltivatori
a uccidere. Volonne
Tosto
il rumore alla città: né prima
L'Alba
s'imporporò, che i cittadini
Vennero,
e pieno di cavalli e fanti
Fu
tutto il campo, e del fulgor dell'armi
Cotale
allora il Fulminante pose
Desir
di fuga de' compagni in petto,
Che un
sol far testa non osava: uccisi
Fur
parte e parte presi, e ad opre dure
Sforzati;
e ovunque rivolgeansi gli occhi,
Un
disastro apparìa. Me consegnâro
A
Demetore Iaside, che in quelle
Parti
era giunto, e dominava in Cipro,
Dond'io
carco di mali al fin qua venni".
E di
nuovo così d'Eupìte il figlio:
"Qual
Genio avverso una sì fatta lue,
Le
nostre mense a conturbar, ci addusse?
Tienti
nel mezzo, e dal mio desco lunge,
Se un
altro Egitto amaro e un'altra Cipro
Trovar
non brami in Itaca. Io mendìco
Mai non
conobbi più impudente e audace.
T'offri
a ciascun l'un dopo l'altro, e allarga
Ciascun
per te la man senza consiglio:
Ché
rotto cade ogni ritegno, dove
Regna
la copia, e dell'altrui si dona".
"Poh!"
replicava il Laerzìade, indietro
Ritirandosi
alquanto, "alla sembianza
Poco
l'animo adunque in te risponde.
Chi mai
creder potrìa che pur di sale
A
supplicante tu daresti un grano
Dalla
tua mensa, tu che un frusto darmi
Dall'altrui
non sapesti, e così ricca?"
Montò
Antinoo in più furia, e, torve in lui
Fissando
le pupille: "Ora io non penso
Che
uscirai quinci con le membra sane,
Poscia
che all'onte ne venisti". Disse,
E
afferrò lo sgabello, ed avventollo,
E in
sulla punta della destra spalla
Percosse
il forestiero. Ulisse fermo
Stette
qual rupe, né d'Antìnoo il colpo
Smòsselo:
bensì tacito la testa
Crollò,
agitando la vendetta in core.
Indi
sul limitar sedea di nuovo,
Deposto
il zaino tutto pieno, e ai proci
Favellava
così: "Competitori
Dell'illustre
Reina: udir vi piaccia
Ciò che
il cor dirvi mi comanda. Dove
Pe'
campi, per la greggia o per l'armento
Pugnando
è l'uom ferito, il porta in pace.
Me, per
la trista ed importuna fame,
Gran
fonte di disastri, Antìnoo offese.
Ma se
ha prôpizî dèi, se ha Furie ultrìci,
Chi non
ha nulla, della morte il giorno
Pria
che quel delle nozze, Antìnoo colga".
E
d'Eupìte il figliuol: "Tranquillo e assiso,
Cibati,
o forestiere, o quinci sgombra
Acciò
gli schiavi, poiché si favelli,
Per li
piedi e le man te del palagio
Non
traggan fuori, e tu ne vada in pezzi".
Tutti
d'ira s'accesero, ed alcuno;
"Mal",
disse, "festi, Eupìtide, un tapino
Vïandante
a ferir. Sciaurato! S'egli
Degli
abitanti dell'Olimpo fosse?
Spesso
d'estrano pellegrino in forma
Per le
cittadi si raggira un nume,
Vestendo
ogni sembianza, e alle malvage
De'
mortali opre ed alle giuste guarda".
Tai
voci Antìnoo dispregiava. Intanto
Della
percossa rea gran duol nel petto
Telemaco
nodrìa. Non però a terra
Dalle
ciglia una lagrima gli cadde.
Sol
crollò anch'ei tacitamente il capo,
Ruminando
nel cor l'alta vendetta.
Ma la
saggia Penelope, cui giunse
L'annunzio
in alto dell'indegno colpo,
Tra le
ancelle proruppe in questi accenti:
"Deh
così lui d'un de' suoi dardi il nume
Dal
famoso d'argento arco ferisca!"
Ed
Eurìnome a lei: "Se gl'Immortali
Fesser
pieni i miei voti, a un sol de' proci
Non
mostrerìasi la nuov'alba in cielo".
"Nutrice
mia", Penelope riprese,
"Mi
spiaccion tutti, perché tutti ingiusti:
Ma del
par che la morte Antìnoo abborro.
Move
per casa un ospite infelice
Dalla
sua fame a mendicar costretto.
Ciascun
gli dà, tal ch'ei n'ha il zaino colmo;
E
d'Eupite il figliuol d'uno sgabello
Nella
punta dell'òmero il percuote".
Cotesti
accenti tra le ancelle assisa
Liberò
dalle labbra; e in quella Ulisse
il suo
prandio compiea. Ma la Regina,
Eumèo
chiamato a sè: "Va, gli dicea,
De'
pastori il più egregio, ed a me invia
Quel
forestiere, onde in colloquio io seco
Mi
restringa, e richiedagli, se mai
D'Ulisse
udì, se il vide mai con gli occhi.
Ei, che
di gran vïaggi uom mi rassembra".
E tu
così le rispondesti, Eumèo:
"Oh
volesser gli Achei per te, regina,
Tacersi
alcuni istanti! Ei tal favella,
Che
somma in cor ti verserìa dolcezza.
Io tre
giorni appo me l'ebbi e tre notti;
Che
fuggito era da un'odiata nave:
Né però
tutti mi narrò i suoi guai.
Qual
racceso dai numi illustre vate
Voce sì
grata agli ascoltanti innalza,
Che
l'orecchio, fissando in lui le ciglia,
Se dal
canto riman, tendono ancora:
Tal mi
beava nella mia capanna.
Dissemi
che di padre in figlio a Ulisse
Dell'ospitalità
stringealo il nodo;
Che
nativo di Creta era, del grande
Minosse
culla; e che di là, cadendo
D'un
mal sempre nell'altro, a' tuoi ginocchi
Venìa
di gramo supplicante in atto.
M'affermò
che d'Ulisse avea tra i ricchi
Tesproti
udito, che vive anco, e molti
All'avìta
magion tesori adduce".
La
prudente Penelope a rincontro:
"Vanne
ed a me l'invia, sì ch'io l'ascolti.
Gli
altri o fuor delle porte o nel palagio
Trastullin
pur, poscia che han lieto il core.
Crescono
i monti delle lor sostanze,
Di cui
solo una parte i servi loro
Toccano;
ed essi qui l'intero giorno
Banchettan
lautamente, e il fior del gregge
Struggendo
e dell'armento, e le ricolme
Della
miglior vendemmia urne votândo,
Fanno
una strage: né v'ha un altro Ulisse,
Che
atto a fermarla sia. Ma l'eroe giunge,
E piena
con Telemaco di tanti
Barbari
oltraggi prenderà vendetta".
Finito
non avea, che il figlio ruppe
In un
alto starnuto, onde la casa
Risonò
tutta. La Regina rise,
E:
"Va, disse ad Eumèo, corri, e il mendìco
Mandami.
Starnutare alle mie voci
Non
udisti Telemaco? Maturo
De'
proci è il fato, né alcun fia che scampi.
Ciò
senti ancora, e in mente il serba. Quando
Verace
in tutto ei mi rïesca, i cenci
Gli
cangerò di botto in vesti belle".
Corse
il fido pastore, e allo straniero,
Standogli
presso: "Ospite padre, disse,
Te la
saggia Penelope, la madre
Di
Telemaco vuole: il cor la spinge
D'Ulisse
a ricercar, benché sol dato
Le
abbian sin qui le sue ricerche duolo.
Quando
verace ti conosca, i cenci
Ti
cangerà di botto in vesti belle:
Cibo
non mancherà chi ti largisca,
Se tu
l'andrai per la città chiedendo".
"Eumèo",
rispose il pazïente Ulisse,
"Alla
figlia d'Icario, alla prudente
Penelope,
da me nulla del vero
Si
celerà. So le vicende appieno
D'Ulisse,
con cui sorte io m'ebbi eguale:
Ma la
turba difficile de' proci,
Di cui
del ciel sino alla ferrea volta
Monta
l'audace tracotanza, io temo.
Pur
testé, mentr'io gìa lungo la sala,
Nulla
oprando di mal, percosso io fui;
E non
prevenne il doloroso insulto
Telemaco,
non che altri. Il sol cadente
Ad
aspettar nelle sue stanze adunque
Tu la
conforta. Mi domandi allora
Del
ritorno d'Ulisse innanzi al foco:
Poiché
il vestito mio mal mi difende.
Tu il
sai, cui prima supplicante io venni".
Diè
volta, udito questo, il buon pastore;
E
Penelope a lui, che già la soglia
Col piè
varcava: "Non mel guidi, Eumèo?
Che
pensa il forestier? Tema de' proci,
O
vergogna di sé, forse occupollo?
Guai
quel mendico cui ritien vergogna!"
Ma tu
così le rispondesti, Eumèo:
"Ei,
come altri farebbe in pari stato,
De'
superbi schivar l'onte desìa.
Bensì
t'esorta sostener, Regina,
Finché
il dì cada. Cosi meglio voi
Potrete
ragionar, sola con solo".
"Gran
senno in lui, chïunque sia, dimora",
Ella
riprese: "ché sì audaci e ingiusti
Non ha
l'intero mondo uomini altrove".
Eumèo
ritornò ai proci, e di Telemaco
Parlando,
onde altri non potesse udirlo,
All'orecchia
vicin: "Caro", gli disse,
"Le
mandre, tua ricchezza e mio sostegno,
A
custodire io vo'. Tu su le cose
Qui
veglia, e più sovra te stesso, e pensa
Che i
giorni passi tra una gente ostile,
Cui,
prima ch'ella noi, Giove disperda".
"Sì,
babbo mio", Telemaco rispose.
"Parti,
ma dopo il cibo, e al dì novello
Torna e
vittime pingui adduci teco".
Tacque;
ed Eumèo sovra il polito scanno
Novamente
sedea. Cibato, ai campi
Ire
affrettossi, gli steccati addietro
Lasciando
e la magion d'uomini piena
Gozzoviglianti,
cui piacere il ballo
Era e
il canto piacer, mentre spiegava
L'ali
sue nere sovra lor la notte.
LIBRO
XVIII
Un
accattante pubblico sorvenne,
Di
mendicar per la cittade usato,
Famoso
vorator, che mai non disse
Per
molto cibo, e per vin molto: "Basta!"
E
gigante a vederlo, ancor che poco
Di
forza e cuore in sì gran corpo fosse.
Egli
avea nome Arnèo: così chiamollo,
Nel dì
che nacque, la diletta madre.
Ma dai
giovani tutti Iro nomato
Era,
come colui che le imbasciate
Portar
solea, qual gliene desse il carco.
Giunto
fu appena, che scacciava Ulisse
Dalla
sua casa, ed il mordea co' detti:
"Vecchio,
via dal vestibolo, se vuoi
Ch'io
non ti tragga fuor per un de' piedi,
Non
vedi l'ammiccar, perch'io ti tragga,
Di
tutti a me? Pur m'arrossisco, e stommi.
Ma
lèvati, o alle prese io con te vegno".
Bieco
Ulisse guatollo, e: "Sciagurato",
Rispose,
"in opra io non t'offendo o in voce,
Né che
alcuno a te doni, anco a man piene,
T'invidio
io punto. Questa soglia entrambi
Ci
capirà. Tu non dovresti noia
Del mio
bene sentir, tu, che un mendico
Mi
sembri al par di me. Dispensatori
Delle
ricchezze all'uom sono i celesti.
Invitarmi
a pugnar non ti consiglio,
Onde
infiammato, benché vecchio, d'ira
Le
labbra io non t'insanguini ed il petto.
Più
assai tranquillo io ne sarei domane:
Ché
alla magion del figlio di Laerte
Ritorno
far tu non potresti, io credo".
"Poh",
sdegnato il pezzente Iro riprese,
"Più
volubili i detti a questo ghiotto
Corrono
e ratti più, che non a vecchia
Che
sempre al focolar s'aggira intorno.
S'io
queste man pongogli addosso, tutti
Dalle
mascelle, come a ingordo porco
Entrato
fra le biade, i denti io schianto.
Or
bene, un cinto senza più ti copra,
E
questi ci conoscano alla pugna
Che
tosto avremo. Io veder voglio, come
Con uom
combatterai tanto più verde".
Così
sul liscio limitar dell'alte
Porte
garrìan d'ingiurïosi motti.
Avvisossene
Antinoo, e, dolcemente
Ridendo,
sciolse tai parole: "Amici,
Nulla
di sì giocondo a questi alberghi
Gli
abitator dell'etra unqua mandaro.
Si
bisticcian tra lor l'ospite ed Iro,
E già
le man frammischiano. Su via,
Meglio
alla zuffa raccendiamli ancora".
Tutti
s'alzâro, nelle risa dando,
E ai
due straccioni s'affollâro intorno.
Ed
Antinoo così: "Nobili proci,
Sentite
un pensier mio. Di que' ventrigli
Di
capre, che di sangue e grasso empiuti
Sul
foco stan per la futura cena
Scelga
qual più vorrà chi vince, e quindi
D'ogni
nostro convito a parte sia;
Né più
tra noi s'aggiri altro cencioso".
Ciò
piacque a tutti. Ma l'accorto eroe,
Cui non
fallìan le astuzie: "Amici disse,
Ad uom
dagli anni e dai disastri rotto
Con
giovane pugnar non parmi bello.
E pur
botte a ricevere, e ferite
La rea
mi spinge imperïosa fame.
Ma voi
giurate almen che nessuno, Iro
Per
favorir, me della man gagliarda
Percuoterà,
male adoprando: troppo
Mi
tornerebbe allor duro il cimento".
Giurâro.
E di Telemaco in tal guisa
La
sacra possa favellò: "Straniero,
Di
respinger costui ti detta il core?
Respingilo:
né alcun temer de' proci.
Chi
t'oserà percuotere, con molti
A
combattere avrà. Gli ospiti io curo,
E tal
favella non condannan certo
Eurimaco
ed Antinoo, ambo prudenti".
Disse,
e ciascuno approvò il detto. Ulisse
Si
spogliò tutto, e de' suoi panni un cinto
Formossi,
e nudi i lati omeri, nudo
Mostrò
il gran petto e le robuste braccia
E i
magni fianchi discoprì: Minerva,
Che per
lui scese dall'Olimpo, tutte
De'
popoli al pastor le membra crebbe.
Stupîro
i proci fieramente, e alcuno
Così
dicea, volgendosi al vicino:
"Iro,
già non più Iro, in su la testa
S'avrà
tratto egli stesso il suo malanno;
Tai
fianchi ostenta e tali braccia il veglio!"
A
queste voci malamente d'Iro
L'animo
commoveasi. E non pertanto
Col
cinto ai lombi e pallido la faccia,
Gli
schiavi a forza il conducean: su l'ossa
Tremavangli
le carni. Antinoo allora
Prendealo
a rimbrottar: "Millantatore,
Perché
or non muori, o a che nascesti un giorno,
Tu, che
sì temi e tremi, uom dagli affanni,
Non men
che dall'età, snervato e domo?
Ma odi
quel che di te fia. Se a terra
Con
vincitrice man colui ti mette,
Io te
gettato in una ratta nave
Manderò
nell'Epiro al rege Echeto,
Flagello
de' mortali, il qual ti mozzi
Gli
orecchi e il naso con acerbo ferro,
E, da
stracciarsi crudi, a un can vorace
Butti
gli svelti genitali in preda".
Un
tremor gli entrò in corpo ancor più forte:
Ma il
condusser nel mezzo. I due campioni
Le mani
alzâro: dubitava Ulisse,
Se del
pugno così dar gli dovesse,
Che lui
caduto abbandonasse l'alma,
O
atterrarlo, e non più, con minor colpo.
Questo
partito scelse, onde agli Achivi
Celarsi
meglio. Iro la destra spalla
Ad
Ulisse colpì, ma Ulisse in guisa
Sotto
l'orecchia l'investì nel collo,
Che
l'ossa fracassògli: uscìagli il rosso
Sangue
fuor per la bocca; ed ei mugghiando
Cascò,
digrignò i denti, e il pavimento
Calcitrando
batté. Gli amanti a quella
Vista,
levate le lor braccia in alto,
Scoppiavan
delle risa. Intanto Ulisse,
L'un
de' piedi afferratogli, il traea
Pel
vestibolo fuor sino alla corte,
E
all'entrata del portico. Ciò fatto,
Col
dosso al muro l'appoggiò, gli pose
Bastone
in mano e: "Qui", gli disse, "or siedi.
E
scaccia dal palagio i cani e i ciacchi,
Né più
arrogarti, così vil qual sei
Su gli
ospiti dominio e su i mendichi:
Ché
un'altra volta non t'incontri peggio".
Così
dicendo, si gittava intorno
Alle
spalle il suo zaino, e al limitare
Ritornava,
e sedeavi. Rientraro
Con
dolce riso in su le labbra i proci,
Ed a
lui blande rivolgean parole:
"Ospite,
Giove a te con gli altri numi
Quanto
più brami, e t'è più caro, invii,
A te,
che la città smorbasti a un tratto
Di
questo insazïabile accattone,
Che ad
Echeto, degli uomini flagello,
Tra
poco andrà su gli Epiroti lidi".
Così
parlâro; e dell'augurio Ulisse
Godea
nell'alma, e Antinoo un gran ventriglio
Di
sangue e di pinguedine ripieno
Gli
recò innanzi. Ma il valente Anfinomo
Due
presentògli dal canestro tolti
Candidissimi
pani, e, propinando
Con
aurea tazza: "Salve", disse, "o padre,
Forestier,
salve: se infelice or vivi,
Lieti
scórranti almeno i dì futuri".
"Anfinomo",
l'eroe scaltro rispose,
"D'intendimento
e di ragion dotato
Mi
sembri, e in questo tu ritrai dal padre,
Da Niso
Dulichiense, ond'io la fama
Sonare
udìa, buono del par che ricco,
Da cui
diconti nato; e fede ancora
Ne fa
il tuo senno e le parole e gli atti.
A te
dunque io favello, e tu i miei detti
Ricevi,
e serba in te. Sai tu di quanto
Spira e
passeggia su la terra o serpe,
Ciò che
al mondo havvi di più infermo? È l'uomo.
Finché
stato felice i dèi gli dánno,
E il
suo ginocchio di vigor fiorisce,
Non
crede che venir debbagli sopra
L'infortunio
giammai. Sopra gli viene?
Con
repugnante alma indegnata il soffre:
Ché
quali i giorni son, che foschi o chiari,
De'
mortali il gran padre e de' celesti
D'alto
gli manda, tal dell'uomo è il core.
Vissi
anch'io vita fortunata e illustre,
E,
secondando la mia forza, e troppo
Nel
genitor fidando e ne' germani,
Non
giuste, vaglia il vero, opre io commisi.
Ma
ciascuno a ben far dee per l'ingegno,
E quel,
che dai numi ha, fruir tranquillo:
Né
costoro imitar, che iniquamente
Struggono
i beni, e la pudica donna
Oltraggian
d'un eroe, che lungo tempo
Dalla
sua patria e dagli amici, io credo,
Lontano
ancor non rimarrà; che a questi
Luoghi
anzi è assai vicino. Al tuo ricetto
Quindi
possa guidarti un dio pietoso,
E torti
agli occhi suoi, com'egli appaia:
Poiché
decisa senza molto sangue
Messo
ch'egli abbia in sua magione il piede,
Non fia
tra i proci e lui l'alta contesa".
Libò,
ciò detto, e accostò ai labbri il nappo,
E
tornollo ad Anfinomo. Costui
Per la
sala iva, conturbato il core,
E
squassando la testa, ed il suo male
Divinando,
ma invan: fuggir non puote,
Legato
anch'ei da Palla, onde cadesse
Per
l'asta di Telemaco. Nel seggio,
Donde
sorto era, si ripose intanto.
Ma
d'Icario alla figlia, alla prudente
Penelope,
la dea dai glauchi lumi
Spirò
il disegno di mostrarsi ai proci,
Perché
lor s'allargasse il core in petto
Di
nuova speme, ed in onor più grande
Presso
il consorte e il figlio ella salisse.
Diede,
né ben sa come, in un gran riso,
E tai
detti formò: "Sento un desire
Non
pria sentito di mostrarmi ai proci,
Eurinome,
bench'io tutti gli abborra.
Utile
avviso in lor presenza io bramo
A
Telemaco dare, il qual troppo usa
Con
que' superbi giovani, che accenti
Ti
drizzan blandi, e insidianti da tergo".
"Saggio
è il consiglio", Eurinome rispose.
"Va'
figlia, dunque, ed il tuo nato assenna.
Ma pria
ti lava, e su le guance poni
L'usato
unguento. Apparir vuoi con faccia
Dalle
lagrime tue solcata e guasta?
Quel
pianger sempre e dall'un giorno all'altro
Nullo
divario far, poco s'addice.
Già
venne il figlio nell'età fiorita,
In cui
vederlo con l'onor del mento
Sì
ardentemente supplicavi ai numi".
"Per
zelo che di me l'alma ti scaldi",
Replicava
Penelope, "di bagni,
Eurinome,
o di lisci, or non parlarmi.
Il dì
che Ulisse s'imbarcò per Troia,
Tolsermi
ogni beltà dal volto i numi,
Bensì
Autonòe mi chiama e Ippodamìa,
Che da
lato mi stieno. Ai proci sola
Non
offrirommi: ché pudor mel vieta".
Tacque;
e la vecchia Eurinome le donne
A
chiamar tosto e ad affrettarle, uscìo.
Ma
l'occhiazzurra dea, nuovo pensiero
Formando
nella mente, alla pudica
Figlia
d'Icario un molle sonno infuse.
Mentre
giacea sovra il suo seggio, e tutte
Il
molle sonno le sciogliea le membra,
Palla
Minerva di celesti doni
La
rifornìa, perché di lei più sempre
Invaghisser
gli Achei. Pria su le guance
Quella,
che tien dalla bellezza il nome,
Sparse
divina essenza, onde si lustra
La
inghirlandata d'ôr Vener, se mai
Va
delle Grazie al dilettoso ballo:
Poi di
corpo la crebbe, e ricolmolla
Nel
volto, e tal su lei candor distese,
Che
l'avorio tagliato allora allora
Ceder
dovesse al paragon. La diva
Risalì
dell'Olimpo in su le cime.
Venner
le ancelle strepitando, e ratto
Si
riscosse Penelope dal sonno;
E con
man gli occhi stropicciossi e disse:
"Qual
dolce sonno della sua fosc'ombra
Me
infelice coprì! Deh così dolce
Morte
subitamente in me la casta
Artemide
scoccasse; ed io l'etade
Più non
avessi a consumar nel pianto,
Sospirando
il valor sommo, infinito,
D'un
eroe, cui non sorse in Grecia il pari".
Così
detto, scendea dalle superne
Lucide
stanze al basso, e non già sola:
Ma con
Autonoe e Ippodamia da tergo.
Sul
limitar della dedàlea sala,
Ove i
proci sedean, trovasi appena,
Che
arresta il pié tra l'una e l'altra ancella
L'ottima
delle donne, e co' sottili
Veli
del capo ambo le guance adombra.
Senza
forza restaro e senza moto:
L'alma
più intenerìa, si raddoppiava
Delle
nozze il desire in ogni petto.
Ella
queste a Telemaco parole:
"Figlio,
io te più non riconosco. Sensi
Nutrivi
in mente più maturi e scorti
Nella
tua fanciullezza; ed or che grande
Ti
veggio, e in un'età più ferma entrato,
Or, che
stranier, che a riguardar si fesse
La tua
statura e la beltà, te prole
D'uom
beato dirìa, più non dimostri
Giustizia
o senno. Tollerar sì indegno
Trattamento
d'un ospite in tua reggia?
Oltraggio
sì crudel, che vendicato
Non
siagli, puote a un forestier qui usarsi,
Che su
te non ne cada eterno scorno?"
Il
prudente Telemaco rispose:
"Madre,
perché ti crucci, io non mi sdegno.
Meglio,
che pria ch'io di fanciullo uscissi,
Le
umane cose, il pur mi credi, intendo,
E tra
lor non confondo il torto e il dritto.
Ma
tutto operare o antiveder non valgo,
Circondato
qual sono e insidïato
Da
fiera gente, e d'assistenti solo.
Quanto
alla lotta tra l'estranio ed Iro,
Parte i
proci non v'ebbero, e del primo
Fu la
vittoria. Ed oh! piacesse al padre
Giove e
alla diva Pallade e ad Apollo,
Che
tentennasse a cotestor già domi
La
testa e si sfasciassero le membra,
Nel
vestibolo agli uni, e agli altri in sala
Come a
quell'Iro, che alle porte or siede
Dell'atrio,
il capo qua e là piegando,
D'un
ebbro in guisa e che su i piedi starsi
Non
può, né a casa ricondursi: tanto
Le
membra riportonne afflitte e peste".
Così la
madre e il figlio. Indi tai voci
Eurimaco
a Penelope drizzava:
"Figlia
d'Icario, se te vista tutti
Avesser
per l'Iasio Argo gli Achivi,
Turba
qui di rivali assai più folta
Banchetterìa
dallo spuntar dell'alba:
Ché non
v'ha donna che per gran sembiante
Per
bellezza e per senno a te s'agguagli".
E la
nobile a lui d'Icario figlia:
"Eurimaco,
virtù, sembianza tutto
Mi
rapiro gli dèi, quando gli Argivi
Sciolser
per Troia, e con gli Argivi Ulisse.
S'egli,
riposto in sua magione il piede,
A
reggere il mio stato ancor prendesse,
Ciò mia
gloria sarebbe e beltà mia.
Ora io
m'angoscio: tanti a me sul capo
Mali
piombaro. Ei, d'imbarcarsi in atto,
Prese
la mia con la sua destra, e: "Donna",
Disse
"non credo io già che i forti Achei
Da
Troia tutti riederanno illesi:
Poiché
sento pugnaci essere i Teucri,
Gran
sagittari e cavalieri egregi.
Che pel
campo agitar sanno i destrieri
Rapidamente:
quel che in breve il fato
Delle
guerre terribili decide.
Quindi,
se me ricondurran gli eterni,
O Troia
riterrà morto o cattivo,
Sposa,
io non so. Tu, sovra tutto, veglia.
Rispetta
il padre mio, la madre onora,
Come
oggi, od ancor più, finch'io son lunge.
E allor
che del suo pel vedrai vestito
Del
figlio il mento, a qual ti fia più in grado,
Lasciando
la magion, vanne consorte."
Tal
favellava; ed ecco giunto il tempo.
L'infausta
notte apparirà, che dee
Portare
a me queste odïose nozze,
A me,
cui Giove ogni letizia spense.
Ma ciò
la mia tristezza oggi più aggrava,
Che gli
usi antichi non si guardan punto.
Color,
che donna illustre e d'uom possente
Figlia
un dì ambìano e contendean tra loro,
Belle
conducean vittime, gli amici
Per
convitar della bramata donna,
E doni
a questa offrìan: non già l'altrui
Struggeano
impunemente a mensa assisi".
Disse,
e l'eroe gioì ch'ella in tal modo
De'
proci i doni procurasse, e loro
Molcesse
il petto con parole blande,
Mentre
in fondo del cor altro volgea.
Ma così
Antìnoo allor: "Nobil d'Icario
Figlia,
saggia Penelope, ricevi
I doni
che gli Achei già per offrirti
Sono, e
cui fora il ricusar stoltezza;
Ma noi
di qua non ci torrem, se un prima
De' più
illustri fra noi te non acquista".
Piacquero
i detti: e alla sua casa ognuno
Per li
doni spedì. L'araldo un grande
Recò ad
Antìnoo e vario e assai bel peplo,
Che
avea dodici d'ôr fibbie lampanti
Con
ardiglioni ben ricurvi attate.
Eurimaco
un monile addur si fece
D'oro e
intrecciato d'ambra, opra da insigne
Mastro
sudata, che splendea qual sole.
Due
serventi portaro a Euridamante
Finissimi
orecchini a tre pupille,
Donde
grazia infinita uscìa di raggi.
Fregio
non fu men prezïoso il vezzo,
Che re
Pisandro, di Polittor figlio,
Dalle
mani d'un servo ebbe; e non meno
Belli
d'ogni altro Acheo parvero i doni.
La
divina Penelope, seguita
Dall'ancelle,
co' doni alle superne
Stanze
montava; e i proci al ballo e al canto
Finché,
a romper nel mezzo i lor diletti,
L'ombra
notturna sovra lor cadesse.
Caduta
sovra lor l'ombra notturna,
Tre
gran bracieri saettanti luce,
Cui
legne secche e dure e fesse appena
Nodrìano,
i servi collocar nel mezzo;
E
allumâr qua e là più faci ancora.
Cura di
questi fuochi aveano alterna
Le
donne del palagio. A queste feo
Tai
detti il ricco di consigli Ulisse:
"Schiave
d'Ulisse, del re vostro assente
Per sì
lunga stagion, la veneranda
Regina
vostra a ritrovar salite.
Fusi
rotando o pettinando lane,
Sedetele
vicino, e ne' suoi mali
La
confortate. Mio pensier frattanto
Sarà,
che ai proci non fallisca il lume.
Quando
attendere ancor volesser l'alba,
Me non
istancheran: ché molto io sono
Da
molto tempo a tollerare avvezzo".
Questi
detti lor feo. Riser le ancelle,
E a
vicenda guardavansi, e schernirlo
Con
villane parole una Melanto,
Bella
guancia, s'ardìa. Dolio costei
Generò,
ma Penelope nutrilla,
Siccome
figlia, nulla mai di quanto
Lusinga
le fanciulle, a lei negando:
Né
s'afflisse per ciò con la Regina
Melanto
mai, che anzi tradìala, e s'era
A
Eurimaco d'amor turpe congiunta.
Costei
pungea villanamente Ulisse:
"Ospite
miserabile, tu sei
Un
uomo, io credo, di cervello uscito,
Tu, che
in vece d'andar nell'officina
D'un
fabbro a coricarti o in vil taverna
Qui tra
una schiera te ne stai di prenci,
Lungo
cianciando, e intrepido. Alla mente
Ti salì
senza forse il molto vino,
O d'uom
brïaco hai tu la mente, e quindi
Senza
construtto parli. O esulti tanto,
Perchè
il ramingo Iro vincesti? Bada,
Non
alcun qui senza indugiare insorga,
Che,
d'Iro assai miglior, te nella testa
Con le
robuste man pesti, e t'insozzi
Tutto
di sangue, e del palagio scacci".
Bieco
guatolla, e le rispose Ulisse:
"Cagna,
io ratto a Telemaco i tuoi sensi
Perch'ei
ti tagli qui medesimo in pezzi,
A
riportare andrò". Così dicendo,
Le
femmine atterrì, che per la casa
Mosser
veloci, benché a tutte forte
Le
ginocchia tremassero: sì presso
Ciò
ch'ei lor detto avea, credeano al vero.
Ei si
fermò presso i bracieri ardenti,
La luce
ravvivandone, e tenendo
Gli
occhi ne' proci ognor, mentre nemiche
Cose
agitava, e non indarno, in petto.
Minerva
intanto non lasciava i proci
Rimanersi
dall'onte, acciò in Ulisse
Crescer
dovesse col dolor lo sdegno.
Eurimaco
di Pòlibo parlava
Primo,
l'eroe mordendo e a nuovo riso
Provocando
i compagni: Udite, amanti
Dell'inclita
regina, un mio pensiero,
Che
tacer non poss'io. Non senza un nume
Venne
costui nella magion d'Ulisse.
Splender
gli veggo, come face, il capo,
Sovra
cui non ispunta un sol capello".
Quindi,
al rovesciator delle munite
Città,
converso: "Forestier", soggiunse,
"Vorréstu
a me servir, s'io ti pigliassi
Per
assestar nel mio poder le siepi,
E gli
alberi piantar? Buona mercede
Tu ne
otterresti: cotidiano vitto
E
vestimenti al dosso e ai piè calzari.
Ma
perché sol fosti di vizî a scuola,
Anzi
che faticar, pitoccar vuoi,
Onde,
se t'è possibile, sfamarti.
"Eurimaco",
rispose il saggio Ulisse,
"Se
tra noi gara di lavor sorgesse
A
primavera, quando il giorno allunga,
E con
adunche in man falci taglienti
Ci
ritenesse un prato ambo digiuni
Sino
alla notte, e non mancasse l'erba;
O
fosser da guidare ad ambo dati
Grandi
rossi, gagliardi e d'erba sazî
Tauri
d'etade e di virtude eguali,
E date
quattro da spezzar sul campo
Sode
bubulce col pesante aratro:
Vedresti
il mio vigor, vedresti, come
Aprir
saprei dritto e profondo il solco!
Poni
ancor, che il Saturnio un'aspra guerra
Da
qualche parte ci volgesse addosso,
Ed io
scudo e due lance, ed alle tempie
Salda
celata di metallo avessi,
Misto
ai primi guerrier mi scorgeresti
Nella
battaglia, e l'importuna fame
Gittare
a me non oseresti in faccia.
Or
protervo è il tuo labbro e duro il core,
E forte
in certa guisa e grande sembri,
Perché
con poca gente usi e non brava:
Ma
Ulisse giunga, o appressi almeno, e queste
Porte,
benché assai larghe, a te già vôlto
Negli
amari, cred'io, passi di fuga
Deh
come a un tratto sembreriano anguste!"
Eurimaco
in maggior collera salse,
E,
guardandolo bieco: "Ah! Doloroso",
Disse,
"vuoi tu ch'io ti diserti? Ardisci
Così
gracchiar fra tanti, e nulla temi?
O il
vin t'ingombra, o tu nascesti pazzo,
O quel
vinto Iro ti cavò di senno".
Ciò
detto, prese lo sgabel: ma Ulisse
S'abbassava
d'Anfinomo ai ginocchi
Per
cansarsi da Eurimaco, che in vece
Nella
man destra del coppier percosse.
Cascata
rimbombò la coppa in terra,
E il
pincerna ululando andò riverso.
Strepitavano
i proci entro la sala
Dall'ombre
cinta della notte, e alcuno
Mirando
il suo vicin: "Morto", dicea,
"Prima
che giunto qua, l'ospite fosse!
Portato
non ci avrìa questo sì grave
Tumulto.
Or si battaglia, e per chi dunque?
Per un
mendìco, e già svanì de' nostri
Prandî
il diletto ed il più vil trionfa".
E
Telemaco allor: "Che insania è questa,
Miseri,
a cui non cal più della mensa?
Certo
vi turba e vi commuove un dio.
Su via,
poiché de' cibi e de' licori
Tacerà
il desiderio in tutti voi,
Ite a
corcarvi, se vel detta il core,
Ne'
vostri alberghi: ché nessuno io scaccio".
Tutti,
mordendo il labbro, alle sicure
Parole
di Telemaco stupîro.
Ma tra
lor sorse Anfinomo, l'illustre
Figliuol
di Niso: "Amici, a chi ben parla
Sinistro
più non si risponda o acerbo,
Né
l'ospite s'oltraggi, o alcun de' servi,
Che in
corte son del rinomato Ulisse.
Muova
il coppiere in giro; e poscia, fatti
I
libamenti, nelle nostre case,
Le
membra al sonno per offrir, si vada,
E si
lasci a Telemaco la cura
Dello
stranier, quando al suo tetto ei venne".
Disse,
e non fu cui non piacesse il detto.
L'inclito
Mulio, il Dulichiense araldo
D'Anfinomo,
versò dall'urna il vino,
E a
tutti in giro nelle tazze il porse;
Ed i
proci libaro, e del licore
Dolce,
qual mele, s'innondaro il petto.
Ma com
ebber libato, e piena voglia
Bevuto,
ognun, per dar le membra al sonno,
Affrettò
di ritrarsi al proprio albergo.
LIBRO
XIX
Nell'ampia
sala rimanea l'eroe,
Strage
con Palla macchinando ai proci.
Subito
al figlio si converse, e disse:
"Telemaco,
levar di questi luoghi
L'armi
conviene, e trasportarle in alto.
Se le
bell'armi chiederanno i proci,
Con
parolette a lusingarli vôlto:
"Io",
lor dirai, "dal fumo atro le tolsi,
Perché
non eran più quali lasciolle
Ulisse
il giorno che per Troia sciolse:
Ma
deturpate, scolorate, ovunque
Il
bruno le toccò vapor del foco.
Sovra
tutto io temei, né senza un nume
Destossi
in me questo timor, non forse
Dopo
molto vôtar di dolci tazze
Tra voi
sorgesse un'improvvisa lite,
E l'un
l'altro ferisse, ed il convito
Contaminaste
e gli sponsali. Grande
Allettamento
è all'uom lo stesso ferro"."
Telemaco
seguì del suo diletto
Padre
il comando, e alla nutrice, cui
Tosto a
sé dimandò: "Mamma", dicea,
Su via,
ritieni nelle stanze loro
Le
femmine rinchiuse, in sin ch'io l'armi,
Che qui
nella mia infanzia, e nell'assenza
Del
padre, mi guastò neglette il fumo,
Trasporti
in alto. Collocarle io voglio,
Dove
del foco non le attinga il vampo.
Ed
Euriclèa: "Figlio", rispose, "in petto
Deh ti
s'annidi al fin senno cotanto,
Che
regger possa la tua casa, e intatti
Serbar
gli averi tuoi! Ma chi la strada
Ti
schiarerà? Quando non vuoi che innanzi
Con le
fiaccole in man vadan le ancelle".
"Il
forestier", Telemaco riprese;
"Chi
si nutre del mio, benché venuto
Di
lunge, io mai non patirollo inerte".
Tanto
bastò a colei, perché ogni porta
Del ben
construtto ginecèo fermasse.
Ulisse
incontanente e il caro figlio
Correano
ad allogar gli elmi chiomati,
Gli
umbilicati scudi e l'aste acute;
E
avanti ad ambo l'Atenèa Minerva,
Tenendo
in mano una lucerna d'oro,
Chiarissimo
spargea lume d'intorno.
E
Telemaco al padre: "O padre, quale
Portento!
Le pareti ed i bei palchi,
E le
travi d'abete e le sublimi
Colonne
a me rifolgorare io veggio.
Scese,
io credo, qua dentro alcun de' numi".
"Taci",
rispose Ulisse: "i tuoi pensieri
Rinserra
in te, né cercare oltre. Usanza
Degli
abitanti dell'Olimpo è questa.
Or tu
vanne a corcarti: io qui rimango
Le
ancelle a spïar meglio, e della saggia
Madre
le inchieste a provocar, che molte
Certo,
ed al pianto miste, udire avviso".
Disse;
e il figliuolo indi spiccossi, e al vivo
Delle
faci splendor nella remota
Cella
si ritirò de' suoi riposi,
L'Aurora
ad aspettar. Ma nella sala,
Strage
con Palla agli orgogliosi proci
Architettando,
rimanea l'eroe.
La
prudente Reina intanto uscìa
Pari a
Dïana, e all'aurea Vener pari,
Della
stanza secreta. Al foco appresso
L'usato
seggio di gran pelle steso,
E cui
d'Icmalio l'ingegnosa mano
Tutto
d'avorî e argenti avea commesso,
Le
collocaro: sostenea le piante
Un
polito sgabello. In questa sede
La
madre di Telemaco posava.
Venner
le ancelle dalle bianche braccia
A tor
via dalle mense il pan rimasto,
E i
vòti nappi, onde bevean gli amanti.
Poi dai
bracieri il mezzospento foco
Scossero
a terra, e nuove legna e molte
Sopra
vi accatastâr, perché schiarata
La sala
fosse e riscaldata a un tempo.
Melanto
allor per la seconda volta
Ulisse
rampognava: "Ospite, adunque
La
notte ancor t'avvolgerai molesto
Per
questa casa, e adocchierai le donne?
Fuori,
sciagurato, esci, e del convito,
Che
ingoiasti, t'appaga; o ver, percosso
Da
questo tizzo, salterai la soglia".
Con
torvo sguardo le rispose Ulisse:
"Malvagia,
perché a me guerra sì atroce?
Perché
la faccia mia forse non lustra?
Perch'io
mal vesto, e, dal bisogno astretto,
Qual
tapino uomo e vïandante, accatto?
Felice
un giorno anch'io splendidi ostelli
Tra le
genti abitava, e ad un ramingo,
Qual
fosse, o in quale stato a me s'offrisse,
Del mio
largìa; molti avea servi, e nulla
Di ciò
mi venìa meno, ond'è chiamato
Ricco,
e beata l'uom vita conduce.
Ma
Giove, il figlio di Saturno, e nota
La
cagione n'è a lui, disfar mi volle.
Guarda
però, non tutta un giorno cada,
Donna,
dal viso tuo quella beltade,
Di cui
fra l'altre ancelle or vai superba:
Guarda,
non monti in ira o ti punisca
La tua
padrona, o non ritorni Ulisse,
Come
speme ne' petti ancor ne vive.
E s'ei
perì, tal per favor d'Apollo
Fuor
venne il figlio dell'acerba etade,
Che
femmina, di cui sien turpi i fatti,
Mal
potrìa nel palagio a lui celarsi".
Udì
tutto Penelope, e l'ancella
Sgridò
repente: "O temerario petto,
Cagna
sfacciata, io pur nelle tue colpe,
Che in
testa ricadrannoti, ti colgo.
Sapevi
ben, poiché da me l'udisti,
Ch'io
lo straniero interrogar volea,
Un
conforto cercando in tanta doglia".
Dopo
questo, ad Eurìnome si volse
Con
tali accenti: "Eurìnome, uno scanno
Reca, e
una pelle, ove, sedendo, m'oda
L'ospite
favellargli e mi risponda".
Disse;
e la dispensiera un liscio scanno
Recò in
fretta, e giù pose, e d'una densa
Pelle
il coprì. Vi s'adagiava il molto
Dai
casi afflitto, e non mai domo, Ulisse,
Cui
Penelope a dir così prendea:
"Ospite,
io questo chiederotti in prima.
Chi? di
che loco? e di che stirpe sei?"
E
Ulisse, che più là d'ogni uomo seppe:
"Donna,
esser può giammai pel mondo tutto
Chi la
lingua snodare osi in tuo biasmo?
La
gloria tua sino alle stelle sale,
Qual di
re sommo, che sembiante a un nume,
E su
molti imperando uomini e forti,
Sostiene
il dritto: la ferace terra
Di
folti gli biondeggia orzi e frumenti,
Gli
arbor di frutti aggravansi: robuste
Figlian
le pecorelle, il mar dà pesci
Sotto
il prudente reggimento; e giorni
L'intera
nazïon mena felici.
Ma pria
che della patria e del lignaggio,
Di
tutt'altro mi chiedi, acciò non cresca
Di tai
memorie il dolor mio più ancora.
Un
infelice io son, né mi conviene
Seder,
piagnendo, nella tua magione;
Che i
suoi confini ha il pianto, e ai luoghi vuolsi
Mirare
e ai tempi. Se non tu, sdegnarsi
Ben
potrìa contro a me delle serventi
Tue
donne alcuna, e dire ancor che quello,
Che
fuor m'esce degli occhi, è il molto vino".
E la
saggia Penelope a rincontro:
"Ospite,
a me virtù, sembianza, tutto
Rapito
fu dagl'immortali, quando
Co'
Greci ad Ilio navigava Ulisse:
S'ei,
rïentrando negli alberghi avìti,
A
reggere il mio stato ancor togliesse,
Ciò mia
gloria sarebbe, e beltà mia.
Or le
cure m'opprimono, che molte
Mandâro
a me gli abitator d'Olimpo.
Quanti
ha Dulichio e Same e la selvosa
Zacinto,
e la serena Itaca prenci,
Mi
ambiscon ripugnante; e sottosopra
Volgon
così la reggia mia, che poco
Agli
ospiti omai fommi e ai supplicanti
Veder,
né troppo degli araldi io curo.
Io mi
consumo, sospirando Ulisse.
Quei
m'affrettano intanto all'abborrito
Passo,
ed io contra lor d'inganni m'armo.
Pria
grande a oprar tela sottile, immensa,
Nelle
mie stanze, come un dio spirommi,
Mi
diedi, e ai proci incontanente io dissi:
"Giovani,
amanti miei, tanto vi piaccia,
Quando
già Ulisse tra i defunti scese,
Le mie
nozze indugiar, ch'io questo possa
Lugubre
ammanto per l'eroe Laerte,
Acciocchè
a me non pêra il vano stame,
Prima
fornir, che l'inclemente Parca
Di
lunghi sonni apportatrice il colga.
Non vo'
che alcuna delle Achee mi morda,
Se ad
uom, che tanto avea d'arredi vivo,
Fallisse
un drappo, in cui giacersi estinto".
A
questi detti s'acchetâro. Intanto
Io,
finché il dì splendea, l'insigne tela
Tesseva,
e poi la distessea la notte,
Di mute
faci alla propizia fiamma.
Un
trïennio così l'accorgimento
Sfuggii
degli Achei tutti, e fede ottenni.
Ma,
giuntomi il quarto anno, e le stagioni
Tornate
in sé con lo scader de' mesi,
E de'
celeri dì compiuto il giro,
Côlta
da proci, per viltà di donne
Nulla
di me curanti, alla sprovvista,
E
gravemente improverata, il drappo
Condurre
al termin suo dovei per forza.
Ora io
né declinar le odiate nozze
So, né
trovare altro compenso. A quelle
M'esortano
i parenti, e non comporta
Che la
sua casa gli si strugga il figlio,
Che
ormai tutto conosce, e al suo retaggio
Intender
può, qual cui dà gloria Giove.
Ad ogni
modo la tua patria dimmi,
Dimmi
la stirpe; d'una pietra certo
Tu non
uscisti o d'una quercia, come
Suona
d'altri nel mondo antica fama".
"O
veneranda", le rispose Ulisse,
"Donna
del Laerzìade, il mio lignaggio
Saper
vuoi dunque? Io te l'insegno. È vero
Che
augumento ne avran gli affanni miei,
Natural
senso di chïunque visse
Misero
pellegrin molt'anni e molti
Dalla
patria lontan: ma tu non cessi
D'interrogarmi,
e satisfarti io voglio.
Bella e
feconda sovra il negro mare
Giace
una terra che s'appella Creta,
Dalle
salse onde d'ogni parte attinta.
Gli
abitanti v'abbondano, e novanta
Contien
cittadi, e la favella è mista;
Poiché
vi son gli Achei, sonvi i natìi
Magnanimi
Cretesi ed i Cidonî,
E i
Dorî in tre divisi, e i buon Pelasgi.
Gnosso
vi sorge, città vasta, in cui
Quel
Minosse regnò, che del Tonante
Ogni
nono anno era agli arcani ammesso.
Ei
generò Deucalïone, ond'io,
Cui
nascendo d'Etón fu posto il nome,
Nacqui,
e nacque il mio frate Idomenèo,
Di
popoli pastor, che di virtute
Primo,
non che d'età, co' degni Atridi
Ad Ilio
andò su le rostrate navi.
Là vidi
Ulisse, ed ospitali doni
Gli
feci. A Creta spinto avealo un forte
Vento,
che, mentr'ei pur vêr la superba
Troia
tendea, dalle Malèe lo svolse,
E il
fermò nell'Amniso, ove lo speco
D'Ilitia
s'apre in disastrosa piaggia,
Sì che
scampò dalle burrasche appena.
Entrato
alla città, d'Idomenèo,
Che
venerando e caro egli chiamava
Ospite
suo, cercò: se non che il giorno
Correa
decimo o undecimo, che a Troia
Passato
il mio fratello era sul mare.
Ma io
l'addussi nel palagio, a cui
Nulla
d'agi mancava, e dove io stesso
Quell'onor
gli rendei ch'io seppi meglio.
E fu
per opra mia che la cittade
Bianco
pan, dolce vino e buoi da mazza,
I suoi
compagni a rallegrar, gli diede.
Dodici
dì nell'isola restâro,
Perché
levato da un avverso nume
Imperversava
un Aquilon sì fiero,
Che a
stento si reggea l'uomo sui piedi.
Quello
il dì terzodecimo al fin cadde;
E
solcavan gli Achei l'onde tranquille".
Così
fingea, menzogne molte al vero
Simili
proferendo: ella, in udirle,
Pianto
versava e distruggeasi tutta.
E come
neve che su gli alti monti
Sùbito
vento d'occidente sparse,
Sciogliesi
d'Euro all'improvviso fiato,
Sì che
gonfiati al mar corrono i fiumi:
Tal si
stemprava in lagrime, piangendo
L'uom
suo diletto, che sedeale al fianco.
Della
consorte lagrimosa Ulisse
Pietà
nell'alma risentìa: ma gli occhi
Stávangli,
quasi corno o ferro fosse,
Nelle
palpebre immoti, e gli stagnava
Nel
petto ad arte il ritenuto pianto.
Ella,
poiché di lagrime fu sazia,
Così
ripigliò i detti: "Ospite io voglio
Far
prova ora di te, se, qual racconti
Ulisse
e i suoi tu ricettasti in Creta.
Dimmi:
quai panni rivestìanlo? e quale
Di lui,
de' suoi compagni era l'aspetto?"
Rispose
il ricco di consigli Ulisse:
"Vigesim'anno
è omai ch'egli da Creta
Si
drizzò a Troia, e il favellare, o donna,
Di sì
antica stagion duro mi sembra.
Io
tutta volta ubbidirò, per quanto
Potrà
sovra di sé tornar la mente.
Un
folto Ulisse avea manto velloso
Di
porpora, cui doppio unìa sul petto
Fermaglio
d'oro, e nel dinanzi ornava
Mirabile
ricamo: un can da caccia
Tenea
co' piedi anterïori stretto
Vaio
cerbiatto, e con aperta bocca
Sovra
lui, che tremavane, pendea;
E
stupìa il mondo a rimirarli in oro
Effigïati
ambo così, che l'uno
Soffoca
l'altro e già l'addenta, e l'altro
Fuggir
si sforza e palpita ne' piedi.
In
dosso ancora io gli osservai sì molle
Tunica
e fina sì, qual di cipolla
Vidi
talor l'inaridita spoglia,
E
splendea, come il Sol; tal che di molte
Donne,
che l'addocchiâr, fu maraviglia.
Ma io
non so, se in Itaca gli stessi
Vestiti
usasse, o alcun di quei che seco
Partiro
su la nave, o in lor magioni
Viaggiante
l'accolsero, donati
Gli
avesse a lui: che ben voluto egli era,
E pochi
l'agguagliâro in Grecia eroi.
So che
una spada del più fino rame
E un
bel manto purpureo, e una talare
Veste
in dono io gli porsi, e all'impalcata
Nave il
guidai, di riverenza in segno.
Araldo,
che d'età poco il vincea,
L'accompagnava,
alto di spalle e grosso,
Dov'io
rappresentarlo a te dovessi,
Nero la
cute ed i capelli crespo,
E
chiamavasi Eurìbate. Fra tutti
I suoi
compagni l'apprezzava Ulisse,
Come
più di pensieri a sé conforme".
A
queste voci maggior voglia in lei
Surse
di pianto, conosciuti i segni
Che sì
chiari e distinti esporsi udiva.
Fermato
il lagrimare: "Ospite", disse,
"Di
pietà mi sembrasti, e d'ora innanzi
Di
grazia mi parrai degno e d'onore.
Io
stessa gli recai dalla secreta
Stanza
piegate le da te descritte
Vesti
leggiadre, io nel purpureo manto
La
sfavillante d'ôr fibbia gli affissi.
Or né
vederlo più, né accôrlo in questa
Sua
dolce terra sperar posso. Ahi crudo
Destin
ben fu, che alla malvagia Troia,
Nome
abborrito, su per l'onda il trasse!"
"D'Ulisse",
egli riprese, "inclita donna,
Al bel
corpo, che struggi, omai perdona,
Né più
volerti macerar nell'alma,
L'uom
tuo piangendo. Non già ch'io ten biasmi
Ché
ognuna spento quell'uom piange, a cui
Vergine
si congiunse e diede infanti,
Benché
diverso nel valor da Ulisse,
Che
agli dèi somigliar canta la fama.
Ma
resta dalle lagrime, e l'orecchio
Porgi
al mio dir, che sarà vero e intègro.
Io de'
Tespròti tra la ricca gente
Ch'ei
vive, intesi, e già ritorna, e molti
Tesor,
che qua e là raccolse, adduce.
È ver
che perdé il legno e i suoi compagni
Della
Trinacria abbandonando i lidi,
Per la
giusta di Giove ira e del Sole
Di cui
morto que' folli avean l'armento.
Il mar,
che tutti gl'inghiottì, sospinse
Lui su
gli avanzi della nave infranta
Al caro
degli dèi popol Feace.
Costor
di cuore il riverian qual nume,
Colmávanlo
di doni, e in patria salvo
Ricondurre
il volean: se non che nuove
Terre
veder pellegrinando e molti
Tesori
radunar, più saggio avviso
Parve
all'eroe d'accorgimenti mastro,
E cui
non v'ha chi di saver non ceda.
Così a
me de' Tespròti il re Fidone
Disse e
giurava, in sua magion libando,
Che
varata la barca era, e parati
Quei
che dovean ripatrïarlo. Quindi
Mi
congedò: ché per Dulichio a sorte
Le vele
alzava una Tesprozia nave.
Ma ei
mostrommi in pria quanto avea Ulisse
Raccolto
errando, e che una casa intera
Per
dieci etadi a sostener bastava.
Poi
soggiungeami, che a Dodona ir volle,
Giove
per consultare, e udir dall'alta
Quercia
indovina, se ridursi ai dolci
Campi
d'Itaca sua dopo sì lunga
Stagion
dovesse alla scoperta, o ignoto.
Salvo è
dunque e vicin; né dagli amici
Disgiunto
e schiuso dalle avite mura
Gran
tempo rimarrà. Vuoi tu ch'io giuri?
Prima
il Saturnio in testimonio io chiamo,
Sommo
tra i numi ed ottimo, e d'Ulisse
Poscia
il sacrato focolar, cui venni:
Tutto,
qual dico, seguir dee. Quest'anno,
L'uno
uscendo de' mesi o entrando l'altro,
Varcherà
Ulisse le paterne soglie.
"Oh
s'avveri!" Penelope rispose.
"Tai
dell'affetto mio pegni tu avresti,
Che
quale, o forestiero, in te con gli occhi
Dêsse,
dirìa: "Vedi mortal beato!"
Ma
altro io penso, e quel ch'io penso, fia:
Né
riedere il consorte, né tu scorta
Impetrerai;
ché non v'ha più un Ulisse
Qui, se
pur v'era un giorno e non fu sogno,
Un
Ulisse non v'ha, che i venerandi
Ospiti
accôr nel suo real palagio
Sappia
ed accommiatarli. Or voi mie
donne
Lavate
i piedi allo straniero, e un denso
Di
coltri e vesti e splendidi mantelli
Letto
gli apparecchiate, ov'ei corcato
Tutta
notte si scaldi in sino all'alba.
L'alba
comparsa in orïente appena,
Voi
tergetelo e ungetelo; ed ei mangi
Seduto
in casa col mio figlio, e guai
De'
servi a quel che ingiurïarlo ardisse!
Ufficio
più non gli sarà commesso,
Per
cruccio ch'ei mostrassene. Deh come
Sapresti,
o forastier, ch'io l'altre donne
Vinco,
se vinco, di bontate e senno,
Mentre
di cenci e di squallor coverto
Pasteggiar
ti lasciassi entro l'albergo?
Cose
brevi son gli uomini. Chi nacque
Con
alma dura e duri sensi nutre,
Le
sventure a lui vivo il mondo prega,
E il
maledice morto. Ma se alcuno
Ciò che
v'ha di più bello ama ed in alto
Poggia
con l'intelletto, in ogni dove
Gli
ospiti portan la sua gloria, e vola
Eterno
il nome suo di bocca in bocca".
"Saggia
del figlio di Laerte donna",
Ripigliò
Ulisse, "le vellose vesti
Cadeanmi
in odio ed i superbi manti,
Da quel
dì che su nave a lunghi remi
Lasciai
di Creta i nevicosi monti.
Io
giacerò, qual pur solea, passando
Le
intere notti insonne. Oh quante notti
Giacqui
in sordido letto, e dell'Aurora
Mal
corcato affrettai la sacra luce!
Né a me
de' piedi la lavanda piace:
Né
delle donne, che ne' tuoi servigi
Spendonsi,
alcuna toccherà il mio piede,
Se non
è qualche annosa e onesta vecchia,
Che al
par di me sofferto abbia a' suoi giorni
A
questa il piede non disdirei toccarmi".
E
l'egregia Penelope di nuovo:
"Ospite
caro, pellegrin di senno
Non
capitò qua mai ché di te al core
Mi
s'accostasse più, di te, che in modo
Leggiadro
esprimi ogni prudente senso.
Una
vecchia ho, molto avvisata e scorta,
Che
nelle braccia sue quell'infelice
Raccolse
uscito del materno grembo,
E buon
latte gli dava ed il crescea.
Ella,
benché di vita un soffio in lei
Rimanga
sol, ti laverà le piante.
Via,
fedele Euriclèa, sorgi e a chi d'anni
Pareggia
il tuo signor, le piante lava.
Tal ne'
piedi vederlo e nelle mani
Parmi
in qualche da noi lontana parte:
Ché
ratto l'uom tra le sciagure invecchia".
Euriclèa
con le man coperse il volto
E versò
calde lagrime, e dolenti
Parole
articolò: "Me sventurata,
Figlio,
per amor tuo! Più che altri al mondo,
Te, che
nol merti, odia il Saturnio padre.
Tanti
non gli arse alcun floridi lombi,
Tante
ecatombe non gli offerse, come
Tu, di
giunger pregandolo a tranquilla
Vecchiezza,
e un prode allevar figlio; ed ecco
Che del
ritorno il dì Giove ti spense.
O buon
vegliardo, allor che a un alto albergo
D'alcun
signor lontano ei pellegrino
S'appresserà,
l'insulteran le donne,
Qual te
insultâro tutte queste serpi,
Da cui,
l'onte schivandone e gli oltraggi,
Venir
tocco ricusi; ed a me quindi
La
figlia saggia del possente Icario
Tal
ministero impon, che non mi grava.
Io
dunque il compierò, sì per amore
Della
reina, e sì per tuo: ché forte
Commossa
dentro il sen l'alma io mi sento.
Ma tu
ricevi un de' miei detti ancora:
Fra
molti grami forestier, che a questa
Magion
s'avvicinâro, un sol, che Ulisse
Nella
voce, ne' piedi, in tutto il corpo,
Somigliasse
cotanto io mai nol vidi".
"Vecchia",
rispose lo scaltrito eroe,
"Così
chïunque ambo ci scôrse, afferma:
Correr
tra Ulisse e me, qual tu ben dici,
Somiglianza
cotal, che l'un par l'altro".
L'ottima
vecchia una lucente conca
Prese,
e molta fredd'acqua entro versovvi
E su vi
sparse la bollente. Ulisse,
Che al
focolar sedea, vêr l'ombra tutto
Si girò
per timor, non Euriclèa
Scorgesse,
brancicandolo, l'antica
Margine
ch'ei portava in su la coscia,
E alla
sua fraude si togliesse il velo.
Euriclèa
nondimen, che già da presso
Fatta
gli s'era ed il suo re lavava,
Il
segno ravvisò della ferita
Dal
bianco dente d'un cinghiale impressa
Sul
monte di Parnaso; e ciò fu, quando
Della
sua madre al genitor famoso
Garzone
andò ad Autolico, che tutti
Del
rapir vinse e del giurar nell'arti,
Per
favor di Mercurio, a cui sì grate
Cosce
d'agnelli ardeva e di capretti,
Che
ogni suo passo accompagnava il nume.
Autolico
un dì venne all'Itacese
Popolo
in mezzo e alla città, che nato
Era di
poco alla sua figlia un figlio.
Questo
Euriclèa su le ginocchia all'avo
Dopo il
convito pose, e feo tai detti:
"Autolico,
tu stesso il nome or trova
Da
imporre in fronte al grazïoso parto,
Per cui
stancasti co' tuoi voti i numi".
E
prontamente Autolico in risposta:
"Genero
e figlia mia, quel gl'imporrete
Nome,
ch'io vi dirò. D'uomini e donne
Su
l'altrìce di molti immensa terra
Spavento
io fui: dunque si chiami Ulisse.
Io poi,
se, di bambin fatto garzone,
Nel
superbo verrà materno albergo
Sovra
il Parnaso, ove ho le mie ricchezze,
Doni
gli porgerò, per cui più lieto
Discenderà
da me che a me non salse".
A
ricevere Ulisse andò tai doni,
E
Autolico l'accolse ed i suoi figli,
Con
amiche parole e aperte braccia;
E
l'avola Anfitèa, strettolo al petto,
Il capo
ed ambi gli baciò i begli occhi.
Ai
figli il padre comandò, né indarno,
La
mensa: un bue di cinque anni menaro,
Lo
scoiâr, l'acconciâr, tutto il partiro;
E i
brani, che ne fur con arte fatti,
Negli
schidoni infissero, e ugualmente
Li
dispensâr, domi che gli ebbe il foco.
Così
tutto quel dì d'ugual per tutti
Prandio
godean sino all'occaso. Il sole
Caduto
e apparsa della notte l'ombra,
La
dolcezza provâr, cui reca il sonno.
Ma come
figlia del mattin l'Aurora
Si
mostrò in ciel ditirosata e bella,
I
figliuoli d'Autolico ed Ulisse
Con
molti cani a una gran caccia usciro.
La
vestita di boschi alta montagna
Salgono,
e in breve tra i ventosi gioghi
Veggonsi
di Parnaso. Il sol recente,
Dalle
placide sorto acque profonde
Dell'Oceán,
su i rugiadosi campi
Saettava
i suoi raggi, e i cacciatori
Scendeano
in una valle: innanzi i cani
Ivan,
fiutando le salvatic'orme,
E co'
figli d'Autolico, pallando
Una
lancia, che lunga ombra gittava,
Tra i
cani e i cacciatori andava Ulisse.
Smisurato
cinghiale in così folta
Macchia
giacea, ché di venti acquosi
Forza,
né raggio mai d'acuto sole
La
percoteva, né le piogge affatto
V'entravano:
coprìa di secche foglie
Gran
dovizia la terra. Il cinghial fiero,
Che al
calpestìo, che gli sonava intorno,
Appressare
ognor più sentìa la caccia,
Sbucò
del suo ricetto, e orribilmente
Rizzando
i peli della sua cervice,
E con
pregni di foco occhi guatando,
Stette
di contra. Ulisse il primo, l'asta
Tenendo
soprammano, impeto fece
In lui,
ch'ei d'impiagare ardea di voglia:
Ma la
fera prevennelo, ed il colse
Sovra
il ginocchio con un colpo obliquo
Della
gran sanna e ne rapì assai carne;
Né però
della coscia all'osso aggiunse.
Ferilla
Ulisse allor nell'omer destro,
Dove il
colpo assestò: scese profonda
L'aguzza
punta della fulgid'asta;
E il
mostro su la polvere cadé,
Mettendo
un grido e ne volò via l'alma.
Ma
d'Autolico i figli a Ulisse tutti
Travagliavansi
intorno: acconciamente
Fasciâr
la piaga, e con possente incanto
Il
sangue ne arrestâro, e dell'amato
Padre
all'albergo il trasportaro in fretta.
Sanato
appieno e di bei doni carco,
Contenti
alla cara Itaca contento
Lo
rimandaro. Il padre suo Laerte
E la
madre Anticlèa gioìan pur troppo
Del suo
ritorno; e il richiedean di tutto,
E più
della ferita; ed ei narrava,
Come,
invitato a una silvestre guerra
Da'
figliuoli dell'avo, il bianco dente
Piagollo
d'un cinghial sovra il Parnaso.
Tal
cicatrice l'amorosa vecchia
Conobbe,
brancicandola, ed il piede
Lasciò
andar giù: la gamba nella conca
Cadde,
ne rimbombò il concavo rame,
E piegò
tutto da una banda; e in terra
L'acqua
si sparse. Gaudio a un'ora e duolo
La
prese, e gli occhi le s'empiêr di pianto,
E in
uscir le tornò la voce indietro.
Proruppe
al fin, prendendolo pel mento:
"Caro
figlio, tu sei per certo Ulisse,
Né io,
né io ti ravvisai, che tutto
Pria
non avessi il mio signor tastato".
Tacque;
e guardò Penelope, volendo
Mostrar
che l'amor suo lungi non era.
Ma la
reina né veder di contra
Poteo,
né mente por: che Palla il core
Le
torse altrove. Ulisse intanto strinse
Con la
man destra ad Euriclèa la gola,
E a sé
tirolla con la manca, e disse:
"Nutrice,
vuoi tu perdermi? Tu stessa,
Sì, mi
tenesti alla tua poppa un giorno,
E
nell'anno ventesimo, sofferte
Pene
infinite, alla mia patria io venni.
Ma,
poiché mi scopristi, e un dio sì volle,
Taci, e
di me qui dentro altri non sappia:
Però
ch'io giuro, e non invan, che s'io
Con
l'aiuto de' numi i proci spegno,
Né da
te pur, benché mia balia, il braccio,
Che
l'altre donne ucciderà, ritengo".
"Figlio,
qual mai dal core osò parola
Salirti
in su le labbra?" ella riprese.
"Non
mi conosci tu nel petto un'alma
Ferma
ed inespugnabile? Il segreto
Io
serberò, qual dura selce o bronzo.
Ciò
senti ancora, e tel rammenta: dove
Spengan
gli dèi per la tua mano i proci
Delle
donne in palagio ad una ad una
Qual
t'ingiuria io dirotti, e qual t'onora".
"Nutrice,
del tuo indizio uopo non havvi",
Ripigliò
Ulisse, "io per me stesso tutte
Le
osserverò, conoscerolle: solo
Tu a
tacer pensa, e lascia il resto ai numi".
La
vecchia tosto per nuov'acqua uscìo,
Sparsa
tutta la prima. Asterso ch'ebbe
Ulisse
ed unto, ei nuovamente al foco,
Calde
aure a trarne, s'accostò col seggio,
E co'
panni la margine coverse.
E
Penelope allor: "Brevi parole,
Ospite,
ancora. Già de' dolci sonni
Il
tempo è giunto per color, cui lieve
Doglia
consente il ricettarli in petto.
Ma
doglia a me non lieve i numi diero.
Finché
riluce il dì, solo ne' pianti
Piacere
io trovo e ne' sospiri, mentre
Guardo
ai lavori dell'ancelle e a' miei.
La
notte poi, quando ciascun s'addorme,
Che val
corcarmi, se le molte cure
Crudele
intorno al cor muovonmi guerra?
Come
allor che di Pándaro la figlia,
Ne'
giorni primi del rosato aprile,
La
fioriscente Filomela, assisa
Degli
arbor suoi tra le più dense fronde,
Canta
soavemente, e in cento spezza
Suoni
diversi la instancabil voce;
Iti,
che a Zeto partorì, piangendo,
Iti
caro, che poi barbara uccise
Per
insania, onde più sé non conobbe:
Non altrimenti
io piango, e l'alma incerta
In
questa or piega ed ora in quella parte,
S'io
stia col figlio, e intègro serbi il tutto,
Le
sostanze, le serve e gli alti tetti,
Del mio
consorte rispettando il letto,
E del
popol le voci; o quello io siegua
Degli
Achei tra i miglior, che alle mie nozze,
Doni
infiniti presentando, aspira.
Sino a
tanto che il figlio era di senno,
Come
d'età, fanciullo ancor, lasciata
Questa
io mai non avrei per altra casa:
Ma or
ch'ei crebbe, e della pubertade
Già la
soglia toccò, men priega ei stesso
Non
potendo mirar lo strazio indegno
Che di
lui fan gli Achivi. Or tu, su
via,
Spiegami
un sogno, ch'io narrarti intendo.
Venti
nella mia corte oche nutrisco,
E di
qualche diletto emmi il vederle
Coglier
da limpid'acqua il biondo grano.
Mentr'io
le osservo, ecco dall'alto monte
Grande
aquila calar curvorostrata,
Frangere
a tutte la cervice, tutte
L'una
su l'altra riversarle spente.
E
risalir vèr l'etere divino.
Io
mettea lai, benché nel sogno, e strida,
E le
nobili Achee dal crin ricciuto
Venìano
a me, che miserabilmente
L'oche
plorava dall'aguglia morte,
E a me
intorno affollavansi. Ma quella,
Rivolando
dal ciel, su lo sporgente
Tetto
sedeasi, e con umana voce:
"Ti
accheta", diceami, "e spera, o figlia
Del
glorïoso Icario: un vano sogno
Questo
non è, ma visïon verace
Di ciò
che seguirà. Nell'oche i proci"
Ravvisa,
e in queste d'aquila sembianze
Il tuo
consorte, che al fin venne, e tutti
Stenderà
nel lor sangue a terra i proci.
Tácquesi:
ed il sonno abbandonommi, ed io,
Gittando
gli occhi per la corte, vidi
Le oche
mie, che nel truògolo, qual prima,
I
graditi frumenti ivan beccando".
"Donna",
rispose di Laerte il figlio,
"Altramente
da quel che Ulisse feo
Non
lice il sonno interpretar: l'eccidio
Di
tutti i proci manifesto appare".
E la
saggia Penelope: "Non tutti,
Ospite,
i sogni investigar si ponno.
Scuro
parlano e ambiguo, e non risponde
L'effetto
sempre. Degli aerei sogni
Son due
le porte, una di corno, e l'altra
D'avorio.
Dall'avorio escono i falsi,
E
fantasmi con sé fallaci e vani
Portano:
i veri dal polito corno,
E
questi mai l'uom non iscorge indarno.
Ah!
creder non poss'io che quinci uscisse
L'immagin
fiera d'un evento, donde
Tanta
verrebbe a me gioia e al mio figlio.
Ma odi
attento i detti miei. Già l'Alba,
Che
rimuover mi dee da questi alberghi,
Ad
apparir non tarderà. Che farmi?
Un
giuoco io propor vo'. Dodici pali,
Quai
puntelli di nave, intorno a cui
Va del
fabbro la man, piantava Ulisse
L'un
dietro all'altro con anelli in cima;
Ed ei,
lunge tenendosi, spingea
Per
ogni anello la pennuta freccia.
Io tal
cimento proporrò. Chi meglio
Tender
l'arco saprà fra tutti i proci,
E
d'anello in anello andar col dardo,
Lui
seguir non ricuso, abbandonando
Questa
sì bella e ben fornita e ricca
Magion
de' miei verd'anni, ond'anche in sogno
Dovermi
spesso ricordare io penso".
"O
veneranda", ripigliava Ulisse,
Donna
del Laerzìade, una tal prova
Punto
non differir: pria che un de' proci
Questo
maneggi arco lucente, e il nervo
Ne
tenda e passi pe' ritondi ferri,
Ti
s'offrirà davante il tuo consorte".
E Penelope
al fine: "Ospite, quando,
Vicino
a me sedendoti, il diletto
Protrar
della tua voce a me volessi,
Non mi
cadrebbe su le ciglia il sonno.
Ma non
può sempre l'uom vivere insonne:
Ché
legge a tutto stabilîro e meta
Su la
terra fruttifera gli eterni.
Io,
nelle stanze alte salita, un letto
Premerò,
che divenne a me lugubre
Dal dì
che Ulisse il canape funesto
Per la
nemica sciolse infanda Troia.
Tu nel
palagio ti riposa, e a terra
Sdráiati,
o, se ti piace, a te le mie
Donne
apparecchieran, dove corcarti".
La
Regina, ciò detto, alle superne
Montò
sue stanze, e non già sola; ed ivi
Sino a
tanto piangea l'amato Ulisse,
Che un
dolce sonno sovra lei spargesse
La
cilestra negli occhi augusta diva.
LIBRO XX
Il
magnanimo figlio di Laerte
Giacea
nell'atrio. Una recente pelle
Steso
aveasi di bue con altre molte
Di
pingui agnelle, dagl'ingordi Achei
Sacrificate;
e d'un velloso manto
Lui già
corcato Eurìnome coverse.
Qui co'
pensieri suoi l'eroe vegliava,
Sventure
ai proci divisando. Intanto
Le
ancelle, che soleano ai proci darsi,
Usciro
di lor camere, in gran riso
Prorompendo
tra loro e in turpe gioia.
Ei
forte l'alma si sentìa commossa,
E
bilanciava, se avventarsi, e tutte
Porle a
morte dovesse in un istante,
O
consentir che per l'estrema volta
Delinquesser
le tristi; e in sé fremea.
E come
allor che ai cagnolini intorno
Gira la
madre, e, se un ignoto spunta,
Latra e
brama pugnar: non altrimenti
Egli,
che mal patìa l'opre nefande,
Alto
fremea nel generoso petto.
Pur,
battendosi l'anca e rampognando
Egli
stesso il suo cor: "Soffri", gli disse,
"Tu
che assai peggior male allor soffristi
Che il
Ciclope fortissimo gli amici
Mi
divorava. Tollerar sapesti,
Finché
me fuor dell'antro il senno trasse
Quand'io
già della vita era sull'orlo".
Ei così
i moti reprimea del core
Che ne'
recinti suoi cheto si stette.
Non
lasciava però su l'un de' fianchi
Di
voltarsi o sull'altro, a quella guisa
Che
pien di sangue e d'ádipe ventriglio
Uom,
che si strugge di vederlo incotto,
D'un
gran foco all'ardor volge e rivolge.
Su
questo ei si voltava o su quel fianco,
Meditando
fra sé, come potesse
Scagliarsi
al fin contra i malnati prenci,
Contra
molti egli solo; ed ecco, scesa
Di
cielo, a lui manifestarsi, in forma
D'una
mortale, l'Atenèa Minerva.
Stettegli
sovra il capo, e tai parole
Gli
volse: "O degli umani il più infelice,
Perché
i conforti rifiutar del sonno?
Sei pur
nel tuo palagio, appo la fida
Tua
donna, e al fianco d'un figliuolo, a cui
Vorrìano
aver l'uguale i padri tutti".
"Il
ver parlasti, o dea", rispose Ulisse:
"Se
non che meco io mi consiglio, come
Scagliarmi
ai proci svergognati incontro,
Mentre
in folla ognor son quelli, ed io solo.
In
oltre io penso, e ciò più ancor mi turba,
Che,
quando col favore anco m'avvenga
Del
Tonante e col tuo, cacciarli a Dite;
Non so
dove sottrarmi a quella turba
Che
vengiarli vorrà. Tu questo libra".
"Tristo!"
riprese la negli occhi Azzurra,
"L'uomo
a un compagno suo crede, a un mortale
Peggior
di sé talvolta e meno esperto,
E tu
non a me diva, e a me, che in ogni
Travaglio
tuo sempre ti guardo? Sappi,
Che se
cinquanta d'uomini parlanti
Fosserci
intorno pugnatrici schiere,
Sparsi
per la campagna i greggi loro
Tua
preda diverrìano e i loro armenti.
Chétati,
e il sonno nel tuo sen ricevi:
Ché
vegliando passar la notte in guardia
Troppo
è molesto. Uscirai fuor tra poco
Da
tutti senza dubbio i mali tuoi".
Disse,
e un sopor dolcissimo gl'infuse:
Né pria
le membra tutte quante sciolte
Gli
vide, e sgombra d'ogni affanno l'alma
Che
all'Olimpo tornò l'inclita diva.
Ma il
sonno sen fuggì dagli occhi a un tratto
Della
reina, che già sovra il molle
Letto
sedeasi e ricadea nel pianto.
Come
sazia ne fu, calde a Dïana
Preghiere
alzò la sconsolata donna:
"O
del Saturnio figlia, augusta dea.
Deh!
nel mio seno un de' tuoi dardi scocca,
E ratto
poni in libertà quest'alma,
O mi
rapisca il turbine, e trasporti
Per
l'aria, e nelle rapide correnti
Dell'Oceàn
retrogrado mi getti.
Così
già le Pandàridi spariro,
Che per
voler de' numi, alla lor madre
Crucciati
e al padre, nella mesta casa
Orfanelle
rimaste erano e sole;
Venere
le nutrì di dolce mele,
Di vin
soave e di rappreso latte:
Senno e
beltade sovra ogni altra donna
Giuno
compartì loro, Artemi un'alta
Statura,
ed ai lavori i più leggiadri
Mano e
intelletto la gran dea d'Atene.
Già
Venere d'Olimpo i gioghi eccelsi
Montato
avea, per dimandar le nozze
Delle
fanciulle al fulminante Giove,
Che
nulla ignora e i tristi eventi e i lieti
Conosce
de' mortali, e quelle intanto
Dalle
veloci Arpie fûro rapite,
E in
balìa date alle odïose Erinni.
Cosi
d'Itaca me tolgano i numi,
O d'un
de' dardi suoi l'orocrinita
Dïana
mi ferisca; ond'io ritrovi,
Benché
ne' regni della morte, Ulisse,
E del
mio maritaggio uom non rallegri,
Che di
lui fia tanto minore. Ahi lassa!
Ben
regger puossi la più ria sventura,
Quando,
passati lagrimando i giorni,
Le
notti almen ci riconforta il sonno,
Che su
i beni l'obblìo sparge e su i mali.
Ma
sogni a me fallaci un nume invìa:
E
questa notte ancor mi si corcava
Da
presso il mio consorte in quel sembiante
Che
avea nel dì che su la nave ascese".
Tacque;
e sul trono d'ôr l'Aurora apparve.
Ulisse
udì le lagrimose voci,
Ed in
sospetto entrò, che fatta accorta
Di lui
si fosse, e già pareagli al capo
Vedersela
vicina. Alzossi, e il manto
E i
cuoi, tra cui giacea, raccolse e pose
Sovra
una sedia, e la bovina pelle
Fuor
portò del palagio. Indi, levate
Le
mani, a Giove supplicava: "O Giove
Padre e
dèi tutti, che per terra e mare
Me dopo
tanti affanni al patrio nido
Riconduceste,
un lieto augurio in bocca
Mettete
ad un di quei che nell'interno
Végghiano;
e all'aria aperta un tuo prodigio
Giove,
mi mostra". Così orando, disse.
Udillo
il sommo Giove, e incontanente
Dal
sublime tonò lucido Olimpo
E
l'eroe giubilonne. Al tempo istesso
Donna,
che il grano macinava, detti
Presàghi
gli mandò, donde non lungi
Del
pastor delle genti eran le mole,
Dodici
donne con assidua cura
Giravan
ciascun dì dodici mole
E in
bianca polve que' frumenti ed orzi
Riducean,
che dell'uom son forza e vita.
Le
altre dormìan dopo il travaglio grave:
Ma
quella, cui reggean manco le braccia,
Compiuto
non l'avea. Costei la mola
Fermò
di botto, e feo volar tai voci,
Che
segnale al re fûro: "O padre Giove,
Degli
uomini signore e degli dèi,
Forte
tonasti dall'eterea volta,
E non
v'ha nube. Tal portento è al certo
Per
alcun de' mortali. Ah! le preghiere
Anco di
me infelice adempi, o padre;
Cessi
quest'oggi nella bella sala
Il
disonesto pasteggiar de' proci,
Che di
fatica m'hanno e di tristezza
Presso
un grave macigno omai consunta.
L'ultimo
sia de' lor banchetti questo!"
Della
voce allegravasi e del tuono
L'illustre
figlio di Laerte, e l'alta
Già in
pugno si tenea giusta vendetta.
L'altre
fantesche raccoglieansi intanto,
E un
foco raccendean vivo e perenne.
Ma il
deiforme Telemaco di letto
Surse,
vestì le giovanili membra,
L'acuto
brando all'òmero sospese,
Legò
sotto i piè molli i bei calzari,
E una
valida strinse asta nodosa
Con
fino rame luminoso in punta.
Giunto
alla soglia, s'arrestò col piede
E ad
Euriclèa parlò: "Cara nutrice,
Il
trattaste voi ben di cibo e letto
L'ospite?
O forse non curato giacque?
Anco la
madre mia, benché sì saggia,
Sfallisce
in questo: chi è men degno, onora,
E non
cura onorar chi più sel merta".
Ed
Euriclèa: "Figliuol, non incolparmi
La
innocente tua madre. A suo piacere
Bevea
l'ospite assiso; e quanto all'esca,
Domandato
da lei, disse, mestieri
Non ne
aver più. Come appressava l'ora
Del
riposo e del sonno, apparecchiargli
C'impose
un letto: ma i tappeti molli
Rifiutò,
qual chi vive ai mali in grembo.
Corcossi
nel vestibolo su fresca
Pelle
di tauro e cuoi d'agnelli: noi
D'una
vellosa clamide il coprimmo".
Telemaco,
ciò udito, uscìa dell'alte
Stanze,
al foro per ir, con l'asta in mano;
E due
seguìanlo pieveloci cani.
Colà
gli Achei dagli schinieri egregi
Raccolti
l'attendean: mentre l'antica
D'Opi
di Pisenòr figlia, le ancelle
Stimolando:
"Affrettatevi", dicea,
"Parte
a nettar la sala e ad inaffiarla,
E le
purpuree su i ben fatti seggi
Coverte
a dispiegar; parte le mense
Con le
umide a lavar forate spugne
E i
vasi a ripolire e i lavorati
Nappi
ritondi; ed al profondo fonte
Parte
andate per l'acqua, e nel palagio
Recatela
di fretta. I proci molto
Non
tarderan: sollecitar li dee
Questo
dì, che festivo a tutti splende".
Tutti
ascoltâro ed ubbidîro. Venti
Al
fonte s'avvïâr dalle nere acque:
L'altre
gli altri compieano interni uffici.
Vennero
i servi degli Achivi, e secche
Legna
con arte dividean; le donne
Venner
dal fonte; venne Eumèo, guidando
Tre,
della mandra fior, nitidi verri,
Che nel
vasto cortil pascer lasciava.
Quindi,
fermate nel suo re le ciglia:
"Vecchio,
imparâro a rispettarti forse,
O",
disse, "a t'oltraggiar seguon gli Achei?"
"Eumèo",
rispose il re, "piacesse ai numi
Questa
gente punir, che nell'altrui
Magion
rei fatti, ingiurïando, pensa,
E
dramma di pudor non serba in petto!"
Così
tra lor dicean, quando il capraio
Co' più
bei della greggia eletti corpi,
L'avido
ventre a rïempir de' proci,
Giunse,
Melanzio; e seco due pastori.
Ei le
capre legò sotto il sonante
Portico,
e morse nuovamente Ulisse:
"Stranier,
molesto ci sarai tu ancora,
Mendicando
da ognun? Fuori una volta
Non
uscirai? Difficilmente, io credo,
Noi ci
dividerem, che l'un dell'altro
Assaggiate
le man non abbia in prima:
Però
che tu villanamente accatti.
Altra
mensa in città dunque non fuma?"
Nulla
l'offeso eroe: ma sol crollava
Tacitamente
il capo, e la risposta,
Che
farà con la man, tra sé volgea.
Filezio
in quella sopraggiunse terzo,
Grassa
vacca menando e pingui capre,
Cui
traghettò su passeggiera barca
Gente
di mar, che a questa cura intende.
Le
avvinse sotto il portico, e, vicino
Fattosi
a Eumèo, l'interrogava: "Eumèo,
Chi è
quello stranier che ai nostri alberghi
Testé
arrivò? Quali esser dice, e dove
La sua
terra nativa e i padri suoi?
Lasso!
un monarca egli mi sembra in vista.
Certo
piace agli dèi metter nel fondo
Delle
sventure i vïandanti, quando
Si
destina da loro ai re tal sorte".
Disse,
e appressando il forestiero e a lui
La man
porgendo: "Ospite padre, salve!"
Soggiunse:
"almen, se nella doglia or vivi,
Sorganti
più sereni i giorni estremi!
Giove,
qual mai di te nume più crudo,
Che
alla fatica e all'infortunio in preda
Lasci i
mortali, cui la vita desti?
Freddo
sudor bagnommi e mi s'empiêro
Gli
occhi di pianto, immaginando Ulisse,
Cui
veder parmi con tai panni in dosso
Tra gli
uomini vagar, se qualche terra
Sostienlo
ancora, e gli risplende il Sole.
Sventurato
di me! L'inclito Ulisse
A me
fanciullo delle sue giovenche
La cura
diè ne' Cefalleni campi;
Ed io
sì le guardai, che in infinito
L'armento
crebbe dalle larghe fronti.
Questo
sul mare trasportar per esca
Deggio
a una turba di signori estrani,
Che né
guarda al figliuol, né gli dèi teme:
Mentre
de' beni del mio sir lontano
La
parte, cui finor perdonò il dente,
Con gli
occhi ella divora e col desìo.
Ora io
stommi fra due: perché rea cosa
Certo
sarìa, vivo il figliuolo, a un'altra
Gente
con l'armento ir; ma d'altra parte
Pesami
fieramente appo una mandra
Restar,
che a me divenne omai straniera.
E se
non fosse la non morta speme
Che
quel misero rieda e sperda i proci,
Io di
qualche magnanimo padrone
Già
nella corte riparato avrei:
Ché tai
cose durar più non si ponno".
E
l'eroe sì gli rispondea: "Pastore,
Poiché
malvagio non mi sembri e stolto,
E senno
anche dimostri, odi i miei detti,
E il
giuramento che su questi siede.
Io pria
tra i numi in testimonio Giove,
E la
mensa ospital chiamo, e d'Ulisse
Il
venerando focolar, cui venni:
Giungerà
il figlio di Laerte, e all'Orco
Precipitar
gli usurpatori proci
Vedranlo,
se tu vuoi, gli occhi tuoi stessi".
"Ospite,
questo il Saturnìde adempia",
Replicò
il guardïan: "vedresti, come
Intrepido
seguir del mio signore
La
giusta ira io saprei". Tacque; ed Eumèo
S'unìa
con esso, e agl'immortali tutti
Pel
ritorno del re preghiere fea.
Morte
intanto a Telemaco s'ordìa
Dai
proci. È ver che alla sinistra loro
Un'aquila
comparve altovolante,
Che
avea colomba trepida tra l'ugne.
Tosto
Anfinomo sorse, e: "Amici", disse,
"Lasciam
da un lato la cruenta trama,
Cui più
che invan, si pensa; ed il convito
Ci
sovvenga più presto". E il detto piacque.
I proci
entraro nel palagio, e i manti
Sovra i
seggi deposero: le pingui
Capre e
i montoni s'immolaro, corse
De' verri
il sangue, e la buessa, onore
Dell'armento,
cadé. Fûro spartite
Le
abbrustolate viscere, e mesciuto
Nell'urne
il rosso vino. Eumèo le tazze,
Filezio
i pani dispensò ne' vaghi
Canestri:
ma dall'urne il buon licore
Melanzio
nelle ciòtole versava.
E già i
prenci volgeano all'apprestate
Mense
il pensier, quando d'Ulisse il figlio,
Non
senza un suo perché, seder fe' il padre
Presso
il marmoreo limitar, su rozzo
Scanno
ed a picciol desco; e qui una parte
Gl'imbandì
delle viscere, e gl'infuse
Vermiglio
vino in tazza d'oro, e tale
Parlò:
"Tu pur siedi co' prenci, e bevi.
Io
dalle lingue audaci e dalle mani
Ti
schermirò: ché non è questo albergo
Pubblico,
ma d'Ulisse, ed a me solo
Egli
acquistollo. E voi frenate, o proci,
Le man,
non che le lingue, onde contesa
Qui non
s'accenda e subitana rissa".
Strinser
le labbra, ed inarcâr le ciglia.
Ed
Antìnoo così: "La minacciosa,
Compagni,
di Telemaco favella,
Per
molesta che sia, durarla vuolsi.
Giove
il protegge: ché altramente imposto,
Benché
canoro arringator, gli avremmo
Silenzio
eterno da gran tempo". Disse;
E il
dispregiò Telemaco, e si tenne.
Già i
banditori l'ecatombe sacra
Degli
dèi conducean per la cittade,
E
raccoglieansi i capelluti Achivi
Sotto
il bosco frondifero d'Apollo,
Di cui
per cotanto aere il dardo vola.
E al
tempo stesso, incotte omai le carni,
Nel
palagio d'Ulisse, e dagli acuti
Schidoni
tratte, e poi divise in brani,
L'alto
vi si tenea prandio solenne.
Parte
uguale con gli altri anco ad Ulisse
Fu
posta innanzi dai ministri, come
Volle
il caro figliuol: né degli oltraggi
Però
Minerva consentìa che i proci
Rimettessero
un punto, acciocché al Rege
L'ira
più addentro penetrasse in petto.
V'era
tra loro un malvagio uom, che avea
Nome
Ctesippo, e dimorava in Same.
Costui,
fidando ne' tesor paterni,
La
consorte del re con gli altri ambiva.
Surse,
e tal favellò: "Proci, ascoltate.
Il
forestier, qual convenìasi, ottenne
Parte
uguale con noi. Chi mai vorrìa
Di
Telemaco un ospite fraudarne,
Chïunque
fosse? Ora io di fargli intendo
Un
nobil don, ch'egli potrà in mercede
Dar
poscia o al bagnaiuolo, o a qual tra i servi
Gli
piacerà dell'immortale Ulisse".
Così
dicendo, una bovina zampa
Levò su
da un canestro, e con gagliarda
Mano
avventolla. L'inconcusso eroe
Sfuggilla,
il capo declinando alquanto,
Ed in
quell'atto d'un cotal suo riso
Sardonico
ridendo; e il piè del bue
A
percuotere andò nella parete.
"Meglio
d'assai per te, che nol cogliesti",
Sì
Telemaco allora il tracotante
Ctesippo
rabbuffò: "meglio, che il colpo
L'oste
schivasse; però ch'io nel mezzo
Del cor
senz'alcun dubbio un'asta acuta
T'avrei
piantata, e delle nozze in vece
Celebrate
t'avrìa l'esequie il padre.
Fine
dunque agl'insulti. Io più fanciullo
Non
son, tutto m'è noto, ed i confini
Segnar
del retto e del non retto, io valgo
Credete
voi ch'io soffrirei tal piaga
Nelle
sostanze mie, se forte troppo
Non
fosse impresa il frenar molti a un solo?
Su via,
cessate dall'offese, o, dove
Sete
del sangue mio l'alme vi pugna,
Prendetevi
il mio sangue. Io ciò pria voglio.
Che
veder ciascun giorno opre sì indegne:
I forestieri
dileggiati e spesso
Battuti,
e nello splendido palagio
Contaminate,
oh reità! le ancelle".
Tutti
ammutiro, e sol, ma tardi molto,
Favellò
il Damastòride Agelao:
"Nobili
amici, a chi parlò con senno,
Nessun
risponda ingiurioso e avverso;
Né
forestier più si percuota, o altr'uomo
Che in
corte serva del divino Ulisse.
Io poi
darò a Telemaco e alla madre
Util
consiglio con parole blande,
Se in
cor loro entrerà. Finché speranza
Del
ritorno d'Ulisse a voi fioriva,
Gl'indugi
perdonare ed i pretesti
Vi si
poteano, e il trarre in lungo i proci:
Ché,
quando apparsa la sua faccia fosse,
Di
prudenza lodati avrìavi il mondo.
Ma
chiaro parmi che più in man d'Ulisse
Il
ritorno non è. Trova la madre
Dunque
e la pressa tu, che a quel de' proci,
Che ha
più virtude e più doni offre, vada:
Onde tu
rïentrar ne' beni tutti
Del
padre possa, e alla tua mensa in gioia,
Non che
in pace, seder, mentre la madre
Del
nuovo sposo allegrerà le mura.
E il
prudente Telemaco: "Per Giove",
Rispose
"e per li guai del padre mio,
Ch'erra
o perì, dalla sua patria lunge,
Ti
protesto, Agelao, ch'io della madre
Non
indugio le nozze, anzi la esorto
Quello
a seguir che più le aggrada, ed offre
Doni in
copia maggior: ma i Dii beati
Tolgan
che involontaria io la sbandisca
Da
queste soglie con severi accenti".
Disse,
e Minerva inestinguibil riso
Destò
ne' proci e ne travolse il senno.
Ma il
riso era stranier su quelle guance:
Ma
sanguigne inghiottìan delle sgozzate
Bestie
le carni, e poi dagli occhi a un tratto
Sgorgava
loro un improvviso pianto,
E di
prevista disventura il duolo
Ne' lor
petti regnava. E qui levossi
Teoclimèno,
il gran profeta, e disse:
"Ah
miseri, che veggio? E qual v'incontra
Caso
funesto? Al corpo intorno, intorno
D'atra
notte vi gira al capo un nembo.
Urlo
fiero scoppiò; bagnansi i volti
D'involontarie
lagrime; di sangue
Tingonsi
le pareti ed i bei palchi;
L'atrio
s'empie e il cortil d'ombre, che in fretta
Giù
discendon nell'Erebo; disparve
Dal
cielo il sole, e degli aerei campi
Una
densa caligine indonnossi".
Tutti
beffarsi del profeta, e queste
Voci
Eurimaco sciolse: "Il forestiero,
Che qua
venne testé non so da dove,
Vaneggia,
io penso. Giovani, su via,
Mettetel
fuori, acciocché in piazza ei vada,
Poscia
che qui per notte il giorno prende".
E
l'indovino: "Eurimaco", rispose,
"Coteste
guide, che vuoi darmi, tienti.
Occhi
ho in testa ed orecchi, e due piè sotto,
E di
tempra non vile un'alma in petto.
Con tai
soccorsi io sgombrerò, scorgendo
Il mal
che sopra voi pende, e a cui torsi
Non
potrà un sol di voi, che gli stranieri
Oltraggiate,
e studiate iniquitadi
Nella
magion del pari ai numi Ulisse".
Ciò
detto, uscì da loro, ed a Pirèo,
Che di
buon grado il ricevé, s'addusse.
Ma i
proci, riguardandosi a vicenda,
E beffe
d'ambo i forestier facendo,
Provocavan
Telemaco. "Non havvi,
Talun
dicea, chi ad ospiti stia peggio,
Telemaco,
di te. L'uno è un mendìco
Errante,
omai di fame e sete morto,
Senza
prodezza, senza industria, peso
Disutil
della terra; e l'altro un pazzo,
Che,
per far del profeta, in piè si leva.
Vuoi tu
questo seguir, ch'io ti propongo,
Sano
partito? Ambo gittiamli in nave,
E li
mandiam della Sicilia ai lidi.
Più
gioveranno a te, se tu li vendi".
Telemaco
di lui nulla curava,
Ma
levati tenea tacito gli occhi
Nel
genitor, sempre aspettando il punto
Ch'ei
fatto contra i proci impeto avrebbe.
In
faccia della sala, e in su la porta
Del
ginecèo, da un suo lucente seggio
Tutti i
lor detti la regina udìa.
E quei,
ridendo, il più soave e lauto,
Però
che molte avean vittime uccise,
Convito
celebrâr: ma più ingioconda
Cena di
quella non fu mai, che ai proci,
Degna
mercé della nequizia loro.
Stavan
per imbandir Palla ed Ulisse.
LIBRO
XXI
Ma
Palla, occhio azzurrino, alla prudente
Figlia
d'Icario entro lo spirto mise
Di
propor l'arco ai proci e i ferrei anelli,
Nella
casa d'Ulisse: acerbo gioco,
E di
strage principio e di vendetta.
La
donna salse alla magion più alta,
E
dell'abil sua man la bella e ad arte
Curvata
chiave di metallo prese
Pel
manubrio di candido elefante.
Ciò
fatto, andò con le fedeli ancelle
Nella
stanza più interna, ove i tesori
Serbavansi
del re: rame, oro e ferro
Ben
travagliato. E qui giacea pur l'arco
Ritorto
e il sagittifero turcasso,
Che
molte dentro a sé frecce chiudea
Dolorifere:
doni, che ad Ulisse,
Cui
s'abbatté nella Laconia un giorno,
Feo
l'Eurìtide Ifìto, ai numi eguale.
S'incontrâro
gli eroi nella magione
D'Ortìloco
in Messenia. Di Messene
Una
masnada pecore trecento
Co' lor
custodi su le lunghe navi,
Rapito
avea dagl'Itacesi paschi;
E a
richiederle il padre e gli altri vecchi,
Giovane
ambasciator per lunga strada,
Mandâro
Ulisse. D'altra parte Ifìto
In
traccia sen venìa delle perdute
Sue
dodici cavalle, e delle forti
Alla
lor mamma pazïenti mule,
Donde
ruina derivògli e morte:
Però
che Alcide, il gran figliuol di Giove,
D'opere
grandi fabbro, a lui, che accolto
Nel suo
palagio avea, non paventando
Né la
giustizia degli dèi, né quella
Mensa
ospital che gli avea posta innanzi,
Tolse
iniquo la vita, e le giumente
Dalla
forte unghia in sua balìa ritenne.
Queste
cercando, s'abbatté ad Ulisse,
E
l'arco gli donò, che il chiaro Eurìto
Portava,
e in man del suo diletto figlio
Pose
morendo negli eccelsi alberghi.
E il
Laerzìade un'affilata spada
Diede e
una lancia noderosa a Ifìto,
D'un'amistà
non lunga unico pegno:
Ché di
mensa conoscersi a vicenda
Lor non
fu dato, e il figliuol di Giove
L'Euritìde
divino innanzi uccise.
Quest'arco
Ulisse, allorché in negra nave
Alle
dure traea belliche prove,
Nol
togliea mai; ma per memoria eterna
Del
caro amico alla parete appeso
Lasciar
solealo, e sol gravarne il dosso
Nell'isola
natìa gli era diletto.
Come
pervenne alla secreta stanza
L'egregia
donna, e il limitar di quercia
Salì
construtto a squadra e ripolito
Da
fabbro industre, che adattòvvi ancora
Le
imposte ferme e le lucenti porte,
Tosto
la fune dell'anello sciolse,
E
introdusse la chiave, ed i serrami
Respinse:
un rimugghiar come di tauro,
Che di
rauco boato empie la valle
S'udì,
quando le porte a lei s'aprîro.
Ella
montò su l'elevato palco,
Dove
giaceano alle bell'arche in grembo
Le
profumate vesti, e, distendendo
Quindi
la man, dalla cavicchia l'arco
Con
tutta distaccò la luminosa
Vagina,
entro cui stava. Indi s'assise;
E quel
posato su le sue ginocchia,
Ne'
pianti dava e ne' lamenti: al fine
Dalla
custodia sua l'arco fuor trasse.
Ma
poiché fu di lai sazia e di pianti,
Scese,
e de' proci nel cospetto venne,
Quello
in man sostenendo, e la faretra
Gravida
di mortifere saette:
Mentre
le ancelle la seguìan con cesta
Del
ferro piena, che leggiadro a Ulisse
Di
forza esercizio era e di destrezza.
Giunta
ove quei sedean, fermava il piede
Della
sala dedalea in su la soglia
Tra
l'una e l'altra ancella, e co' sottili
Veli
del crine ambo le guance ombrava,
Poi
sciogliea tali accenti: "O voi, che in questa
Casa,
lontano Ulisse, a forza entraste,
Gl'interi
giorni a consumar tra i nappi,
Né di
tal reità miglior difesa
Sapeste
addur che le mie nozze, udite:
Quando
sorse il gran dì, che la mia mano
Ritener
più non deggio, ecco d'Ulisse
L'arco,
che per certame io vi propongo.
Chi
tenderallo, e passerà per tutti
Con la
freccia volante i ferrei cerchi,
Lui
seguir non ricuso, abbandonata
Questa
sì bella, e di ricchezza colma
Magion
de' miei verd'anni, ond'anche in sogno
Dovermi
spesso ricordare io penso".
Disse;
e, chiamato Eumèo, recare ai proci
L'arco
gl'ingiunse, e degli anelli il ferro.
Ei lagrimando
il prese, e nella sala
Depóselo;
e Filezio in altra parte,
Vista
l'arma del re, pianto versava.
Ma
sgridavali Antìnoo in tai parole:
"Sciocchi
villani, la cui mente inferma
Oltre
il presente dì mai non si stende,
Perché
tal piagnisteo? Perché alla donna
L'alma
nel petto commovete, quasi
Per se
stessa non dolgasi abbastanza
Del
perduto consorte? O qui sedete
Taciti
a bere, o a singhiozzare uscite,
E
lasciate a noi l'arco, impresa molto,
Vaglia
il ver, forte per noi tutti, e a gabbo
Da non
pigliar: ché non havvi uom tra noi
Pari ad
Ulisse per curvarlo. Il vidi
Negli
anni miei più teneri, ed impressa
Me ne
sta in mente da quel dì l'imago".
Così
d'Eupite il figlio; e non pertanto
Il
nervo confidavasi piegarne,
E
d'anello in anel mandar lo strale.
Ma
dovea prima l'infallibìl freccia
Gustare
in vece dall'eroe scoccata,
Cui
poc'anzi oltraggiava, e incontro a cui
Aizzava
i compagni a mensa assiso.
Qui tra
i proci parlò la sacra forza
Di
Telemaco: "Oh dèi! Me Giove al certo
Cavò di
senno. La diletta madre
Dice un
altro consorte, abbandonando
Queste
mura, seguir, benché sì saggia,
E folle
io rido e a sollazzarmi attendo.
Su via,
poiché a voi donna in premio s'offre,
Cui non
l'Acaica terra e non la sacra
Pilo ed
Argo, Micene, Itaca stessa
Vanta
l'eguale, o la feconda Epiro;
E il
sapete voi ben, né ch'io vi lodi
La
genitrice, oggi è mestier; su via,
Con
vane scuse non tirate in lungo
Questo
certame, e non rifugga indietro
Dalla
tesa dell'arco il vostro braccio.
Cimenterommi
anch'io. S'io tenderollo,
E ne'
ferri entrerò con la mia freccia,
Me qui
lasciar per nuove nozze in duolo
La
genitrice non vorrà, fuggire
Non
vorrà da un figliuol, che ne' paterni
Giochi
la palma riportar già vale".
Surse,
ciò detto, ed il purpureo manto
Dagli
omeri deposto e il brando acuto,
Scavò,
la prima cosa, un lungo fosso;
Le
colonnette con gli anelli in cima
Piantovvi,
a squadra dirizzolle, e intorno
La
terra vi calcò. Stupìano i proci,
Vedendole
piantare a lui sì bene,
Bench'egli
a nessun pria viste le avesse.
Ciò
fatto, delle porte andò alla soglia,
E,
fermatovi il piè, l'arco tentava.
Tre
fiate trar volle il nervo al petto,
Tre
dalla man gli scappò il nervo. Pure
Non
disperava che la quarta prova
Più
felice non fosse. E già, la corda
Traendo
al petto per la quarta volta,
Teso
avrìa l'arco: ma il vietava Ulisse
D'un
cenno, e lui, che tutto ardea, frenava.
E
Telemaco allor: "Numi!" soggiunse,
"O
debile io vivrò dunque e dappoco
Tutto
il mio tempo, o almen la poca etade
Forze
da ributtar chi ad oltraggiarmi
Si
scagliasse primier, non dammi ancora.
Ma voi,
che siete più gagliardi, l'arma
Tastate
adunque, e si compisca il gioco".
Detto
così, l'arco ei depose a terra,
E
all'incollate tavole polite
L'appoggiò
della porta, e posò il dardo
Sul
cerchio, che dell'arco il sommo ornava.
Poi
s'assise di nuovo."E Antìnoo, il figlio
D'Eupìte,
favellò: Tutti, o compagni,
Dalla
destra per ordine v'alzate,
Cominciando
ciascun, donde il vermiglio
Licor
si versa". Il detto piacque, e primo
L'Enòpide
Leòde alzossi, ch'era
Loro
indovino, e alla bell'urna sempre
Sedea
più presso. Odio alla colpa ei solo
Portava,
e gli altri riprendea. Costui
L'arco
lunato ed il pennuto strale
Si recò
in mano, e alla soglia ito e fermo
Su i
piedi, tentò il grave arco e nol tese:
Ché
sentì intorno alla ribelle corda
Prima
stancarsi la man liscia e molle:
"Altri",
disse, "sel prenda; io certo, amici,
Nol
tenderò: ma credo ben, che a molti
Sarà
morte quest'arco. È ver che meglio
Torna
il morire, che il giù tôrsi vivi
Da
quella speme altissima, che in queste
Mura
raccolti sino a qui ci tenne.
Spera
oggi alcun, non che in suo core il brami,
La
regina impalmar; ma, come visto
Questo
arnese abbia e maneggiato, un'altra
Chiederà
dell'Achee peplo-addobbate,
Nuzïali
presenti a lei porgendo,
E a
Penelope il fato uom, che di doni
Ricolmeralla,
condurrà d'altronde".
Così
parlato, ei mise l'arco a terra,
E
all'incollate tavole polite
L'appoggiò
della porta, e posò il dardo
Sul
cerchio che dell'arco il sommo ornava.
Quindi
tornò al suo seggio. E Antìnoo in tali
Voci
proruppe: "Qual molesto, acerbo
Dalla
chiostra de' denti a te, Leode,
Detto
sfuggì, che di furor m'infiamma?
A noi
dunque sarà morte quest'arco?
Se tu
curvar nol puoi, la madre incolpa,
Che
d'archi uom non ti fece e di saette:
Ma gli
altri proci il curveranno, io penso".
Disse,
e al custode del caprino gregge
Questo
precetto diè: "Melanzio, accendi
Possente
foco nella sala, e appresso
Vi poni
seggio che una pelle cuopra.
Poi di
bianco e indurato adipe reca
Grande,
ritonda massa, acciocché s'unga
Per noi
l'arco e si scaldi, ed in tal guisa
Questo
certame si conduca a fine".
Melanzio
accese un instancabil foco,
E con
pelle di sopra un seggio pose.
Poi di
bianco e indurato adipe massa
Grande
e tonda recò. L'arco unto e caldo
Piegar
tentaro i giovani. Che valse,
Se lor
non rispondean le braccia imbelli?
Ma
dalla prova s'astenean finora
Eurìmaco
ed Antinoo, che de' proci
Eran di
grado e di valore i primi.
Usciro
intanto del palagio a un tempo
Il
pastor de' maiali, e quel de' buoi,
E
Ulisse dopo. Delle porte appena
Fuor si
trovâro e del cortil, ch'ei, dolci
Parole
ad ambi rivolgendo: "Eumèo",
Disse,
"e Filezio, favellar degg'io,
O i
detti ritener? Di ritenerli
L'animo
non mi dà. Quali sareste
D'Ulisse
a pro, se d'improvviso al vostro
Cospetto
innanzi il presentasse un nume?
Ai
proci, o a lui, soccorrereste voi?
Ciò che
nel cor vi sta venga sul labbro".
"O
Giove padre", sclamò allor Filezio,
"Adempi
il voto mio! L'eroe qua giunga,
E un
nume il guidi. Tu vedresti, o vecchio,
Quale
in me l'ardir fora e quale il braccio".
Ed
Eumèo nulla meno agli dèi tutti
Pel
ritorno del re preghiere alzava.
Ei,
come certo a pien fu della mente
Sincera
e fida d'ambiduo, soggiunse:
"In
casa eccomi io stesso, io, che, sofferte
Sventure
senza numero, alla terra
Nativa
giunsi nel vigesim'anno.
So che
a voi soli desïato io spunto
Tra i
servi miei: poiché degli altri tutti
Non
udii che un bramasse il mio ritorno.
Quel
ch'io farò per voi, dunque ascoltate.
Voi da
me donna e robe, ove dai numi
D'esterminar
mi si conceda i proci,
Voi
case, dalla mia non lunge estrutte,
Riceverete:
ed io terrovvi in conto
Di
compagni a Telemaco e fratelli.
Ma
perché in forse non restiate punto,
Eccovi
a segno manifesto il colpo,
Che
d'un fiero cinghial la bianca sanna
M'impresse
il dì ch'io sul Parnaso salsi
Co'
figliuoli d'Autolico". Ciò detto,
Dalla
gran cicatrice i panni tolse.
Quei,
tutto visto attentamente e tocco,
Piagnean,
gittate di Laerte al figlio
Le mani
intorno e gli omeri, e la testa,
Stringendol,
gli baciavano; ed Ulisse
Lor
baciò similmente e mani e capo.
E già
lasciati il tramontato sole
Lagrimosi
gli avrìa, se così Ulisse
Non
correggeali: "Fine ai pianti! Alcuno
Potrìa
vederli, uscendo, e riportarli
Di
dentro. Udite. Nella sala il piede
Riponiam
tutti, io prima, e poscia voi,
E d'un
segnale ci accordiamo. I proci,
Che a
me si porga la faretra e l'arco,
Non
patiran: ma tu, divino Eumèo,
L'uno e
l'altra mi reca, e di' alle donne,
Che gli
usci chiudan delle stanze loro;
E per
romor nessuna, o per lamento,
Che
l'orecchio a ferir le andasse a un tratto,
Mostrisi
fuori, ma quell'opra siegua,
Che
avrà tra mano allor, né se ne smaghi.
Raccomando
a te poi, Filezio illustre,
Serrar
la porta del cortile a chiave,
E con
ritorte rafforzarla in fretta".
Entrò,
ciò detto, e donde pria sorto era,
S'assise;
ed ivi a poco entraro i servi.
Già per
le mani Eurimaco il grand'arco
Si
rivolgeva, ed a' rai quinci e quindi
Della
fiamma il vibrava. Inutil cura!
Meglio
che gli altri non per questo il tese;
Gemé
nel cor superbo, e queste voci
Tra i
sospiri mandò: "Lasso! un gran duolo
Di me
stesso e di voi sento ad un'ora.
Né già
sol piango le perdute nozze:
Ché
nell'ondicerchiata Itaca e altrove,
Sul
capo a molte Achee s'increspa il crine.
Piango,
che, se di forze al grande Ulisse
Tanto
cediam da non curvar quest'arco,
Si
rideran di noi l'età future".
"No",
l'Eupitìde Antìnoo a lui rispose,
"Ciò,
Eurimaco, non fia: tu stesso il vedi.
Sacro
ad Apollo è questo dì. Chi l'arco
Tender
potrebbe? Deponiamlo, e tutti
Lasciamo
star gli anelli, e non temiamo
Che
alcun da dove son rapirli ardisca.
Su via,
l'abil coppier vada co' nappi
Ricolmi
in giro, e, poiché avrem libato,
Mettiam
l'arco da parte. Al dì novello
Melanzio
a noi le più fiorenti capre
Guidi
da tutti i branchi, onde, bruciati
I
pingui lombi al glorïoso Arciero,
Si
riprenda il cimento, e a fin s'adduca".
Piacque
il suo detto. I banditori tosto
L'acqua
diero alle man, l'urne i donzelli
Di vino
incoronaro, e il dispensaro
Con le
tazze augurando a tutti in giro.
Come
libato e a piena voglia tutti
Bevuto
ebber gli amanti, il saggio Ulisse,
Che
stratagemmi in cor sempre agitava,
Così
lor favellò: "Competitori
Dell'inclita
Regina, udir v'aggradi
Ciò che
il cor dirvi mi consiglia e sforza.
Eurimaco
fra tutti e il pari a un nume
Antinoo,
che parlò sì acconciamente,
L'orecchio
aprire alle mie voci io priego.
Perdonate
oggi all'arco, e degli eterni
Non
ostate al voler: forza domane
A cui
lor piacerà, daranno i numi.
Ma
intanto a me, proci, quell'arma: io prova
Voglio
far del mio braccio, e veder s'io
Nelle
membra pieghevoli l'antico
Vigor
mantengo, o se i miei lunghi errori
Disperso
l'hanno e i molti miei disagi".
Rinfocolârsi
a ciò, forte temendo,
Non il
polito arco ei piegasse. E Antinoo
Lo
sgridava in tal guisa: "O miserando
Degli
ospiti, sei tu fuor di te stesso?
Non ti
contenti, che tranquillo siedi
Con noi
principi a mensa, e, che a null'altro
Stranier
mendico si concede, vieni
Delle
vivande e de' sermoni a parte?
Certo
te offende il saporoso vino,
Che
tracannato avidamente, e senza
Modo e
termine alcuno, a molti nocque.
Nocque
al famoso Eurizïon Centauro,
Quando
venne tra i Lápiti, e nell'alta
Casa
ospitale di Piritoo immensi,
Compreso
di furor, mali commise.
Molto
ne dolse a quegli eroi, che incontro
Se gli
avventaro, e del vestibol fuori
Trasserlo,
e orecchie gli mozzaro e nari
Con
affilato brando; ed ei, cui spento
Dell'intelletto
il lume avean le tazze,
Sen gìa
manco nel corpo e nella mente.
Quindi
s'accese una cruenta pugna
Tra gli
sdegnati Làpiti e i Centauri:
Ma,
gravato dal vin, primo il disastro
Eurizïon
portò sovra se stesso.
Così te
pur grave infortunio aspetta,
Se
l'arco tenderai. Del popol tutto
Non fia
chi s'alzi in tua difesa, e noi
Ad
Echeto, degli uomini flagello,
Dalle
cui man né tu salvo uscirai,
Ti
manderem su rapido naviglio.
Chetati
adunque, ed il pensiero impronto
Di
contender co' giovani ti spoglia".
Qui
Penelope disse: "Antìnoo, quali
Di
Telemaco mio gli ospiti sieno,
Turpe
ed ingiusto è il tempestarli tanto.
Pensi
tu forse, che ove lo straniero,
Fidandosi
di sé, l'arco tendesse,
Me
quinci condurrìa moglie al suo tetto?
Né lo
spera egli, né turbato a mensa
Dee per
questo sedere alcun di voi.
Cosa io
veder non so, che men s'addica".
Ed
Eurimaco a lei: "D'Icario figlia,
Non
v'ha fra noi, cui nella mente cada,
Che te
pigli a consorte uom che sì poco
Degno è
di te. Ma degli Achei le lingue
Temiamo
e delle Achee. La più vil bocca:
"Ve'"
griderìa, "quai d'un eroe la donna
Chiedono
a gara giovinotti imbelli,
Che né
valgon piegare il suo bell'arco,
Mentre
un tapino, un vagabondo, un giunto
Testé,
curvollo agevolmente, e il dardo
Per gli
anelli mandò". Tal griderebbe;
E tinto
andrìa d'infamia il nostro nome.
E così
a lui Penelope rispose:
"Eurimaco,
non lice un nome illustre
Tra i
popoli agognare a chi d'egregio
Signor
la casa dal suo fondo schianta.
Perché
tinger voi stessi il nome vostro
D'infamia?
È lo stranier di gran sembiante,
Ben
complesso di membra, e generosa
La
stirpe vanta, e non vulgare il padre;
Dategli
il risplendente arco, e veggiamo.
Se il
tende, e gloria gli concede Apollo,
Prometto,
e non invan, tunica bella
Vestirgli
e bella clamide, ed in oltre
Un
brando a doppio taglio, e un dardo acuto
Mettergli
in mano, e sotto ai piè calzari;
E là
invïarlo, dove il suo cor mira.
"Madre",
disse Telemaco, "a me solo
Sta in
mano il dare, o no, quell'arco, io credo:
Né ha
in lui ragione degli Achivi alcuno,
Che son
nell'alpestra Itaca signori,
O
nell'isole prossime alla verde
Elide,
chiara di cavalli altrice.
E
quando farne ancor dono io volessi
Al
forestier, chi 'nvidïar mel puote?
Ma tu
rïentra; ed al telaio e al fuso,
Come
pur suoli, con le ancelle attendi.
Cura
sarà degli uomini quell'arma,
E più
che d'altri, mia: ché del palagio
Il
governo in me sol, madre risiede".
Attonita
rimase, e del figliuolo
Con la
parola, che nell'alma entrolle,
Risalì
in alto tra le fide ancelle.
Quivi,
aprendo alle lagrime le porte:
Ulisse
Ulisse a nome iva chiamando:
Finché
un dolce di tanti e tanti affanni
Sopitor
sonno le mandò Minerva.
L'arco
Eumèo tolse intanto; e già il portava,
E i
proci tutti nel garrìano, e alcuno
Così
dicea de' giovani orgogliosi:
"Dove
il grand'arco porti, o dissennato
Porcaio
sozzo? Appo le troie in breve
Te
mangeran fuor d'ogni umano aiuto
Gli
stessi cani di tua man nutriti,
Se
Apollo è a noi propizio e gli altri numi".
Impaurito
delle lor rampogne,
L'arco
ei depose. Ma dall'altra parte
Con
minacce Telemaco gridava:
"Orsù,
va innanzi con quell'arco. Credi
Che
l'obbedire a tutti in pro ti torni?
Pon
cura ch'io con iscagliati sassi
Dalla
cittade non ti cacci al campo,
Io,
minor d'anni, ma di te più forte.
Oh
così, qual di te, più forte io fossi
De'
proci tutti che qui sono! Alcuno
Tosto
io ne sbalzerei fuor del palagio,
Dove il
tesser malanni è lor bell'arte".
Tutti
scoppiâro in un giocondo riso
Sul
custode de' verri, e della grave
Contra
il garzone ira allentâro. Eumèo,
Traversata
la sala, innanzi a Ulisse
Fermossi,
ed il grande arco in man gli mise.
Poi,
chiamata Euriclèa, parlò in tal forma:
"Saggia
Euriclèa, Telemaco le stanze
Chiuder
t'ingiunge, e dell'ancelle vuole,
Che per
rumor nessuna, o per lamento,
Che
l'orecchio a ferir le andasse a un tratto,
Mostrisi
fuori, ma quell'opra siegua,
Che
avrà tra mano allor, né se ne smaghi".
Non
parlò al vento. La nutrice annosa
Tutte
impedì le uscite; e al tempo istesso
Filezio
si gittò tacitamente
Fuor
del palagio, e rinserrò le porte
Del
cortil ben munito. Una gran fune
D'Egizio
giunco per navigli intesta
Giacea
sotto la loggia; ed ei con quella
Più
ancor le porte rafforzò. Ciò fatto,
Rïentrava,
e la sedia, ond'era sorto,
Premea
di nuovo, riguardando Ulisse.
Ulisse
l'arco maneggiava, e attento
Per
ogni parte rivoltando il giva,
Qua
tastandolo e là, se i muti tarli
Ne
avesser mai ròse le corna, mentre
N'era
il signor lontano. E alcun, rivolti
Gli
sguardi al suo vicino: "Uom", gli dicea,
"Che
si conosce a maraviglia d'archi,
È
certo, o un arco somigliante pende
A lui
dalla domestica parete,
O
fabbricante un dì tal fatta ei pensa:
Così
questo infelice vagabondo
L'arco
tra le sua man volta e rivolta!"
E un
altro ancor de' giovani protervi:
"Deh
così in bene gli rïesca tutto,
Come
teso da lui sarà quell'arco!"
Ma il
Laerzìade, come tutto l'ebbe
Ponderato
e osservato a parte a parte,
Qual
perito cantor, che, le ben torte
Minuge
avvinte d'una sua novella
Cetera
ad ambo i lati, agevolmente
Tira,
volgendo il bìschero, la corda:
Tale il
grande arco senza sforzo tese.
Poi
saggio far volle del nervo: aperse
La
mano, e il nervo mandò un suono acuto,
Qual di
garrula irondine è la voce.
Gran
duolo i proci ne sentiro, e in volto
Trascoloraro;
e con aperti segni
Fortemente
tonò Giove dall'alto.
Gioì
l'eroe, che di Saturno il figlio,
Di Saturno,
che obliqui ha pensamenti,
Gli
dimostrasse il suo favor dal cielo;
E un
aligero stral, che su la mensa
Risplendea,
tolse: tutte l'altre frecce,
Che gli
Achivi assaggiar dovean tra poco,
In sé
chiudeale il concavo turcasso.
Posto
su l'arco ed incoccato il dardo,
Traeva
seduto, siccom'era, al petto
Con la
man destra il nervo: indi la mira
Tra i
ferrei cerchi prese, e spinse il telo,
Che,
senza quinci devïare o quindi,
Passò
tutti gli anelli alto ronzando.
Subitamente
si rivolse al figlio,
E:
"Telemaco", disse, "il forestiero
Non ti
svergogna, parmi. Io punto lunge
Dal
segno non andai, né a tender l'arco
Faticai
molto; le mie forze intere
Serbo,
e non merto villanìe dai proci.
Ma
tempo è omai che alla cadente luce
Lor
s'appresti la cena; e poi si tocchi
La
cetra molticorde, e s'alzi il canto,
In che
più di piacer la mensa acquista".
Disse,
e accennò co' sopraccigli. Allora
Telemaco,
d'Ulisse il pegno caro,
La
spada cinse, impugnò l'asta, e, tutto
Risplendendo
nell'armi, accanto al padre,
Che pur
seduto rimanea, locossi.
LIBRO
XXII
Surse e
spogliossi de' suoi cenci Ulisse,
E sul
gran limitare andò d'un salto,
L'arco
tenendo e la faretra. I ratti
Strali,
onde gravida era, ivi gittossi
Davante
ai piedi, e ai proci disse: "A fine
Questa
difficil prova è già condotta.
Ora io
vedrò, se altro bersaglio, in cui
Nessun
diede sin qui, toccar m'avviene,
E se me
tanto privilegia Apollo".
Così
dicendo, ei dirigea l'amaro
Strale
in Antinoo. Antinoo una leggiadra
Stava
per innalzar coppa di vino
Colma a
due orecchie, e d'oro: ed alle labbra
Già
l'appressava: né pensier di morte
Nel cor
gli si volgea. Chi avrìa creduto
Che fra
cotanti a lieta mensa assisi
Un sol,
quantunque di gran forze, il nero
Fabbricar
gli dovesse ultimo fato?
Nella
gola il trovò col dardo Ulisse,
E sì
colpillo, che dall'altra banda
Pel
collo delicato uscì la punta.
Ei
piegò da una parte e dalle mani
La
coppa gli cadé: tosto una grossa
Vena di
sangue mandò fuor pel naso;
Percosse
colle piante, e da sé il desco
Respinse;
sparse le vivande a terra;
Ed i
pani imbrattavansi e le carni.
Visto
Antìnoo cader, tumulto i proci
Fêr
nella sala, e dai lor seggi alzâro,
Turbati
raggirandosi, e guardando
Alle
pareti qua e là: ma lancia
Dalle
pareti non pendea, né scudo.
Allor
con voci di grand'ira Ulisse
Metteansi
a improverare: "Ospite, il dardo
Ne'
petti umani malamante scocchi;
Parte
non avrai più ne' giuochi nostri:
Anzi
grave ruina a te sovrasta.
Sai tu
che un uomo trafiggesti ch'era
Dell'Itacense
gioventude il fiore?
Però
degli avoltoi sarai qui pasto".
Così,
pensando involontario il colpo,
Dicean:
né s'avvedean folli, che posto
Ne'
confini di morte avean già il piede.
Ma
torvo riguardolli, e in questa guisa
Favellò
Ulisse: "Credevate, o cani,
Che
d'Ilio io più non ritornassi, e intanto
La casa
disertar, stuprar le ancelle,
E la
consorte mia, me vivo, ambire
Costumavate,
non temendo punto
Né
degli dèi la grave ira, né il biasmo
Permanente
degli uomini. Ma venne
La
fatale per voi tutti ultima sera".
Tutti
inverdiro del timore, e gli occhi,
Uno
scampo a cercar, volsero intorno.
Solo, e
in tal forma, Eurimaco rispose:
"Quando
il vero tu sii d'Itaca Ulisse
Fra noi
rinato, di molt'opre ingiuste,
Che sì
nel tuo palagio e sì ne' campi
Commesse
fûro, ti quereli a dritto.
Ma
costui, che di tutto era cagione,
Eccolo
in terra, Antìnoo. Ei dell'ingiuste
Opre fu
l'autor primo: e non già tanto
Pel
desiderio delle altere nozze,
Quanto
per quel del regno, a cui tendea,
Insidïando
il tuo figliuolo: occulte
Macchine,
che il Saturnio in man gli ruppe.
Poiché
morto egli giace, alla tua gente
Perdona
tu. Pubblica emenda farti
Noi
promettiamo: promettiam con venti
Tauri
ciascun e con oro e con bronzo,
Quel
vôto rïempir, che ne' tuoi beni
Gozzovigliando
aprimmo; in sin che il core
Alla
letizia ti si schiuda, e sgombri
L'ira,
onde a gran ragione arse da prima".
Bieco
mirollo, e replicògli Ulisse:
"Dove,
Eurimaco, tutte ancor mi deste
L'eredità
vostre paterne, e molti
Beni
stranieri vi poneste accanto,
Io
questa man non riterrei dal sangue,
Che la
vendetta mia piena non fosse.
Or,
qual de' due vi piacerà, scegliete,
Combattere
o fuggir, se pur v'ha fuga
Per un
solo di voi: ciò ch'io non credo".
Ciascuno
de' proci il cor dentro mancarsi
Sentì,
e piegarsi le ginocchia sotto.
Ed
Eurimaco ad essi: "Amici, indarno
Sperate
che le braccia egli non muova.
L'arco
una volta ed il turcasso assunti,
Disfrenerà
dal limitare i dardi,
Finché
tutti ci atterri. Alla battaglia
Dunque
si pensi: distringiam le spade,
E,
delle mense alle letali frecce
Scudo
facendo a noi, piombiamgli sopra
Tutti
in un groppo. Se da quella porta
Scacciarlo
ne rïesce, e la cittade
Scorrere,
alzando al ciel subite voci,
Dal
saettar si rimarrà per sempre".
Disse,
e l'acuto di temprato rame
Brando
a due tagli strinse, e su lui corse
Con
terribili grida. In quella Ulisse,
Vôtato
l'arco, al petto il colse, e il pronto
Nel
fegato gl'infisse acerbo strale.
Lasciò
Eurimaco il brando, e dopo alquanti
Giri,
curvato su la mensa cadde,
E i
cibi riversaronsi e la coppa.
Ma ei
batté sopra la terra il capo,
Nell'alma
tapinandosi, ed il seggio,
Che già
premer solea, con ambo i piedi
Forte
springando, scosse: al fine un'atra
Tutto
il coverse sempiterna notte.
Ma
d'altra parte Anfinomo avventossi
Col
brando in man contra l'eroe, se mai
Dalla
soglia disvellerlo potesse.
Il
prevenne Telemaco, e da tergo
Tra le
spalle il ferì con la pungente
Lancia,
che fuor gli rïuscì del petto.
Quell'infelice
rimbombò caduto,
E con
tutta la fronte il suol percosse.
Ma il
garzon sottraeasi, abbandonando
La
lancia entro d'Anfinomo: temea,
Non
alcun degli Achei, mentr'egli chino
Starìasi
l'asta a sconficcare intento,
Di
furto il martellasse, o con la spada
Sopra
mano il ferisse alla scoperta.
Quindi
ricovrò ratto, e in un baleno
Al caro
padre fu vicino e a lui:
Padre,
disse, uno scudo e lance due,
E un
adatto alle tempie elmo lucente
Ti
recherò, m'armerò io stesso, ed armi
A
Filezio darò, darò ad Eumèo:
De'
consigli il miglior sembrami questo".
"Sì,
corri", Ulisse gli rispose, "e riedi,
Finché
restano a me dardi a difesa:
Ma
riedi prestamente, onde gli Achei
Me, che
son solo, non ismuovan quinci".
Ubbidì
il figlio, e alla superna stanza,
Dove
l'armi giaceano, andò di passo
Lanciato,
e targhe quattro ed otto lance
Prese,
e quattro lucenti elmi di chioma
Equina
folti, e in brevi istanti al caro
Genitor
si rendé. Qui del metallo
Munì
egli primo la persona, e i servi
Parimente
le belle armi vestîro,
Ed
all'accorto eroe stettero intorno.
Questi,
finché le frecce a lui bastâro,
Togliea
la mira ed imbroccava ognora,
E
cadean l'un su l'altro i suoi nemici.
Ma
poiché le infallibili saette
Gli fûr
venute men, l'arco ei depose,
E
l'appoggiò del ben fondato albergo
Al
nitido parete. Indi le spalle
Si
carcò d'uno scudo a quattro doppi,
L'elmo
dedàleo con l'equina chioma
Piantossi
in capo, e due possenti lance
Nella
man si recò: sovra la testa
Gli
ondeggiava il cimier terribilmente.
Era in
capo alla sala, e nel parete
Del ben
fondato albergo una seconda
Di
congiunte assi rinforzata porta,
Che in
pubblico mettea non largo calle.
Di
questa, per cui sol s'apriva un passo,
Ulisse
volle il fido Eumèo per guardia.
Agelao
v'ebbe l'occhio, e disse: "Amici,
Non ci
sarà chi quella porta sforzi,
E
sparga voce, o il popolo a romore
Levi,
perché costui cessi dai colpi?"
"Ciò",
rispose Melanzio, "ad alcun patto
Non
possiamo, Agelao di Giove alunno.
Le
porte del cortil troppo vicine
Sono,
ed angusta è quell'uscita, e un solo
Cui non
manchi valor, cento respinge.
Pur non
temete. Io porterò a voi l'armi
Dalla
stanza superna, in cui riposte
Da
Ulisse e dal figliuol senz'altro fûro".
Detto,
andar su e giù per l'alta scala,
Entrar,
pigliar dodici targhe e lance
Tante e
tanti criniti elmi, ed il tutto
Mettere
in man de' palpitanti proci,
Fu di
pochi momenti opra felice.
Turbar
l'animo Ulisse e le ginocchia
Languir
sentì, ratto che ai proci vide
Prender
gli elmi e gli scudi, e le lunghe aste
Ir con
la destra palleggiando; e allora
L'arduo
conobbe dell'assunta impresa.
Si
converse al figliuol tosto, e: "Telemaco",
Con
dolenti gli disse alate voci,
"Certo
il capraio, o delle donne alcuna
Raccende
contro noi quest'aspra guerra".
E
Telemaco a lui: "Padre", rispose,
"Io
sol peccai, non altri, io, che la salda
Porta
lasciai mezzo tra chiusa e aperta;
Ed un
esplorator di me più astuto
Si
giovò intanto del mio fallo. Or vanne
Tu,
prode Eumèo, chiudi la porta, e sappi,
Se ciò
vien da un'ancella, o dalla trista,
Come
parmi più ver, di Dolio prole".
Mentre
tali correan voci tra loro,
Melanzio
per le belle armi di nuovo
Salse.
Adocchiollo Eumèo, né a dir tardava
Così ad
Ulisse, che lontan non gli era:
"Laerzìade
divin, quella rea peste,
Di cui
noi sospettiam, sale di nuovo.
Parlami
chiaro: deggio porlo a morte,
Se
rimángogli sopra, o qua condurlo,
Perché
a te innanzi d'ogni suo delitto
Meritamente
il fio paghi una volta?"
E il
saggio Ulisse: "A sostenere i proci,
Come
che ardenti, io col mio figlio basto.
Filezio
dunque, e tu, poiché l'avrete
Entro
la stanza rovesciato a terra,
Ambo i
piedi stringetegli, e le mani
Sul
tergo, chiusa dietro a voi la porta;
E lui,
d'una insolubile catena
Cinto,
tirate sino all'alte travi
Lungo
una gran colonna, acciocché il tutto
Sconti
con morte dolorosa e lunga".
Pronti
i servi ubbidîro. Alla sublime
Camera
s'affrettâr, da lui, che dentro
Era e
cercava nel più interno l'arme,
Non
visti e non sentiti; e si piantâro
Quinci
e quindi alla porta. Ei per la soglia
Passava
ratto in una man portando
Luminosa
celata, ed un vetusto
Nell'altra
e largo e arrugginito scudo,
Che gli
omeri gravò del buon Laerte
Sul
primo fior dell'età sua, deposto
Poscia
e dimenticato, e da cui rotte
Le
corregge pendevano. Veloci
L'assaltâr,
l'abbracciâr, lo strascinâro
Dentro
pel ciuffo, e l'atterrâr dolente,
Indi
ambo i piedi gli legâro, ed ambo
Sovra
il tergo le man, qual di Laerte
Comandò
il figlio; e lui d'una catena
Insolubile
cinto in sino all'alte
Travi
tirar lungo una gran colonna.
"E
così allor tu il deridesti, Eumèo:
Melanzio,
or certo veglierai la notte
Su
letto molle, come a te s'addice,
Corcato;
né uscirà dalle correnti
Dell'Ocean,
che tu non la vagheggi,
L'Aurora
in trono d'ôr, quando le pingui
Capre
alla mensa condurrai de' proci".
Tal fu
Melanzio fra legami acerbi
Sospeso
e abbandonato; e quei con l'arme
Sceser,
la porta risplendente chiusa;
E
presso al ricco di consigli Ulisse,
Forza
spiranti e ardire, il piè fermâro.
Così
quattro guerrier in su la soglia
Erano e
nella sala un numeroso
Drappello
e non ignobile. Ma Palla
L'armipotente
del Saturnio figlia,
Con la
faccia di Mentore e la voce,
Tra le
due parti d'improvviso apparve.
Gioì a
vederla il Laerzìade, e disse:
Mentore,
mi seconda, e ti rammenta
Del tuo
dolce compagno, onde a lodarti
Non
raro avesti, e a cui sei d'anni eguale".
Così
l'eroe: ma non gli tace il core,
Che la
sua diva in Mentore s'asconde.
Dall'altra
parte la garrìano i proci,
E primo
il Damastòride Agelao
A
minacciarla fu: "Mentore, bada,
Che a
pugnare in suo pro contra gli Achivi
Non ti
seduca favellando Ulisse.
Però
che quando per man nostra uccisi
Giaceran,
come ho fede, il padre e il figlio,
Morrai
tu ancora, e il sangue tuo darai
Per ciò
che oprar nella magione or pensi.
Che
più? Te fatto cenere, co' beni
D'Ulisse
in monte andrà quant'or possiedi
Nel tuo
palagio e fuor, né a figli o a figlie
Menare
i dì sotto il natìo lor tetto
Consentirem,
né alla tua casta donna
D'Itaca
soggiornar nella cittade".
Vie più
s'accende a così fatte voci
L'ira
di Palla, ed in rimbrotti scoppia
Contra
Ulisse lanciáti: "Io nulla, Ulisse,
Di quel
fermo vigor, nulla più veggio
Di
quell'ardire in te, che allor mostrasti,
Che
innanzi a Troia per le bianche braccia
Della
nata di Giove inclita Elèna
Combattesti
un decennio. Entro il lor sangue
Molti
stendesti de' nemici, e prima
S'ascrive
a te, se la dall'ampie strade
Città
di Priamo in cenere fu vòlta.
Ed or
che giunto alle paterne case
La tua
donna difendi e i beni tuoi,
Mollemente
t'adopri? Orsù, vicino
Stammi,
ed osserva, quale il figlio d'Alcìmo,
Mentore,
fra una gente a te nemica
De'
benefici tuoi merto ti rende".
Tal
favellava: ma perché l'innata
Virtù
del padre e del figliuol volea
Provare
ancor, per alcun tempo incerta
La
vittoria lasciò tra loro e i proci.
Quindi,
montando rapida, su trave
Lucido
ed alto, a rimirar la pugna,
Di
rondine in sembianza, ella s'assise.
Frattanto
il Damastòride Agelao,
Anfimedonte,
Eurinomo, e il prudente
Pòlibo,
e Demoptòlemo, e Pisandro,
Di
Polittore il figlio, alla coorte
Spirti
aggiungean, come color che i primi
Eran di
forza tra i rimasti in piedi,
E
l'alma difendean; gli altri avean domi
L'arco
famoso e le frequenti frecce.
Parlò a
tutti Agelao: "Compagni, io penso
Che le
indomite man frenare un tratto
Costui
dovrà. Già Mentore disparve
Dopo il
bravar suo vano, e su la soglia
Quattro
sono, e non più. Voi non lanciate
Tutti,
io ven priego, unitamente: sei
Aste
volino in prima; e il vanto Giove
Di
colpire in Ulisse a noi conceda.
Caduto
lui, nulla del resto io curo".
Sei,
com'egli bramava, aste volâro,
E tutte
andar le feo Pallade a vôto.
L'un
de' pungenti frassini la porta
Percosse,
un altro su la soglia cadde,
Ed un
terzo investì nella parete.
Scansáti
i colpi, di Laerte il figlio:
"Amici",
disse, "nello stuol de' proci,
Che,
non contenti alle passate offese,
Della
vita spogliar voglionci ancora,
Io
crederei che saettar si debba".
Ciascun
la mira di rincontro tolse,
E
trasse d'una lancia. Il divo Ulisse
Demoptòlemo
uccise, e scagliò morte
Telemaco
ad Eurìade, a Elato Eumèo,
Ed a
Pisandro il buon Filezio: tutti
Del
pavimento morsero la polve.
Gli
altri nel fondo della sala il piede
Tiraro
indietro: Ulisse e i tre compagni
Corsero,
e svelser dagli estinti l'aste.
Allor
lanciaro novamente i proci
Di
tutta forza, e tutti quasi i colpi
Nuovamente
svïò Pallade amica.
La gran
soglia, la porta e la parete
Li
ricevette o li respinse: solo
Anfimedonte
tanto o quanto lese
La
destra di Telemaco nel polso,
E
appena ne graffiò la somma cute;
E la
lung'asta di Ctesippo, a Eumèo
Lo
scudo rasentando, e lievemente
Solcandogli
la spalla, il suo tenore
Seguì,
e ricadde sovra il palco morta.
Ma non
così dall'altra parte spinte
Fûr
contra i proci le pungenti travi.
Quella
del distruttor de' muri Ulisse
Fulminò
Euridamante; Anfimedonte
Per
quella giacque del suo figlio: Eumèo
Scontrò
con la sua Pòlibo, e Filezio
Ctesippo
colse con la sua nel petto,
E su
lui stette alteramente, e disse:
"Politersìde,
degli oltraggi amante,
Cessa
dal secondar la tua stoltezza,
Con
vana pompa favellando, e ai numi
Cedi,
che di te son molto più forti.
Questo
è il dono ospital di quello in merto,
Che al
nostro re, che mendicava festi:
Alla
zampa del bue l'asta rispose".
Così
d'Ulisse l'armentario illustre.
In
questo mezzo di Laerte il figlio
Conquise
il Damastoride da presso
Di
profonda ferita; e a Leocrito
Telemaco
piantò nel ventre il telo,
Che
delle reni fuor gli ricomparve.
L'Evenorìde
stramazzò boccone,
E la
terra batté con tutto il fronte.
Pallade
allor, che rivestì la diva,
Alto
levò dalla soffitta eccelsa
La
funesta ai mortali egida, e infuse
Ne'
superstiti proci immensa tema.
Saltavan
qua e là, come le agresti
Madri
talvolta del cornuto armento,
Se allo
scaldarsi ed allungar de' giorni
Le
punge il fiero assillo e le scompiglia.
Ma in
quella guisa che avoltori, il rostro
Ricurvi
e l'unghia, piombano, calando
Dalla
montagna, su i minori augelli,
Che
trepidi vorrìano ir vêr le nubi:
E quei
su lor ripiombano e ne fanno,
Quando
difesa non rimane o scampo,
Strazio
e rapina del villano agli occhi,
Che di
tale spettacolo si pasce:
Non
altrimenti Ulisse e i tre compagni
Si
scagliavan su i proci, e tale strage
Ne
menavan, che fronte omai non v'era
Che non
s'aprisse sotto i gran fendenti;
E un
gemer tetro alzavasi, e di nero
Sangue
ondeggiava il pavimento tutto.
Leode
le ginocchia a prender corse
Del
figliuol di Laerte, e in supplice atto
Gli
drizzò tali accenti: "Eccomi, Ulisse,
Alle
ginocchia tue, che di te imploro
Gli
sguardi e la pietade. Io delle donne
In
fatto o in detto non offesi alcuna:
Anzi
gli altri alle sozze opre rivolti
Di
ritenere io fea. Non m'obbedîro:
Però
una morte subitana e acerba
Delle
sozze opre lor fu la mercede.
Ma io,
io, che indovin tra i proci vissi
Io, che
nulla commisi unqua di male,
Qui
spento giacerò degli altri al paro?
È
questo il pregio che a virtù si serba?"
E Ulisse,
torvi in lui gli occhi fissando:
"Poiché
tra i proci indovinar ti piacque,
Spesso
chiedesti nel palagio ai numi,
Che del
ritorno il dì non mi splendesse;
Che te
seguisse, e procreasse figli
La mia
consorte a te: quindi e tu al grave
Sonno
perpetuo chiuderai le ciglia".
Così
dicendo, con la man gagliarda
Dal
suol raccolse la tagliente spada,
Che
Agelao su la morte avea perduto;
E di
percossa tal diede al profeta
Pel
collo, che di lui, che ancor parlava,
Rotolò
nella polvere la testa.
Ma di
Terpio il figliuol, l'inclito Femio,
Che tra
i proci sciogliea per forza il canto,
Morte
schivò. Della seconda porta
Con la
sonante in man cetra d'argento
Vicino
erasi fatto, e in due pensieri
Dividea
la sua mente: o fuori uscito
Sedersi
all'ara del gran Giove Ercèo,
Dove
Laerte e il suo diletto figlio
Molte
solean bruciar cosce taurine;
O ad
Ulisse prostrarsi, e le ginocchia
Stringergli
e supplicarlo; e delle due
Questa
gli parve la miglior sentenza.
Prima
tra una capace urna e un distinto
D'argentei
chiovi travagliato seggio
Depose
a terra l'incavata cetra:
Poi vêr
l'eroe si mosse, e le ginocchia
Stringeagli,
e gli dicea con voci alate:
"Ulisse,
ascolta queste mie preghiere,
E di
Femio pietà l'alma ti punga.
Doglia
tu stesso indi ne avrai, se uccidi
Uom che
agli uomini canta ed agli dèi.
Dotto
io son da me solo, e non già l'arte,
Ma un
dio mi seminò canti infiniti
Nell'intelletto.
Gioirai, qual nume,
Della
mia voce al suono. E tu la mano
Insanguinar
ti vuoi nel corpo mio?
Ne
domanda Telemaco, il tuo dolce
Figlio,
ed ei ti dirà, che né vaghezza
Di
plauso mai, né scarsità di vitto,
Tra i
proci alteri a musicar m'indusse.
Ma co'
molti, co' giovani, co' forti,
Uom che
potea debile, vecchio e solo?"
Tal
favellava: e la sacrata possa
Di
Telemaco udillo, e ratto al padre,
Che non
gli era lontan: "T'arresta", disse,
"E
di questo innocente i dì rispetta.
Medonte
ancor, che de' miei giorni primi
Cura
prendea, noi serberemo in vita:
Sol
ch'ei non sia per man d'un de' pastori
Caduto,
e in te dato non abbia, mentre
Per la
sala menavi in furia i colpi".
L'udì
Medonte, il banditor solerte,
Che
sdraiato giacea sotto un sedile,
E,
l'atro fato declinando, s'era
D'una
fresca di bue pelle coverto.
Surse
da sotto il seggio, e il bovin cuoio
Svestissi,
e andò a Telemaco, e, gittate
A' suoi
ginocchi ambe le braccia: "Caro",
Gridava,
"eccomi qua: salvami, e al padre
Di',
che irato co' proci, onde scemati
Gli
erano i beni, e vilipeso il figlio,
Non
s'inaspri in me ancora e non m'uccida".
Sorrise
Ulisse, e a lui: "Sta' di buon core.
Già di
rischio Telemaco ti trasse,
E in
salvo pose, acciocché sappi, e il narri,
Quanto
più del far male il ben far torna.
Tu,
araldo, intanto, e tu, vate immortale,
Fuor
del palagio e della strage usciti,
Sedete
nel cortil, finch'io di dentro
Tutta
l'impresa mia conduco a riva".
Tacque;
ed uscîro, e appo l'altar del sommo
Giove
sedean, guardandosi all'intorno,
Qual se
ad ogni momento, e in ogni loco,
Dovesse
lor sopravvenir la Parca.
Lo
sguardo allora per la casa in giro
L'eroe
mandò, se mai de' proci alcuno
Fuggito
avesse della morte il fato.
Non
rimanea di tanti un che nel sangue
Steso
non fosse e nella polve. Come
Gli
abitatori del canuto mare,
Che il
pescator con rete a molti vani
Su
dall'onda tirò nel curvo lido,
Giaccion,
bramando le native spume,
Per
l'arena odïata, e loro il sole
Con
gl'infiammati rai le anime fura:
Così
giacean l'un presso l'altro i proci.
Subitamente
Ulisse in questa forma
Si
converse a Telemaco: "Telemaco,
La
nutrice Euriclèa, su via, mi chiama,
Ciò per
udir, che a me di dirle è in grado.
Ubbidì
egli e incamminossi, e, dato
D'urto
alla porta: "O d'anni carca", disse,
"Sorgi,
Euriclèa, che nella nostra casa
Vegli
sovra le ancelle. Il padre mio,
Che
desìa favellarti, a sé ti vuole".
Non sen
portava le parole il vento.
Aprì
Euriclèa le porte, e in via con lui,
Che
precedeala, entrò veloce, e brutto
Di
polve tra i cadaveri e di sangue
Ulisse
ritrovò. Qual par leone,
Che
vien da divorar nel campo un toro,
E il
vasto petto e l'una guancia e l'altra
Ne
riporta cruenta, e dalle ciglia
Spira
terror: tale insozzati Ulisse
Mostrava
i piedi e delle mani i dossi.
Quella,
come i cadaveri ed il molto
Sangue
mirò, volle gridar di gioia
A
spettacolo tal: ma ei frenolla,
Benché
anelante, e con parole alate:
"Godi
dentro di te", disse, "ma in voci,
Vecchia,
non dar di giubilo: ché vampo
Menar
non lice sovra gente uccisa.
Questi
domò il destino, e morte a loro
Le
stesse lor malvagitadi fûro:
Quando
non rispettâro alcun giammai,
Buon
fosse o reo, che in Itaca giungesse,
Dunque
a dritto periro. Or tu,
nutrice,
Di'
delle donne a me, quai nel palagio
Son
macchiate di colpa, e quali intatte".
E la
diletta a lui vecchia Euriclèa:
"Figliuol,
da me tu non avrai che il vero.
Cinquanta
chiude il tuo palagio, a cui
Le lane
pettinar, tesser le tele,
E
sostener con animo tranquillo
La servitute,
io stessa un giorno appresi.
Dodici
tra costor tutta spogliâro
La
verecondia, e, non che me, la stessa
Dispregiâro
Penelope. Non era
Troppo
innanzi venuto ancor negli anni
Il
figlio tuo, né su le donne alcuno
Gli
consentìa la saggia madre impero.
Ma che
fo io, che alle lucenti stanze
Non
salgo di Penelope, che giace
Da un
dio sepolta in un profondo sonno?"
"Non
la destare ancor", rispose Ulisse,
"Bensì
alle donne, il cui peccar t'è noto,
Che a
me si rappresentino, dirai".
La
balia senza indugio a invitar mosse
Le
peccatrici e ad esortarle tutte,
Che si
rappresentassero all'eroe.
E
intanto egli, Telemaco a sé avuto,
E il
custode de' verri, e quel de' tori,
Tai
parole lor feo: "Le morte salme
Più non
si tardi a trasportare altrove,
E
dell'infìde ancelle opra sia questa.
Poi con
l'acqua e le spugne a molte bocche,
I bei
sedili tergeransi e i deschi.
Tutta
rimessa la magione in punto,
Le
ancelle ne trarrete, e, poste in mezzo
Tra la
picciola torre ed il superbo
Recinto
del cortil, tanto co' lunghi
Le cercherete
feritori brandi,
Che si
disciolga dai lor corpi l'alma,
E dalle
menti lor fugga l'immonda
Venere,
onde s'unìan di furto ai proci".
Ciò
detto appena, ecco venire a un corpo
Le
grame, sollevando alti lamenti,
E una
pioggia di lagrime versando,
Pria
trasportâr gl'inanimati corpi,
Che del
cortile, aitandosi a vicenda,
Sotto
alla loggia collocâro. Instava
Co'
suoi comandi Ulisse; e quelle il tristo
Ministero
compiean, benché a mal cuore.
Poi con
l'acqua e le spugne a molte bocche,
I bei
sedili si tergeano e i deschi.
Ma
Telemaco, e seco i due pastori,
Con
rigide scorrean pungenti scope
Sul
pavimento del ben fatto albergo;
E la
bruttura raccogliean le afflitte
Donne,
e fuori recavanla. Né prima
Rimessa
fu la magion tutta in un punto,
Che fra
la torre ed il recinto poste
Le
malvage si videro, e in tal guisa
Serrate
là, che del fuggir nulla era.
E
Telemaco: "Io, no, con morte onesta
Non
torrò l'alma da coteste donne,
Che a
me sul capo od alla madre, scherni
Versaro;
e che s'unìan d'amor co' proci".
Disse;
e di nave alla cerulea prora
Canape,
che partìa da un gran pilastro,
Gittò
alla torre a tale altezza intorno,
Che le
ancelle, per cui gittarlo piacque,
Non
potesser del piè toccar la terra.
E come
incontra che o colombe o torde
Che al
verde chiuso d'una selva entraro,
Van con
ali spiegate a dar di petto
Nelle
pèndule reti, ove ciascuna
Trova
un letto feral: tali a mirarle
Eran le
donne con le teste in fila,
E con
avvinto ad ogni collo un laccio,
Di
morte infelicissima strumento.
Guizzan
co'piedi alquanto e più non sono.
Telemaco
indi, e i due pastori seco,
Nella
corte per l'atrio il mal capraio
Conducean:
recideangli orecchie e nari,
E i
genitali, da buttarsi crudi
Ai can
voraci, gli svelleano, i piedi
Mozzavangli
e le man; tanta fu l'ira.
Punito
al fine ogni misfatto, e mani
Con
pura onda di fonte e piè lavati,
Ritorno
fêr nella magione a Ulisse.
Questi
allor tai parole alla diletta
Nutrice
rivolgea: "Portami, o vecchia,
Il
zolfo salutifero ed il fuoco,
Perché
l'albergo vaporare io possa,
E
Penelope a me con le fedeli
Sue
donne venga; e tu l'altre per casa
Femmine
tutte a qua venir conforta".
Ed
ella: "Figlio mio, quanto dicesti
Io lodo
assai. Ma non vuoi tu che prima
Manto a
coprirti e tunica io ti rechi?
Indegno
fora con tai cenci indosso
Nel tuo
palagio rimaner più a lungo".
"Prima
il zolfo ed il fuoco", ad Euriclèa
Rispose
il pien d'accorgimenti eroe.
La
nutrice, ubbidendo, il sacro zolfo
Portògli
e il fuoco prestamente; e Ulisse
La sala
ed il vestibolo e il cortile
Più
volte vaporò. Salì frattanto
Colei
le ancelle a confortar, che franche
Vedere
omai si fessero. Le ancelle
Delle
camere usciro, in man tenendo
Lucide
faci: poscia intorno a lui
Si
spargeano e abbracciavanlo, ed il capo
Baciavangli,
stringendolo e le spalle,
E
l'afferravan nelle mani. Ulisse
Tutte
le riconobbe ad una ad una
Nel
consapevol petto, e un dolce il prese
Di
sospiri e di lagrime desìo.
LIBRO
XXIII
La
buona vecchia gongolando ascese
Nelle
stanze superne, alla padrona
Per
nunzïar, ch'era il marito in casa.
Non le
tremavan più gl'invigoriti
Ginocchi
sotto; ed ella a salti giva.
Quindi
le stette sovra il capo, e: "Sorgi",
Disse,
"Penelopèa, figlia diletta,
Se il
desìo rimirar de' giorni tutti
Vuoi
co' propri occhi. Ulisse venne, Ulisse
Nel suo
palagio entrò dopo anni tanti,
E i
proci temerari, onde turbata
La casa
t'era, consumati i beni,
Molestato
il figliuol, ruppe e disperse".
E
Penelope a lei: "Cara nutrice,
Gl'Iddii,
che fanno, come lor talenta,
Del
folle un saggio e del più saggio un folle,
La
ragion ti travolsero. Guastâro
Cotesta
mente, che fu sempre intègra,
Senza
dubbio gl'Iddii. Perché ti prendi
Gioco
di me, cui sì gran doglia preme,
Favole
raccontandomi, e mi scuoti
Da un
sonno dolce, che, abbracciate e strette
Le mie
tenea care palpebre? Io mai,
Dacché
Ulisse levò nel mar le vele
Per la
malvagia innominanda Troia,
Così,
no, non dormìi. Su via, discendi,
Balia,
e ritorna onde movesti, e sappi,
Che se
tali novelle altra mi fosse
Delle
mie donne ad arrecar venuta,
E me
dal sonno scossa, io rimandata
Tostamente
l'avrei con modi acerbi:
Ma
giovi a te, che quel tuo crin sia bianco".
"Diletta
figlia", ripigliò la vecchia,
"Io
di te gioco non mi prendo. Ulisse
Capitò
veramente, ed il suo tetto
Rivide
al fin: quel forestier da tutti
Svillaneggiato
nella sala è Ulisse.
Telemaco
il sapea: ma scortamente
I
paterni consigli in sé celava,
Delle
vendette a preparar lo scoppio".
Giubbilò
allor Penelope, e, di letto
Sbalzata,
al seno s'accostò la vecchia,
Lasciando
ir giù le lagrime dagli occhi,
E con
parole alate: "Ah! non volermi,
Balia
cara, deludere", rispose.
"S'ei,
come narri, in sua magione alberga,
Di qual
guisa poté solo agli audaci
Drudi,
che in folla rimaneanvi sempre,
Le
ultrici far sentir mani omicide?"
"Io
nol vidi, né il so", colei riprese:
"Solo
il gemer di quei, ch'eran trafitti,
L'orecchio
mi ferìa. Noi delle belle
Stanze,
onde aprir non potevam le porte,
Nel
fondo sedevam, turbate il core;
Ed ecco
a me Telemaco mandato
Dal
genitor, che mi volea. Trovai
Ulisse
in piè tra i debellati proci,
Che
giacean l'un su l'altro, il pavimento
Tutto
ingombrando. Oh come ratto in gioia
La tua
lunga tristezza avresti vôlta:
Se di
polve e di sangue asperso e brutto,
Qual
feroce leon, visto l'avessi!
Or, del
palagio fuor tutti in un monte
Stannosi;
ed ei con solforati fuochi,
Ei, che
a te m'inviò nunzia fedele,
La
nobile magion purga e risana.
Seguimi
adunque; e dopo tanti mali
Ambo
schiudete alla letizia il core.
Già
questo lungo desiderio antico,
Che
distruggeati, cessa: Ulisse vivo
Venne
al suo focolare, e nel palagio
Trovò
la sposa e il figlio, e di coloro,
Che gli
noceano, vendicossi a pieno".
"Tanto
non esultar, non trïonfare,
Nutrice
mia", Penelope soggiunse,
"Perché
t'è noto, quanto caro a tutti,
E sovra
tutti a me caro, e al cresciuto
Suo
figlio e mio, capiterebbe Ulisse.
Ma tu
il ver non parlasti. Un nume, un nume
Fu, che
dell'opre ingiuste e de' superbi
Scherni
indegnato, mandò all'Orco i proci,
Che
dispregiavan sempre ogni novello
Stranier,
buon fosse, o reo: quindi perîro.
Ma
Ulisse lungi dall'Acaica terra
Il
ritorno perdé, perdé la vita".
"Deh
quale, o figlia, ti sfuggì parola
Dalla
chiostra de' denti?" a lei la vecchia.
"Il
ritorno perdé, perdé la vita,
Mentre
in sua casa e al focolar suo sacro
Dimora?
Il veggio: chiuderai nel petto
Un
incredulo cor, finché vivrai.
Se non
che un segno manifesto in prova
Ti
recherò; la cicatrice onesta
Della
piaga, che in lui di guerreggiato
Cinghial
feroce il bianco dente impresse;
Quella,
i piedi lavandogli, io conobbi
E volea
palesartela: ma egli,
Con le
mani afferrandomi alla bocca,
D'accortezza
maestro, il mi vietava.
Séguimi,
io dico. Ecco me stessa io metto
Nelle
tue forze: s'io t'avrò delusa,
La
morte più crudel fammi morire".
E di
nuovo Penelope: "Nutrice,
Chi le
vie degli dèi conoscer puote?
Né tu
col guardo a penetrarle basti.
Ogni
modo a Telemaco si vada,
E la
morte de' proci e il nostro io vegga
Liberatore,
un uomo ei siasi o un nume".
Detto
così, dalla superna stanza
Scese
con mente in due pensier divisa:
Se di
lontano a interrogar l'amato
Consorte
avesse o ad appressarlo in vece,
E nelle
man baciarlo e nella testa.
Varcata,
entrando, la marmorea soglia,
Da
quella parte, contra lui s'assise,
Dinanzi
al foco, che su lei raggiava;
Ed ei,
poggiato a una colonna lunga,
Sedea
con gli occhi a terra, e le parole
Sempre
attendea della preclara donna,
Poiché
giunti su lui n'eran gli sguardi.
Tacita
stette e attonita gran tempo:
Il
riguardava con immote ciglia,
E in
quel che ravvisarlo ella credea,
Traeanla
fuor della notizia antica
Gli
abiti vili, onde scorgealo avvolto.
Non si
tenne Telemaco, che lei
Forte
non rampognasse: "O madre mia,
Madre
infelice e barbara consorte,
Perché
così dal genitor lontana?
Ché non
siedi appo lui? ché non gli parli?
Null'altra
fôra così fredda e schiva
Con
marito alla patria, ed a lei giunto
Dopo
guai molti nel ventesim'anno.
Ma una
pietra per cuore a te sta in petto".
E a
rincontro Penelope: "Sospesa,
Figlio,
di stupor sono, ed un sol detto
Formar
non valgo, una dimanda sola,
E né,
quant'io vorrei, mirarlo in faccia.
Ma
s'egli è Ulisse e la sua casa il tiene,
Nulla
più resta che il mio stato inforsi.
Però
che segni v'han dal nuzïale
Ricetto
nostro impenetrabil tratti,
Ch'esser
noti sappiamo a noi due solo".
Sorrise
il saggio e pazïente Ulisse,
E
converso a Telemaco: "La madre
Lascia",
diceagli, "a suo piacer tentarmi:
Svanirà,
figlio, ogni suo dubbio in breve.
Perché
in vesti mi vede umili e abbiette,
Spregiami,
e penetrar non san per queste
Sino ad
Ulisse i timidi suoi sguardi,
Noi
quel partito consultiamo intanto
Che
abbracciar sarà meglio. Uom, che di vita
Spogliò
un uom solo e oscuro, e di cui pochi
Sono i
vendicator, pur fugge, e il dolce
Nido
abbandona ed i congiunti cari.
Or noi
della città tolto il sostegno,
E il
fior dell'Itacese gioventude
Mietuto
abbiamo. Qual è il tuo consiglio?"
E il
prudente Telemaco: "A te spetta,
Diletto
padre, il consigliar", rispose:
"A
te, con cui non v'ha chi d'accortezza
Contendere
osi. Io seguirotti pronto
In ogni
tuo disegno, e men, cred'io,
Le
forze mi verran pria, che il coraggio".
"Questo
a me sembra", ripigliava Ulisse.
"Bagnatevi,
abbigliatevi, e novelle
Prenda
ogni donna e più leggiadre vesti.
Poi con
l'arguta cetera il divino
Cantore
inviti a una gioconda danza.
Acciò
chi di fuori ode, o passa, o alberga
Vicin,
le nozze celebrarsi creda.
Così
pria non andrà per la cittade
Della
strage de' proci il sanguinoso
Grido,
che noi non siam nell'ombreggiata
Campagna
nostra giunti, in cui vedremo
Ciò che
inspirarci degnerà l'Olimpio".
Scoltato
ed ubbidito ei fu ad un'ora.
Si
bagnâr, s'abbigliâr, vesti novelle
Prese
ogni donna, e più fregiata apparve.
Femio
la cetra nelle man recossi,
E del
canto soave e dell'egregia
Danza
il desìo svegliò. Tutta sonava
Quella
vasta magion del calpestìo
Degli
uomini trescanti e delle donne,
Cui
bella fascia circondava i fianchi.
E tal
che udìa di fuor, tra sé dicea:
"Alcun
per fermo la cotanto ambita
Regina
ottenne. Trista! che gli eccelsi
Tetti
di quel, cui vergine congiunta
S'era,
non custodì, finch'ei venisse".
Così
parlava; e di profonda notte
Lo
strano caso rimanea tra l'ombre.
In
questo mezzo Eurìnome cosperse
Di
lucid'onda il generoso Ulisse,
E del
biondo licor l'unse, ed il cinse
Di
tunica e di clamide: ma il capo
D'alta
beltade gl'illustrò Minerva.
Ei de'
lavacri uscì pari ad un nume,
E di
nuovo s'assise, ond'era sorto,
Alla
sua moglie di rincontro, e disse:
"Mirabile!
a te più che all'altre donne,
Gli
abitatori dell'Olimpie case
Un
cuore impenetrabile formâro.
Quale
altra accoglierìa con tanto gelo
L'uom
suo, che dopo venti anni di duolo
Alla
sua patria ritornasse e a lei?
Su via,
nutrice, per me stendi un letto,
Dov'io
mi corchi, e mi riposi anch'io:
Quando
di costei l'alma è tutta ferro".
"Mirabil",
rispondea la saggia donna,
"Io
né orgoglio di me, né di te nutro
Nel cor
disprezzo, né stupor soverchio
M'ingombra:
ma guardinga i dèi mi fero.
Ben mi
ricorda, quale allor ti vidi,
Che
dalle spiagge d'Itaca naviglio
Ti
allontanò di remi lungo armato.
Or che
badi, Euriclèa, che non gli stendi
Fuor
della stanza maritale il denso
Letto,
ch'ei di sua mano un dì costrusse,
E pelli
e manti e sontuose coltri
Su non
vi getti?" Ella così dicea,
Far
volendo di lui l'ultima prova.
Crucciato
ei replicò: "Donna, parola
T'usci
da' labbri fieramente amara.
Chi
altrove il letto collocommi? Dura
Al più
saputo tornerìa l'impresa.
Solo un
nume potrebbe agevolmente
Scollocarlo:
ma vivo uomo nessuno,
Benché
degli anni in sul fiorir, di loco
Mutar
potrìa senza i maggiori sforzi
Letto
così ingegnoso, ond'io già fui,
Né
compagni ebbi all'opra, il dotto fabbro.
Bella
d'olivo rigogliosa pianta
Sorgea
nel mio cortile, i rami larga,
E grossa
molto, di colonna in guisa.
Io di
commesse pietre ad essa intorno
Mi
architettai la maritale stanza,
E d'un
bel tetto la coversi, e salde
Porte
v'imposi e fermamente attate.
Poi,
vedovata del suo crin l'oliva,
Alquanto
su dalla radice il tronco
Ne
tagliai netto, e con le pialle sopra
Vi
andai leggiadramente, v'adoprai
La
infallibile squadra e il succhio acuto.
Così il
sostegno mi fec'io del letto;
E il
letto a molta cura io ripolìi,
L'intarsïai
d'oro, d'avorio e argento
Con
arte varia, e di taurine pelli,
Tinte
in lucida porpora, il ricinsi.
Se a me
riman, qual fabbricailo, intatto,
O
alcun, succiso dell'olivo il fondo,
Portollo
in altra parte, io, donna, ignoro".
Questo
fu il colpo che i suoi dubbi tutti
Vincitore
abbatté. Pallida, fredda,
Mancò,
perdé gli spiriti e disvenne.
Poscia
corse vêr lui dirittamente,
Disciogliendosi
in lagrime; ed al collo
Ambe le
braccia gli gettava intorno,
E
baciavagli il capo e gli dicea:
"Ah!
tu con me non t'adirare, Ulisse,
Che in
ogni evento ti mostrasti sempre
Degli
uomini il più saggio. Alla sventura
Condannavanci
i numi, a cui non piacque
Che de'
verdi godesse anni fioriti
L'uno
appo l'altro, e quindi a poco a poco
L'un
vedesse imbiancar dell'altro il crine.
Ma, se
il mirarti e l'abbracciarti un punto
Per me
non fu, tu non montarne in ira.
Sempre
nel caro petto il cor tremavami,
Non
venisse a ingannarmi altri con fole:
Ché
astuzie ree covansi a molti in seno.
Né la
nata di Giove Elena Argiva
D'amor
sarìasi e sonno a uno straniero
Congiunta
mai, dove previsto avesse
Che degli
Achei la bellicosa prole
Nuovamente
l'avrebbe alla diletta
Sua
casa in Argo ricondotta un giorno.
Un dio
la spinse a una indegna opra; ed ella
Pria
che di dentro ne sentisse il danno,
Non
conobbe il velen, velen da cui
Tanto
cordoglio a tutti noi discorse.
Ma tu
mi desti della tua venuta
Certissimo
segnale: il nostro letto,
Che
nessun vide mai, salvo noi due,
E
Attoride la fante, a me già data
Dal
padre mio, quand'io qua venni, e a cui
Dell'inconcussa
nuzïale stanza
Le
porte in guardia son, tu quello affatto
Mi
descrivesti; e al fin pieghi il mio core,
Ch'esser
potrìa, nol vo' negar, più molle".
A
questi detti s'eccitò in Ulisse
Desìo
maggior di lagrime. Piagnea,
Sì
valorosa donna e sì diletta
Stringendo
al petto. E il cor di lei qual era?
Come ai
naufraghi appar grata la terra
Se
Nettuno fracassò nobile nave,
Che i
vasti flutti combatteano e i venti,
Tanto
che pochi dal canuto mare
Scampâr
nôtando a terra e con le membra
Di
schiuma e sal tutte incrostate, e lieti
Su la
terra montâr, vinto il periglio:
Così
gioìa Penelope, il consorte
Mirando
attenta, né staccar sapea
Le
braccia d'alabastro a lui dal collo.
E già
risorta lagrimosi il ciglio
Visti
gli avrìa la ditirosea Aurora,
Se
l'occhio azzurro di Minerva un pronto
Non
trovava compenso. Egli la Notte
Nel fin
ritenne della sua carriera,
Ed
entro all'Ocean fermò l'Aurora,
Giunger
non consentendole i veloci
Dell'alma
luce portator destrieri,
Lampo e
Fetonte, ond'è guidata in cielo
La
figlia del mattin su trono d'oro.
Ulisse
allor queste parole volse
Non
liete alla donna: "O donna, giunto
Non
creder già de' miei travagli il fine.
Opra
grande rimane, immensa, e cui
Fornir,
benché a fatica, io tutta deggio.
Tanto
mi disse di Tiresia l'ombra
Il dì
ch'io per saver del mio ritorno,
E di
quel de' compagni, al fosco albergo
Scesi
di Dite. Or basta. Il nostro letto
Ci
chiama e il sonno, di cui tutta in noi
Entrerà
l'ineffabile dolcezza".
E
Penelope a lui così rispose:
"Quello
a te sempre apparecchiato giace,
Poiché
di ritornar ti diêro i numi.
Ma tu
quest'opra, di cui qualche dio
Risvegliò
in te la rimembranza, dimmi.
Tu non
vorrai da me, penso, celarla
Poscia;
e il tosto saperla a me par meglio".
"Sventurata,
perché", l'altro riprese,
"Tal
nel tuo petto e sì fervente brama?
Nulla
io t'asconderò: benché goderne
Certo
più che il mio core, il tuo non deggia.
L'ombra
ir m'impose a città molte, un remo
Ben
fabbricato nelle man tenendo,
Né
prima il piè fermar, che ad una nuova
Gente
io non sia, che non conosce il mare,
Né
cosperse di sal vivande gusta,
Né
delle navi dalle rosse guance
O de'
remi, che sono ale alle navi,
Notizia
vanta. E mi diè un segno il vate.
Quel
dì, che un altro pellegrino, a cui
M'abbatterò
per via, me un ventilabro
Portar
dirà su la gagliarda spalla,
Allora,
infitto nella terra il remo,
E
vittime perfette a re Nettuno
Svenate,
un toro, un arïete, un verro,
Riedere
io debbo alle paterne case,
E per
ordine offrir sacre ecatombi
Agli
dèi tutti che in Olimpo han seggio.
Quindi
a me fuor del mare, e mollemente
Consunto
al fin da una lenta vecchiezza,
Morte
sopravverà placida e dolce,
E beate
vivran le genti intorno.
Ecco il
destin che il tuo consorte aspetta".
Ed ella
ripigliò: "Se una vecchiezza
Migliore
i dèi prométtonti, che tutta
L'altra
etade non fu, t'allegra dunque,
O
d'ogni angoscia vincitor felice".
Eurìnome
frattanto ed Euriclèa
Di
molli coltri e di tappeti il casto
Letto
adornavan delle faci al lume.
Ciò in
brev'ora compiuto, a' suoi riposi
Euriclèa
si ritrasse, ed Eurinòme
In vêr
la stanza maritale Ulisse
Precedeva,
e Penelope, tenendo
Fiaccola
in man: poi ritirossi anch'ella;
E con
pari vaghezza i due consorti
Del
prisco letto rinnovaro i patti.
Telemaco
non meno ed i pastori,
Fatti i
lor piè cessar dalla gioconda
Danza,
e quei delle donne, al sonno in preda
S'abbandonaro
nell'oscura sala.
Ma
Penelope e Ulisse un sovrumano
De'
mutui lor ragionamenti vari,
Che la
notte coprìa, prendean diletto.
Ella
narrava, quanto a lei di doglia
Diè la
vista de' proci, ed il trambusto
In
ch'era la magion, mentre, velando
La loro
audacia dell'amor del manto,
Sempre
a terra stendean pecora o bue,
E dai
capaci dogli il delicato
Vino
attigneano. D'altra parte Ulisse
Que'
mali, che in se stesso o a gente avversa
Sofferti
avea pellegrinando, o inflitti,
Le
raccontava: un non so che di dolce
L'anima
ricercavale ed a lei,
Finch'ei
per tutte andò le sue vicende,
Non
abbassava le palpèbre il sonno.
Tolse a
dir, come i Cìconi da prima
Vinse,
e poi de' Lotòfagi alla pingue
Terra
sen venne; e rammentò gli eccessi
Del
barbaro Ciclope, e la sagace
Vendetta
fatta di color tra i suoi,
Ch'ei
metteasi a vorar senza pietade.
Come ad
Eolo approdò, da cui gentile
Accoglienza
e licenza ebbe del pari:
Ma non
ancor gli concedeano i fati
La
contrada natìa, donde rapillo
Subitana
procella, e sospirante
Molto e
gemente, il ricacciò nell'alto.
Quindi
l'amaro descriveale arrivo
Alla
funesta dalle larghe porte
Cittade
de' Lestrìgoni, e gli ancisi
Compagni
tanti, e i fracassati legni,
Fuor
che uno, sovra cui salvossi appena.
Gli
scaltrimenti descrivea di Circe
E il
vïaggio impensato in salda nave,
Per consultar
del Teban vate l'alma,
Alla
casa inamabile di Pluto,
Dove
s'offrîro a lui gli antichi amici,
Ombre
guerriere, ed Anticlèa, che in luce
Poselo,
e intese alla sua infanzia cara.
Aggiunse
le Sirene, innanzi a cui
Passare
ardì con disarmati orecchi;
E
gl'instabili scogli, e la tremenda
Cariddi
e Scilla, cui non vider mai
I più
destri nocchieri impunemente.
Né
l'estinto tacea del Sole armento,
E la
vermiglia folgore di Giove
Altitonante,
che percosse il legno,
E i
compagni sperdé. Campò egli a terra
Solo, e
afferrò all'Ogigia isola; ed ivi
Calipso,
che bramava essergli sposa,
Il
ritenea nelle sue cave grotte,
L'adagiava
di tutto, e giorni eterni
Senza
canizie prometteagli: pure
Nel
seno il cor mai non piegògli. Al fine
Dopo
infiniti guai giunse ai Feaci,
Che al
par d'un nume l'onorâro, e in nave
Di rame
carca e d'oro e di vestiti,
All'aere
dolce de' natii suoi monti
Rimandârlo.
Quest'ultima parola
Delle
labbra gli uscìa, quando soave
Scioglitor
delle membra e d'ogni cura
Disgombrator,
sovra lui cadde il sonno.
Ma in
questo mezzo la Pupilleazzurra
Di
Laerte il figliuol non obblïava.
Come le
parve ch'ei goduto avesse
Di
notturna quïete appo la fida
Moglie
abbastanza, incontanente mosse
E a
levarsi eccitò dall'Oceàno
Sul
trono d'ôr la ditirosea Aurora,
Perché
la terra illuminasse e il cielo.
Sorse
allora l'eroe dal molle letto,
E
questi accenti alla consorte volse:
"Consorte,
sino al fondo ambi la coppa
Bevemmo
del dolor; tu, che piangevi
Il mio
ritorno disastroso, ed io,
Cui
Giove e gli altri dèi, dalla bramata
Patria
volean tra mille affanni in bando.
Or, che
agli Eterni rïunirci piacque,
Cura tu
prenderai di quanto in casa
Rèstami;
ed io di ciò, che gli orgogliosi
Proci
usurpâro a me, parte co' doni
Del
popol mio, parte co' miei conquisti,
Ristorerommi
a pieno, in sin che tutte
Si
rïempian di nuovo a me le stalle.
Io
nella folta di diverse piante
Campagna
sua corro a veder l'antico
Genitor,
che per me tanto dolora.
Tu,
benché saggia, il mio precetto ascolta.
Sorto
il novello sol, per la cittade
Della
morte de' proci andrà la fama.
Sali
nell'alto con le ancelle e siedi,
Ed in
guisa ivi sta, che non t'accada
Né voce
ad alcun volgere, né sguardo".
Detto,
vestissi le bell'armi, e il prode
Figlio
animava e i due pastori, e a tutti
Prendere
ingiunse i marzïali arnesi.
Quelli,
obbedendo, armavansi, e, dischiuse
Le
porte, uscìano: precedeali Ulisse.
Già si
spargea su per la terra il lume;
Ma fuor
della città tosto li trasse
Di nube
cinti l'Atenèa Minerva.
LIBRO
XXIV
Mercurio
intanto, di Cillene il dio
L'alme
de' proci estinti a sé chiamava.
Tenea
la bella in man verga dell'oro,
Onde i
mortali dolcemente assonna,
Sempre
che il vuole, e li dissonna ancora.
Con
questa conducea l'alme chiamate,
Che
stridendo il seguìano. E come appunto
Vipistrelli
nottIvaghi nel cupo
Fondo
talor d'una solenne grotta,
Se
avvien che alcun dal sasso ove congiunti
L'uno
appo l'altro s'atteneano, caschi,
Tutti
stridendo allor volano in folla:
Così
movean gli spirti, e per la fosca
Via
precedeali il mansueto ErmEte.
L'Oceàn
trapassavano, e la bianca
Pietra
e del sole le lucenti porte,
Ed il
popol de' sogni: indi ai vestiti
D'asfodèlo
immortale inferni prati
Giunser,
dove soggiorno han degli estinti
Le
aeree forme e i simulacri ignudi.
L'alma
trovâro del Pelìade Achille,
Di
Pátroclo, d'Antiloco e d'Aiace,
Che i
Danai tutti, salvo il gran Pelìde,
Di
corpo superava e di sembiante,
Corona
fean di Pèleo al figlio: ed ecco
Dolente
presentarsegli lo spirto
Dell'Atride
Agamennone, cui tutti
Seguìan
coloro che d'Egisto un giorno
Nella
casa infedel con lui periro.
Primo
gli volse le parole Achille:
Noi
credevamti sovra tutti, Atride
Della
Grecia gli eroi diletto al vago
Del
fulmin Giove, poiché a molta e forte
Gente
imperavi sotto l'alte mura
Di
Troia, lungo degli Achivi affanno.
Pur te
assalir dovea, primo tra quelli
Che
ritornâro, la severa Parca,
Da cui
scampar non lice ad uom che nacque.
Ché non
moristi almeno in quell'eccelso
Grado,
di cui godevi, ad Ilio innanzi?
Qual
tomba i Greci, che al tuo figlio ancora
Somma
gloria sarìa ne' dì futuri,
Non
t'avrìano innalzata? Oh miseranda
Fine
che in vece ti prescrisse il fato!"
"Felice
te", gli rispondea l'Atride,
"Figlio
di Pèleo, Achille ai numi eguale,
Tu che
a Troia cadesti, e lunge d'Argo,
E a cui
de' Greci e de' Troiani i primi,
Che
pugnavan per te, cadeano intorno!
Tu de'
cavalli immemore e de' cocchi,
Cadaver
grande sovra un grande spazio,
Giacevi
in mezzo a un vortice di polve;
E noi
combattevam da mane a sera,
Né
cessava col dì, credo, l'atroce
Pugna
ostinata, se da Giove mosso
Gli uni
non dividea dagli altri un turbo.
Tosto
che fuor della battaglia tratto,
E alle
navi per noi condotto fosti,
Asperso
prima il tuo formoso corpo
Con
tepid'acque e con fragranti essenze,
Ti
deponemmo in su funèbre letto;
E molte
sovra te lagrime calde
Spargeano
i Danai e recideansi il crine.
Ma la
tua madre, il grave annunzio udito,
Del
mare uscì con le Nereidi eterne,
E un
immenso clamor corse per l'onde,
Tal che
tremarsi le ginocchia sotto
Gli
Achei tutti sentiro. E già salite
Precipitosi
avrìan le ratte navi,
S'uom
non li ritenea, la lingua e il petto
Pien
d'antico saver, Nestor, di cui
Ottimo
sempre il consigliar tornava:
"Arrestatevi,
Argivi, non fuggite",
Disse
il profondo del Nelìde senno,
"O
figli degli Achei: questa è la madre,
Ch'esce
dall'onda con l'equòree Dive
E al
figliuol morto viene". A tai parole
Ciascun
risté. Ti circondaro allora
Del
vecchio Nereo le cerulee figlie,
Lugubri
lai mettendo, e a te divine
Vesti
vestiro. Il coro anche plorava
Delle
nove sorelle, alternamente
Sciogliendo
il canto or l'una, or l' altra; e tale
Il
poter fu delle canore Muse,
Che un
sol Greco le lagrime non tenne.
Dieci
dì e sette ed altrettante notti,
Uomini
e dèi ti piangevam del pari:
Ma il
giorno che seguì, ti demmo al foco,
E
agnelle di pinguedine fiorite
Sgozzammo
e buoi dalla lunata fronte.
Tu
nelle vesti degli dèi, nel dolce
Mele
fosti arso e nel soave unguento;
E
mentre ardevi, degli Acaici eroi
Molti
corser con l'arme intorno al rogo,
Chi sul
cocchio, chi a piedi; ed un rimbombo
Destossi
che salì fino alle stelle.
Come
consunto la vulcania fiamma,
Achille,
t'ebbe, noi le candide ossa,
Del più
puro tra i vini e del più molle
Tra gli
unguenti irrigandole, su l'Alba
Raccoglievamo;
e la tua madre intanto
Portò
lucida d'oro urna, che dono
Dicea
di Bacco e di Vulcan fattura.
Entro quest'urna
le tue candide ossa
Con
quelle di Patròclo, illustre Achille,
Giaccion:
ed ivi pur, benché disgiunte,
L'ossa
posan d'Antìloco, cui tanto
Sovra
tutti i compagni onor rendevi,
Spento
di vita il Menezìade. Quindi
Massima
ergemmo e sontuosa tomba
Noi de'
pugnaci Achivi oste temuta,
Su
l'Ellesponto, ove più sporge il lido:
Perché
chi vive e chi non nacque ancora,
Solcando
il mar la dimostrasse a dito.
La
madre tua, che interrogonne i numi,
Splendidi
in mezzo il campo al fior dell'oste
Giuochi
propose. Io molte esequie illustri
Dove
all'urna d'un re la gioventude
Si
cinge i fianchi, e a lotteggiar s'appresta,
Vidi al
mio tempo: ma più assai, che gli altri
Certami
tutti, con le ciglia in arco
Quelle
giostre io mirai, che per te diede
Sì
belle allor la piediargentea Teti.
Così
caro vivevi agl'immortali!
Però il
tuo nome non si spense teco:
Anzi la
gloria tua pel mondo tutto
Rifiorirà,
Pelìde, ognor più bella.
Ma io
qual pro di così lunga guerra
Da me
finita, se cotal ruina
Per man
d'Egisto e d'una moglie infame,
Pronta
mi tenea Giove al mio ritorno?"
Cotesti
avean ragionamenti, quando
Lor
s'accostò l'interprete Argicida,
Che de'
proci testé da Ulisse vinti
L'alme
guidava. Agamennòne e Achille
Non
prima li sguardâr che ad incontrarli
Maravigliando
mossero. L'Atride
Ratto
conobbe Anfimedonte, il caro
Figlio
di quel Melanio, onde ospizio ebbe
In
Itaca, e così primo gli disse:
"Anfimedonte,
per qual caso indegno
Scendeste
voi sotterra, eletta gente,
E tutti
d'una età? Scêrre i migliori
Meglio
non si potrìa nella cittade.
Nettuno
forse vi annoiò sul mare,
Fieri
venti eccitando e immani flutti?
O
v'offesero in terra uomini ostili,
Mentre
buoi predavate e pingui agnelle?
O per
la patria e per le care donne
Combattendo
cadeste? A un tuo paterno
Ospite,
che tel chiede, manifesta.
Non ti
ricorda di quel tempo, ch'io
Col
divin Menelao venni al tuo tetto,
Ulisse
a persuader, che su le armate
Di
saldi banchi e ben velate navi
Ci
accompagnasse a Troia? Un mese intero
Durò il
passaggio per l'immenso mare,
Poiché
svelto da noi fu a stento il prode
Rovesciator
delle cittadi Ulisse".
E di
rincontro Anfimedonte: "O figlio
Glorïoso
d'Atrèo, re delle genti,
Serbo
in mente ciò tutto; e qual reo modo
Ci
toccasse di morte, ora io ti narro.
D'Ulisse,
ch'era di molt'anni assente,
La consorte
ambivamo. Ella nel core
Morte a
noi macchinava, e non volendo
Né
rifiutar, né trarre a fin le nozze,
Un
compenso inventò. Mettea la trama
In
sottile ampia, immensa tela ordita
Da lei
nel suo palagio; e, noi chiamati:
"Giovinetti",
dicea, "miei proci, Ulisse
Sensa
dubbio morì. Tanto a voi dunque
Piaccia
indugiar le nozze mie ch'io questo
Lugubre
ammanto per l'eroe Laerte,
Onde a
mal non mi vada il vano stame,
Pria
fornir possa, che la negra il colga
D'eterno
sonno apportatrice Parca.
Volete
voi che mòrdanmi le Achee,
Se ad
uom, che tanto avea d'arredi vivo,
Fallisse
un drappo, in cui giacersi estinto?"
Con
siffatte parole il core in petto
Ci
tranquillò. Tessea di giorno intanto
L'insigne
tela e la stessea di notte,
Di mute
faci al consapevol raggio.
Un trïennio
così nella sua frode
Celavasi
e tenea gli Achivi a bada.
Ma
sorgiunto il quart'anno, e le stagioni,
Uscendo
i mesi, nuovamente apparse,
E
compiuta de' giorni ogni rivolta,
Noi, da
un ancella non ignara instrutti,
Penelope
trovammo al suo notturno
Retrogrado
lavoro, e ripugnante
Pur di
condurlo la sforzammo a riva.
Quando
ci mostrò alfin l'inclito ammanto,
Che
risplendea, come fu asterso tutto,
Del
sole al pari o di Selene, allora
Ulisse,
non so d'onde, un genio avverso
Menò al
confin del campo, ove abitava
Il
custode de' verri, ed ove giunse
D'Ulisse
il figlio, che ritorno fea
Dall'arenosa
Pilo in negra nave.
Morte a
noi divisando, alla cittade
Vennero;
innanzi il figlio e il padre dopo.
Questi
in lacero arnese e somigliante
A un
infelice paltoniere annoso,
Che sul
bastone incurvasi, condotto
Fu dal
pastor de' verri; i più meschini
Vestiti
appena il ricoprìan, né alcuno
Tra i
più attempati ancor, seppe di noi,
Com'ei
s'offerse, ravvisarlo. Quindi
Motteggi
e colpi le accoglienze fûro.
Colpi
egli pazïente in sua magione
Per un
tempo soffrìa, non che motteggi;
Ma,
come spinto dall'Egìoco Giove
Sentissi,
l'armi dalla sala tolse,
E con
l'aìta del figliuol nell'alto
Le
serrò del palagio. Indi con molto
Prevedimento
alla reina ingiunse
Che
l'arco proponesse e il ferro ai proci:
Funesto
gioco, che finì col sangue.
Nessun
di noi del valid'arco il nervo
Tender
potea: ché opra da noi non era.
Ma
dell'eroe va in man l'arma. Il pastore
Noi
tutti sgridavam, perché all'eroe
Non la
recasse. Indarno fu. Telemaco
Comandògli
recarla, e Ulisse l'ebbe.
Ei,
prese in man l'arco famoso, il tese
Così e
il tirò, che ambo le corna estreme
Si
vennero ad unir: poi la saetta
Per fra
tutti gli anei sospinse a volo.
Ciò
fatto, stette in su la soglia, e i ratti
Strali
versossi ai piedi, orrendamente
Guardando
intorno. Antìnoo colse il primo,
E dopo
lui, sempre di contra or l'uno
Tolto e
or l'altro di mira, i sospirosi
Dardi
scoccava, e cadea l'un su l'altro.
Certo
un nume l'aitava. I suoi compagni,
Seguendo
qua e là l'impeto suo,
A gara
trucidavanci: lugùbri
Sorgean
lamenti, rimbombar s'udìa
Delle
teste percosse ogni parete;
E
correa sangue il pavimento tutto.
Così,
Atride, perimmo e i nostri corpi
Giaccion
negletti nel cortil d'Ulisse:
Poiché
nulla ne san gli amici ancora,
Che
dalla tabe a tergerci e dal sangue
Non
tarderìano e a piangerci deposti,
De'
morti onor, sovra un funèbre letto".
"O
fortunato", gridò allor l'Atride
"Di
Laerte figliuol, con qual valore
La
donna tua riconquistasti! E quanto
Saggia
o memore ognor dell'uomo, a cui
Nel
pudico suo fiore unita s'era
Visse
d'Icario la figliuola illustre!
La
rimembranza della sua virtude
Durerà
sempre, e amabile ne' canti
Ne
sonerà per l'universo il nome.
Non
così la Tindaride, che, osando
Scellerata
opra, con la man, che data
Vergine
aveagli, il suo marito uccise.
Costei
fia tra le genti un odïoso
Canto
perenne: ché di macchia tale
Le
donne tutte col suo fallo impresse,
Che le
più oneste ancor tinte n'andranno".
Tal
nell'oscure, dove alberga Pluto,
Della
terra caverne, ivan quell'alme
Di lor
vicende ragionando insieme.
Ulisse
e il figlio intanto e i due pastori
Giunser,
dalla città calando, in breve
Del
buon Laerte al poder culto e bello,
De'
suoi molti pensier frutto, e de' molti
Studi e
travagli suoi. Comoda casa
Gli
sorgea quivi di capanne cinta,
Ove
cibo e riposo ai corpi, e sonno
Davan
famigli, che, richiesti all'uopo
Delle
sue terre, per amor più ancora,
Che per
dover, servìanlo; ed una buona
Pur
v'abitava Siciliana fante,
Che in
quella muta solitudin verde
De'
canuti anni suoi cura prendea.
Ulisse
ai due pastori e al caro pegno:
"Entrate",
disse, "nella ben construtta
Casa, e
per cena un de' più grassi porci
Subito
apparecchiate. Io voglio il padre
Tentar,
s'ei dopo una sì lunga assenza
Mi
ravvisa con gli occhi, o estinta in mente
Gli
abbia di me la conoscenza il tempo".
Detto,
consegnò lor l'armi; e Telemaco,
E i due
pastor rapidi entrâro. Ulisse
Del
grande orto pomifero alla volta
Mosse,
né Dolio, discendendo in quello,
Trovò,
né alcun de' figli o degli schiavi,
Che
tutti a raccôr pruni, onde il bell'orto
D'ispido
circondar muro campestre,
S'eran
rivolti; e precedeali Dolio.
Sol
trovò il genitor, che ad una pianta
Curvo
zappava intorno. Il ricoprìa
Tunica
sozza ricucita e turpe:
Dalle
punture degli acuti rovi
Le
gambe difendevan gli schinieri
Di
rattoppato cuoio e le man guanti:
Ma
berretton di capra in su la testa
Portava
il vecchio; e così ei la doglia
Nutriva
ed accrescea nel caro petto.
Tosto
che Ulisse l'avvisò dagli anni
Suoi
molti, siccom'era, e da' suoi molti
Mali
più ancor, che dall'età, consunto,
Lagrime,
stando sotto un alto pero,
Dalle
ciglia spandea. Poi nella mente
Volse e
nel cor, qual de' due fosse il meglio,
Se con
amplessi a lui farsi e con baci,
E
narrar del ritorno il quando e il come,
O
interrogarlo prima, e punzecchiarlo
Con
detti forti risvegliando il duolo,
Per
raddoppiar la gioia; e a ciò s'attenne.
Si
drizzò dunque a lui, che basso il capo
Tenea
zappando ad una pianta intorno,
E:
"Vecchio", disse, "della cura ignaro,
Cui
domanda il verzier, certo non sei,
Arbor non
v'ha, non fico, vite, oliva
Che
l'abil mano del cultor non mostri,
Né
sfuggì all'occhio tuo di terra un palmo.
Altro,
e non adirartene, io dirotti:
Nulla è
negletto qui, fuorché tu stesso.
Coverto
di squallor véggioti e avvolto
In
panni rei, non che dagli anni infranto.
Se mal
ti tratta il tuo signor, per colpa
Della
pigrizia tua non è ciò, penso:
Anzi tu
nulla di servil nel corpo
Tieni o
nel volto, chi ti guarda fisso.
Somigli
ad un re nato; ad uom somigli,
Che,
dopo il bagno e la gioconda mensa,
Mollemente
dormir debba su i letti
Com'è
l'usanza de' vegliardi. Or dimmi
Preciso
e netto chi tu servi, e a cui
L'orto
governi, e fa' ch'io sappia in oltre,
Se
questa è veramente Itaca, dove
Son
giunto, qual testé colui narrommi
Che in
me scontrossi, uom di non molto senno,
Quando
né il tutto raccontar, né volle
Me
udir, che il richiedea, se in qualche parte
D'Itaca
un certo vive ospite mio,
O morte
il chiude la magion di Dite.
A te
parlerò in vece, e tu l'orecchio
Non
ricusar di darmi. Ospite un tale
Nella
mia patria io ricevei, di cui
Non
venne di lontano al tetto mio
Forestier
mai, che più nel cor m'entrasse.
Nato ei
diceasi in Itaca, e Laerte,
D'Arcesio
il figlio, a genitor vantava.
Il
trattai, l'onorai, l'accarezzai
Nel mio
di beni ridondante albergo,
E degni
in sul partir doni io gli porsi:
Sette
di lavorato oro talenti,
Urna
d'argento tutta e a fiori sculta,
Dodici
vesti tutte scempie, e tanto
Di
tappeti, di tuniche e di manti;
E
quattro belle, oneste, e di lavori
Femmine
sperte ch'egli stesso elesse".
"Stranier",
rispose lagrimando il padre,
"Sei
nella terra di cui chiedi, ed ove
Una
pessima gente ed oltraggiosa
Regna
oggidì. Que' molti doni, a cui
Ei con
misura eguale avrìa risposto,
Come
degno era bene, or, che qui vivo
Nol
trovi più, tu gli spargesti al vento.
Ma
schiettamente mi favella: quanti
Passâro
anni dal dì che ricevesti
Questo
nelle tue case ospite gramo,
Che
s'ei vivesse ancor sarìa il mio figlio?
Misero!
in qualche parte, e dalla patria
Lungi,
o fu in mar pasto de' pesci, o in terra
De'
volatori preda e delle fere:
Né
ricoperto la sua madre il pianse,
Né il
pianse il genitor; né la dotata
Di
virtù, come d'ôr, Penelopèa
Con
lagrime onorò l'estinto sposo
Sopra
fùnebre letto, e gli occhi prima
Non gli
compose con mal ferma destra.
Ciò
palesami ancor: chi sei tu? e donde?
Dove a
te la città? la madre? il padre?
A qual
piaggia s'attiene il ratto legno
Che te
condusse e i tuoi compagni illustri?
O
passeggier venisti in nave altrui,
E, te
sbarcato, i giovani partiro?"
"Tutto",
riprese lo scaltrito eroe,
"Narrerò
acconciamente. Io figlio sono
Del re
Polipemònide Afidante.
In
Alibante nacqui, ove ho un eccelso
Tetto,
e mi chiamo Epèrito. Me svelse
Dalla
Sicilia un Genio avverso, e a queste
Piagge
sospinse; ed or vicino ai campi,
Lungi
della città, stassi il mio legno.
Volge
il quint'anno omai che Ulisse sciolse
Dalla
mia patria. Sventurato! a destra
Gli
volavano allor gli augelli, ed io
Lui,
che lieto partì, congedai lieto:
Quando
ambi speravam che rinnovato
L'ospizio
avremmo e ricambiati i doni".
Disse,
e fosca di duol nube coverse
La
fronte al padre, che la fulva polve
Prese
ad ambo le mani, e il venerando
Capo
canuto se ne sparse, mentre
Nel
petto spesseggiavangli i sospiri.
Ulisse
tutto commoveasi dentro,
E un
acre si sentìa pungente spirto
Correre
alle narici, il caro padre
Mirando
attento: al fin su lui gittossi,
E
stretto il si recava in fra le braccia,
E il
baciava più volte, e gli dicea:
"Quell'io,
padre, quell'io, che tu sospiri,
Ecco
nel ventesmo anno in patria venni.
Cessa
dai pianti, dai lamenti cessa,
E sappi
in breve, perché il tempo stringe,
Ch'io
tutti i proci uccisi, e vendicai
Tanti e
sì gravi torti in un dì solo".
"Ulisse
tu?" così Laerte tosto,
"Tu
il figlio mio? Dammene un segno, e tale,
Che in
forse io non rimanga un solo istante".
E Ulisse:
"Pria la cicatrice mira
Della
ferita che cinghial sannuto
M'aperse
un dì sovra il Parnaso, quando
Ad
Autolico io fui per quei che in Itaca
M'avea
doni promessi, accompagnando
Col
moto della testa i detti suoi.
Gli
arbori inoltre io ti dirò, di cui
Nell'ameno
verzier dono mi festi.
Fanciullo
io ti seguìa con ineguali
Passi
per l'orto, e or questo árbore, or quello
Chiedeati;
e tu, come andavam tra loro,
Mi
dicevi di lor l'indole e il nome.
Tredici
peri a me donasti e dieci
Meli e
fichi quaranta, e promettesti
Ben
cinquanta filari anco di viti,
Che di
bella vendemmia eran già carche:
Poiché
vi fan d'ogni sorta uve, e l'Ore,
Del
gran Giove ministre, i lor tesori
Versano
in copia su i fecondi tralci".
Quali
dar gli potea segni più chiari?
Laerte,
a cui si distemprava il core,
E
vacillavan le ginocchia, avvolse
Subito
ambe le mani al collo intorno
Del
figlio; e il figlio lui, ch'era di spirti
Spento
affatto, a sé prese ed il sostenne.
Ma come
il fiato in seno, e nella mente
I
dispersi pensieri ebbe raccolti:
"O
Giove padre", sclamò egli, "e voi,
Numi,
voi certo su l'Olimpo ancora
Siete e
regnate ancor, se la dovuta
Pena
portâr de' lor misfatti i proci.
Ma un
timore or m'assal, non gl'Itacesi
Vengan
tra poco a queste parti in folla,
E messi
qua e là mandino a un tempo
De'
Cefalleni alle città vicine.
"Sta
di buon core", gli rispose Ulisse,
"Né
ti prenda di ciò cura o pensiero.
Alla
magion, che non lontana siede,
Moviamo:
io là Telemaco invïai
Con
Filezio ed Eumèo, perché allestita
Prestamente
da lor fosse la cena".
In via,
ciò detto, entraro, e, come giunti
Fûro al
rural non disagiato albergo,
Telemaco
trovâr co' due pastori,
Che
incidea molte carni, ed un possente
Vino
mescea. La Siciliana fante
Lavò
Laerte e di biond'olio l'unse
E d'un
bel manto il rivestì: ma Palla,
Scesa
per lui di ciel, le membra crebbe
De'
popoli al pastore; e di persona
Più
alto il rese, e più ritondo in faccia.
Maravigliava
Ulisse, allor che il vide
Simile
in tutto agl'Immortali, e: "Padre",
Disse,
"opra fu, cred'io, d'un qualche nume
Cotesta
tua statura, e la novella
Beltà,
che in te dopo i lavacri io scorgo".
"Oh",
riprese Laerte, "al padre Giove
Stato
fosse e a Minerva e a Febo in grado,
Che
quale allora io fui, che su la terra
Continental,
de' Cefalleni duce,
La ben
construtta Nerico espugnai,
Tal
potuto avess'io con l'arme in dosso
Starmi
al tuo fianco nella nostra casa,
E i
proci ributtar, quando per loro
Splendea
l'ultimo sol! Di loro a molti
Sciolte
avrei le ginocchia, e a te sarebbe
Infinito
piacer corso per l'alma".
Così
Laerte e il figlio. E già, cessata
Dell'apparecchio
la fatica, a mensa
Tutti
sedeansi. Non aveano ai cibi
Stese
l'avide man, che Dolio apparve.
E seco
i figli dal lavoro stanchi:
Poiché
uscita a chiamarli era la buona
Sicula
madre, che nudrìali sempre,
E il
vecchio Dolio dall'etade oppresso
Con
amor grande governava. Ulisse
Veduto
e ravvisatolo, restâro
Tutti
in un piè di maraviglia colmi:
Ma ei
con blande voci: "O vecchio", disse,
Siedi
alla mensa, e lo stupor deponi.
Buon
tempo è già che, desïando ai cibi
Stender
le nostre mani, e non volendo
Cominciar
senza voi, cen rimanemmo".
Dolio a
tai detti con aperte braccia
Mosse
dirittamente incontro a Ulisse,
E la
man, che afferrò, baciògli al polso.
Poi
così gli dicea: "Signor mio dolce,
S'è ver
che a noi, che di vederti brama
Più
assai che speme, chiudevam nel petto,
Te
rimenâro alfin gli stessi numi,
Vivi,
gioisci, d'ogni dolce cosa
Ti
consolino i dèi. Ma dimmi il vero:
Sa la
regina per indizio certo
Che
ritornasti, o vuoi che a rallegrarla
Di sì
prospero evento un nunzio corra?"
"Dolio",
ripigliò Ulisse, "la regina
Già il
tutto sa. Perché t'affanni tanto?"
Il
vecchio allora sovra un polito scanno
Prontamente
sedé. Né men di lui,
Festa
feano ad Ulisse i suoi figliuoli,
E or
l'un le mani gli afferrava, or l'altro:
Indi
sedean di sotto al caro padre
Conforme
all'età loro. Ed in tal guisa
Della
mensa era quivi ogni pensiero.
La fama
intanto il reo destin de' proci
Per
tutta la città portava intorno.
Tutti,
sentite le funeste morti,
Chi di
qua chi di là, con urli e pianti
Venìan
d'Ulisse al tetto, e i corpi vani
Fuor ne
traeano, e li ponean sotterra.
Ma
quei, cui diede altra isola il natale,
Mettean
su ratte pescherecce barche,
E ai
lor tetti mandavanli. Ciò fatto,
Nel
Foro s'adunâr dolenti e in folla.
Come
adunati fûr, surse tra gli altri
Eupite,
a cui per Antinòo sua prole,
Che
primo cadde della man d'Ulisse,
Stava
nell'alma un indelebil duolo.
Questi
arringò, piangendo amaramente:
"Amici,
qual costui strana fortuna
Agli
Achei fabbricò! Molti ed egregi,
Ne
addusse prima su le navi a Troia,
E le
navi perdette, ed i compagni
Seppellì
in mar: poi nella propria casa,
Tornato,
altri ne spense, e d'Aide ai regni
Mandò
di Cefallenia i primi lumi.
Su via,
pria ch'egli a Pilo, e alla regnata
Dagli
Epei divina Elide ricovri,
Vadasi;
o infamia patiremo eterna.
Sì,
l'onta nostra ne' futuri tempi
Rimbombar
s'udrà ognor, se gli uccisori
De'
figli non puniamo e de' fratelli.
Io
certo più viver non curo, e, dove
Subito
non si vada, e la lor fuga,
Non si
prevenga, altro io non bramo, o voglio,
Salvo
che rïunirmi ombra a quell'ombre.
Così
ei, non restandosi dal pianto;
E la
pietade in ogni petto entrava.
Giunsero
allor dalla magion d'Ulisse
Medonte
araldo ed il cantor divino,
Dal
sonno sviluppatisi, e nel mezzo
Si
collocâro. Alto stupore invase
Tutti,
e il saggio Medonte i labbri aperse:
"O
Itacesi, uditemi. Credete
Voi che
Ulisse abbia tolto impresa tale
Contra
il voler de' sempiterni? Un dio
Vidi io
stesso al suo fianco, un dio, che affatto
Mentore
somigliava. Or gli apparìa
Davanti,
in atto d'animarlo, ed ora
Per
l'atterrita sala impeto fea,
Sgominando
gli Achei, che l'un su l'altro
Traboccavano".
Disse; e di tai detti
Inverdì
a tutti per timor la guancia.
Favellò
ancor nel Foro un vecchio eroe,
Aliterse
Mastòride, che solo
Vedea
gli andati ed i venturi tempi,
E che,
sentendo rettamente, disse:
"Or me udite, Itacesi. Egli è
per colpa
Vostra
che ciò seguì: però che sordi
Agli
avvisi di Mentore ed a' miei,
Lasciar
le briglie sovra il collo ai vostri
Figli
vi piacque, che al mal far dirotti
La
davano pel mezzo in ogni tempo,
Le
sostanze rodendo, e ingiurïando
La
casta moglie d'un signor preclaro,
Di cui
sogno parea loro il ritorno.
Obbeditemi
al fin, mossa non fate:
Onde
pur troppo alcun quella sventura,
Che
sarà ito a ricercar, non trovi".
Tacque;
e s'alzaro i più con grida e plausi.
Gli
altri uniti rimasero: ché loro
Non
gustò il detto, ma seguìano Eupìte.
Poscia,
chi qua, chi là, correano all'armi.
Cinti e
splendenti del guerrier metallo
Si
raccolser davanti alla cittade
Quasi
in un globo; ed era incauto duce
Della
stoltezza loro Eupìte stesso.
Credea
la morte vendicar del figlio,
E lui,
che redituro indi non era,
Coglier
dovea la immansueta Parca,
Pallade,
il tutto visto, al Saturnide
Si
converse in tal guisa: "O nostro padre,
Di
Saturno figliuol, re de' regnanti,
Mostrami
ciò che nel tuo cor s'asconde.
Prolungar
vuoi la guerra e i fieri sdegni?
O
accordo tra le parti, e amistà porre?"
"Perché
di questo mi richiedi, o figlia?"
Il
nembifero Giove a lei rispose.
"Non
fu consiglio tuo, che ritornato
Punisse
i proci di Laerte il figlio?
Fa'
come più t'aggrada: io quel che il meglio
Parmi,
dirò. Poiché l'illustre Ulisse
De'
proci iniqui vendicossi, ei fermi
Patto
eterno con gli altri, e sempre regni.
Noi la
memoria delle morti acerbe
In ogni
petto cancelliam: risorga
Il
mutuo amor nella città turbata,
E
v'abbondin, qual pria, ricchezza e pace".
Con
questi detti stimolò la diva,
Ch'era
per sé già pronta, e che dall'alte
D'Olimpo
cime rapida discese.
Ulisse
intanto, che con gli altri avea
Sotto
il campestre di Laerte tetto
Rinfrancati
del cibo omai gli spirti:
"Esca",
disse, "alcun fuori, e attento guardi
Se alla
volta di noi vengon gli Achei".
Subitamente
uscì di Dolio un figlio,
E su la
soglia stette, e non lontani
Scôrse
i nemici: "All'armi! All'armi!" ei tosto
Gridò,
"vicini sono". Ulisse allora
Ed il
figlio sorgeano e i due pastori.
E
l'armi rivestìano: i sei figliuoli
Rivestìanle
di Dolio, e poi gli stessi
Dolio e
Laerte. In così picciola oste
Anco i
bianchi capei premer dee l'elmo.
Ratto
che armati fûr, le porte aperte,
Tutti
sboccâro: precedeali Ulisse.
Né di
muover con lor lasciò la figlia
Di
Giove, Palla, a Mentore nel corpo
Tutta
sembiante e nella voce. Ulisse
Mirolla
e n'esultava, e volto al figlio:
"Telemaco",
dicea, "nella battaglia,
Ove
l'imbelle si conosce e il prode,
Deh non
disonestar la stirpe nostra,
Che per
forza e valor fu sempre chiara".
E
Telemaco a lui: "Padre diletto,
Vedrai,
spero, se vuoi, ch'io non traligno".
Gioì
Laerte, ed esclamò: "Qual sole
Oggi
risplende in cielo, amati numi!
Gareggian
di virtù figlio e nipote.
Giorno
più bello non mi sorse mai".
Qui
l'appressò con tali accenti in bocca
La diva
che ne' begli occhi azzurreggia:
"O
d'Arcesio figliuol, che a me più caro,
Sei
d'ogni altro compagno, a Giove alzáti
Prima,
e alla figlia dal ceruleo sguardo,
Devotamente
i prieghi tuoi, palleggia
Cotesta
di lunga ombra asta, e l'avventa".
Così
dicendo, una gran forza infuse
In
Laerte Minerva. Il vecchio, a Giove
Prima e
alla figlia dal ceruleo sguardo,
Alzati
i prieghi, palleggiò la lunga
Sua
lancia ed avventolla, e in fronte a Eupìte
Il
forte trapassando elmo di rame,
La
piantò e immerse: con gran suono Eupìte
Cadde,
e gli rimbombâr l'armi di sopra.
Si
scagliâro in quel punto Ulisse e il figlio
Contra
i primieri, e con le spade scempio
Ne feano,
e con le lance a doppio filo.
E già
nessuno alla sua dolce casa
Tornato
fora degli Achei, se Palla,
Dell'Egìoco
la figlia, un grido messo,
Non
mutava i lor cuori: "Cittadini
D'Itaca,
fine all'aspra guerra. Il campo
Lasciate
tosto, e non più sangue". Disse;
Ed un
verde pallor tinse ogni fronte.
L'armi
scappavan dalle man tremanti,
D'aste
coverto il suolo era e di brandi,
Levata
che Minerva ebbe la voce;
E tutti
avari della cara vita
Alla
città si rivolgeano. Ulisse
Con un
urlo, che andò sino alle stelle,
Inseguìa
ratto i fuggitivi, a guisa
D'aquila
tra le nubi altovolante.
Se non
che Giove il fulmine contorse;
E alla
Sguardoazzurrina innanzi ai piedi
Cascò
l'eterea fiamma: "O generoso",
Così la
diva, "di Laerte figlio,
Contienti
e frena il desiderio ardente
Della
guerra, che a tutti è sempre grave,
Non
contro a te di troppa ira s'accenda
L'ampia
veggente di Saturno prole".
Obbedì
Ulisse e s'allegrò nell'alma.
Ma
eterno poi tra le due parti accordo
La
figlia strinse dell'Egìoco Giove
Che a
Mentore nel corpo e nella voce
Rassomigliava,
la gran dea d'Atene.
|
|