Odissea
LIBRO IX
"Alcinoo
Rege, che ai mortali tutti
Di
grandezza e di gloria innanzi vai,
Bello è
l'udir", gli replicava Ulisse,
"Cantor,
come DemOdoco, di cui
Pari a
quella d'un dio suona la voce:
Né
spettacol più grato havvi, che quando
Tutta
una gente si dissolve in gioia,
Quando
alla mensa, che il cantor rallegra,
Molti
siedono in ordine, e le lanci
Colme
di cibo son, di vino l'urne,
Donde
coppier nell'auree tazze il versi,
E ai
convitati assisi il porga in giro.
Ma tu
la storia de' miei guai domandi,
Perch'io
rinnovi ed inacerbi il duolo.
Qual
pria dirò, qual poi, qual nell'estremo
Racconto
serberò delle sventure,
Che
gravi e molte m'invïAro i numi?
Prima
il mio nome, acciò, se vita un giorno,
Mi si
concede riposata e ferma,
Dell'ospitalità
ci unisca il nodo,
Benché
quinci lontan sorga il mio tetto.
Ulisse,
il figlio di Laerte, io sono,
Per
tutti accorgimenti al mondo in pregio,
E già
noto per fama in sino agli astri.
Abito
la serena Itaca, dove
Lo
scotifronde Nérito si leva
Superbo
in vista, ed a cui giaccion molte
Non
lontane tra loro isole intorno,
Dulichio,
Same, e la di selve bruna
Zacinto.
All'orto e al mezzogiorno queste,
Itaca
al polo si rivolge, e meno
Dal
continente fugge: aspra di scogli,
Ma di
gagliarda gioventù nutrice.
Deh
qual giammai l'uom può della natìa
Sua
contrada veder cosa più dolce?
Calipso,
inclita diva, in cave grotte
Mi
ritenea, mi ritenea con arte
Nelle
sue case la dedalea Circe,
Desïando
d'avermi entrambe a sposo.
Ma né
Calipso a me, né Circe il core
Piegava
mai; ché di dolcezza tutto
La
patria avanza, e nulla giova un ricco
Splendido
albergo a chi, da' suoi disgiunto,
Vive in
estrania terra. Or tu mi chiedi
Quel
che da Troia prescriveami Giove
Lacrimabil
ritorno; ed io tel narro.
Ad
Ismaro, de' Cìconi alla sede,
Me, che
lasciava Troia, il vento spinse.
Saccheggiai
la città, strage menai
Degli
abitanti; e sì le molte robe
Dividemmo
e le donne, che alla preda
Ciascuno
ebbe ugual parte. Io gli esortava
Partir
subito e in fretta; e i forsennati,
Dispregiando
il mio dir, pecore pingui,
Pingui
a scannar tortocornuti tori,
E
larghi nappi ad asciugar sul lido.
S'allontanaro
in questo mezzo, e voce
Diero i
Cìconi ai Cìconi vicini,
Che più
addentro abitavano. Costoro,
Che in
numero vincean gli altri, ed in forza,
E
battagliare a piè, come dal carro,
Sapean
del pari, mattutini, e tanti,
Quante
son fronde a primavera e fiori,
Vennero;
e allor di cielo a noi meschini
Riversò
addosso un gran sinistro Giove.
Stabile
accanto alle veloci navi
Pugna
si commettea: d'ambo le parti
Volavan
le pungenti aste omicide.
Finché
il mattin durava, e il sacro sole
Acquistava
del ciel, benché più scarsi,
Sostenevam
della battaglia il nembo.
Ma come
il sol, calandosi all'Occaso,
L'ora
menò, che dal pesante giogo
Si
disciolgono i buoi, l'achiva forza
Fu
dall'aste de' Cìconi respinta.
Sei de'
compagni agli schinieri egregi
Perdé
ogni nave: io mi salvai col resto.
Lieti
nel cor della schivata morte,
E de'
compagni nella pugna uccisi
Dolenti
in un, ci allargavam dal lido;
Ma le
ondìvaghe navi il lor cammino
Non proseguian,
che tre fïate in prima,
Non si
fosse da noi chiamato a nome
Ciascun
di quei che giacean freddi addietro.
L'adunator
de' nembi olimpio Giove
Contro
ci svegliò intanto una feroce
Tempesta
boreal, che d'atre nubi
La
terra a un tempo ricoverse e il mare,
E la
notte di cielo a piombo scese.
Le vele
ai legni, che moveansi obbliqui,
Squarciò
in tre e quattro parti il forte turbo.
Noi del
timore ammainammo, e ratto
I
navigli affrettammo in vêr la spiaggia,
Ove due
giorni interi, e tante notti,
Posavam
lassi, e addolorati e muti.
Ma come
l'Alba dai capelli d'oro
Il dì
terzo recò, gli alberi alzati,
E
dispiegate le candide vele,
Entro i
navigli sedevam, la cura
Al
timonier lasciandone ed al vento.
Tempo
era quello da toccar le amate
Sponde
natìe: se non che Borea e un'aspra
Corrente
me, che la Malèa girava,
Respinse
indietro ed a Citera volse.
Per
nove infausti dì sul mar pescoso
I venti
rei mi trasportâro. Al fine
Nel
decimo sbarcammo in su le rive
De'
Lotofàgi, un popolo, a cui cibo
È d'una
pianta il florido germoglio.
Entrammo
nella terra, acqua attignemmo,
E
pasteggiammo appo le navi. Estinti
Della
fame i desiri e della sete,
Io due
scelgo de' nostri, a cui per terzo
Giungo
un araldo, e a investigar li mando,
Quai
mortali il paese alberghi e nutra.
Partiro
e s'affrontaro a quella gente,
Che,
lunge dal voler la vita loro,
Il
dolce loto a savorar lor porse.
Chïunque
l'esca dilettosa e nuova
Gustato
avea, con le novelle indietro
Non
bramava tornar: colà bramava
Starsi,
e, mangiando del soave loto,
La
contrada natìa sbandir dal petto.
È ver
ch'io lagrimosi al mar per forza
Li
ricondussi, entro i cavati legni
Li
cacciai, gli annodai di sotto ai banchi:
E agli
altri risalir con gran prestezza
Le
negre navi comandai, non forse
Ponesse
alcun nel dolce loto il dente,
E la
patria cadessegli dal core.
Quei le
navi saliano, e sovra i banchi
Sedean
l'un dopo l'altro, e gìan battendo
Co'
pareggiati remi il mar canuto.
Ci
portammo oltre, e de' Ciclopi altieri,
Che
vivon senza leggi, a vista fummo.
Questi,
lasciando ai numi ogni pensiero,
Né ramo
o seme por, né soglion gleba
Col
vomero spezzar; ma il tutto viene
Non
seminato, non piantato o arato:
L'orzo,
il frumento e la gioconda vite,
Che si
carca di grosse uva, e cui Giove
Con
pioggia tempestiva educa e cresce.
Leggi
non han, non radunanze, in cui
Si
consulti tra lor: de' monti eccelsi
Dimoran
per le cime, o in antri cavi;
Su la
moglie ciascun regna e su i figli,
Né
l'uno all'altro tanto o quanto guarda.
Ai
Ciclopi di contra, e né vicino
Troppo,
né lunge, un'isoletta siede
Di
foreste ombreggiata, ed abitata
Da
un'infinita nazïon di capre
Silvestri,
onde la pace alcun non turba;
Che il
cacciator, che per burroni e boschi
Si
consuma la vita, ivi non entra,
Non
aratore o mandrïan v'alberga.
Manca
d'umani totalmente, e solo
Le belanti
caprette, inculta, pasce.
Però
che navi dalle rosse guance
Tu
cerchi indarno tra i Ciclopi, indarno
Cerchi
fabbro di nave a saldi banchi,
Su cui
passare i golfi, e le straniere
Città
trovar, qual delle genti è usanza,
Che
spesso van l'una dall'altra ai lidi,
E
all'isola deserta addur coloni.
Malvagia
non è certo, e in sua stagione
Tutto
darebbe. Molli e irrigui prati
Spiegansi
in riva del canuto mare.
Si
vestirìan di grappi ognor le viti,
E così
un pingue suolo il vomer curvo
Riceverìa,
che altissima troncarvi
Potrìasi
al tempo la bramata messe.
Che del
porto dirò? Non v'ha di fune
Ne
d'àncora mestieri; e chi già entrovvi,
Tanto
vi può indugiar, che de' nocchieri
Le
voglie si raccendano, e secondi
Spirino
i venti. Ma del porto in cima
S'apre
una grotta, sotto cui zampilla
L'argentina
onda d'una fonte, e a cui
Fan
verdissimi pioppi ombra e corona.
Là
smontavamo, e per l'oscura notte,
Noi,
spenta ogni veduta, un dio scorgea:
Ché una
densa caligine alle navi
Stava
d'intorno, né splendea dal cielo
La luna,
che d'un nembo era coverta.
Quindi
nessun l'isola vide, e i vasti
Flutti
al lido volventisi, che prima
Approdati
non fossimo. Approdati,
Tutte
le vele raccogliemmo, uscimmo
Sul
lido, e l'Alba dalle rosee dita,
Nel
sonno disciogliendoci, aspettammo.
Sorta
la figlia del mattino appena,
L'isoletta,
che in noi gran maraviglia
Destò,
passeggiavamo. Allor le Ninfe,
Prole
cortese dell'egïoco Giove,
Per
fornir di convito i miei compagni,
Quelle
capre levaro. E noi repente,
Presi i
curvi archi e le asticciuole acute,
E tre
schiere di noi fatte, in tal guisa
Il
monte fulminammo e il bosco tutto,
Ch'io
non so, se dai numi in sì brev'ora
Fu
concessa giammai caccia sì ricca.
Dodici
navi mi seguìano, e nove
Capre
ottenne ciascuna: io dieci n'ebbi.
Tutto
quel giorno sedevamo a mensa
Tra
carni immense e prezïoso vino:
Poiché
restava su le navi ancora
Del
licore, onde molte anfore e molte
Rïempiuto
avevam, quando la sacra
Dispogliammo
de' Cìconi cittade.
E de'
Ciclopi nel vicin paese
Levate
intanto tenevam le ciglia,
E salir
vedevamo il fumo, e miste
Col
belo dell'agnelle e delle capre
Raccoglievam
le voci. Il sole ascoso,
Ed
apparse le tenebre, le membra
Sul
marin lido a riposar gettammo.
Ma come
del mattin la figlia sorse,
Tutti
chiamati a parlamento: "Amici",
Dissi,
vi piaccia rimaner, mentr'io
Della
gente a spïar vo' col mio legno,
Se
ingiusta, soperchievole, selvaggia,
O di
core ospital siasi, ed a cui
Timor
de' numi si racchiuda in petto".
Detto,
io montai la nave, e ai remiganti
Montarla
ingiunsi, e liberar la fune.
E quei
ratto ubbidiro, e già su i banchi
Sedean
l'un dopo l'altro, e gìan battendo
Co'
pareggiati remi il mar canuto.
Giunti
alla terra, che sorgeaci a fronte,
Spelonca
eccelsa nell'estremo fianco
Di
lauri opaca, e al mar vicina, io vidi.
Entro
giaceavi innumerabil greggia,
Pecore
e capre, e di recise pietre
Composto,
e di gran pini e querce ombrose
Alto
recinto vi correa d'intorno.
Uom
gigantesco abita qui, che lunge
Pasturava
le pecore solingo.
In
disparte costui vivea da tutti,
E cose
inique nella mente cruda
Covava:
orrendo mostro, né sembiante
Punto
alla stirpe che di pan si nutre,
Ma più
presto al cucuzzolo selvoso
D'una
montagna smisurata, dove
Non gli
s'alzi da presso altro cacume.
Lascio
i compagni della nave a guardia,
E con
dodici sol, che i più robusti
Mi
pareano e più arditi, in via mi pongo,
Meco in
otre caprin recando un negro
Licor
nettàreo, che ci diè Marone
D'Evantèo
figlio, e sacerdote a Febo,
Cui
d'Ismaro le torri erano in cura.
Soggiornava
del dio nel verde bosco,
E noi,
di santa riverenza tocchi,
Con la
moglie il salvammo e con la prole.
Quindi
ei mi porse incliti doni: sette
Talenti
d'or ben lavorato, un'urna
D'argento
tutta, e dodici d'un vino
Soave,
incorruttibile, celeste,
Anfore
colme; un vin ch'egli, la casta
Moglie
e la fida dispensiera solo,
Non
donzelli sapeanlo, e non ancelle.
Quandunque
ne bevean, chi empiea la tazza,
Venti
metri infondea d'acqua di fonte,
E tal
dall'urna scoverchiata odore
Spirava,
e sì divin, che somma noia
Stato
sarìa non confortarne il petto.
Io
dell'alma bevanda un otre adunque
Tenea,
tenea vivande a un zaino in grembo:
Ché ben
diceami il cor, quale di strana
Forza
dotato le gran membra, e insieme
Debil
conoscitor di leggi e dritti,
Salvatic'uom
mi si farebbe incontra.
Alla
spelonca divenuti in breve,
Lui non
trovammo, che per l'erte cime
Le
pecore lanigere aderbava.
Entrati,
gli occhi stupefatti in giro
Noi
portavam: le aggraticciate corbe
Cedeano
al peso de' formaggi, e piene
D'agnelli
e di capretti eran le stalle:
E i più
grandi, i mezzani, i nati appena,
Tutti,
come l'etade, avean del pari
Lor
propria stanza, e i pastorali vasi,
Secchie,
conche, catini, ov'ei le poppe
Premer
solea delle feconde madri,
Entro
il siere nôtavano. Qui forte
I
compagni pregavanmi che, tolto
Pria di
quel cacio, si tornasse addietro,
Capretti
s'adducessero ed agnelli
Alla
nave di fretta, e in mar s'entrasse.
Ma io
non volli, benché il meglio fosse:
Quando
io bramava pur vederlo in faccia,
E trar
doni da lui, che rïuscirci
Ospite
sì inamabile dovea.
Racceso
il foco, un sagrifizio ai numi
Femmo,
e assaggiammo del rappreso latte:
Indi
l'attendevam nell'antro assisi.
Venne,
pascendo la sua greggia, e in collo
Pondo
non lieve di risecca selva
Che la
cena cocessegli, portando.
Davanti
all'antro gittò il carco, e tale
Levòssene
un romor, che sbigottiti
Nel più
interno di quel ci ritraemmo.
Ei
dentro mise le feconde madri,
E
gl'irchi a cielo aperto, ed i montoni
Nella
corte lasciò. Poscia una vasta
Sollevò
in alto ponderosa pietra,
Che
ventidue da quattro ruote e forti
Carri
di loco non avrìano smossa,
E
l'ingresso acciecò della spelonca.
Fatto,
le agnelle, assiso, e le belanti
Capre
mugnea, tutto serbando il rito,
E a
questa i parti mettea sotto, e a quella.
Mezzo
il candido latte insieme strinse,
E su i
canestri d'intrecciato vinco
Collocollo
ammontato; e l'altro mezzo,
Che
dovea della cena esser bevanda,
Il
ricevero i pastorecci vasi.
Di
queste sciolto cotidiane cure,
Mentre
il foco accendea, ci scòrse, e disse:
"Forestieri,
chi siete? E da quai lidi
Prendeste
a frequentar l'umide strade?
Siete
voi trafficanti? O errando andate,
Come
corsari che la vita in forse,
Per
danno altrui recar, metton su i flutti?"
Della
voce al rimbombo, ed all'orrenda
Faccia
del mostro, ci s'infranse il core.
Pure io
così gli rispondea: Siam Greci
Che di
Troia partiti e trabalzati
Su pel
ceruleo mar da molti venti
Cercando
il suol natìo, per altre vie,
E con
vïaggi non pensati, a queste
(Così
piacque agli dèi), sponde afferrammo.
Seguimmo,
e cen vantiam, per nostro capo
Quell'Atrìde
Agamennone che il mondo
Empièo
della sua fama, ei che distrusse
Città
sì grande, e tante genti ancise.
Ed or,
prostesi alle ginocchia tue,
Averci
ti preghiam d'ospiti in grado,
E d'un
tuo dono rimandarci lieti.
Ah!
temi, o potentissimo, gli dèi:
Che
tuoi supplici siam, pensa, e che Giove
Il
supplicante vendica, e l'estrano,
Giove
ospital, che l'accompagna e il rende
Venerabile
altrui". Ciò detto, io tacqui.
Ed ei
con atroce alma: "O ti fallisce
Straniero,
il senno, o tu di lunge vieni,
Che
vuoi che i numi io riverisca e tema.
L'Egidarmato
di Saturno figlio
Non
temono i Ciclopi, o gli altri iddii:
Ché di
loro siam noi molto più forti.
Né
perché Giove inimicarmi io debba,
A te
concederò perdono, e a questi
Compagni
tuoi, se a me il mio cor nol detta.
Ma
dimmi: ove approdasti? All'orlo estremo
Di
questa terra, o a più propinquo lido?"
Così
egli tastommi; ed io, che molto
D'esperïenza
ricettai nel petto,
Ravvìstomi
del tratto, incontanente
Arte in
tal modo gli rendei per arte:
"Nettuno
là, 've termina e s'avanza
La
vostra terra con gran punta in mare,
Spinse
la nave mia contra uno scoglio,
E le
spezzate tavole per l'onda
Sen
portò il vento. Dall'estremo danno
Con
questi pochi io mi sottrassi appena".
Nulla
il barbaro a ciò: ma, dando un lancio,
La man
ponea sovra i compagni, e due
Brancavane
ad un tempo, e, quai cagnuoli,
Percoteali
alla terra, e ne spargea
Le
cervella ed il sangue. A brano a brano
Dilacerolli,
e s'imbandì la cena.
Qual
digiuno leon, che in monte alberga,
Carni
ed interïora, ossa e midolle,
Tutto
vorò, consumò tutto. E noi
A Giove
ambo le man tra il pianto alzammo,
Spettacol
miserabile scorgendo
Con gli
occhi nostri, e disperando scampo.
Poiché
la gran ventraia empiuto s'ebbe,
Pasteggiando
dell'uomo, e puro latte
Tracannandovi
sopra, in fra le agnelle
Tutto
quant'era ei si distese, e giacque.
Io, di
me ricordandomi, pensai
Fàrmigli
presso, e la pungente spada
Tirar
nuda dal fianco, e al petto, dove
La
coràta dal fegato si cinge,
Ferirlo.
Se non ch'io vidi che certa
Morte
noi pure incontreremmo, e acerba:
Che non
era da noi tôr dall'immenso
Vano
dell'antro la sformata pietra
Che il
Ciclope fortissimo v'impose.
Però,
gemendo, attendevam l'aurora.
Sorta
l'aurora, e tinto in roseo il cielo,
Il foco
ei raccendea, mugnea le grasse
Pecore
belle, acconciamente il tutto,
E i
parti a questa mettea sotto e a quella.
Né
appena fu delle sue cure uscito,
Che
altri due mi ghermì de' cari amici,
E carne
umana desinò. Satollo,
Cacciava
il gregge fuor dell'antro, tolto
Senza
fatica il disonesto sasso,
Che
dell'antro alla bocca indi ripose,
Qual
chi a farètra il suo coverchio assesta.
Poi su
pel monte si mandava il pingue
Gregge
davanti, alto per via fischiando.
Ed io
tutti a raccolta i miei pensieri
Chiamai,
per iscoprir come di lui
Vendicarmi
io potessi, e un'immortale
Gloria
comprarmi col favor di Palla.
Ciò al
fin mi parve il meglio. Un verde, enorme
Tronco
d'oliva, che il Ciclope svelse
Di
terra, onde fermar con quello i passi,
Entro
la stalla a inaridir giacea.
Albero
scorger credevam di nave
Larga,
mercanteggiante, e l'onde brune
Con
venti remi a valicare usata:
Sì
lungo era e sì grosso. Io ne recisi
Quanto
è sei piedi, e la recisa parte
Diedi
ai compagni da polirla. Come
Polita
fu, da un lato io l'affilai,
L'abbrustolai
nel foco, e sotto il fimo,
Ch'ivi
in gran copia s'accogliea, l'ascosi.
Quindi
a sorte tirar coloro io feci,
Che
alzar meco dovessero, e al Ciclope
L'adusto
palo conficcar nell'occhio,
Tosto
che i sensi gli togliesse il sonno.
Fortuna
i quattro, ch'io bramava, appunto
Donommi,
e il quinto io fui. Cadea la sera,
E dai
campi tornava il fier pastore,
Che la
sua greggia di lucenti lane
Tutta
introdusse nel capace speco:
O di
noi sospettasse, o prescrivesse
Così il
Saturnio. Novamente imposto
Quel,
che rimosso avea, disconcio masso,
Pecore
e capre alla tremola voce
Mungea
sedendo, a maraviglia il tutto,
E a
questa mettea sotto e a quella i parti.
Fornita
ogni opra, m'abbrancò di nuovo
Due de'
compagni, e cenò d'essi il mostro.
Allora
io trassi avanti, e, in man tenendo
D'edra
una coppa: "Te' Ciclope", io dissi:
"Poiché
cibasti umana carne, vino
Bevi
ora, e impara, qual su l'onde salse
Bevanda
carreggiava il nostro legno.
Questa,
con cui libar, recarti io volli,
Se mai,
compunto di nuova pietade,
Mi
rimandassi alle paterne case.
Ma il
tuo furor passa ogni segno. Iniquo!
Chi più
tra gl'infiniti uomini in terra
Fia che
s'accosti a te? Male adoprasti".
La
coppa ei tolse, e bevve, ed un supremo
Del
soave licor prese diletto,
E
un'altra volta men chiedea: "Straniero,
Darmene
ancor ti piaccia, e mi palesa
Subito
il nome tuo, perch'io ti porga
L'ospital
dono che ti metta in festa.
Vino ai
Ciclopi la feconda terra
Produce
col favor di tempestiva
Pioggia,
onde Giove le nostre uve ingrossa:
Ma
questo è ambrosia e nèttare celeste".
Un'altra
volta io gli stendea la coppa.
Tre
volte io la gli stesi; ed ei ne vide
Nella
stoltezza sua tre volte il fondo.
Quando
m'accorsi che saliti al capo
Del
possente licor gli erano i fumi,
Voci
blande io drizzavagli: "Il mio nome
Ciclope,
vuoi? L'avrai: ma non frodarmi
Tu del
promesso a me dono ospitale.
Nessuno
è il nome; me la madre e il padre
Chiaman
Nessuno, e tutti gli altri amici".
Ed ei
con fiero cor: "L'ultimo ch'io
Divorerò,
sarà Nessuno. Questo
Riceverai
da me dono ospitale".
Disse,
diè indietro, e rovescion cascò.
Giacea
nell'antro con la gran cervice
Ripiegata
su l'omero: e dal sonno,
Che
tutti doma, vinto, e dalla molta
Crapula
oppresso, per la gola fuori
Il
negro vino e della carne i pezzi,
Con
sonanti mandava orrendi rutti.
Immantinente
dell'ulivo il palo
Tra la
cenere io spinsi; e in questo gli altri
Rincorava,
non forse alcun per tema
M'abbandonasse
nel miglior dell'opra.
Come,
verde quantunque, a prender fiamma
Vicin
mi parve, rosseggiante il trassi
Dalle
ceneri ardenti, e al mostro andai
Con
intorno i compagni: un dio per fermo
D'insolito
ardimento il cor ci armava.
Quelli
afferrâr l'acuto palo, e in mezzo
Dell'occhio
il conficcaro; ed io di sopra,
Levandomi
su i piè, movealo in giro.
E come
allor che tavola di nave
Il
trapano appuntato investe e fora,
Che
altri il regge con mano, altri tirando
Va
d'ambo i lati le corregge, e attorno
L'instancabile
trapano si volve:
Sì
nell'ampia lucerna il trave acceso
Noi
giravamo. Scaturiva il sangue,
La
pupilla bruciava, ed un focoso
Vapor,
che tutta la palpèbra e il ciglio
Struggeva,
uscìa della pupilla, e l'ime
Crepitarne
io sentìa rotte radici.
Qual se
fabbro talor nell'onda fredda
Attuffò
un'ascia o una stridente scure,
E
temprò il ferro, e gli diè forza; tale,
L'occhio
intorno al troncon cigola e frigge.
Urlo il
Ciclope sì tremendo mise,
E tanto
l'antro rimbombò, che noi
Qua e
là ci spargemmo impauriti.
Ei fuor
cavossi dall'occhiaia il trave,
E da sé
lo scagliò di sangue lordo,
Furïando
per doglia: indi i Ciclopi,
Che non
lontani le ventose cime
Abitavan
de' monti in cave grotte,
Con
voce alta chiamava. Ed i Ciclopi
Quinci
e quindi accorrean, la voce udita
E
soffermando alla spelonca il passo,
Della
cagione il richiedean del duolo:
"Per
quale offesa, o Polifemo, tanto
Gridàstu
mai? Perché così ci turbi
La
balsamica notte e i dolci sonni?
Fùrati
alcun la greggià? o uccider forse
Con
inganno ti vuole, o a forza aperta?"
E
Polifemo dal profondo speco:
"Nessuno,
amici, uccidemi, e ad inganno,
Non già
colla virtude". "Or se nessuno
Ti
nuoce", rispondeano, "e solo alberghi,
Da
Giove è il morbo, e non v'ha scampo. Al padre
Puoi bene,
a re Nettun, drizzare i prieghi".
Dopo
ciò, ritornâr su i lor vestigi:
Ed a me
il cor ridea, che sol d'un nome
Tutta
si fosse la mia frode ordita.
Polifemo
da duoli aspri crucciato,
Sospirando
altamente, e brancolando
Con le
mani il pietron di loco tolse.
Poi,
dove l'antro vaneggiava, assiso
Stavasi
con le braccia aperte e stese,
Se
alcun di noi, che tra le agnelle uscisse,
Giungesse
ad aggrappar: tanta ei credeo
Semplicitade
in me. Ma io gli amici
E me
studiava riscattar, correndo
Per
molte strade con la mente astuta:
Ché la
vita ne andava, e già pendea
Su le
teste il disastro. Al fine in questa,
Dopo
molto girar, fraude io m'arresto.
Montoni
di gran mole e pingui e belli,
Di
folta carchi porporina lana,
Rinchiudea
la caverna. Io tre per volta
Prendeane,
e in un gli unìa tacitamente
Co'
vinchi attorti, sovra cui solea
Polifemo
dormir: quel ch'era in mezzo,
Portava
sotto il ventre un de' compagni,
Cui
fean riparo i due ch'ivan da lato,
E così
un uomo conducean tre bruti.
Indi
afferrai pel tergo un arïete
Maggior
di tutti, e della greggia il fiore;
Mi
rivoltai sotto il lanoso ventre,
E, le
mani avolgendo entro ai gran velli,
Con
fermo cor mi v'attenea sospeso.
Così,
gemendo, aspettavam l'aurora.
Sorta
l'aurora, e tinto in roseo il cielo,
Fuor
della grotta i maschi alla pastura
Gittavansi;
e le femmine non munte,
Che
gravi molto si sentìan le poppe,
Rïempìan
di belati i lor serragli.
Il
padron, cui ferìan continue doglie,
D'ogni
montone, che diritto stava,
Palpava
il tergo, e non s'avvide il folle
Che
dalle pance del velluto gregge
Pendean
gli uomini avvinti. Ultimo uscìa
De'
suoi velli bellissimi gravato
L'arïete,
e di me, cui molte cose
S'aggiravan
per l'alma. Polifemo
Tai
detti, brancicandolo, gli volse:
"Arïete
dappoco, e perché fuori
Così da
sezzo per la grotta m'esci?
Già non
solevi dell'agnelle addietro
Restarti:
primo, e di gran lunga, i molli
Fiori
del prato a lacerar correvi
Con
lunghi passi; degli argentei fiumi
Primo
giungevi alle correnti; primo
Ritornavi
da sera al tuo presepe:
Ed oggi
ultimo sei. Sospiri forse
L'occhio
del tuo signor? L'occhio che un tristo
Mortal
mi svelse co' suoi rei compagni,
Poiché
doma col vin m'ebbe la mente,
Nessuno,
ch'io non credo in salvo ancora.
Oh! se
a parte venir de' miei pensieri
Potessi,
e, voci articolando, dirmi,
Dove
dalla mia forza ei si ricovra,
Ti
giuro che il cervel, dalla percossa
Testa
schizzato, scorrerìa per l'antro,
Ed io
qualche riposo avrei da' mali
Che
Nessuno recommi, un uom da nulla".
Disse:
e da sé lo spingea fuori al pasco.
Tosto
che dietro a noi l'infame speco
Lasciato
avemmo, ed il cortile ingiusto,
Tardo a
sciormi io non fui dall'arïete,
E poi
gli altri a slegar, che, ragunate
Molte
in gran fretta piedilunghe agnelle,
Cacciavansele
avanti in sino al mare.
Desïati
apparimmo, e come usciti
Dalle fauci
di morte, a quei che in guardia
Rimaser
della nave, e che i compagni,
Che non
vedeano, a lagrimar si diero.
Ma io
non consentìalo, e con le ciglia
Cenno
lor fea di ritenere il pianto,
E
comandava lor che, messe in nave
Le
molte in pria vellosplendenti agnelle,
Si
fendessero i flutti. E già il naviglio
Salìan,
sedean su i banchi, e percotendo
Gìan
co' remi concordi il bianco mare.
Ma come
fummo un gridar d'uom lontani
Così il
Ciclope io motteggiai: "Ciclope,
Color
che nel tuo cavo antro, le grandi
Forze
abusando, divorasti, amici
Non
eran dunque d'un mortal da nulla,
E il
mal te pur coglier dovea. Malvagio!
Che la
carne cenar nelle tue case
Non
temevi degli ospiti. Vendetta
Però
Giove ne prese e gli altri numi".
A
queste voci Polifemo in rabbia
Montò
più alta, e con istrana possa
Scagliò
d'un monte la divelta cima,
Che
davanti alla prua càddemi: al tonfo
L'acqua
levossi, ed innondò la nave,
Che
alla terra crudel, dai rifluenti
Flutti
portata, quasi a romper venne.
Ma io,
dato di piglio a un lungo palo,
Ne la
staccai, pontando; ed i compagni
D'incurvarsi
sul remo, e in salvo addursi,
Più de'
cenni pregai che della voce:
E
quelli tutte ad inarcar le terga.
Scorso
di mar due volte tanto, i detti
A
Polifemo io rivolgea di nuovo,
Benché
gli amici con parole blande
D'ambo
i lati tenessermi: "Infelice!
Perché
la fera irritar vuoi più ancora?
Così
poc'anzi a saettar si mise,
Che tre
dita mancò, che risospinto
Non
percotesse al continente il legno.
Fa che
gridare o favellar ci senta,
E
volerà per l'aere un'altra rupe,
Che le
nostre cervella, e in un la nave
Sfracellerà:
tanto colui dardeggia".
L'alto
mio cor non si piegava. Quindi:
"Ciclope",
io dissi con lo sdegno in petto,
"Se
della notte, in che or tu giaci, alcuno
Ti
chiederà, gli narrerai che Ulisse,
D'Itaca
abitator, figlio a Laerte,
Struggitor
di cittadi, il dì ti tolse".
Egli
allora, ululando: "Ohimè!" rispose,
Da'
prischi vaticinî eccomi côlto.
Indovino
era qui, prode uomo e illustre,
Tèlemo
figliuol d'Eurimo, che avea
Dell'arte
il pregio, ed ai Ciclopi in mezzo
Profetando
invecchiava. Ei queste cose
Mi
presagì: mi presagì che il caro
Lume
dell'occhio spegnerìami Ulisse.
Se non
ch'io sempre uom gigantesco e bello
E di
forze invincibili dotato,
Rimirar
m'aspettava; ed ecco in vece
La
pupilla smorzarmi un piccoletto
Greco
ed imbelle, che col vin mi vinse.
Ma qua,
su via vientene, Ulisse, ch'io
Ti
porga l'ospital dono, e Nettuno
Di
fortunare il tuo ritorno prieghi.
Io di
lui nacqui, ed ei sen vanta, e solo
Voglial,
mi sanerà; non altri, io credo,
Tra i
mortali nel mondo, o in ciel tra i numi".
"Oh!
così potess'io", ratto ripresi,
"Te
spogliar della vita, e negli oscuri
Precipitar
regni di Pluto, come
Né da
Nettuno ti verrà salute".
Ed ei,
le palme alla stellata volta
Levando,
il supplicava: "O chiomazzurro,
Che la
terra circondi, odi un mio voto.
Se tuo
pur son, se padre mio ti chiami,
Di
tanto mi contenta: in patria Ulisse,
D'Itaca
abitator, figlio a Laerte
Struggitor
di cittadi, unqua non rieda.
E dove
il natìo suolo, e le paterne
Case il
destin non gli negasse, almeno
Vi
giunga tardi e a stento, e in nave altrui,
Perduti
in pria tutti i compagni, e nuove
Nell'avìta
magion trovi sciagure".
Fatte
le preci e da Nettuno accolte,
Sollevò
un masso di più vasta mole,
E,
rotandol nell'aria, e una più grande
Forza
immensa imprimendovi, lanciollo.
Cadde
dopo la poppa, e del timone
La
punta rasentò: levossi al tonfo
L'onda,
e il legno coprì, che all'isoletta,
Spinto
dal mar, subitamente giunse.
Quivi
eran l'altre navi in su l'arena,
E i
compagni, che assisi ad esse intorno
Ci
attendean sempre con agli occhi il pianto.
Noi
tosto in secco la veloce nave
Tirammo,
e fuor n'uscimmo, e, del Ciclope
Trattone
il gregge, il dividemmo in guisa,
Che
parte ugual n'ebbe ciascuno. È vero
Che
voller che a me sol, partite l'agne,
Il
superbo arïete anco toccasse.
Io di
mia mano al Saturnìde, al cinto
D'oscure
nubi Correttor del Mondo,
L'uccisi,
e n'arsi le fiorite cosce.
Ma non
curava i sacrifizi Giove,
Che
anzi tra sé volgea, com'io le navi
Tutte,
e tutti i compagni al fin perdessi.
L'intero
dì sino al calar del Sole
Sedevam
banchettando: il Sole ascoso,
Ed
apparse le tenebre, le membra
Sul
marin lido a riposar gettammo.
Ma come
del mattin la figlia, l'Alba
Ditirosata
in Orïente sorse,
I
compagni esortai, comandai loro
Di
rimbarcarsi, e liberar le funi.
E quei
si rimbarcavano, e su i banchi
Sedean
l'un dopo l'altro, e percotendo
Gìan
co' remi concordi il bianco mare.
Così
noi lieti per lo scampo nostro
E per
l'altrui sventura in un dolenti,
Del mar
di nuovo solcavam le spume.
LIBRO X
Giungemmo
nell'Eolia, ove il diletto
Agl'immortali
dèi d'Ippota figlio,
Eolo,
abitava in isola natante,
Cui
tutta un muro d'infrangibil rame
E una
liscia circonda eccelsa rupe.
Dodici,
sei d'un sesso e sei dell'altro,
Gli
nacquer figli in casa; ed ei congiunse
Per
nodo marital suore e fratelli,
Che
avean degli anni il più bel fior sul volto.
Costoro
ciascun dì siedon tra il padre
Caro e
l'augusta madre, ad una mensa
Di
varie carca dilicate dapi.
Tutto
il palagio, finché il giorno splende,
Spira
fragranze, e d'armonie risuona;
Poi,
caduta su l'isola la notte,
Chiudono
al sonno le bramose ciglia
In
traforati e attappezzati letti
Con le
donne pudìche i fidi sposi.
Questo
il paese fu, questo il superbo
Tetto,
in cui me per un intero mese
Co'
modi più gentili Eolo trattava.
Di
molte cose mi chiedea: di Troia,
Del
navile de' Greci, e del ritorno;
E il
tutto io gli narrai di punto in punto.
Ma
come, giunta del partir mio l'ora,
Parole
io mossi ad impetrar licenza,
Ei, non
che dissentir, del mio vïaggio
Pensier
si tolse e cura, e della pelle
Di bue
novenne appresentommi un otre,
Che
imprigionava i tempestosi venti:
Poiché
de' venti dispensier supremo
Fu da
Giove nomato; ed a sua voglia
Stringer
lor puote, o rallentare il freno.
L'otre
nel fondo del naviglio avvinse
Con
funicella lucida d'argento,
Che non
ne uscisse la più picciol'aura;
E sol
tenne di fuori un opportuno
Zefiro,
cui le navi e i naviganti
Diede a
spinger su l'onda. Eccelso dono,
Che la
nostra follìa volse in disastro!
Nove dì
senza posa, e tante notti
Veleggiavamo;
e già venìaci incontro
Nel
decimo la patria, e omai vicini
Quei
vedevam che raccendeano i fochi:
Quando
me stanco, perch'io regger volli
Della
nave il timon, né in mano altrui,
Onde il
corso affrettar, lasciarlo mai,
Sorprese
il sonno. I miei compagni intanto
Favellavan
tra loro, e fean pensiero
Che
argento ed oro alle mie case, doni
Del
generoso Ippòtade, io recassi.
"Numi!"
come di sé, "dicea taluno
Rivolto
al suo vicin, "tutti innamora
Costui,
dovunque navigando arriva!
Molti
da Troia dispogliata arredi
Riporta
belli e preziosi; e noi,
Che le
vie stesse misurammo, a casa
Torniam
con le man vote. Inoltre questi
L'Ippòtade
gli diè pegni d'amore.
Orsù,
veggiam quanto in suo grembo asconda
D'oro e
d'argento la bovina pelle".
Così
prevalse il mal consiglio. L'otre
Fu
preso e sciolto; e immantinente tutti
Con
furia ne scoppiâr gli agili venti.
La
subitana orribile procella
Li
rapìa dalla patria e li portava
Sospirosi
nell'alto. Io, cui l'infausto
Sonno
si ruppe, rivolgea nell'alma,
Se di
poppa dovessi in mar lanciarmi,
O
soffrir muto, e rimaner tra i vivi.
Soffrii,
rimasi: ma, coverto il capo,
Giù nel
fondo io giacea, mentre le navi,
Che i
compagni di lutto empieano indarno,
Ricacciava
in Eolia il fiero turbo.
Scendemmo
a terra, acqua attignemmo e a mensa
Presso
le navi ci adagiammo. Estinta
Del
cibarsi e del ber l'innata voglia,
Io con
un de' compagni, e con l'araldo
M'inviai
d'Eolo alla magion superba;
E tra
la dolce sposa e i figli cari
Banchettante
il trovai. Sul limitare
Sedevam
della porta. Alto stupore
Mostrâro
i figli, e con parole alate:
"Ulisse",
mi dicean, "come venìstu?
Qual
t'assalì dèmone avverso? Certo
Cosa
non fu da noi lasciata indietro,
Perché
alla patria e al tuo palagio, e ovunque
Ti
talentasse più, salvo giungessi".
Ed io
con petto d'amarezza colmo:
"Tristi
compagni, e un sonno infausto a tale
Condotto
m'hanno. Or voi sanate, amici,
Ché il
potete, tal piaga". In questa guisa
Le
anime loro io raddolcir tentai.
Quelli
ammutiro. Ma il crucciato padre:
"Via",
rispose, "da questa isola, e tosto,
O degli
uomini tutti il più malvagio:
Ché a
me né accôr, né rimandar con doni
Lice un
mortal che degli eterni è in ira.
Via,
poiché l'odio lor qua ti condusse".
Così
Eolo sbandìa me dal suo tetto,
Che de'
gemiti miei tutto sonava.
Mesti
di nuovo prendevam dell'alto:
Ma si
stancavan di lottar con l'onda,
Remigando,
i compagni, e del ritorno
Morìa
la speme ne' dogliosi petti.
Sei dì
navigavamo, e notti sei;
E col
settimo sol della sublime
Città
di Lamo dalle larghe porte,
Di
Lestrigonia pervenimmo a vista.
Quivi
pastor, che a sera entra col gregge,
Chiama
un altro, che fuor con l'armento esce.
Quivi
uomo insonne avria doppia mercede.
L'una
pascendo i buoi, l'altra le agnelle
Dalla
candida lana: sì vicini
Sono il
dïurno ed il notturno pasco.
Bello
ed ampio n'è il porto; eccelsi scogli
Cerchianlo
d'ogni parte, e tra due punte,
Che
sporgon fuori e ad incontrar si vanno,
S'apre
un'angusta bocca. I miei compagni,
Che nel
concavo porto a entrar fûr pronti,
Propinque
vi tenean le ondivaganti
Navi, e
avvinte tra lor; quando né grande
Vi
s'alza mai, né picciola onda, e sempre
Una
calma vi appar tacita e bianca.
Io sol
rimasi col naviglio fuori,
Che al
sasso estremo con intorta fune
Raccomandai:
poi, su la rupe asceso,
Quanto
si discoprìa, mirava intorno.
Lavor
di bue non si scorgea, né d'uomo:
Sol di
terra salir vedeasi un fumo.
Scelgo
allor due compagni, e con l'araldo
Màndoli
a investigar, quali l'ignota
Terra
produce abitatori e nutre.
La via
diritta seguitâr, per dove
I carri
conduceano alla cittade
Dagli
alti monti la troncata selva;
E
s'abbattero a una real fanciulla,
Del
Lestrigone Antìfate alla figlia.
Che del
fonte d'Artacia, onde costuma
Il
cittadino attignere, in quel punto
Alle
pure scendea linfe d'argento.
Le si
fêro da presso, e chi del loco
Re
fosse, e su qual gente avesse impero,
La
domandaro; ed ella pronta l'alto
Loro
additò con man tetto del padre.
Tocco
ne aveano il limitare appena,
Che
femmina trovâr di sì gran mole
Che
rassembrava una montagna; e un gelo
Si
sentîro d'orror correr pel sangue.
Costei
di botto Antifate chiamava
Dalla
pubblica piazza, il rinomato
Marito
suo, che disegnò lor tosto
Morte
barbara e orrenda. Uno afferronne,
Che gli
fu cena; gli altri due con fuga
Precipitosa
giunsero alle navi.
Di
grida la cittade intanto empiea
Antifate.
I Lestrìgoni l'udiro,
E
accorrean chi da un lato e chi dall'altro,
Forti
di braccio, in numero infiniti,
E
giganti alla vista. Immense pietre
Così
dai monti a fulminar si diêro,
Che
d'uomini spiranti e infranti legni
Sorse
nel porto un suon tetro e confuso.
Ed alcuni
infilzati eran con l'aste,
Quali
pesci guizzanti, e alle ferali
Mense
future riserbati. Mentre
Tal
seguìa strage, io, sguainato il brando
E la
fune recisa, a' miei compagni
Dar di
forza nel mar co' remi ingiunsi,
Se il
fuggir morte premea loro; e quelli
Di tal
modo arrancavano, che i gravi
Massi,
che piovean d'alto, il mio naviglio
Lietamente
schivò: ma gli altri tutti
Colà
restâro sfracellati e spersi.
Contenti
dello scampo, e in un dogliosi
Per li
troppi compagni in sì crudele
Guisa
periti, navigammo avanti,
E su
l'isola Eèa sorgemmo, dove
Circe,
diva terribile, dal crespo
Crine e
dal dolce canto, avea soggiorno.
Suora
germana del prudente Eeta,
Dal
Sole aggiornator nacque, e da Persa,
Dell'antico
Oceàn figliuola illustre.
Taciti
a terra ci accostammo, entrammo,
Non
senza un dio che ci guidasse, il cavo
Porto,
e sul lido uscimmo; e qui due giorni
Giacevamo,
e due notti, il cor del pari
La
stanchezza rodendoci e la doglia.
Come
recato ebbe il dì terzo l'alba,
Io,
presa l'asta ed il pungente brando,
Rapidamente
andai sovra un'altezza,
Se
d'uomo io vedessi opra, o voce udissi.
Fermato
il piè su la scoscesa cima.
Scôrsi
un fumo salir d'infra una selva
Di
querce annose, che in un vasto piano
Di
Circe alla magion sorgeano intorno.
Entrar
disposi senza indugio in via,
E il
paese cercar: poi, ripensando,
Al
legno invece rivoltar i passi,
Cibo
dare ai compagni, e alcuni prima
A
esplorare invïar, mi parve il meglio.
Già tra
la nave e me poco restava:
Quando
ad un de' celesti, in cui pietade
Per
quella solitudine io destai,
Grosso
ed armato di ramose corna
Drizzare
alla mia volta un cervo piacque.
Spinto
dal Sole, che il cocea co' raggi,
De'
paschi uscìa della foresta, e al fiume
Scendea
con labbra sitibonde; ed io
Su la
spina lo colsi a mezzo il tergo
Sì che
tutto il passò l'asta di rame.
Nella
polve cadé, mandando un grido,
E via
ne volò l'alma. Accorsi, e, il piede
Pontando
in esso, dalla fonda piaga
Trassi
il cerro sanguigno, ed il sanguigno
Cerro
deposi a terra: indi virgulti
Divelsi
e giunchi, attorcigliaili, fune
Sei
spanne lunga ne composi, e i morti
Piedi
ne strinsi dell'enorme fera.
Al fin
sul collo io la mi tolsi, e mossi,
Su la
lancia poggiandomi, al naviglio:
Ché mal
potuto avrei sovra una sola
Spalla
portar così sformata belva.
Presso
la nave scaricàila; e ratto
Con
soavi parole i miei compagni,
A
questo rivolgendomi ed a quello,
Così
tentai rïanimare: "Amici,
Prima
del nostro dì, d'Aide alle porte
Non
calerem, benché ci opprima il duolo.
Su,
finché cibo avemo, avem licore,
Non
mettiamli in obblìo; né all'importuna
Fame
lasciamci consumar di dentro".
Quelli
ubbidendo alle mie voci, uscîro
Delle
latebre loro, e, in riva al mare,
Che
frumento non genera, venuti,
Stupìan
del cervo: sì gran corno egli era!
E come
sazi del mirarlo fûro,
Ne
apparecchiâro non vulgar convito,
Sparse
prima di chiara onda le palme.
Così
tutto quel dì sino all'occaso
Di
carne opìma e di fumoso vino
L'alma
riconfortammo: il sol caduto
E
comparse le tenebre, nel sonno
Ci
seppellimmo al mormorio dell'onde.
Ma
sorta del mattin la rosea figlia,
Tutti
io raccolsi a parlamento, e dissi:
"Compagni,
ad onta di guai tanti, udite.
Qui,
d'onde l'austro spiri o l'aquilone,
E in
qual parte il Sole alza, in qual dechina,
Noto
non è. Pur consultare or vuolsi,
Qual
consiglio da noi prender si debba,
Se v'ha
un consiglio: di che forte io temo,
Io d'in
su alpestre poggio isola vidi
Cinta
da molto mar, che bassa giace,
E nel
cui mezzo un nereggiante fumo
D'infra
un bosco di querce al ciel si volve",
Rompere
a questo si sentiro il core,
D'Antìfate
membrando e del Ciclope
La
ferocia, i misfatti, e le nefande
Della
carne dell'uom mense imbandite.
Strida
metteano, e discioglieansi in pianto.
Ma del
pianto che pro? che delle strida?
Tutti
in due schiere uguali io li divisi.
E diedi
ad ambo un duce: all'una il saggio
Eurìloco,
e me all'altra, indi nel cavo
Rame
dell'elmo agitavam le sorti,
Ed
Euriloco uscì, che in via si pose
Senza
dimora. Ventidue compagni,
Lagrimando,
il seguìan; né affatto asciutte
Di noi,
che rimanemmo, eran le guance.
Edificata
con lucenti pietre
Di
Circe ad essi la magion s'offerse,
Che
vagheggiava una feconda valle.
Montani
lupi e leon falbi, ch'ella
Mansuefatti
avea con sue bevande,
Stavano
a guardia del palagio eccelso,
Né lor
già s'avventavano; ma invece
Lusingando
scotean le lunghe code,
E su
l'anche s'ergeano. E quale i cani
Blandiscono
il signor, che dalla mensa
Si
leva, e ghiotti bocconcelli ha in mano;
Tal
quelle di forte unghia orride belve
Gli
ospiti nuovi, che smarriti al primo
Vederle
s'arretraro, ivan blandendo.
Giunti
alle porte, la deessa udìro
Dai ben
torti capei, Circe, che dentro
Canterellava
con leggiadra voce,
Ed
un'ampia tessea, lucida, fina,
Maravigliosa,
immortal tela, e quale
Della
man delle dive uscir può solo.
Pòlite
allor, d'uomini capo, e molto
Più
caro e in pregio a me, che gli altri tutti
Sciogliea
tai detti: "Amici, in queste mura
Soggiorna,
io non so ben se donna o diva.
Che
tele oprando, del suo dolce canto
Tutta
fa risentir la casa intorno.
Voce
mandiamo a lei." Disse, e a lei voce
Mandaro;
e Circe di là tosto ov'era,
Levossi
e aprì le luminose porte,
E ad
entrare invitavali. In un groppo
La
seguìan tutti incautamente salvo
Eurìloco,
che fuor, di qualche inganno
Sospettando,
restò. La dea li pose
Sovra
splendidi seggi: e lor mescea
Il
Pramnio vino con rappreso latte,
Bianca
farina e mel recente; e un succo
Giungeavi
esizïal, perché con questo
Della
patria l'obblìo ciascun bevesse.
Preso e
vôtato dai meschini il nappo,
Circe
batteali d'una verga, e in vile
Stalla
chiudeali: avean di porco testa,
Corpo,
sétole, voce; ma lo spirto
Serbavan
dentro, qual da prima, intègro.
Così
rinchiusi, sospirando, fûro:
Ed ella
innanzi a lor del cornio i frutti
Gettava,
e della rovere e dell'elce,
De'
verri accovacciati usato cibo.
Nunzio
verace dell'infausto caso
Venne
rapido Euriloco alla nave.
Ma non
potea per iterati sforzi
La
lingua disnodar: gonfi portava
Di
pianto i lumi, e un vïolento duolo
L'alma
gli percotea. Noi, figurando
Sventure
nel pensier, con maraviglia
L'interrogammo;
ed ei l'eccidio al fine
De'
compagni narrò: "Nobile Ulisse,
Attraversato
delle querce il bosco,
Come tu
comandavi, eccoci a fronte
Magion
construtta di politi marmi,
Che di
mezzo a una valle alto s'ergea.
Tessea
di dentro una gran tela, e canto,
Donna o
diva, chi 'l sa? stridulo alzava.
Voce
mandaro a lei. Levossi e aperse
Le
porte e ne invitò. Tutti ad un corpo
Nella
magion disavvedutamente
Seguìanla:
io no, che sospettai di frode.
Svaniro
insieme tutti; e per istarmi
Lungo
ch'io feci ad esplorare assiso,
Traccia
d'alcun di lor più non m'apparve".
Disse;
ed io grande alle mie spalle, e acuta,
Spada,
d'argento bullettata, appesi,
Appesi
un valid'arco, e ingiunsi a lui,
Che
innanzi per la via stessa mi gisse.
Ma
Euriloco, i ginocchi ad ambe mani
Stringendomi
e piangendo: "Ah! mal mio grado",
Con
sùpplici gridò parole alate,
"Lá
non guidarmi, o del gran Giove alunno,
Donde,
non che altri ricondur, tu stesso
Ritornar
non potrai. Fuggiam, fuggiamo
Senza
indugio con questi, e la vicina
Parca
schiviam, finché schivarla è dato".
"Euriloco",
io risposi, "e tu rimanti,
Di
carne e vino a riempirti il ventre,
Lungo
la nave. Io, cui severa stringe
Necessitate,
andrò". Ciò detto, a tergo
La nave
negra io mi lasciava e il mare.
Già per
le sacre solitarie valli
Della
Maga possente all'alta casa
Presso
io mi fea, quando Mercurio, il nume
Che
arma dell'aureo caduceo la destra,
In
forma di garzone, a cui fiorisce
Di
lanugine molle il mento appena,
Mi
venne incontro, e per la man mi prese,
E:
"Misero!" diss'ei con voce amica,
"Perché
ignaro de' lochi, e tutto solo,
Muòvi
così per queste balze a caso?
Sono in
poter di Circe i tuoi compagni,
E li
chiudon, quai verri, anguste stalle.
Venìstu
forse a riscattarli? Uscito
Dell'immagine
tua penso che a terra
Tu ancor cadrai. Se non che trarti io
voglio
Fuor
d'ogni storpio, e in salvo porti. Prendi
Questo
mirabil farmaco, che il tristo
Giorno
dal capo tuo storni, e con esso
Trova
il tetto di Circe, i cui perversi
Consigli
tutti io t'aprirò. Bevanda
Mista,
e di succo esizïale infusa,
Colei
t'appresterà: ma le sue tazze
Contra
il farmaco mio nulla varranno.
Più
oltre intendi. Come te la diva
Percosso
avrà d'una sua lunga verga,
Tu cava
il brando che ti pende al fianco,
E, di
ferirla in atto, a lei t'avventa.
Circe,
compresa da timor, sue nozze
T'offrirà
pronta: non voler tu il letto
Della
dea ricusare, acciò ti sciolga
Gli
amici, e amica ti si renda. Solo
Di
giurarti costringila col grande
Degl'immortali
dèi giuro, che nulla
Più non
sarà per macchinarti a danno;
Onde,
poiché t'avrà l'armi spogliate,
Del cor
la forza non ti spogli ancora".
Finito
il ragionar l'erba salubre
Porsemi
già dal suol per lui divelta,
E la
natura divisonne: bruna
N'è la
radice; il fior bianco di latte;
Moli i
numi la chiamano: resiste
Alla
mano mortal, che vuol dal suolo
Staccarla;
ai dèi, che tutto ponno, cede.
Detto,
dalla boscosa isola il nume
Alle
pendici dell'Olimpo ascese;
Ed io
vêr Circe andai; ma di pensieri
In gran
tempesta m'ondeggiava il core.
Giunto
alla diva dalle belle trecce,
La voce
alzai dall'atrio. Udimmi, e ratta
Levossi,
e aprì le luminose porte,
E
m'invitava: io la seguìa non lieto.
Sovra
un distinto d'argentini chiovi
Seggio
a grand'arte fatto, e vago assai,
Mi
pose: lo sgabello i piè reggea.
Quindi
con alma che pensava mali,
La
mista preparommi in aureo nappo
Bevanda
incantatrice, ed io la presi
Dalla
sua mano, e bebbi; e non mi nocque.
Però in
quel che la dea me della lunga
Verga
percosse, e: "Vanne", disse, "e a terra
Co'
tuoi compagni nella stalla giaci",
Tirai
dal fianco il brando, e contra lei,
Di
trafiggerla in atto, io mi scagliai.
Circe,
mandando una gran voce, corse
Rapida
sotto il colpo, e le ginocchia
Con le
braccia afferrommi, e queste alate
Parole
mi drizzò, non senza pianto:
"Chi
sei tu? donde sei? la patria dove?
Dove i
parenti a te? Stupor m'ingombra,
Che
l'incanto bevuto in te non possa,
Quando
io non vidi, cui passasse indarno
Per la
chiostra de' denti il mio veleno.
Certo
un'anima invitta in petto chiudi.
Saréstu
forse quel sagace Ulisse,
Che
Mercurio a me sempre iva dicendo
Dover
d'Ilio venir su negra nave?
Per
fermo sei. Nella vagina il brando
Riponi,
e sali il letto mio: dal core
D'entrambi
ogni sospetto amor bandisca".
"Circe",
risposi, "che da me richiedi?
Io
cortese vêr te, che in sozze belve
Mi
trasformasti gli uomini? Rivolgi
Tacite
frodi entro te stessa; ed io
La tua
penetrerò stanza secreta,
Onde,
poiché m'avrai l'armi spogliate,
Del cor
la forza tu mi spogli ancora?
No, se
non giuri prima, e con quel grande
Degl'immortali
dèi giuro, che nulla
Più non
sarai per macchinarmi a danno".
Dissi;
e la dea giurò. Di Circe allora
Le
belle io salsi maritali piume.
Quattro
serviano a lei nel suo palagio
Di
quelle Ninfe che dai boschi nate
Sono, o
dai fonti liquidi, o dai sacri,
Che
devolvonsi al mar, rapidi fiumi.
L'una
gittava su i politi seggi
Bei
tappeti di porpora, cui sotto
Bei
tappeti mettea di bianco lino:
L'altra
mense d'argento innanzi ai seggi
Spiegava,
e d'oro v'imponea canestri:
Mescea
la terza nell'argentee brocche
Soavissimi
vini, e d'auree tazze
Coprìa
le mense: ma la quarta il fresco
Fonte
recava, e raccendea gran fuoco
Sotto
il vasto treppié, che l'onda cape.
Già
fervea questa nel cavato bronzo,
E me la
ninfa guidò al bagno, e l'onda
Pel
capo mollemente e per le spalle
Spargermi
non cessò, ch'io mi sentii
Di
vigor nuovo rifiorir le membra.
Lavato
ed unto di licor d'oliva,
E di
tunica e clamide coverto,
Sovra
un distinto d'argentini chiovi
Seggio
a grand'arte fatto, e vago assai,
Mi
pose: lo sgabello i piè reggea.
E
un'altra ninfa da bel vaso d'oro
Purissim'acqua
nel bacil d'argento
Mi
versava, e stendeami un liscio desco,
Che di
candido pane e di serbate
Dapi a
fornir la dispensiera venne:
"Cìbati",
mi dicea la veneranda
Dispensiera,
ed instava; ed io, d'ogni esca
Schivo,
in altri pensieri, e tutti foschi,
Tenea
la mente, pur sedendo, infissa.
Circe,
ratto che avvidesi ch'io mesto
Non mi
curava della mensa punto,
Con
queste m'appresso voci sul labbro:
"Perché
così, qual chi non ha favella,
Siedi,
Ulisse, struggendoti, e vivanda
Non
tocchi, né bevanda? In te sospetto
S'annida
forse di novello inganno?
Dopo il
mio giuramento a torto temi".
Ed io:
"Circe, qual mai retto uomo e saggio
Vivanda
toccheria prima, o bevanda,
Che i
suoi vedesse riscattati e salvi?
Fa' che
liberi io scorga i miei compagni,
Se vuoi
che della mensa io mi sovvegna".
Circe
uscì tosto con in man la verga,
E della
stalla gl'infelici trasse,
Che di
porci novenni avean l'aspetto.
Tutti
le stavan di rincontro; e Circe,
D'uno
all'altro passando, un prezïoso
Sovra
lor distendea benigno unguento.
Gli
odiati peli, che la tazza infesta
Produsse,
a terra dalle membra loro
Cadevano;
e ciascun più che non era,
Grande
apparve di corpo, e assai più fresco
D'etade
in faccia, e di beltà più adorno.
Mi
ravvisò ciascuno, ed afferrommi
La
destra; e un così tenero e sì forte
Compianto
si levò, che la magione
Ne
risonava orrendamente, e punta
Sentìasi
di pietà la stessa Maga.
Ella,
standomi al fianco: "O sovrumano
Di
Laerte figliuol, provvido Ulisse,
Corri",
diceami, "alla tua nave, e in secco
La
tira, e cela nelle cave grotte
Le
ricchezze e gli arnesi: indi a me torna.
E i diletti
compagni adduci teco".
M'entrò
il suo dir nell'alma. Al lido io corsi,
E i
compagni trovai, che appo la nave
Di
lagrime nutrìansi e di sospiri.
Come,
se riedon le satolle vacche
Dai
verdi prati al rusticale albergo,
I
vitelli saltellano, e alle madri,
Che più
serraglio non ritienli o chiostra,
Con
frequente muggir corrono intorno:
Così
con pianto a me, vistomi appena,
Intorno
s'aggiravano i compagni,
E quei
mostravan su la faccia segni,
Che vi
si scorgerìan, se il dolce nido,
Dove
nacquero e crebbero, se l'aspra
Itaca
avesser tocca: "O", lagrimando
Dicean,
"di Giove alunno, una tal gioia
Sarebbe
a stento in noi, se ci accogliesse
D'Itaca
il porto. Ma, su via, l'acerbo
Fato
degli altri raccontar ti piaccia".
Ed io
con dolce favellar: "La nave
Si tiri
in secco, e nelle cave grotte
Le
ricchezze si celino e gli arnesi.
Poi
seguitemi in fretta; ed i compagni
Nel
tetto sacro dell'illustre Circe
Vedrete
assisi ad una mensa, in cui
Di là
d'ogni desio la copia regna".
Pronti
obbediro. Ripugnava Euriloco
Solo,
ed or questo m'arrestava, or quello,
Gridando:
"Sventurati, ove ne andiamo?
Qual
mai vi punge del disastro sete,
Che
discendiate alla maliarda, e vôlti
Siate
in leoni, in lupi, o in sozzi verri,
Il suo
palagio a custodir dannati?
L'ospizio
avrete del Ciclope, quando
Calâro
i nostri nella grotta, e questo
Prode
Ulisse guidavali, di cui
Morte
ai miseri fu lo stolto ardire".
Così
Euriloco; ed io la lunga spada
Cavar
pensai della vagina, e il capo
Dal
busto ai piè sbalzargli in su la polve,
Benché
vincol di sangue a me l'unisse.
Ma
tutti quinci riteneanmi, e quindi
Con
favella gentil: "Di Giove alunno,
Costui
sul lido, se ti piace in guardia
Della
nave rimangasi, e alla sacra
Magion
noi guida". Detto ciò, dal mare
Meco
venìan, né restò quegli indietro:
Tanto
della minaccia ebbe spavento.
Cura
prendeasi Circe in questo mezzo
Degli
altri, che lavati, unti, e di buone
Tuniche
cinti e di bei manti fûro.
Seduti
a mensa li trovammo. Come
Si
sguardâro l'un l'altro, e sul passato
Con la
mente tornâro, in pianti e in grida
Davano;
e ne gemean pareti e volte.
M'appressò
allora, e mi parlò in tal guisa
L'inclita
tra le dive: "O di Laerte
Gran
prole, o ricco di consigli Ulisse,
Modo al
dirotto lagrimar si ponga.
Noto è
a me pur, quanti nel mar pescoso
Duraste
affanni, e so le crude offese
Che vi
recâro in terra uomini ostili.
Su via,
gioite omai, finché nel petto
Vi
rinasca l'ardir, ch'era in voi, quando
Itaca
alpestre abbandonaste in prima.
Bassi
or gli spirti avete, e freddo il sangue,
Per la
memoria de' vïaggi amari
Nelle
menti ancor viva, e l'allegrezza
Disimparaste
tra cotanti guai".
Agevolmente
ci arrendemmo. Quindi
Pel
continuo rotar d'un anno intero
Giorno
non ispuntò, che a lauta mensa
Me non
vedesse e i miei compagni in festa.
Ma
rivolto già l'anno, e le stagioni
Tornate
in sé col varïar de' mesi,
Ed il
cerchio dei dì molti compiuto,
I
compagni, traendomi in disparte:
"Infelice!"
mi dissero, "del caro
Cielo
nativo e delle avite mura
Non ti
rammenterai, se vuole il fato
Che in
vita tu rimanga, e le rivegga?"
Sano
avviso mi parve. Il sol caduto,
E
coverta di tenebre la terra,
Quei si
corcâro per le stanze; ed io,
Salito
il letto a maraviglia bello
Di
Circe, supplichevoli drizzai
Alla
dea, che m'udì, queste parole:
"Attiemmi,
o Circe, le impromesse, e al caro
Rendimi
natìo ciel, cui sempre vola,
Non
pure il mio, ma de' compagni il core,
De'
compagni, che stanno a me d'intorno,
Sempre
che tu da me t'apparti, e tutta
Con le
lagrime lor mi struggon l'alma".
"O
di Laerte sovrumana prole",
La dea
rispose, "ritenervi a forza
Io più oltre
non vo'. Ma un'altra via
Correre
in prima è d'uopo: è d'uopo i foschi
Di
Pluto e di Proserpina soggiorni
Vedere
in prima, e interrogar lo spirto
Del
teban vate, che, degli occhi cieco,
Puro
conserva della mente il lume;
Di
Tiresia, cui sol diè Proserpina
Tutto
portar tra i morti il senno antico.
Gli
altri non son che vani spettri ed ombre".
Rompere
il core io mi sentìi. Piagnea,
Su le
piume giacendomi, né i raggi
Volea
del Sol più rimirare. Al fine,
Poiché
del pianger mio, del mio voltarmi
Su le
piume io fui sazio: "Or qual", ripresi,
"Di
tal vïaggio sarà il duce? All'Orco
Nessun
giunse finor su negra nave".
"Per
difetto di guida", ella rispose
Non
t'annoiar. L'albero alzato, e aperte
Le tue
candide vele, in su la poppa
T'assidi,
e spingerà Borea la nave.
Come
varcato l'Oceàno avrai,
Ti
appariranno i bassi lidi, e il folto
Di
pioppi eccelsi e d'infecondi salci
Bosco
di Proserpìna: e a quella piaggia,
Che
l'Oceán gorghiprofondo batte,
Ferma
il naviglio, e i regni entra di Pluto.
Rupe
ivi s'alza, presso cui due fiumi
S'urtan
tra lor rumoreggiando, e uniti
Nell'Acheronte
cadono: Cocito,
Ramo di
Stige, e Piriflegetonte.
Appréssati
alla rupe, ed una fossa,
Che un
cubito si stenda in lungo e in largo,
Scava,
o prode, tu stesso; e mel con vino,
Indi
vin puro e limpidissim'onda
Vèrsavi,
a onor de' trapassati, intorno,
E di
bianche farine il tutto aspergi.
Poi
degli estinti prega i frali e vôti
Capi, e
prometti lor che nel tuo tetto
Entrato
con la nave in porto appena,
Vacca
infeconda, dell'armento fiore
Lor
sagrificherai, di doni il rogo
Riempiendo;
e che al sol Tiresia, e a parte,
Immolerai
nerissimo arïete,
Che
della greggia tua pasca il più bello.
Compiute
ai mani le preghiere, uccidi
Pecora
bruna, ed un monton, che all'Orco
Volgan
la fronte: ma converso tieni
Del
fiume alla corrente in quella il viso.
Molte
Ombre accorreranno. A' tuoi compagni
Le già
sgozzate vittime e scoiate
Mettere
allor sovra la fiamma, e ai numi,
Al
prepotente Pluto e alla tremenda
Proserpina
drizzar voti comanda.
E tu
col brando sguainato siedi,
Né
consentir, che anzi che parli al vate,
I mani
al sangue accostinsi. Repente
Il
profeta verrà, duce di genti,
Che sul
vïaggio tuo, sul tuo ritorno
Pel mar
pescoso alle natìe contrade
Ti
darà, quanto basta, indizio e lume".
Così la
diva; e d'in su l'aureo trono
L'Aurora
comparì. Tunica e manto
Circe
stessa vestimmi; a sé ravvolse
Bella,
candida, fina ed ampia gonna;
Si
strinse al fianco un'aurea fascia, e un vago
Su i
ben torti capei velo s'impose.
Ma io,
passando d'una in altra stanza,
Confortava
i compagni, e ad uno ad uno
Con
molli detti gli abbordava: "Tempo
Non è
più da sfiorare i dolci sonni.
Partiamo,
e tosto. Il mi consiglia Circe".
Si
levâro, e obbedîro. Ahi che né quinci
Mi si
concesse ricondurli tutti!
Un
Elpénore v'era, il qual d'etate
Dopo
gli altri venìa, poco nell'armi
Forte,
né troppo della mente accorto.
Caldo
del buon licore, onde irrigossi,
Si
divise dagli altri, ed al palagio
Mi si
corcò, per rinfrescarsi, in cima.
Udìto
il suon della partenza, e il moto,
Riscossesi
ad un tratto, e, per la lunga
Scala
di dietro scendere obblïando.
Mosse
di punta sovra il tetto, e cadde
Precipite
dall'alto: il collo ai nodi
Gli
s'infranse, e volò l'anima a Dite.
Ragunatisi
i miei: "Forse", io lor dissi,
"Alle
patrie contrade andar credete.
Ma un
altro pria la venerabil diva
Ci
destinò cammin, che ai foschi regni
Di
Pluto e di Proserpina conduce,
Per
quivi interrogar del rinomato
Teban
Tiresia l'indovino spirto".
Duol
mortale gli assalse a questi detti.
Piangeano,
e fermi rimanean lì lì,
E la
chioma stracciavansi: ma indarno
Lo
strazio della chioma era, ed il pianto.
Mentre
al mar tristi tendevamo, e spesse
Lagrime
spargevam, Circe, che in via
Pur
s'era posta, alla veloce nave
Legò la
bruna pecora e il montone.
Ci
oltrepassò, che non ce ne avvedemmo,
Con piè
leggiero. Chi potrìa de' numi
Scorgere
alcun che qua o là si mova
Quando
dall'occhio uman voglion celarsi?
LIBRO XI
Giunti
al divino mare, il negro legno
Prima
varammo, albero ergemmo e vele,
E
prendemmo le vittime, e nel cavo
Legno
le introducemmo: indi con molto
Terrore
e pianto v'entravam noi stessi.
La dal
crin crespo e dal canoro labbro
Dea
veneranda un gonfiator di vela
Vento
in poppa mandò, che fedelmente
Ci
accompagnava per l'ondosa via;
Tal che
ozïosi nella ratta nave
Dalla
cerulea prua, giacean gli arnesi,
E noi
tranquilli sedevam, la cura
Al
timonier lasciandone ed al vento.
Quanto
il dì risplendé, con vele sparse
Navigavamo.
Spento il giorno, e d'ombra
Ricoperte
le vie, dell'Oceano
Toccò
la nave i gelidi confini,
Là 've
la gente de' Cimmerî alberga,
Cui
nebbia e buio sempiterno involve.
Monti
pel cielo stelleggiato, o scenda
Lo
sfavillante d'ôr sole non guarda
Quegl'infelici
popoli, che trista
Circonda
ognor pernizïosa notte.
Addotto
in su l'arena il buon naviglio,
E il
monto e la pecora sbarcati,
Alla
corrente dell'Oceano in riva
Camminavam;
finché venimmo ai lochi
Che la
dea c'insegnò. Quivi per mano
Eurìloco
teneano e Perimede
Le due
vittime; ed io, fuor tratto il brando,
Scavai
la fossa cubitale, e mele
Con
vino, indi vin puro e lucid'onda
Versàivi,
a onor de' trapassati, intorno
E di
bianche farine il tutto aspersi.
Poi
degli estinti le debili teste
Pregai,
promisi lor che nel mio tetto,
Entrato
con la nave in porto appena,
Vacca
infeconda, dell'armento fiore,
Lor
sagrificherei, di doni il rogo
Rïempiendo;
e che al sol Tiresia, e a parte,
Immolerei
nerissimo arïete,
Che
della greggia mia pasca il più bello.
Fatte
ai mani le preci, ambo afferrai
Le
vittime, e sgozzàile in su la fossa,
Che
tutto riceveane il sangue oscuro.
Ed ecco
sorger della gente morta
Dal più
cupo dell'Erebo, e assembrarsi
Le
pallid'ombre: giovanette spose,
Garzoni
ignari delle nozze, vecchi
Da
nemica fortuna assai versati,
E
verginelle tenere, che impressi
Portano
i cuori di recente lutto;
E molti
dalle acute aste guerrieri
Nel
campo un dì feriti, a cui rosseggia
Sul
petto ancor l'insanguinato usbergo.
Accorrean
quinci e quindi, e tanti a tondo
Aggiravan
la fossa, e con tai grida,
Ch'io
ne gelai per subitana tema.
Pure a
Eurìloco ingiunsi, e a Periméde
Le già
scannate vittime e scoiate
Por su
la fiamma, e molti ai dèi far voti,
Al
prepotente Pluto e alla tremenda
Proserpina:
ma io col brando ignudo
Sedea,
né consentia che al vivo sangue,
Pria
ch'io Tiresia interrogato avessi,
S'accostasser
dell'ombre i vôti capi.
Primo
ad offrirsi a me fu il simulacro
D'Elpènore,
di cui non rinchiudea
La
terra il corpo nel suo grembo ancora.
Lasciato
in casa l'avevam di Circe
Non
sepolto cadavere e non pianto.
Che
incalzavaci allor diversa cura.
Piansi
a vederlo, e ne sentii pietade,
E, con
alate voci a lui converso:
"Elpènore",
diss'io, "come scendesti
Nell'oscura
caligine? Venisti
Più
ratto a piè, ch'io su la negra nave".
Ed ei,
piangendo: "O di Laerte egregia
Prole,
sagace Ulisse, un nequitoso
Demone
avverso, e il molto vin m'offese.
Stretto
dal sonno alla magione in cima,
Men
disciolsi ad un tratto: e, per la lunga
Di
calar non membrando interna scala
Mossi
di punta sovra il tetto, e d'alto
Precipitai:
della cervice i nodi
Ruppersi,
ed io volai qua con lo spirto.
Ora io
per quelli da cui lunge vivi,
Per la
consorte tua, pel vecchio padre,
Che a
tanta cura t'allevò bambino,
Pel
giovane Telemaco, che dolce
Nella
casa lasciasti unico germe,
Ti
prego, quando io so, che alla Circea
Isola
il legno arriverai di nuovo,
Ti
prego che di me, signor mio, vogli
Là
ricordarti, onde io non resti, come
Della
partenza spiegherai le vele,
Senza
lagrime addietro e senza tomba,
E tu
venghi per questo ai numi in ira.
Ma con
quell'armi, ch'io vestìa, sul foco
Mi
poni, e in riva del canuto mare
A un
misero guerrier tumulo innalza,
Di cui
favelli la ventura etade.
Queste
cose m'adempi; ed il buon remo,
Ch'io
tra i compagni miei, mentre vivea
Solea
trattar, sul mio sepolcro infiggi.
"Sventurato",
io risposi, "a pien fornita
Sarà,
non dubitarne, ogni tua voglia".
Così
noi sedevam, meste parole
Parlando
alternamente, io con la spada
Sul
vivo sangue ognora, e a me di contra
La
forma lieve del compagno, a cui
Suggerìa
molti accenti il suo disastro.
Comparve
in questo dell'antica madre
L'ombra
sottile, d'Anticlèa, che nacque
Dal
magnanimo Autolico, e a quel tempo
Era tra
i vivi ch'io per Troia sciolsi.
La vidi
appena, che pietà mi strinse,
E il
lagrimar non tenni: ma né a lei,
Quantunque
men dolesse, io permettea
Al
sangue atro appressar, se il vate prima
Favellar
non s'udìa. Levossi al fine
Con
l'aureo scettro nella man famosa
L'alma
Tebana di Tiresia, e ratto
Mi
riconobbe, e disse: "Uomo infelice,
Perché,
del sole abbandonati i raggi,
Le
dimore inamabili de' morti
Scendesti
a visitar? Da questa fossa
Ti
scosta, e torci in altra parte il brando,
Sì
ch'io beva del sangue, e il ver ti narri".
Il piè
ritrassi, e invaginai l'acuto
D'argentee
borchie tempestato brando.
Ma ei,
poiché bevuto ebbe, in tal guisa
Movea
le labbra: "Rinomato Ulisse,
Tu alla
dolcezza del ritorno aneli
E un
nume invidïoso il ti contende
Come
celarti da Nettun, che grave
Contra
te concepì sdegno nel petto
Pel
figlio, a cui spegnesti in fronte l'occhio?
Pur,
sebbene a gran pena, Itaca avrai,
Sol che
te stesso e i tuoi compagni affreni,
Quando,
tutti del mar vinti i perigli,
Approderai
col ben formato legno
Alla
verde Trinacria isola, in cui
Pascon
del Sol, che tutto vede ed ode,
I
nitidi montoni e i buoi lucenti.
Se
pasceranno illesi, e a voi non caglia
Che
della patria, il rivederla dato,
Benché
a stento, vi fia. Ma dove osiate
Lana o
corno toccargli, eccidio a' tuoi,
E alla
nave io predico, ed a te stesso.
E ancor
che morte tu schivassi, tardo
Fora,
ed infausto, e senza un sol compagno,
E su
nave straniera, il tuo ritorno.
Mali
oltra ciò t'aspetteranno a casa:
Protervo
stuol di giovani orgogliosi,
Che ti
spolpa, ti mangia, e alla divina
Moglie
con doni aspira. È ver che a lungo
Non
rimarrai senza vendetta. Uccisi
Dunque
o per frode, o alla più chiara luce,
Nel tuo
palagio i temerarî amanti,
Prendi
un ben fatto remo, e in via ti metti:
Né
rattenere il piè, che ad una nuova
Gente
non sii, che non conosce il mare,
Né
cosperse di sal vivande gusta,
Né
delle navi dalle rosse guance,
O de'
politi remi, ali di nave,
Notizia
vanta. Un manifesto segno
D'esser
nella contrada io ti prometto.
Quel dì
che un altro pellegrino, a cui
T'abbatterai
per via, te quell'arnese
Con che
al vento su l'aia il gran si sparge
Portar
dirà su la gagliarda spalla,
Tu
repente nel suol conficca il remo.
Poi,
vittime perfette a re Nettuno
Svenate,
un toro, un arïete, un verro,
Riedi,
e del cielo agli abitanti tutti
Con
l'ordine dovuto offri ecatombe
Nella
tua reggia, ove a te fuor del mare,
E a
poco a poco da muta vecchiezza
Mollemente
consunto, una cortese
Sopravverrà
morte tranquilla, mentre
Felici
intorno i popoli vivranno.
L'oracol
mio, che non t'inganna, è questo.
"Tiresia",
io rispondea, "così prescritto
(Chi
dubbiar ne potrebbe?) hanno i celesti.
Ma ciò
narrami ancora: io della madre
L'anima
scorgo, che tacente siede
Appo la
cava fossa, e d'uno sguardo,
Non che
d'un motto, il suo figliuol non degna.
Che far
degg'io, perché mi riconosca?
Ed
egli: Troppo bene io nella mente
Io ti
porrò. Quai degli spirti al sangue
Non
difeso da te giunger potranno,
Sciorran
parole non bugiarde: gli altri
Da te
si ritrarran taciti indietro".
Svelate
a me tai cose, in seno a Dite
Del
profetante re l'alma s'immerse.
Ma io
di là non mi togliea. La madre
S'accostò
intanto, né del negro sangue
Prima
bevé, che ravvisommi, e queste
Mi
drizzò, lagrimando, alate voci:
"Deh
come, figliuol mio, scendéstu vivo
Sotto
l'atra caligine? Chi vive,
Difficilmente
questi alberghi mira,
Però
che vasti fiumi e paurose
Correnti
ci dividono, e il temuto
Ocean,
cui varcare ad uom non lice,
Se nol
trasporta una dedalea nave.
Forse
da Troia, e dopo molti errori,
Con la
nave e i compagni a questo buio
Tu
vieni? Né trovar sapesti ancora
Itaca
tua? né della tua consorte
Riveder
nel palagio il caro volto? "
"O
madre mia, necessità", risposi,
"L'alma
indovina a interrogar m'addusse
Del Tebano
Tiresia. Il suolo acheo
Non
vidi ancor, né i liti nostri attinsi;
Ma vo
ramingo, e dalle cure oppresso,
Dappoi
che a Troia ne' puledri bella
Seguìi,
per disertarla, il primo Atride.
Su via,
mi narra, e schiettamente, come
Te la
di lunghi sonni apportatrice
Parca
domò. Ti vinse un lungo morbo,
O te
Dïana faretrata assalse
Con
improvvisa non amara freccia?
Vive
l'antico padre, il figlio vive,
Che in
Itaca io lasciai? Nelle man loro
Resta,
o passò ad altrui la mia ricchezza,
E ch'io
non rieda più, si fa ragione?
E la
consorte mia qual cor, qual mente
Serba?
Dimora col fanciullo, e tutto
Gelosamente
custodisce, o alcuno
Tra i
primi degli Achei forse impalmolla? "
Riprese
allor la veneranda madre:
"La
moglie tua non lasciò mai la soglia
Del tuo
palagio; e lentamente a lei
Scorron
nel pianto i dì, scorron le notti.
Stranier
nel tuo retaggio, in sin ch'io vissi,
Non
entrò: il figlio su i paterni campi
Vigila
in pace, e alle più illustri mense,
Cui
l'invita ciascuno, e che non dee
Chi
nacque al regno dispregiar, s'asside.
Ma in
villa i dì passa Laerte, e mai
A
cittade non vien: colà non letti,
Non
coltri, o strati sontuosi, o manti.
Di
vestimenta ignobili coverto
Dorme
tra i servi al focolare il verno
Su la
pallida cenere: e se torna
L'arida
estate, o il verdeggiante autunno,
Lettucci
umìli di raccolte foglie,
Stesi a
lui qua e là per la feconda
Sua
vigna, preme travagliato, e il duolo
Nutre,
piangendo la tua sorte: arrogi,
La
vecchiezza increscevole che il colse.
Non
altrimenti de' miei stanchi giorni
Giunse
il termine a me, cui non Dïana,
Sagittaria
infallibile, di un sordo
Quadrello
assalse, o di que' morbi invase,
Che
soglion trar delle consunte membra
L'anima
fuor con odïosa tabe:
Ma il
desìo di vederti, ma l'affanno
Della
tua lontananza, ma i gentili
Modi e costumi
tuoi, nobile Ulisse,
La vita
un dì sì dolce hannomi tolta".
Io,
pensando tra me, l'estinta madre
Volea
stringermi al sen: tre volte corsi,
Quale
il mio cor mi sospingea, vêr lei,
E tre
volte m'usci fuor delle braccia,
Come
nebbia sottile, o lieve sogno.
Cura
più acerba mi trafisse e ratto:
"Ahi,
madre", le diss'io, "perché mi sfuggi
D'abbracciarti
bramoso, onde, anco a Dite,
Le man
gittando l'un dell'altro al collo,
Di duol
ci satolliamo ambi, e di pianto?
Fantasma
vano, acciò più sempre io m'anga,
Forse
l'alta Proserpina mandommi?"
"O
degli uomini tutti il più infelice",
La
veneranda genitrice aggiunse,
"No,
l'egregia Proserpina, di Giove
La
figlia, non t'inganna. È de' mortali
Tale il
destin, dacché non son più in vita,
Che i
muscoli tra sé, l'ossa ed i nervi
Non si
congiungan più: tutto consuma
La gran
possanza dell'ardente foco,
Come
prima le bianche ossa abbandona,
E
vagola per l'aere il nudo spirto.
Ma tu
d'uscire alla superna luce
Da
questo buio affretta: e ciò che udisti,
E
porterai nell'anima scolpito,
Penelope
da te risappia un giorno".
Mentre
così favellavam, sospinte
Dall'inclita
Proserpina le figlie
Degli
eroi comparïano, e le consorti
E
traean della fossa al margo in folla.
Io,
come interrogarle ad una ad una
Rivolgea
meco; e ciò mi parve il meglio.
Stretta
la spada, non patïa che tutte
Beessero
ad un tempo. Alla sua volta
Così
accorrea ciascuna, e l'onorato
Lignaggio
ed i suoi casi a me narrava.
Prima
s'appresentò l'illustre Tiro,
Che,
del gran Salmonèo figlia, e consorte
Di
Creteo, un de' figliuoli d'Eolo, sé disse.
Costei
d'un fiume nell'amore accesa,
Dell'Enipèo
divin, che la più bella
Sovra i
più ameni campi onda rivolve,
Spesso
e bagnarsi in quegli argenti entrava.
L'azzurro
nume che la terra cinge,
Nettuno,
in forma di quel dio, corcossi
Delle
sue vorticose acque alla foce;
E la
porporeggiante onda d'intorno
Gli
stette, e in un arco si piegò, qual monte,
Lui
celando, e la giovane, cui tosto
Sciols'ei
la zona virginale, e un casto
Sopore
infuse. Indi per man la prese,
E
chiamolla per nome, e tai parole
Le feo:
"Di questo amor, donna, t'allegra.
Compiuto
non avrà l'anno il suo giro,
Che
diverrai di bei fanciulli madre,
Quando
vane giammai degl'immortali
Non
riescon le nozze. I bei fanciulli
Prendi
in cura, e nutrisci. Or vanne, e sappi,
Ma il
sappi sola, che tu in me vedesti
Nettuno,
il nume che la terra scuote".
Disse;
e ne' gorghi suoi l'accolse il mare.
Ella di
Nèleo e Pèlia, ond'era grave,
S'allevïò.
Forti del sommo Giove
Ministri,
l'un nell'arenosa Pilo,
Nell'ampia
l'altro, e di feconde gregge
Ricca
Iaolco, ebbe soggiorno e scettro.
Quindi
altra prole, Esòn, Ferete, e il chiaro
Domator
di cavalli Amitaòne,
Diede a
Creteo costei, che delle donne
Reina
parve alla sembianza e agli atti.
Poi
d'Asòpo la figlia, Antiopa, venne,
Che
dell'amor di Giove andò superba,
E due
figli creò, Zeto e Anfione.
Tebe
costoro dalle sette porte
Primi
fondaro, e la munir di torri:
Ché mal
potean la spazïosa Tebe
Senza
torri guardar, benché gagliardi.
Venne
d'Amfitrïon la moglie, Alcmena
Che al
Saturnìde l'animoso Alcide,
Cor di
leone, partorì. Megàra
Di
Creonte magnanimo figliuola
E
moglie dell'invitto Ercole, venne.
D'Edipo
ancor la genitrice io vidi,
La
leggiadra Epicasta, che nefanda
Per
cecità di mente opra commise,
L'uom
disposando da lei nato. Edìpo
La man,
con che avea prima il padre ucciso,
Porse
alla madre: né celaro i dèi
Tal
misfatto alle genti. Ei per crudele
Voler
de' numi nell'amena Tebe
Addolorato
su i Cadmei regnava.
Ma la
donna, cui vinse il proprio affanno,
L'infame
nodo ad un'eccelsa trave
Legato,
scese alla magion di Pluto
Dalle
porte infrangibili, e tormenti
Lasciò
indietro al figliuol, quanti ne danno
Le
ultrici Furie, che una madre invoca.
Vidi
colei non men, che ultima nacque
All'Iaside
Anfïón, cui l'arenosa
Pilo
negli anni andati, e il Minïeo
Orcomeno
ubbidìa, l'egregia Clori,
Che
Neleo, di lei preso, a sé congiunse,
Poscia
ch'egli ebbe di dotali doni
La
vergine ricolma. Ed ella il feo
Ricco
di vaga e di lui degna prole,
Di
Nestore, di Cromio, e dell'eroe
Periclimeno;
e poi di quella Pero,
Che
maraviglia fu d'ogni mortale.
Tutti i
vicini la chiedean; ma il padre
Sol
concedeala a chi le belle vacche
Dalla
lunata spazïosa fronte,
Che
appo sé riteneasi il forte Ificle,
Gli
rimenasse, non leggiera impresa,
Dai
pascoli di Filaca. L'impresa
Melampo
assunse, un indovino illustre;
Se non
che a lui s'attraversaro i fati,
E
pastori salvatichi, da cui
Soffrir
dové d'aspre catene il pondo.
Ma non
prima, già in sé rivolto l'anno,
I mesi
succedettersi ed i giorni,
E
compiêr le stagioni il corso usato
Che
Ifìcle, a cui gli oracoli de' numi
Svelati
avea l'irreprensibil vate,
I suoi
vincoli ruppe; e così al tempo
L'alto
di Giove s'adempiea consiglio.
Leda
comparve, da cui Tindaro ebbe
Due
figli alteri, Castore e Pollùce,
L'un di
cavalli domatore, e l'altro
Pugile
invitto. Benché l'alma terra
Ritengali
nel sen, di vita un germe
(Così
Giove tra l'Ombre anco gli onora)
Serbano:
ciascun giorno, e alternamente,
Rïapron
gli occhi, e chiudonli alla luce,
E
glorïosi al par van degli eterni.
Dopo
costei mi si parò davanti
D'Aloèo
la consorte, Ifimidèa;
Cui di
dolce d'amor nodo si strinse
Lo
Scuotiterra. Ingenerò due figli,
Oto a
un dio pari, e l'inclito Efialte,
Che la
luce del sol poco fruîro.
Né di
statura ugual, né di beltade,
Altri
nodrì la comun madre antica,
Sol che
fra tutti d'Orïon si taccia.
Non
avean tocco il decim'anno ancora,
Che in
largo nove cubiti, e tre volte
Tanto
cresciuti erano in lungo i corpi.
Questi
volendo ai sommi dèi su l'etra
Nuova
portar sediziosa guerra,
L'Ossa
sovra l'Olimpo, e sovra l'Ossa
L'arborifero
Pelio impor tentaro,
Onde il
cielo scalar di monte in monte;
E il
fean, se i volti pubertà infiorava;
Ma di
Giove il figliuolo, e di Latona,
Sterminolli
ambo, che del primo pelo
Le
guance non ombravano, ed il mento.
Fedra
comparve ancor, Procri ed Arianna
Che
l'amante Teseo rapì da Creta,
E al
suol fecondo della sacra Atene
Condur
volea. Vane speranze! In Nasso,
Cui
cinge un vasto mar, fu da Dïana,
Per
l'indizio di Bacco, aggiunta e morta.
Né
restò Mera inosservata indietro,
Né
Climene restò, né l'abborrita
Erifile,
che il suo diletto sposo
Per un
aureo monil vender poteo.
Ma dove
io tutte degli eroi le apparse
Figlie
nomar volessi, e le consorti,
Pria
mancherìami la divina Notte.
E a me
par tempo da posar la testa
O in
nave o qui, tutta del mio ritorno
Ai
celesti lasciando, e a voi la cura.
Tacque.
I Feaci per l'oscura sala
Stavansi
muti, e nel piacere assorti.
Ruppe
il silenzio l'immortal regina
La
bracciobianca Arete: "Feacesi,
Che vi
par di costui? del suo sembiante?
Della
maschia persona? e di quel senno
Che in
lui risiede? Ospite è mio, ma tutti
Dell'onor,
che io ricevo, a parte siete.
Non
congedate in fretta, e senza doni
Chi
nulla tien, voi, che di buono in casa
Per
favor degli dèi tanto serbate".
Qui
favellò Echenèo, che gli altri tutti
Vincea
d'etade: "Fuor del segno, amici,
Arete
non colpì con la sua voce.
Obbediscasi
a lei: se non che prima
Del re
l'esempio attenderemo e il detto".
"Ciò
sarà ch'ella vuole", Alcinoo disse
"Se
vita e scettro a me lascian gli dèi.
Ma,
benché tanto di partir gli tardi,
L'ospite
indugi sino al nuovo sole,
Sì
ch'io tutti i regali insieme accoglia.
Cura
esser dee comun che lieto ei parta
E più,
che d'altri, mia, s'io qui son primo".
"Alcinoo
re, che di grandezza e fama",
Riprese
Ulisse, "ogni mortale avanzi,
Sei
mesi ancor mi riteneste e sei,
E fida
scorta intanto e ricchi doni
M'apparecchiaste,
io non dovrei sgradirlo:
Ché
quanto io tornerò con man più piene
A' miei
sassi natii, tanto la gente
Con più
onore accorrammi e con più affetto".
Ed
Alcinoo in risposta: "Allora, Ulisse
Che ti
adocchiamo, un impostor fallace,
D'alte
menzogne inaspettato fabbro,
Scorger
non sospettiam, quali benigna
La
terra qua e là molti ne pasce.
Leggiadria
di parole i labbri t'orna,
Né
prudenza minor t'alberga in petto.
L'opre
de' Greci e le tue doglie, quasi
Lo
spirto della Musa in te piovesse,
Ci
narrasti così, ch'era un vederle.
Deh
siegui, e dimmi, se t'apparve alcuno
Di
tanti eroi che veleggiâro a Troia
Teco, e
spenti rimaservi. La notte
Con
lenti passi or per lo ciel cammina,
E finché
ci esporrai stupende cose,
Non fia
chi del dormir qui si rammenti.
Quando
parlar di te sino all'aurora
Ti
consentisse il duol sino all'aurora
Io
penderei dalle tue labbra immoto".
"V'ha
un tempo Alcinoo, di racconti ed havvi",
Ulisse
ripigliò, "di sonni un tempo;
Che se
udir vuoi più avanti, io non ricuso
La
sorte di color molto più dura
Rappresentarti,
che scampâr dai rischi
D'una
terribil guerra, e nel ritorno,
Colpa
d'una rea donna, ohimé! periro.
Poiché
le femminili Ombre famose
La
casta Proserpìna ebbe disperse,
Mesto,
e cinto da quei che fato uguale
Trovâr
d'Egisto negl'infidi alberghi,
Si levò
d'Agamennone il fantasma.
Assaggiò
appena dell'oscuro sangue,
Che
ravvisommi; e dalle tristi ciglia
Versava
in copia lagrime, e le mani
Mi
stendea, di toccarmi invan bramose;
Ché
quel vigor, quella possanza, ch'era
Nelle
sue membra ubbidïenti ed atte,
Derelitto
l'avea. Lagrime anch'io
Sparsi
a vederlo, e intenerìi nell'alma,
E tai
voci, nomandolo, gli volsi:
"O
inclito d'Atrèo figlio, o de' prodi
re,
Agamennòne, qual destin ti vinse,
E i
lunghi t'arrecò sonni di morte?
Nettuno
in mar ti domò forse, i fieri
Spirti
eccitando de' crudeli venti?
O
t'offesero in terra uomini ostili,
Che
armenti depredavi e pingui greggi.
O delle
patrie mura, e delle caste
Donne a
difesa, roteavi il brando? "
"Laerziade
preclaro, accorto Ulisse"
Ratto
rispose dell'Atride l'ombra
Me non
domò Nettuno all'onde sopra,
Né
m'offesero in terra uomini ostili.
Egisto,
ordita con la mia perversa
Donna
una frode, a sé invitommi, e a mensa
Come
alle greppie inconsapevol bue,
L'empio
mi trucidò. Così morìi
Di
morte infelicissima; e non lunge
Gli
amici mi cadean, quai per illustri
Nozze,
o banchetto sontuoso, o lauta
A
dispendio comun mensa imbandita,
Cadono
i verri dalle bianche sanne.
Benché
molti a' tuoi giorni o in folta pugna;
Vedessi
estinti, o in singolar certame,
Non
solita pietà tocco t'avrebbe,
Noi
mirando, che stesi all'ospitali
Coppe
intorno eravam, mentre correa
Purpureo
sangue il pavimento tutto.
La
dolente io sentìi voce pietosa
Della
figlia di Priamo, di Cassandra,
Cui
Clitennestra m'uccidea da presso,
La
moglie iniqua; ed io, giacendo a terra,
Con
moribonda man cercava il brando:
Ma la
sfrontata si rivolse altrove,
Né gli
occhi a me, che già scendea tra l'Ombre
Chiudere,
né compor degnò le labbra.
No: più
rea peste, più crudel non dassi
Di
donna, che sì atroci opre commetta,
Come
questa infedel, che il danno estremo
Tramò,
cui s'era vergine congiunta.
Lasso!
dove io credea che, ritornando,
Figliuoli
e servi m'accorrìan con festa,
Costei,
che tutta del peccar sa l'arte,
Si
ricoprì d'infamia, e quante al mondo
Verranno,
e le più oneste anco, ne asperse".
"Oh
quanta", io ripigliai, "sovra gli Atridi
Le
femmine attirâro ira di Giove!
Fu di
molti de' Greci Elena strage!
E a te,
cogliendo l'assenza il tempo,
Funesta
rete Clitennestra tese".
"Quindi
troppa tu stesso", ei rispondea,
"Con
la tua donna non usar dolcezza,
Né il
tutto a lei svelar, ma parte narra
De'
tuoi secreti a lei, parte ne taci,
Benché
a te dalla tua venir disastro
Non
debba: ché Penelope, la saggia
Figlia
d'Icario, altri consigli ha in core.
Moglie
ancor giovinetta, e con un bimbo,
Che
dalla mamma le pendea contento,
Tu la
lasciavi, navigando a Troia:
Ed oggi
il tuo Telemaco felice
Già
s'asside uom tra gli uomini, e il diletto
Padre
lui vedrà, un giorno, ed egli al padre
Giusti
baci porrà sovra la fronte.
Ma la
consorte mia né questo almeno
Mi
consentì, ch'io satollassi gli occhi
Nel
volto del mio figlio, e pria mi spense.
Credi
al fine a' miei detti, e ciò nel fondo
Serba
del petto: le native spiagge
Secretamente
afferra, e a tutti ignoto,
Quando
fidar più non si puote in donna.
Or ciò
mi conta, e schiettamente: udisti,
Dove
questo mio figlio i giorni tragga?
In
Orcomeno forse? O forse tienlo
Pilo
arenosa, o la capace Sparta
Presso
re Menelao? Certo non venne
Finor
sotterra il mio gentil Oreste".
Ed io:
"Perché di ciò domandi, Atride,
Me, cui
né conto è pur se Oreste spira
Le
dolci aure di sopra, o qui soggiorna?
Lode
non merta il favellare al vento".
Così
parlando alternamente, e il volto
Di
lagrime rigando, e il suol di Dite,
Ce ne
stavam disconsolati: ed ecco
Sorger
lo spirto del Pelìade Achille,
Di
Patroclo, d'Antìloco e d'Aiace,
Che gli
Achei tutti, se il Pelìde togli,
Di
corpo superava e di sembiante.
Mi
riconobbe del veloce al corso
Eacide
l'imago; e, lamentando:
O,
disse, di Laerte inclita prole,
Qual
nuova in mente, sciagurato, volgi
Macchina,
che ad ogni altra il pregio scemi?
Come
osasti calar ne' foschi regni,
Degli
estinti magion, che altro non sono
Che
aeree forme e simulacri ignudi? "
"Di
Peleo", io rispondea, "figlio, da cui
Tanto
spazio rimase ogni altro Greco,
Tiresia
io scesi a interrogar, che l'arte
Di
prender m'insegnasse Itaca alpestre
Sempre
involto ne' guai, l'Acaica terra
Non
vidi ancor, né il patrio lido attinsi.
Ma di
te, forte Achille, uom più beato
Non fu,
né giammai fia. Vivo d'un nume
T'onoravamo
al pari, ed or tu regni
Sovra i
defunti. Puoi tristarti morto?"
"Non
consolarmi della morte", a Ulisse
Replicava
il Pelìde. "Io pria torrei
Servir
bifolco per mercede, a cui
Scarso
e vil cibo difendesse i giorni,
Che del
Mondo defunto aver l'impero.
Su via,
ciò lascia, e del mio figlio illustre
Parlami
in vece. Nelle ardenti pugne
Corre
tra i primi avanti? E di Pelèo
Del mio
gran genitor, nulla sapesti?
Sieguon
fedeli a reverirlo i molti
Mirmìdoni,
o nell'Ellada ed in Ftia
Spregiato
vive per la troppa etade,
Che le
membra gli agghiaccia? Ahi! che guardarlo
Sotto i
raggi del Sol più non mi lice:
Ché
passò il tempo che la Troica sabbia
D'esanimi
io covrìa corpi famosi,
Proteggendo
gli Achei. S'io con la forza
Che a
que' giorni era in me, toccar potessi
Per un
istante la paterna soglia,
A
chïunque oltraggiarlo, e degli onori
Fraudarlo
ardisse, questa invitta mano
Metterebbe
nel core alto spavento.
Nulla,
io risposi, di Pelèo, ma tutto
Del
figliuol posso, e fedelmente, dirti,
Di
Neottolemo tuo, che all'oste Achiva
Io
stesso sopra cava e d'uguai fianchi
Munita
nave rimenai da Sciro.
Sempre
che ad Ilio tenevam consulte,
Primo
egli a favellar s'alzava in piedi,
Né mai dal
punto devïava; soli
Gareggiavam
con lui Nestore ed io.
Ma dove
l'armi si prendean, confuso
Già non
restava in fra la turba, e ignoto:
Precorrea
tutti, e di gran lunga, e intere
Le
falangi struggea. Quant'ei mandasse
Propugnacol
de' Greci, anime all'Orco,
Da me
non t'aspettare. Abbiti solo,
Che il
Telefìde Eurìpilo trafisse
Fra i
suoi Cetèi, che gli morìano intorno;
Euripilo
di Troia ai sacri muri
Per la
impromessa man d'una del rege
Figlia
venuto, ed in quell'oste intera,
Dopo il
deiforme Mènnone, il più bello.
Che del
giorno dirò, che il fior de' Greci
Nel
costrutto da Epèo cavallo salse,
Che in
cura ebb'io, poiché a mia voglia solo
Aprìasi,
o rinchiudeasi, il cavo agguato?
Tergeansi
capi e condottier con mano
Le
umide ciglia, e le ginocchia sotto
Tremavano
a ciascun; né bagnare una
Lagrima
a lui, né di pallore un'ombra
Tingere
io vidi la leggiadra guancia.
Bensì
prieghi porgeami onde calarsi
Giù del
cavallo, e della lunga spada
Palpeggiava
il grand'else, e l'asta grave
Crollava,
mali divisando a Troia
Poi la
cittade incenerita, in nave
Delle
spoglie più belle adorno e carco
Montava,
e illeso: quando lunge, o presso,
Di
spada, o stral, non fu giammai chi vanto
Del
ferito Neottòlemo si desse".
Dissi,
e d'Achille alle veloci piante
Per li
prati d'asfodelo vestiti
L'alma
da me sen giva a lunghi passi,
Lieta,
che udì del figliuol suo la lode.
D'altri
guerrieri le sembianze tristi
Compariano;
e ciascun suoi guai narrava.
Sol
dello spento Telamonio Aiace
Stava
in disparte il disdegnoso spirto
Perché
vinto da me nella contesa
Dell'armi
del Pelide appo le navi.
Teti,
la madre veneranda, in mezzo
Le
pose, e giudicaro i Teucri e Palla.
Oh
côlta mai non avess'io tal palma,
Se
l'alma terra nel suo vasto grembo
Celar
dovea sì glorïosa testa,
Aiace,
a cui d'aspetto e d'opre illustri,
Salvo
l'irreprensibile Pelìde
Non fu
tra i Greci chi agguagliarsi osasse!
Io con
blande parole: "Aiace", dissi,
"Figlio
del sommo Telamon, gli sdegni
Per
quelle maledette arme concetti
Dunque
né morto spoglierai? Fatali
Certo
reser gli dèi quell'arme ai Greci,
Che in
te perdero una sì ferma torre.
Noi per
te nulla men, che per Achille,
Dolenti
andiam; né alcuno n'è in colpa, il credi:
Ma
Giove, che infinito ai bellicosi
Danai
odio porta, la tua morte volle.
Su via,
t'accosta, o re, porgi cortese
L'orecchio
alle mie voci, e la soverchia
Forza
del generoso animo doma".
Nulla
egli a ciò: ma, ritraendo il piede,
Fra
l'altre degli estinti Ombre si mise:
Pur,
seguendolo io quivi, una risposta
Forse
data ei m'avrìa; se non che voglia
Altro
di rimirar m'ardea nel petto.
Minosse
io vidi, del Saturnio il chiaro
Figliuol,
che assiso in trono, e un aureo scettro
Stringendo
in man, tenea ragione all'ombre
Che
tutte, qual seduta e quale in piedi,
Conti
di sé rendeangli entro l'oscura
Di
Pluto casa dalle larghe porte.
Vidi il
grande Orïòn, che delle fiere,
Che
uccise un dì sovra i boscosi monti,
Or gli
spettri seguìa de' prati inferni
Per
l'asfodelo in caccia; e maneggiava
Perpetua
mazza d'infrangibil rame.
Ecco
poi Tizio, della Terra figlio,
Che
sforzar non temé l'alma di Giove
Sposa,
Latona, che volgeasi a Pito
Per le
ridenti Panopèe campagne.
Sul
terren distendevasi, e ingombrava
Quando
in dì nove ara di tauri un giogo:
E due
avvoltoi, l'un quinci, e l'altro quindi,
Ch'ei
con mano scacciar tentava indarno
rodeangli
il cor, sempre ficcando addentro
Nelle
fibre rinate il curvo rostro.
Stava
là presso con acerba pena
Tantalo
in piedi entro un argenteo lago,
La cui
bell'onda gli toccava il mento.
Sitibondo
mostravasi, e una stilla
Non ne
potea gustar: ché quante volte
Chinava
il veglio le bramose labbra,
Tante
l'onda fuggìa dal fondo assorta,
Sì che
apparìagli ai piè solo una bruna
Da un
Genio avverso inaridita terra.
Piante
superbe, il melagrano, il pero,
E di
lucide poma il melo adorno,
E il
dolce fico, e la canuta oliva,
Gli
piegavan sul capo i carchi rami;
E in
quel ch'egli stendea dritto la destra
Vêr le
nubi lanciava i rami il vento.
Sìsifo
altrove smisurato sasso
Tra
l'una e l'altra man portava, e doglia
Pungealo
inenarrabile. Costui
La gran
pietra alla cima alta d'un monte,
Urtando
con le man, coi piè pontando,
Spingea:
ma giunto in sul ciglion non era,
Che,
risospinta da un poter supremo,
Rotolavasi
rapida pel chino
Sino
alla valle la pesante massa.
Ei
nuovamente di tutta sua forza
Su la
cacciava: dalle membra a gronde
Il
sudore colavagli, e perenne
Dal
capo gli salìa di polve un nembo.
D'Ercole
mi s'offerse al fin la possa,
Anzi il
fantasma: però ch'ei de' numi
Giocondasi
alla mensa e cara sposa
Gli
siede accanto la dal piè leggiadro
Ebe, di
Giove figlia e di Giunone,
Che
muta il passo, coturnata d'oro.
Schiamazzavan
gli spirti a lui d'intorno,
Come
volanti augei da subitana
Tema
compresi; ed ei fosco, qual notte,
Con
l'arco in mano, e con lo stral sul nervo,
Ed in
atto ad ognor di chi saetta,
Orrendamente
qua e là guatava.
Ma il
petto attraversavagli una larga
D'ôr
cintura terribile, su cui
Storïate
vedeansi opre ammirande,
Orsi,
cinghiai feroci e leon torvi,
E
pugne, e stragi, e sanguinose morti;
Cintura,
a cui l'eguale, o prima o dopo,
Non
fabbricò, qual che si fosse, il mastro.
Mi
sguardò, riconobbemi, e con voce
Lugubre:
"O", disse, "di Laerte figlio,
Ulisse
accorto, ed infelice a un'ora,
Certo
un crudo t'opprime avverso fato,
Qual
sotto i rai del Sole anch'io sostenni.
Figliuol
quantunque dell'Egìoco Giove,
Pur,
soggetto vivendo ad uom che tanto
Valea
manco di me, molto io soffersi.
Fatiche
gravi ei m'addossava, e un tratto
Spedimmi
a quinci trarre il can trifauce,
Che la
prova di tutte a me più dura
Sembravagli;
ed io venni, e quinci il cane
Trifauce
trassi ripugnante indarno,
D'Ermete
col favore e di Minerva".
Tacque,
e nel più profondo Erebo scese.
Di loco
io non moveami, altri aspettando
De'
prodi, che spariro, è omai gran tempo.
E que'
due forse mi sarien comparsi,
Ch'io
più veder bramava, eroi primieri,
Teseo e
Piritoo, glorïosa prole
Degl'immortali
dèi. Ma un infinito
Popol
di spirti con frastuono immenso
Si
ragunava; e in quella un improvviso
Timor
m'assalse, non l'orribil testa
Della
tremenda Gòrgone la diva
Proserpina
invïasse a me dall'Orco.
Dunque
senza dimora al cavo legno
Mossi,
e ai compagni comandai salirlo,
E
liberar le funi; ed i compagni
Ratto
il salìano, e s'assidean su i banchi.
Pria
l'aleggiar de' remi il cavo legno
Mandava
innanzi d'Ocean su l'onde:
Poscia
quel, che levossi, ottimo vento.
LIBRO
XII
Poiché
la nave uscì dalle correnti
Del
gran fiume Oceàno, ed all'Eèa
Isola
giunse nell'immenso mare,
Là 've
gli alberghi dell'Aurora e i balli
Sono, e
del sole i lucidi Levanti,
Noi
dalla nave, che fu in secco tratta,
Scesi,
e corcati su la muta spiaggia,
Aspettammo
dell'alba il sacro lume.
Ma come
del mattin la bella figlia
Colorò
il ciel con le rosate dita,
Di
Circe andaro alla magione alcuni,
Che
dell'estinto Elpenore la fredda
Spoglia
ne riportassero. Troncammo
Frassini
e abeti, e all'infelice amico,
Dolenti
il core, e lagrimosi il ciglio,
L'esequie
femmo, ove sporgea più il lido.
Né
prima il corpo e le armi ebbe arse il foco,
Che
noi, composto un tumulo, ed eretta
SOpravi
una colonna, il ben formato
Remo
infiggemmo della tomba in cima.
Mentr'eravamo
al trist'ufficio intenti,
Circe,
che d'Aide ci sapea tornati,
S'adornò
e venne in fretta, e con la dea
Venner
d'un passo le serventi ninfe,
Forza
di carni e pan seco recando,
E rosso
vino, che le vene infiamma.
L'inclita
tra le dee stava nel mezzo,
E così
favellava: "O sventurati,
Che in
carne viva nel soggiorno entraste
D'Aide,
e di cui la sorte è due fiate
Morir,
quando d'ogni altro uomo è una sola.
Su via,
tra i cibi scorra ed i licori
Tutto a
voi questo dì su le mie rive.
Come
nel ciel rosseggerà l'Aurora,
Navigherete;
ma il cammino, e quanto
Di
saper v'è mestieri, udrete in prima,
Sì che
non abbia per un mal consiglio
Grave
in terra, od in mare, a incorvi danno".
Chi
persuaso non sarìasi? Quindi
Tra
lanci piene e coronate tazze,
Finché
il sol si mostrò, sedemmo a mensa.
Il sol
celato ed imbrunito il mondo,
Si
colcaro i compagni appo la nave.
Ma
Circe me prese per mano, e trasse
Da
parte, e a seder pose; indi, seduta
Di
contra, interrogommi, ed io su tutto
La
satisfeci pienamente. Allora
Tai
parole sciogliea l'illustre diva:
"Tu
compiesti ogni cosa. Or quello ascolta,
Ch'io
vo' manifestarti, e che al bisogno
Ti
torneranno nella mente i numi.
Alle
Sirene giungerai da prima,
Che
affascìnan chïunque i lidi loro
Con la
sua prora veleggiando tocca.
Chïunque
i lidi incautamente afferra
Delle
Sirene, e n'ode il canto, a lui
Né la
sposa fedel, né i cari figli
Verranno
incontro su le soglie in festa.
Le
Sirene sedendo in un bel prato,
Mandano
un canto dalle argute labbra,
Che
alletta il passeggier: ma non lontano
D'ossa
d'umani putrefatti corpi
E di
pelli marcite, un monte s'alza.
Tu
veloce oltrepassa, e con mollita
Cera
de' tuoi così l'orecchio tura,
Che non
vi possa penetrar la voce.
Odila
tu, se vuoi; sol che diritto
Te
della nave all'albero i compagni
Leghino,
e i piedi stringanti, e le mani;
Perché
il diletto di sentir la voce
Delle
Sirene tu non perda. E dove
Pregassi
o comandassi a' tuoi di sciorti,
Le
ritorte raddoppino ed i lacci.
Poiché
trascorso tu sarai, due vie
Ti
s'apriranno innanzi; ed io non dico,
Qual
più giovi pigliar, ma, come d'ambo
Ragionato
t'avrò, tu stesso il pensa.
Vedrai
da un lato discoscese rupi
Sovra
l'onde pendenti, a cui rimbomba
Dell'azzurra
Anfitrite il salso fiotto.
Gl'Iddii
beati nella lor favella
Chiàmanle
Erranti. Non che ogni altro augello,
Trasvolarle
non sanno impunemente
Né le
colombe pur, che al padre Giove
Recan
l'ambrosia: la polita pietra
Sempre
alcuna ne fura, e della spenta
Surroga
invece altra colomba il padre.
Nave
non iscampò dal periglioso
Varco
sin qui: ché de' navigli tutti
Le
tavole del pari e i naviganti
Sen
porta il vincitor flutto, e la pregna
Di
mortifero foco atra procella.
Sola
quell'Argo che solcava il mare,
Degli
uomini pensiero e degli dèi
Trapassar
valse, navigando a Colco:
E se
non che Giunon, cui molto a cuore
Giasone
stava, di sua man la spinse,
Quella
non meno avrìan contra le vaste
Rupi
cacciata i tempestosi flutti.
Dall'altra
parte havvi due scogli: l'uno
Va sino
agli astri, e fosca nube il cinge
Né su
l'acuto vertice, l'estate
Corra o
l'autunno, un puro ciel mai ride.
Montarvi
non potrebbe altri, o calarne,
Venti
mani movesse e venti piedi:
Sì
liscio è il sasso e la costa superba.
Nel
mezzo, vôlta all'occidente e all'orco,
S'apre
oscura caverna, a cui davanti
Dovrai
ratto passar; giovane arciero
Che
dalla nave disfrenasse il dardo,
Non
toccherebbe l'incavato speco.
Scilla
ivi alberga, che moleste grida
Di
mandar non ristà. La costei voce
Altro
non par che un guaiolar perenne
Di
lattante cagnuol: ma Scilla è atroce
Mostro,
e sino ad un dio, che a lei si fesse,
Non
mirerebbe in lei senza ribrezzo.
Dodici
ha piedi, anterïori tutti,
Sei
lunghissimi colli, e su ciascuno
Spaventosa
una testa, e nelle bocche
Di
spessi denti un triplicato giro,
E la
morte più amara in ogni dente.
Con la
metà di sé nell'incavato
Speco
profondo ella s'attuffa, e fuori
Sporge
le teste, riguardando intorno
Se
delfini pescar, lupi, o alcun puote
Di que'
mostri maggior che a mille a mille
Chiude
Anfitrite nei suoi gorghi e nutre.
Né mai
nocchieri oltrepassaro illesi:
Poiché
quante apre disoneste bocche,
Tanti
dal cavo legno uomini invola.
Men
l'altro s'alza contrapposto scoglio
E il
dardo tuo ne colpirìa la cima.
Grande
verdeggia in questo e d'ampie foglie
Selvaggio
fico; e alle sue falde assorbe
La
temuta Cariddi il negro mare.
Tre
fiate il rigetta, e tre nel giorno
L'assorbe
orribilmente. Or tu a Cariddi
Non
t'accostar mentre il mar negro inghiotte;
Ché mal
saprìa dalla ruina estrema
Nettuno
stesso dilivrarti. A Scilla
Tienti
vicino, e rapido trascorri.
Perder
sei de' compagni entro la nave
Torna
più assai, che perir tutti a un tempo".
Tal
ragionava; ed io: "Quando m'avvegna
Schivare,
o Circe, la fatal Cariddi,
Respinger,
dimmi il ver, Scilla non deggio,
Che gli
amici a distruggermi s'avventa?"
"O
sventurato", rispondea la diva
Dunque
le pugne in mente ed i travagli
Rivolgi
ancor, né ceder pensi ai numi?
Cosa
mortal credi tu Scilla? Eterno
Credila,
e duro, e faticoso, e immenso
Male,
ed inespugnabile, da cui
Schermo
non havvi, e cui fuggir fia ìl meglio
Se
indugi, e vesti appo lo scoglio l'armi,
Sbucherà,
temo, ad un secondo assalto,
E tanti
de' compagni un'altra volta
Ti
rapirà, quante spalanca bocche.
Vola
dunque sul pelago, e la madre
Cratèi,
che al mondo generò tal peste,
E
ritenerla, che a novella preda
Non si
slanci, potrà, nel corso invoca.
Allora
incontro ti verran le belle
Spiagge
della Trinacria isola, dove
Pasce
il gregge del Sol, pasce l'armento:
Sette
branchi di buoi, d'agnello tanti,
E di
teste cinquanta i branchi tutti.
Non
cresce, o scema, per natale o morte,
Branco;
e le Dive sono i lor pastori
Faetusa
e Lampezie il crin ricciute
Che
partorì d'Iperïone al figlio
Ninfe
leggiadre, la immortal Neera.
Come
l'augusta madre ambo le ninfe
Dopo il
felice parto ebbe nodrite,
A
soggiornar lungi da sé mandolle
Nella
Trinacria; e le paterne vacche
Dalla
fronte lunata, ed i paterni
Monton
lucenti a custodir lor diede.
Pascoleranno
intatti e a voi soltanto
Calerà
del ritorno? il suol nativo,
Non
però senza guai, fiavi concesso.
Ma se
giovenca molestaste od agna,
Sterminio
a te predìco, al legno e a' tuoi
E
pognam, che tu salvo ancor ne andassi,
Riederai
tardi, e a gran fatica, e solo".
Disse;
e sul trono d'ôr l'Aurora apparve.
Circe,
non molto poi, da me rivolse
Per
l'isola i suoi passi; ed io, trovata
La
nave, a entrarvi e a disnodar la fune
Confortava
i compagni; ed i compagni
V'entraro,
e s'assidean su i banchi, e assisi
Fean
co' remi nel mar spume d'argento.
La dea
possente ci spedì un amico
Vento
di vela gonfiator, che fido
Per
l'ondoso cammin ne accompagnava:
Sì che,
deposti nella negra nave
Dalla
prora cerulea i lunghi remi,
Sedevamo,
di spingerci e guidarci
Lasciando
al timonier la cura e al vento.
Qui,
turbato del core: "Amici", io dissi,
Degno
mi par che a tutti voi sia conto
Quel
che predisse a me l'inclita Circe.
Scoltate
adunque, acciocché, tristo o lieto,
Non ci
sorprenda ignari il nostro fato.
Sfuggire
in pria delle Sirene il verde
Prato e
la voce dilettosa ingiunge.
Vuole
ch'io l'oda io sol: ma voi diritto
Me
della nave all'albero legate
Con
fune sì, ch'io dar non possa un crollo;
E dove
di slegarmi io vi pregassi
Pur con
le ciglia, o comandassi, voi
Le
ritorte doppiatemi ed i lacci".
Mentre
ciò loro io discoprìa, la nave,
Che
avea da poppa il vento, in picciol tempo
Delle
Sirene all'isola pervenne.
Là il
vento cadde, ed agguagliossi il mare,
E
l'onde assonnò un demone. I compagni
Si
levâr pronti, e ripiegâr le vele,
E nella
nave collocarle: quindi
Sedean
sui banchi ed imbiancavan l'onde
Co'
forti remi di polito abete.
Io la
duttile cera, onde una tonda
Tenea
gran massa, sminuzzai con destro
Rame
affilato; ed i frammenti n'iva
Rivoltando
e premendo in fra le dita.
Né a
scaldarsi tardò la molle pasta;
Perocché
lucidissimi dall'alto
Scoccava
i rai d'Iperïone il figlio.
De'
compagni incerai senza dimora
Le
orecchie di mia mano; e quei diritto
Me
della nave all'albero legaro
Con
fune, i piè stringendomi e le mani.
Poi su
i banchi adagiavansi, e co' remi
Batteano
il mar, che ne tornava bianco.
Già,
vogando di forza, eravam quanto
Corre
un grido dell'uomo, alle Sirene
Vicini.
Udito il flagellar de' remi,
E non
lontana omai vista la nave,
Un
dolce canto cominciaro a sciorre:
"O
molto illustre Ulisse, o degli Achei
Somma
gloria immortal, su via, qua vieni,
Ferma
la nave; e il nostro canto ascolta.
Nessun
passò di qua su negro legno,
Che non
udisse pria questa che noi
Dalle
labbra mandiam, voce soave;
Voce,
che innonda di diletto il core,
E di
molto saver la mente abbella.
Ché non
pur ciò, che sopportaro a Troia
Per
celeste voler Teucri ed Argivi,
Noi
conosciam, ma non avvien su tutta
La
delle vite serbatrice terra
Nulla,
che ignoto o scuro a noi rimanga".
Cosi
cantaro. Ed io, porger volendo
Più da
vicino il dilettato orecchio,
Cenno
ai compagni fea, che ogni legame
Fossemi
rotto; e quei più ancor sul remo
Incurvavano
il dorso, e Perimede
Sorgea
ratto, ed Euriloco, e di nuovi
Nodi
cingeanmi, e mi premean più ancora.
Come
trascorsa fu tanto la nave,
Che non
potea la perigliosa voce
Delle
Sirene aggiungerci, coloro
A sé la
cera dall'orecchio tosto,
E dalle
membra a me tolsero i lacci.
Già
rimanea l'isola indietro; ed ecco
Denso
apparirmi un fumo e vasti flutti,
E gli
orecchi intronarmi alto fragore.
Ne
sbigottiro i miei compagni, e i lunghi
Remi di
man lor caddero, e la nave,
Che de'
fidi suoi remi era tarpata,
Là immantinente s'arrestò. Ma io
Di su,
di giù, per la corsìa movendo,
E con
blanda favella or questo, or quello
De'
compagni abbordando: "O", dissi, "meco
Sin qua
passati per cotanti affanni,
Non ci
sovrasta un maggior mal, che quando
L'infinito
vigor di Polifemo
Nell'antro
ci chiudea. Pur quinci ancora
Col
valor mio vi trassi, e col mio senno,
E vi
fia dolce il rimembrarlo un giorno.
Via,
dunque, via, ciò ch'io comando, tutti
Facciam:
voi, stando sovra i banchi, l'onde
Percotete
co' remi, e Giove, io spero,
Concederà
dalle correnti scampo.
Ma tu,
che il timon reggi, abbiti in mente
Questo,
né l'obblïar: guida il naviglio
Fuor
del fumo e del fiotto, ed all'opposta
Rupe
ognor mira e ad essa tienti, o noi
Getterai
nell'orribile vorago".
Tutti
alla voce mia ratto ubbidiro.
Se non
ch'io Scilla, immedicabil piaga,
Tacqui,
non forse, abbandonati i banchi,
L'un
sovra l'altro per soverchia tema
Della
nave cacciassersi nel fondo.
E qui,
di Circe, che vietommi l'arme,
Negletto
il disamabile comando,
Io
dell'arme vestìami, e con due lunghe
Nell'impavida
mano aste lucenti
Salìa
sul palco della nave in prua,
Attendendo
colà, che l'efferata
Abitatrice
dell'infame scoglio
Indi,
gli amici a m'involar, sbalzasse:
Né,
perché del ficcarli in tutto il bruno
Macigno
stanchi io mi sentissi gli occhi,
Da
parte alcuna rimirarla io valsi.
Navigavamo
addolorati intanto
Per
l'angusto sentier: Scilla da un lato,
Dall'altro
era l'orribile Cariddi,
Che del
mare inghiottia l'onde spumose.
Sempre
che rigettavale, siccome
Caldaia
in molto rilucente foco,
Mormorava
bollendo; e i larghi sprazzi,
Che
andavan sino al cielo, in vetta d'ambo
Gli
scogli ricadevano. Ma quando
I salsi
flutti ringhiottiva, tutta
Commovéasi
di dentro, ed alla rupe
Terribilmente
rimbombava intorno,
E,
l'onda il seno aprendo, un'azzurrigna
Sabbia
parea nell'imo fondo: verdi
Le
guance di paura a tutti io scôrsi.
Mentre
in Cariddi tenevam le ciglia,
Una
morte temendone vicina,
Sei de'
compagni, i più di man gagliardi,
Scilla
rapimmi dal naviglio. Io gli occhi
Torsi,
e li vidi che levati in alto
Braccia
e piedi agitavano, ed Ulisse
Chiamavan,
lassi!, per l'estrema volta.
Qual
pescatore che su pendente rupe
Tuffa
di bue silvestre in mare il corno
Con
lunghissima canna, un'infedele
Esca ai
minuti abitatori offrendo,
E fuor
li trae dall'onda, e palpitanti
Scagliali
sul terren: non altrimenti
Scilla
i compagni dal naviglio alzava
E
innanzi divoravali allo speco,
Che
dolenti mettean grida, e le mani
Nel
gran disastro mi stendeano indarno.
Fra i
molti acerbi casi, ond'io sostenni,
Solcando
il mar, la vista, oggetto mai
Di
cotanta pietà non mi s'offerse.
Scilla
e Cariddi oltrepassate, in faccia
La
feconda ci apparve isola amena,
Ove il
gregge del Sol pasce e l'armento;
E ne
giungean dall'ampie stalle a noi
I
belati su l'aure ed i muggiti.
Gli
avvisi allor mi si svegliaro in mente
Del
Teban vate e della maga Circe,
Ch'io
l'isola schivar del Sol dovessi,
Di cui
rallegra ogni vivente il raggio.
Ond'io:
"Compagni, lor dicea, per quanto
Siate
angosciati, la sentenza udite
Del
Teban vate e della maga Circe,
Ch'io l'isola
schivar debba del Sole,
Di cui
rallegra ogni vivente il raggio.
Circe
affermava che il maggior de' guai
Quivi
c'incoglieria. Lasciarla indietro
Ci
convien dunque con la negra nave".
Colpo
tai detti fûr quasi mortale.
Né a
molestarmi Euriloco in tal guisa
Tardava:
"Ulisse, un barbaro io ti chiamo,
Perché
di forze abbondi, e mai non cedi,
Né
fibra è in te che non sia ferro, a' tuoi
Contendi
il toccar terra, e di non parca
Cena
sul lido ristorarsi. Esigi
Che in
mezzo le notturne ombre su questo
Pelago
a caso erriam, benché la notte
Gravi
produca disastrosi venti.
Or chi
fuggir potrà l'ultimo danno
Dove
repente un procelloso fiato
Di
Mezzodì ci assalga, o di Ponente,
Che de'
numi anco ad onta, il legno sperda?
S'obbedisca
oggi alla divina notte,
E la
cena nell'isola s'appresti.
Come il
dì spunti, salirem di nuovo
La
nave, e nell'immensa onda entreremo".
Questa
favella con applauso accolta
Fu dai
compagni ad una; ed io ben m'avvidi
Che
mali un genio prepotente ordìa:
"Euriloco",
io risposi, "oggimai troppa,
Tutti
contra ad un sol, forza mi fate.
Giurate
almeno, e col più saldo giuro,
Che, se
greggi troviam, troviamo armenti,
Non sia
chi, spinto da stoltezza iniqua,
Giovenca
uccida, o pecorella offenda:
Ma
tranquilli di ciò pasteggerete,
Che in
don vi porse la benigna Circe".
Quelli
giuraro, e non sì tosto a fine
L'invïolabil
giuro ebber condotto,
Che la
nave nel porto appo una fonte
Fermâro,
e ne smontaro, e lauta cena
Solertemente
apparecchiâr sul lido.
Paga
delle vivande e de' licori
La
naturale avidità pungente,
Risovvenìansi
di color che Scilla
Dalla
misera nave alto rapiti
Vorossi,
e li piangean, finché discese
Su gli
occhi lagrimosi il dolce sonno.
Già
corsi avea del suo cammin due terzi
La
notte e dechinavano le stelle,
Quando
il cinto di nembi Olimpio Giove
Destò
un gagliardo, turbinoso vento,
Che la
terra coverse, e il mar di nubi,
E la
notte di cielo a piombo cadde.
Ma come
poi l'orocrinita Aurora
Colorò
il ciel con le rosate dita,
Tirammo
a terra il legno, e in cavo speco
De'
seggi ornato delle ninfe, ch'ivi
I lor
balli tessean, l'introducemmo.
Subito
io tutti mi raccolsi intorno
E:
"Compagni", diss'io, "cibo e bevanda
Restanci
ancor nella veloce nave.
Se non
vogliam perir, lungi, vedete,
La man
dal gregge e dall'armento; al Sole,
Terribil
dio, che tutto vede ed ode,
Pascono
i monton pingui e i bianchi tori".
Dissi;
e acchetârsi i generosi petti.
Per un
intero mese Austro giammai
Di
spirar non restava, e poscia fiato
Non
sorgea mai, che di Levante o d'Austro.
Finché
il pan non fallì loro ed il vino,
Ubbidïenti
e della vita avari,
Rispettavan
l'armento. E già la nave
Nulla
contenea più. Gìvano adunque,
Come il
bisogno li pungea, dispersi
Per
l'isola, d'augelli e pesci in traccia,
Con
archi ed ami, o di quale altra preda
Lor
venisse alle man; però che forte
Rodeali
dentro l'importuna fame.
Io, dai
compagni scevro, una remota
Cercai
del piede solitaria piaggia,
Gli
eterni a Supplicar, se alcun la via
Mi
dimostrasse del ritorno, e in parte
Giunto,
che d'aura non sentìasi colpo,
Sparsi
di limpid'onda, e a tutti alzai
Gli
abitanti del cielo ambo le palme.
Né
guari andò, che d'un tranquillo sonno
Gli
occhi ed il petto rïempièrmi i numi.
Eurìloco
frattanto un mal consiglio
Pose
innanzi ai compagni: "O da sì acerbe
Sciagure
oppressi, la mia voce udite.
Tutte
odïose certo ad uom le morti;
Ma
nulla tanto, che il perir di fame.
Che più
si tarda? Meniam via le belle
Giovenche,
e sagrifici ai numi offriamo.
Ché se
afferrar ci sarà dato i lidi
Nativi,
al Sole Iperïone un ricco
Tempio
illustre alzeremo, appenderemo
Molti alle
mura prezïosi doni.
E
dov'ei, per li buoi dalla superba
Testa
crucciato, sperder voglia il legno,
Né
alcun dio gli contrasti, io tolgo l'alma
Pria
tra i flutti esalar, che, su deserta
Isola
stando, intisichir più a lungo".
Disse:
e tutti assentìano. Incontanente
Del Sol
cacciate le più belle vacche
Di
fronte larga e con le corna in arco,
Che
dalla nave non pascean lontane,
Stavano
ad esse intorno, e, côlte prima,
Per
difetto che avean di candid'orzo,
Tenere
foglie di sublime quercia,
Voti
féano agli dèi. Compiuti i voti,
Le
vittime sgozzaro e le scoiaro,
E, le
cosce tagliatene, di zirbo
Le
copriro doppiate, e i crudi brani
Sopra
vi collocaro. Acqua, che il rosso
Vino
scusasse, onde patìan disagio,
Versavan
poi su i sagrifici ardenti,
E
abbrostìan tutti gl'intestini. Quindi,
Le
cosce omai combuste, ed assaggiate
Le
interïora, tutto l'altro in pezzi
Fu
messo, e infitto negli acuti spiedi;
E a me
uscì delle ciglia il dolce sonno.
Sorsi,
e alla nave in fretta io mi condussi.
Ma
vicina del tutto ancor non m'era,
Ch'io
mi sentii dall'avvampate carni
Muovere
incontro un odoroso vento,
E
gridai, lamentando, ai numi eterni:
"O
Giove padre, e voi, dèi sempre stanti,
Certo
in un crudo e fatal sonno voi
Mi
seppelliste, se doveasi intanto
Compier
da cotestoro un tal misfatto".
Nunzia
non tarda dell'ucciso armento,
Lampezie
al Sole andò, di lungo peplo
Coperta.
Il Sole, in grande ira montato,
Si
volse ai numi e: "Giove", disse, e voi
Tutti,
immortali dèi, paghino il fio
Del
Laerzìade Ulisse i rei compagni,
Che le
giovenche trucidarmi osaro,
Della
cui vista, o ch'io per la stellata
Volta
salissi, o discendessi, nuovo
Diletto
ciascun dì prendea il mio core.
Colpa e
pena in lor sia d'una misura:
O
calerò nella magion di Pluto,
E al
popol morto porterò mia luce".
E il
nimbifero Giove a lui rispose:
"Tra
gl'Immortali, o Sole, ed i mortali
Vibra
su l'alma terra, e in cielo, i raggi.
Io
senza indugio d'un sol tocco lieve
Del
fulmine affocato il lor naviglio
Sfracellerò
del negro mar nel seno".
Queste
cose Calipso un giorno udìa
Dal
messaggier Mercurio; e a me narrolle
La
ricciuta il bel crin ninfa Calipso.
Giunto
alla nave, io rampognavo or questo
De'
compagni, ed or quel: ma vïolato
L'armento
fu, né avea compenso il male.
Strani
prodigi intanto agl'infelici
Mostravano
gl'iddii: le fresche pelli
Strisciavan
sul terren, muggian le incotte
Carni e
le crude, agli schidoni intorno,
E de'
buoi lor sembrava udir la voce.
Pur del
fior dell'armento ancor sei giorni
Si
cibaro i colpevoli. Comparsa
La
settim'alba, il turbinoso vento
Stancossi:
e noi ci rimbarcammo, e, alzato
L'albero
prontamente, e dispiegate
Le
bianche vele, ci mettemmo in mare.
Di
vista già della Trinacria usciti,
Altro
non ci apparìa che il cielo e l'onda,
Quando
il Saturnio sul veloce legno
Sospese
in alto una cerulea nube,
Sotto
cui tutte intenebrârsi l'acque.
La nave
non correa che un tempo breve;
Poiché
ratto uno stridulo Ponente,
Infurïando,
imperversando, venne
Di
contra e ruppe con tremenda buffa
Le due
funi dell'albero, che a poppa
Cadde;
ed antenne in uno, e vele e sarte
Nella
sentina scesero. Percosse
L'alber,
cadendo, al timoniere in capo,
E
l'ossa fracassògli; ed ei da poppa
Saltò
nel mar, di palombaro in guisa,
E
cacciata volò dal corpo l'alma.
Ma
Giove che tonato avea più volte,
Scagliò
il fulmine suo contra la nave,
Che si
girò, dal fulmine colpita
Del
Saturnio, e s'empieo di zolfo tutta.
Tutti
fuor ne cascarono i compagni,
E ad
essa intorno l'ondeggiante sale,
Quai
corvi, li portava; e così Giove
Il
ritorno togliea loro, e la vita.
Io pel
naviglio su e giù movea,
Finché
gli sciolse la tempesta i fianchi
Dalla
carena, che rimase inerme.
Poi la
base dell'albero l'irata
Onda
schiantò: ma di taurino cuoio
Rivestìalo
una striscia, ed io con questa
L'albero
e la carena in un legai,
E sopra
mi v'assisi; e tale i venti
Esizïali
mi spingean su l'onde.
Zefiro
a un tratto rallentò la rabbia:
Se non
che sopraggiunse un Austro in fretta,
Che,
noiandomi forte in ver Cariddi
Ricondur
mi volea. L'intera notte
Scorsi
su i flutti; e col novello Sole
Tra la
grotta di Scilla, e la corrente
Mi
ritrovai della fatal vorago,
Che in
quel punto inghiottia le salse spume
Io,
slanciandomi in alto, a quel selvaggio
M'aggrappai
fico eccelso, e mi v'attenni,
Qual
vipistrello: ché né dove i piedi
Fermar,
né come ascendere, io sapea,
Tanto
eran lungi le radici, e tanto
Remoti
dalla mano i lunghi, immensi
Rami,
che d'ombra ricoprìan Cariddi.
Là
dunque io m'attenea bramando sempre,
Che
rigettati dall'orrendo abisso
Fosser
gli avanzi della nave. Al fine
Dopo un
lungo desìo vennero a galla.
Nella
stagion che il giudicante, sciolte
Varie
di caldi giovani contese,
Sorge
dal foro, e per cenar s'avvìa,
Dell'onde
usciro i sospirati avanzi.
Le
braccia apersi allora, e mi lasciai
Giù
piombar con gran tonfo all'onde in mezzo,
Non
lunge da que' legni, a cui m'assisi
Di
sopra, e delle man remi io mi feci.
Ma
degli uomini il padre e de' Celesti
Di
rivedermi non permise a Scilla;
Ché
toccata sarìami orrida morte.
Per
nove dì mi trabalzava il fiotto,
E la
decima notte i dèi sul lido
Mi
gettâr dell'Ogigia isola, dove
Calipso
alberga, la divina ninfa,
Che
raccoglieami amica, e in molte guise
Mi
confortava. Perché ciò ti narro?
Tai
cose, Alcinoo illustre, ieri le udivi,
Le udìa
con teco la tua casta donna,
E ciò
ridir, ch'io dissi, a me non torna".
LIBRO
XIII
Stavansi
tutti per l'oscura sala
Taciti,
immoti, e nel diletto assorti.
Così al
fine il silenzio Alcinoo ruppe:
"Poiché
alla mia venisti alta e di rame
Solido
e liscio edificata casa,
No,
Ulisse, non cred'io che al tuo ritorno
L'onde
t'agiteran, comunque afflitto
T'abbia
sin qui co' suoi decreti il fato.
Voi,
tutti, che vôtar nel mio palagio
Del
serbato ai più degni ardente vino
Solete
i nappi, ed ascoltare il vate,
L'animo
a quel ch'io vi dichiaro, aprite.
Le
vesti e l'oro d'artificio miro,
E ogni
altro don, che de' Feaci i capi
Recâro
al forestier, l'arca polìta
Già nel
suo grembo accolse. Or d'un treppiede
Anco e
d'un'urna il presentiam per testa;
Indi
farem che tutta in questi doni,
Di cui
male potremmo al grave peso
Regger
noi soli, la città concorra".
Disse;
e piacquero i detti, e al proprio albergo
Ciascun
le piume a ritrovar si volse.
Ma come
del mattin la bella figlia
Aperse
il ciel con le rosate dita,
Vêr la
nave affrettavansi, portando
Il bel,
che onora l'uom, bronzo foggiato.
Lo
stesso re, ch'entrò per questo in nave,
Attentamente
sotto i banchi il mise,
Onde,
mentre daran de' remi in acqua,
Non
impedisse alcun de' Feacesi
Giovani,
e l'offendesse urna o treppiede.
Né di
condursi al real tetto, dove
La
mensa gli attendea, tardaro i prenci.
Per lor
d'Alcinoo la sacrata possa
Un bue
quel giorno uccise al ghirlandato
D'atre
nubi Signor dell'Universo.
Arse le
pingui cosce, un prandio lauto
Celebran
lietamente; e il venerato
Dalla
gente Demodoco, il divino
Cantor,
percuote la sonante cetra.
Ma
Ulisse il capo alla dïurna lampa
Spesso
torcea, se tramontasse al fine;
Ché il
ritorno nel cor sempre gli stava.
Quale a
villan, che dalla prima luce
Co'
negri tori e col pesante aratro
Un
terren franse riposato e duro,
Cade
gradito il Sole in occidente,
Pel
desìo della cena, a cui s'avvia
Con le
ginocchia, che gli treman sotto:
Tal
cadde a Ulisse in occidente il sole.
Tosto
agli amanti del remar Feaci,
E al
re, più che ad altrui, così drizzossi:
"Facciansi,
Alcinoo, i libamenti, e illeso
Mandatemi;
e gl'iddii vi guardin sempre.
Tutti
ho già i miei desir: pronta è la scorta,
E della
nave in sen giacciono i doni,
Da cui
vogliano i dèi che pro mi vegna.
Vogliano
ancor, che in Itaca l'egregia
Consorte
io trovi, e i cari amici in vita.
Voi,
restandovi qui, serbate in gioia
Quelle,
che uniste a voi, vergini spose,
E i
dolci figli che ne aveste: i numi
V'ornin
d'ogni virtù, né possa mai
I dì
vostri turbar pubblico danno".
Tacque;
e applaudìa ciascuno, e molto instava
Si
compiacesse allo stranier, da cui
Uscita
era sì nobile favella.
Ed
Alcinoo all'araldo allor tai detti:
"Pontonoo,
il vino mesci, e a tutti in giro
Porgilo,
acciò da noi, pregato Giove,
S'accommiati
oggimai l'ospite amico".
Mescé
l'araldo il vino, e il porse in giro;
E tutti
dai lor seggi agl'immortali
Numi
libaro. Ma il divino Ulisse
Sorse,
e d'Arete in man gemina pose
Tazza
rotonda, e tai parole sciolse:
"Vivi
felici dì, Regina illustre,
Finché
vecchiezza ti sorprenda, e morte,
Comun
retaggio degli umani. Io parto:
Te del
popol, de' figli e del marito
Il
rispetto feliciti e l'amore".
Disse,
e varcò la soglia. Alcinoo innanzi
Muover
gli fece il banditor, che al ratto
Legno
li guidasse e al mare: e Arete dietro
Tre
serve gli spedì, l'un con tersa
Tunica
in mano ed un lucente manto,
L'altra
con la fedele arca, e con bianchi
pani la
terza e rosseggianti vini.
Tutto
da lor, come sul lido fûro,
I
remiganti tolsero, e nel fondo
Della
nave allogar: poi su la poppa
Steser
candidi lini e bella coltre,
Dove
tranquillo il forestier dormisse.
Vi
montò egli, e tacito corcossi.
E quei
sedean su i banchi, e, poiché sciolta
Dal
traforato sasso ebber la fune,
Fatigavan
co' remi il mar canuto.
Ma un
dolce sonno al Laerzïade, un sonno
Profondo,
ineccitabile, e alla morte
Per
poco egual, su le palpebre scese.
Come
talvolta in polveroso campo
Quattro
maschi destrieri a un cocchio aggiunti,
E tutti
dal flagel percossi a un tempo,
Sembran
levarsi nel vôto aere in alto,
E la
prescritta via compier volando:
Sì la
nave correa con alta poppa,
Dietro
da cui precipitava il grosso
Del
risonante mar flutto cilestro.
Correa
sicura, né l'avrìa sparviere,
Degli
augei velocissimo, raggiunta;
Con sì
celere prora i salsi flutti
Solcava,
un uom seco recando ai dii
Pari di
senno, che infiniti affanni
Durati
avea tra l'armi, avea tra l'onde,
E
allor, d'obblìo sparsa ogni cura, in braccio
D'un
sonno placidissimo giacea.
Quando
comparve quel sì fulgid'astro,
Che
della rosea Aurora è messaggiero,
La
ratta nave ad Itaca approdava.
Il
porto è qui del marin vecchio Forco,
Che due
sporgenti in mar lidi scoscesi,
E l'uno
all'altro ripieganti incontra,
Sì dal
vento riparano e dal fiotto,
Che di
fune mestier non v'han le navi.
Spande
sovra la cima i larghi rami
Vivace
oliva, e presso a questa un antro
S'apre
amabile, opaco, ed alle ninfe
Nàiadi
sacro. Anfore ed urne, in cui
Forman
le industri pecchie il mel soave,
Vi son
di marmo tutte, e pur di marmo
Lunghi
telai, dove purpurei drappi,
Maraviglia
a veder, tesson le ninfe.
Perenni
onde vi scorrono, e due porte
Mettono
ad esso: ad Aquilon si volge
L'una,
e schiudesi all'uom; l'altra, che Noto
Guarda,
ha più del divino, ed un mortale
Per lei
non varca: ella è la via de' numi.
In
questo porto ai Feacesi conto,
Dirittamente
entrò l'agile nave,
Che sul
lido andò mezza: di sì forti
Remigatori
la spingean le braccia!
Si
gittaro nel lido; e Ulisse in prima
Co'
bianchi lini e con la bella coltre
Sollevâr
dalla nave, e seppellito
Nel
sonno, siccom'era, in su l'arena
Poserlo
giù. Poi ne levaro i doni,
Ch'ei
riportò dalla Feacia gente,
Per
favor di Minerva, e al piede uniti
Li
collocaro della verde oliva,
Fuor
del cammin, non s'avvenisse in loro
Vïandante,
e la man su lor mettesse,
Mentre
l'eroe dormìa. Quindi ritorno
Fean
con la nave alla natìa contrada.
Nettuno
intanto, che serbava in mente
Le
minacce che un dì contra il divino
Laerzìade
scagliò, così il pensiero
Ne
spïava di Giove: "O Giove padre,
Chi più
tra i dèi m'onorerà, se onore
Nieganmi
i Feacesi, che mortali
Sono, e
a me dèon l'origine? Io credea
Che
della sua nativa isola ai sassi
Giunger
dovesse tra gli affanni Ulisse,
Cui non
invidïava io quel ritorno
Che tu
gli promettesti, e del tuo capo
Confermasti
col cenno. Ma i Feaci
Dormendo
il trasportâr su ratta nave,
E in
Itaca il deposero, e il colmâro
Di doni
in bronzo, e in oro, e in bei tessuti:
Ricchezza
immensa, e qual dall'arsa Troia
Recato
ei non avrìa, se con la preda,
Che gli
toccò, ne ritornava illeso".
"O
della terra scotitor possente",
Il
nubiadunator Giove rispose,
"Qual
parola parlasti? Alcun de' numi
Te in
dispregio non ha, né lieve fôra
Dispregiar
dio sì poderoso e antico.
Ma dove
uom troppo di suo forze altero
T'osasse
ingiurïar, tu ne puoi sempre
Qual
più t'aggradirà, prender vendetta".
"Mi
starei forse, o nubipadre Giove",
Nettun
riprese, "s'io dal tuo corruccio
Non mi
guardassi ognora? Io de' Feaci
Perché
di ricondur gli ospiti il vezzo
Pèrdano
al fin, strugger vorrei nel mare
L'inclita
nave ritornante; e in oltre
Grande
alla lor città montagna imporre".
"Ciò",
replicava il Nubipadre, "il meglio,
Ottimo
nume, anco a me sembra: quando
I
Feacesi scorgeran dal lido
Venir
la nave a tutto corso, e poco
Sarà
lontana, convertirla in sasso
Che di
naviglio abbia sembianza, e oggetto
Si
mostri a ognun di maraviglia; e in oltre
Grande
alla lor città montagna imporre".
Lo
Scuotiterra, udito questo appena,
Si
portò a Scheria in fretta, e qui fermossi.
Ed ecco
spinta dagl'illustri remi
Su per
l'onde venir l'agile nave.
Egli
appressolla, e convertilla in sasso,
E d'un
sol tocco della man divina
La
radicò nel fondo. Indi scomparve.
Molte
allor de' Feaci in mar famosi
Fur le
alterne parole. "Ahi! chi nel mare
Legò la
nave che vêr noi solcava
L'acque
di volo, che apparìa già tutta"?
Così,
gli occhi volgendo al suo vicino,
Favellava
talun: ma rimanea
La
cagion del portento a tutti ignota.
Se non
che Alcinoo a ragionar tra loro
Prese
in tal foggia: "Oh dèi! côlto io mi veggo,
Qual
dubbio v'ha? dai vaticini antichi
Del
padre, che dicea, come sdegnato
Nettun
fosse con noi, perché securo
Riconduciam
su l'acque ogni mortale.
Dicea,
che insigne de' Feaci nave,
Dagli
altrui nel redire ai porti suoi,
Distruggerìa
nell'oscure onde, e questa
Cittade
coprirìa d'alta montagna.
Così
arringava il vecchio, ed oggi il tutto
Si
compie. Or via, sottomettiamoci ognuno:
Dal
ricondur cessiam gli ospiti nostri,
E
dodici a Nettuno eletti tori
Sagrifichiam,
perché di noi gl'incresca,
Né
d'alto monte la città ricopra".
Disse.
Penetrò in quelli un timor sacro,
E i
cornigeri tori apparecchiaro.
Mentre
intorno all'altar prieghi a Nettuno
Drizzavan
della Scheria i duci e i capi,
Svegliossi
il pari agl'immortali Ulisse,
Che su
la terra sua dormìa disteso,
Né la
sua terra riconobbe: stato
N'era
lunge gran tempo, e Palla cinto
L'avea
di nebbia, per celarlo altrui,
E di
quanto è mestier dargli contezza,
Sì che
la moglie, i cittadin, gli amici
Nol
ravvisin, che prìa de' tristi proci
Fatto
ei non abbia universal macello.
Quindi
ogni cosa gli parea mutata,
Le
lunghe strade, i ben difesi porti,
E le
ombrose foreste, e l'alte rupi.
Sguardò,
fermo su i piè, la patria ignota,
Poi non
tenne le lagrime, e la mano
Batté
su l'anca, e lagrimando disse:
"Misero!
tra qual nuova estrania gente
Sono
io? Chi sa, se nequitosa e cruda,
O
giusta in vece, ed ospitale e pia?
Ove
questa recar molta ricchezza,
Ove ire
io stesso? Oh nella Scheria fosse
Rimasta,
ed io giunto all'eccelsa casa
D'altro
signor magnanimo, che, accolto
Dolcemente
m'avesse, e rimandato
Securamente!
Io, dove porla ignoro,
Né
lasciarla vo' qui, che altri la involi.
Men che
saggi eran dunque, e men che probi
De'
Feacesi i condottieri e i capi,
Che non
alla serena Itaca, come
Dicean,
ma in questa sconosciuta piaggia
Condur
mi fêro. Li punisca Giove,
De'
supplici custode, a cui nessuno
Celasi,
e che non lascia inulto un fallo.
Queste
ricchezze noveriam, veggiamo,
Se via
non ne portò nulla la nave".
Dette
tai cose, i tripodi superbi
Contava,
e l'urne e l'oro e le tessute
Vesti
leggiadre; e non fallìagli nulla,
Ma la
sua patria sospirava, e molti
Lungo
il lido del mar romoreggiante
Passi e
lamenti fea. Pallade allora,
Di
pastorello delicato in forma,
Quale
un figlio di re mostrasi al guardo,
S'offerse
a lui: doppia e ben fatta veste
Avea
d'intorno agli omeri, calzari
Sotto i
piè molli, e nella destra un dardo.
Gioì
Ulisse a mirarla, e incontanente
Le
mosse incontro con tai detti: "Amico,
Che qui
primiero mi t'affacci, salve.
Deh non
mi t'affacciar con alma ostile:
Ma
questi beni e me serba, che abbraccio
Le tue
ginocchia, e te, qual nume, invoco.
Che
terra è questa? che città? che gente?
Una
dell'ondicinte isole forse?
O di
fecondo continente spiaggia,
Che
scende in sino al mar? Schietto favella".
"Stolto
sei bene, o di lontan venisti",
La dea
rispose dall'azzurro sguardo,
"Se
di questa contrada, ospite, chiedi.
Cui non
è nota? La conosce appieno
Qual
vêr l'aurora e il Sol, qual vêr l'oscura
Notte
soggiorna. Alpestra sorge, e male
Vi si
cavalca, né si stende assai.
Sterile
non però torna: di grano
Risponde
e d'uva, e la rugiada sempre
Bàgnala,
e il nembo: ottimo pasco i buoi
E le
capre vi trovano; verdeggia
D'ogni
pianta, e perenne acqua l'irrìga.
Sin
d'Ilio ai campi, che dal suolo Acheo,
Come
sentìi narrar, molto distanno,
D'Itaca
giunge, o forestiero, il nome.
Al nome
della patria, che su i labbri
Dell'immortal
sonò figlia di Giove,
S'empié
di gioia il Laerzìade, e tardo
A
risponder non fu, benché, volgendo
Nel suo
cor sempre gli artifici usati,
Contraria
al vero una novella ordisse.
"Io
già d'Itaca udìa nell'ampia Creta,
Che
lungi nel mar giace, e donde io venni,
Metà
recando de' miei beni, e ai figli
Lasciandone
metà. Di Creta io fuggo,
Perché
vi uccisi Orsiloco, il diletto
D'Idomenèo
figliuol, da cui nel corso
Uom non
era colà che non perdesse.
Costui
di tutta la Troiana preda,
Che
tanti in mezzo all'onde, in mezzo all'arme,
Travagli
mi costò, volea fraudarmi,
Sdegnato,
ch'io, d'altri guerrieri duce,
Sotto
il padre di lui servir negassi.
In quel
ch'ei nella strada uscìa dal campo,
Gli
tesi insidie con un mio compagno,
E di
lancia il ferìi. Notte assai fosca
L'aere
ingombrava, e non che agli altri, a lui,
Che di
vita io spogliai, rimasi occulto.
Trovai
sul lido una Fenicia nave,
E a
quegl'illustri naviganti ricca
Mercede
offersi, e li pregai che in Pilo
Mi
ponessero, o in Elide divina,
Dominio,
degli Epéi. Se non che il vento
Indi
gli svolse, e forte a lor mal cuore;
Ché
inganni non pensavano. Venimmo,
Notturni
errando, a questa piaggia, e a forza
Di
remi, e con gran stento, il porto entrammo.
Né
della cena favellossi punto,
Benché
ciascuno in grande uopo ne fosse;
Ma del
naviglio alla rinfusa usciti,
Giacevam
su l'arena. Ivi un tranquillo
Sonno
me stanco invase; e quei, levate
Dalla
nave e deposte, ov'io giaceva,
Le mie
ricchezze, in ver la popolosa
Sidone
andaro, e me lasciâr nel duolo".
Sorrise
a questo la degli occhi azzurra,
E con
man careggiollo; e uguale a donna
Bella,
di gran sembiante, e di famosi
Lavori
esperta, in un momento apparve,
E a
così fatti accenti il volo sciolse:
"Certo
sagace anco tra i numi, e solo
Colui
sarìa, che d'ingannar nell'arte
Te
superasse! Sciagurato, scaltro,
Di
frodi insazïabile, non cessi
Dunque
né in patria dai fallaci detti,
Che ti
piaccion così sin dalla culla?
Ma di
questo non più: che d'astuzie ambo
Maestri
siam; tu di gran lunga tutti
D'inventive
i mortali e di parole
Sorpassi,
tutti io di gran lunga i numi.
Dunque
la figlia ravvisar di Giove
Tu non
sapesti, che a te assisto sempre
Nelle
tue prove, e te conservo, e grazia
Ti fei
trovare appo i Feaci? E or venni
Per
ammonirti, e per celare i fatti
Col mio
soccorso a te splendidi doni,
Non che
narrarti ciò che per destino
Nel tuo
palagio a sopportar ti resta.
Tu
soffri, benché astretto; e ad uomo o a donna
L'arrivo
tuo non palesar; ma tieni
Chiusi
nel petto i tuoi dolori, e solo
Col
silenzio rispondi a chi t'oltraggia".
E tosto
il ricco di consigli Ulisse:
"Difficilmente,
o dea, può ravvisarti
Mortal,
cui t'appresenti, ancor che saggio;
Tante forme rivesti. Io ben
rammento
Che
visitar tu mi degnavi un giorno,
Mentre
noi, figli degli Achivi, a Troia
Combattevam:
ma poiché l'alte torri
Ruinammo
di Priamo, e su le navi
Partimmo,
e un dio l'Achiva oste disperse,
Più non
ti scôrsi, o del Tonante figlia,
Né m'avvidi
unqua che m'entrassi in nave,
per
cavarmi d'affanno. Abbandonato
Solo a
me stesso e afflitto io gìa vagando,
Finché
pria che il tuo labbro in tra i Feaci
Mi
confortasse, e nella lor cittade
M'introducessi
tu, le mie sventure
Gl'Immortali
finiro. Ora io ti priego
Pel tuo
gran padre, quando in terra estrana,
Non
nella patria mia, credomi, e temo
Che tu
di me prender ti voglia gioco,
Ti
priego dirmi, o dea, se veramente
Degli
occhi Itaca io veggio, e del piè calco".
E la
dea, che rivolge azzurri i lumi:
"Tu
mai te stesso non oblii. Quind'io
Non
posso ai mali abbandonarti in preda;
Tal
mostri ingegno, tal facondia e senno.
Altri,
che dopo error molti giungesse,
Sposa e
figli mirar vorrìa repente;
E a te
nulla sapere, o chieder piace,
Se con
gran cura non assaggi e tenti
Prima
la tua, che invan t'aspetta, e a cui
Scorron
nel pianto i dì, scorron le notti.
Dubbio
io non ebbi mai del tuo ritorno,
Benché
ritorno solitario e tristo;
Se non
che al zio Nettun con te crucciato
Dell'occhio
che spegnesti al figlio in fronte,
Repugnar
non volea. Ma or ti mostro
D'Itaca
il sito, e a credermi io ti sforzo.
Ecco il
porto di Forcine, e la verde
Frondosa
oliva che gli sorge in cima.
Ecco
non lunge opaco antro ameno,
Alle
Naiadi sacro; la convessa
Spelonca
vasta riconosci, dove
Ecatombi
legittime alle ninfe
Sagrificar
solevi. Ecco il sublime
Nerito
monte che di selve ondeggia.
Disse,
e ruppe la nebbia, e il sito apparve.
Giubilò
Ulisse alla diletta vista
Della
sua patria, e baciò l'alma terra.
Poi
levando le man, subitamente
Le
ninfe supplicò: "Naiadi ninfe,
Non
credea rivedervi, e con devote
Labbra,
in vece io salùtovi, o di Giove
Nate; a
cui doni porgerem novelli,
Se me
in vita conserva, e dì felici
A
Telemaco mio concede amica
La
bellicosa del Saturnio figlia".
"Ti
rassicura, e non temer, riprese
La dea
dagli occhi di cilestro tinti,
"Che
d'aiuto io ti manchi. Or senza indugio
Nel
cavo sen della divina grotta,
Su via,
poniam queste ricchezze in salvo,
E di
ciò consultiam che più ti torna".
Tacque,
ed entrava nella grotta oscura,
Le
ascosaglie cercandone; ed Ulisse,
L'oro
ed il bronzo, e le superbe vesti
Portando,
la seguìa. Tutto depose
Acconciamente
dell'Egìoco Giove
La
figlia, e l'antro d'un macigno chiuse;
Ciò
fatto, al piè della sacrata oliva
Ambi
sedendo, e investigando l'arte
Di tor
di mezzo i temerari proci,
Così a
parlar la prima era Minerva:
"Studiar
convienti, o Laerzìade, come
Metter
la man su gli arroganti drudi,
Che
regnano in tua casa, oggi è terz'anno,
E della
moglie tua con ricchi doni
Chiedono
a gara le bramate nozze.
Ella,
ognor sospirando il tuo ritorno,
Ciascun
di speme e d'impromesse allatta,
Manda
messaggi a tutti, ed altro ha in core".
"Ah!
Dunque", le rispose il saggio Ulisse,
"Me
dell'Atride Agamennòn l'acerbo
Fato
attendea nelle paterne case,
Se il
tutto, inclita dea, tu non m'aprivi.
Ma tu
la via, che a vendicarmi io prenda,
M'addita,
e a me soccorri, e quell'audace
Spirto
m'infondi, che accendeami, quando
Sfemmo
di Troia le famose mura.
Mi
starai tu del pari al fianco sempre?
Io
pugnar con trecento allor non temo".
"Sempre
al fianco m'avrai, non m'uscirai",
La dea
riprese dalle glauche luci,
"Di
vista un sol momento in questa impresa.
Questi
superbi, che le tue sostanze
Mandano
a male, imbratteran di sangue
L'immenso
pavimento, e di cervella.
Ma io
così vo' trasformarti, Ulisse,
Che
riconoscer non ti possa uom vivo,
Cotesta
liscia ed ancor fresca pelle,
Che le
membra flessibili ti copre,
Disseccherò,
raggrinzerò; di biondo
Nulla
ti rimarrà sovra la testa,
E te
circonderan miseri panni,
Da cui
lo sguardo di ciascun rifugga.
Gli
occhi poi sì belli e sì vivaci,
Saran
sì oscuri e avran tai pieghe intorno,
Che
turpe ai proci, e alla tua donna e al figlio,
Cui
lasciasti bambin, cosa parrai.
Tu
prima cerca de' tuoi pingui verri
Il fido
guardïan che t'ama, ed ama
Telemaco,
ama la tua saggia donna.
Il
troverai, che guarderà la nera
Greggia
che beve d'Aretusa al fonte,
E alla
pietra del Corvo addenta, e rompe
La
dolce ghianda, per la cui virtude
Il
florido sul dosso adipe cresce.
Quivi
ti ferma, ed al suo fianco assisa
D'ogni
cosa il richiedi; ed io frattanto
Andrò
alla bella nelle donne Sparta,
In
traccia del figliuol, che vi s'addusse,
Onde
saper di te dal bellicoso
Menelao
biondo; e udir, se vivi, e dove".
"Perché
non dirgliel tu, cui noto è il tutto?"
Rispose
il ricco di consigli Ulisse.
"Forse
perch'ei su l'infecondo mare
Tormenti
errando, come il padre, e intanto
Le sue
sostanze a male altri gli mandi?"
"Ciò
non t'affligga", ripigliò la dea
Che
cilestre in altrui le luci intende.
"Io
stessa, nome ad acquistarsi e grido,
Già
l'invïava là, 've nulla il turba:
Là 've
tranquillo, e d'ogni cosa agiato,
Nel
regal siede dell'Atride albergo.
So ben
che agguati in nave negra i proci
Tendongli,
desïando a lui dar morte
Pria
ch'ei torni; ma invan: che anzi, lui vivo
Coprirà
i suoi nemici e tuoi, la terra".
Disse
Minerva, e della sua potente
Verga
l'eroe toccò. S'inaridisce
La
molle cute, e si rincrespa; rari
Spuntano
e bianchi su la testa i crini;
Tutta
d'un vecchio la persona ei prende,
Rotto
dagli anni, e stanco; e foschi, estinti
Son gli
occhi, in che un divin foco brillava.
Tunica
trista, e mala cappa in dosso
L'amica
dea cacciògli, ambo squarciate,
Discolorate,
affumicate e sozze:
Sopra
gli vestì ancor di ratto cervo
Un gran
cuoio spelato, e nella destra
Pose
bastone; ed una vil bisaccia,
Che in
più luoghi s'aprìa, per una torta
Coreggia
antica agli òmeri sospese.
Preso
il consiglio che più acconcio parve,
L'un
dall'altro staccârsi; e alla divina
Sparta,
del figlio in traccia, andò Minerva.
LIBRO
XIV
Ei, la
riva lasciata, entrò in un'aspra
Strada,
e per gioghi e per silvestri lochi
Là si
rivolse, dove Palla môstro
Gli
avea l'inclito Eumèo, di cui fra tutti
D'Ulisse
i miglior servi alcun non era,
Che i
beni del padron meglio guardasse.
Trovollo
assiso nella prima entrata
D'un
ampio e bello ed altamente estrutto
Recinto,
a un colle solitario in cima.
Il
fabbricava Eumèo con pietre tolte
Da una
cava propinqua, e mentre lungi
Stavasi
Ulisse, e senz'alcun dal veglio
Laerte,
o da Penelope, soccorso:
D'un'irta
siepe ricingealo, e folti
Di
bruna, che spezzò, quercia scorzata
Pali
frequenti vi piantava intorno.
Dodici
v'eran dentro, una appo l'altra,
Comode
stalle, che cinquanta a sera
Madri
feconde ricevean ciascuna.
I
maschi dormìan fuor, molto più scarsi,
Perché
scemati dall'ingordo dente
De'
proci, a cui mandar sempre dovea
L'ottimo
della greggia il buon custode.
Trecento
ne contava egli, e sessanta;
E
presso lor, quando volgea la notte
Quattro
cani giacean pari a leoni,
Che il
pastor di sua mano avea nodriti.
Calzari
allor s'accomodava ai piedi,
Di bue
tagliando una ben tinta pelle,
Mentre
chi qua chi là gìano i garzoni.
Tre
conducean la nera mandra, e il quarto
Alla
cittade col tributo usato
Lo
stesso Eumèo spedìalo, e a que' superbi,
Cui
ciascun dì gli avidi ventri empiea
Della
sgozzata vittima la carne.
Videro
Ulisse i latratori cani,
E a lui
con grida corsero: ma egli
S'assise
accorto, e il baston pose a terra.
Pur
fiero strazio alle sue stalle avanti
Soffrìa,
s'Eumèo non era, il qual, veloce
Scaglìandosi
dall'atrio, e la bovina
Pelle
di man lasciandosi cadere,
Sgridava
i suoi mastini, e or questo, or quello
Con
spesse pietre qua o là cacciava.
Poi,
rivolto al suo re: "Vecchio", gli disse,
"Poco
fallì non te n'andassi in pezzi,
E il
biasmo in me ne ricadesse, quasi
Sciagure
altre io non pata, io, che dolente
Siedo,
e piango un signore ai numi eguale,
E i
pingui verri all'altrui gola allevo:
Mentr'ei
s'aggira per estranie terre
Famelico
e digiuno; ove ancor viva,
E gli
splenda del Sole il dolce lume.
Ma tu
séguimi, o vecchio, ed al mio albergo
Vientene,
acciò, come di cibo e vino
Sentirai
sazio il natural talento,
La tua
patria io conosca, e i mali tuoi".
Ciò
detto, gli entrò innanzi, e l'introdusse
Nel
padiglione suo. Qui di fogliosi
Virgulti
densi, sovra cui velloso
Cuoio
distese di selvaggia capra,
Gli
feo, non so qual più, se letto o seggio,
L'eroe
gioìa dell'accoglienza amica,
E così
favellava: "Ospite, Giove
Con
tutti gli altri dèi compia i tuoi voti,
E
d'accoglienza tal largo ti paghi".
E tu
così gli rispondesti, Eumèo:
"Buon
vecchio, a me non lice uno straniero,
Fosse
di te men degno, avere a scherno;
Che gli
stranieri tutti ed i mendichi
Vengon
da Giove. Poco fare io posso,
Poco
potendo far servi che stanno
Sempre
in timor sotto un novello impero:
Pure
anco un picciol don grazia ritrova.
Colui
fraudAro del ritorno i numi,
Che
amor sincero mi portava, e dato
Podere
avrìami, e casa, e donna molto
Bramata;
e quanto al fin dolce signore
A servo
dà, che in suo pro sudi, e il cui
Travaglio
prosperar degnino i dèi,
Come
arridono al mio. Certo ei giovato,
Se
incanutiva qui, molto m'avrebbe.
Ma perì
l'infelice. Ah perché tutta
D'Elena
in vece non perì la stirpe,
Che di
cotanti eroi sciolse le membra?
Quel
prode anch'ei volger le prore armato,
per
l'onor degli Atridi, a Troia volle".
Detto
così, la tunica si strinse
Col
cinto, ed alle stalle in fretta mosse,
E,
tolti due dalla rinchiusa mandra
Giovinetti
porcelli, ambo gli uccise,
Gli
abbronzò, gli spartì, negli appuntati
Spiedi
gl'infisse: indi, arrostito il tutto,
Caldo e
fumante negli stessi spiedi
Recollo,
e il pose al Laerzìade innanzi,
E di
farina candida l'asperse.
Ciò
fatto, e in tazza d'ellera mesciuto
L'umor
dolce dell'uva, a lui di fronte
S'assise,
e rincorollo in questa forma:
"Su
via, quel mangia, o forestier, che a servi
Lice
imbandir, di porcelletti carne:
Quando
i più grandi corpi ed i più pingui
Li
divorano i proci, a cui non entra
Pietade
in petto, né timor de' numi.
Ma non
aman gli dèi l'opre malvage,
E il
giusto ricompensano ed il retto.
Quelli
che armati su le altrui riviere
Scendono,
e a cui tornar Giove consente
Co'
legni carchi alla natìa contrada,
Spavento
ad essi ancor delle divine
Vendette
passa nel rapace spirto.
Certo,
per voce umana o per divina,
Han
della morte del mio re contezza,
Poiché
né gareggiar, come s'addice,
Per la
sua donna, né ai dominî loro
Voglionsi
ricondur; ma gli altrui beni
Senza
pudore alcun struggono in pace.
Giove
dì o notte non produce, in cui
Una
vittima o due paghi li renda
E il
più scelto licor bevono a oltraggio.
Dovizia
molta ei possedea, qual venti,
Sul
continente o in Itaca, mortali
Non
felicita insieme. Udirla vuoi?
Dodici
armenti nell'Epiro, e tante
Di
pecorelle greggi e di maiali
Pastori
a guardia. In Itaca serragli
Di
capre undici, e larghi, e nell'estremo
Tutti
della campagna, e con robusti
Custodi,
che ogni dì recano ai drudi
Qual
nel vasto capril veggion più grassa
Bestia,
e più bella. Io sovra i porci veglio,
E della
mandra il fior sempre lor mando".
Ulisse
intanto, senza dir parola,
Tutto
in cacciar la fame era e la sete,
E i
mali ai proci macchinava in petto.
Rinfrancati
ch'egli ebbe i fiacchi spirti,
Eumèo
la tazza, entro cui ber solea,
Colma
gli porse, ed ei la prese, e questi
Detti,
brillando in core, ad Eumèo volse:
"Amico,
chi l'uom fu sì ricco e forte,
Che del
suo ti comprò, come racconti?
Morto
tu il dici per l'Atride. Io forse
Conòbbilo.
Il Saturnio e gli altri numi
Sanno
s'io di lui visto alcuna posso
Contezza
darti, io, che vagai cotanto".
"Vecchio",
rispose Eumèo, d'uomini capo,
"Pellegrin
che venisse oggi il ritorno
Del
Rege a nunzïar, né la sua donna
Gli
crederebbe, né il diletto figlio:
Troppo
usati a mentir son questi erranti,
Che
mestieri han d'asilo. Un non ne giunge,
E alla
reina mia non si presenta,
Che
false cose non favelli, o vane.
Tutti
ella accoglie con benigno aspetto,
Cento
cose domanda, e dalle ciglia
Le
cadono le lagrime: costume
Di
donna, cui morì lo sposo altrove.
E chi
m'accerta che tu ancor, buon vecchio,
Una
favola a ordir non fossi pronto,
Dove
tunica e manto altri ti desse?
Ma i
cani, io temo, ed i veloci augelli
Tutta
dall'ossa gli staccar la cute,
O i
pesci il divoraro, e l'ossa ignude
Giaccion
sul lido nell'arena involte.
Cosi
perìo, lungo agli amici affanno
Lasciando,
ed a me più, che, ovunque io vada,
Non
ispero trovar bontà sì grande,
Non, se
del padre e della madre al dolce
Nativo
albergo io riparassi. È vero
Che
rivederli ardentemente io bramo
Nella
terra natìa: pur men li piango
D'Ulisse,
ond'io l'assenza ognor sospiro
Ospite,
così appena io nomar l'oso,
Benché
lontan da me: tanto ei m'amava,
Tal
pigliava di me cura e pensiero.
Maggior
fratello, dopo ancor la cruda
Sua
dipartita, io più sovente il chiamo".
"Dunque",
l'eroe riprese, "al suo ritorno
Non
credi, e stai sul niego? Ed io ti giuro
Che
Ulisse riede; né già parlo a caso.
Ma tu la
strenna del felice annunzio
M'appresta,
bella tunica, bel manto
Di cui
mi coprirai, com'egli appaia.
Prima,
sebben d'ogni sostanza scusso,
Nulla
io riceverei: ché delle inferne
Porte
al par sempre io destai chi, vinto
Dalla
sua povertade, il falso vende.
Chiamo
il Saturnio in testimonio, chiamo
L'ospital
mensa, e dell'egregio Ulisse
Il
venerando focolar, cui venni:
Ciò
ch'io dico, avverrà. Quest'anno istesso,
L'un
mese uscendo o entrando l'altro, il piede
Ei
metterà nella sua reggia, e grande
Di
chïunque il figliuolo, e la pudica
Donna
gli oltraggia, prenderà vendetta".
E tu in
risposta gli dicesti, Eumèo:
"Né
strenna, o vecchio, io ti darò, né Ulisse
Metterà
più nella sua reggia il piede.
Su via,
tranquillo bevi, e ad altra cosa
Voltiam
la lingua: ché mi cruccia troppo
Di sì
nobil signor la rimembranza.
Lasciam
da parte i giuramenti, e Ulisse
Venga,
qual bramiam tutti, io, la Regina,
E
l'antico Laerte, e il pari a un nume
Telemaco,
per cui tremando io vivo.
Questo
fanciullo, che d'Ulisse nacque,
E cui
poscia, qual pianta in florid'orto,
Crebber
gli dèi, sì ch'io credea che il padre
Di
senno agguaglierìa, come d'aspetto,
La
dritta mente or degli eterni alcuno
Gli
offese, io penso, o de' mortali. Ei mosse,
L'orme
paterne investigando, a Pilo,
E
agguati i proci tendongli al ritorno,
Perché
tutto d'Arcesio il sangue manchi.
Or né
di questo più: trarranlo a morte
Forse i
nemici, o forse a vôto ancora
Le
insidie andranno, e la sua destra Giove
Sul
capo gli terrà. Ma tu gli affanni
Tuoi
stessi, o vecchio, e il tuo destin mi narra
Chi sei
tu? Donde sei? Dove i parenti?
Dove la
tua città? Quai ti menaro
Nocchieri,
e di qual guisa, e con qual nave?
Certo
in Itaca il piè non ti condusse".
"Tutto",
rispose lo scaltrito Ulisse,
"Schiettamente
io dirò. Ma un anno intero,
Che,
fuori uscito a sue faccende ogni altro,
Da noi
si consumasse ad una lauta
Nel
padiglione tuo mensa tranquilla,
Per
raccontar non basterìa le pene
Di cui
tessermi ai dèi piacque la vita.
Patria
m'è l'ampia Creta, e mi fu padre
Ricco
uom, cui di legittima consorte
Molti
nacquero in casa e crebber figli.
Me
compra donna generò, né m'ebbe
Men per
ciò de' fratelli il padre in conto,
L'Ilacide
Castòr, di cui mi vanto
Sentirmi
il sangue nelle vene, e a cui
Per
fortuna, dovizia e illustre prole
Divin
rendeasi dai Cretesi onore.
Sorpreso
dalla Parca, e ad Aide spinto,
Tra sé
partiro le sostanze i figli.
Gittate
in pria le sorti, e me di scarsa
Provvigion
consolaro, e d'umil tetto.
Ma
donna io tolsi di gran beni in moglie,
E a me
solo il dovei, però ch'io vile
Non fui
d'aspetto, nè fugace in guerra.
E
benché nulla oggi mi resti, e gli anni
M'opprimano
ed i guai, la mêsse, io credo,
Può
dalla paglia ravvisarsi ancora.
Forza
tra l'armi e ardir Marte e Minerva
Sempre
infusero a me, quando i migliori
Per gli
agguati io scegliea contra i nemici:
O allor
che primo, e senza mai la morte
Dinanzi
a me veder, nelle battaglie
Mi
scagliava, e color che dal mio brando
Si
sottraeano, io raggiungea con l'asta.
Tal
nella guerra io fui. Me della pace
Non
dilettavan l'arti, o della casa
Le
molli cure e della prole. Navi
Dilettavano
e pugne, e rilucenti
Dardi,
e quadrelli acuti: amare, orrende
Cose
per molti, a me soavi e belle,
Come
vari dell'uom sono i desiri.
Prima
che la Greca oste Ilio cercasse,
Nove
fïate io comandai sul mare
Contra
gente straniera; e la fortuna
Così
m'arrise, che tra ciò che in sorte
Toccommi
della preda, e quel ch'io stesso
A mio
senno eleggea, rapidamente
Crebbe
il mio stato, e non passò gran tempo
Che in
sommo pregio tra i Cretesi io salsi.
Ma
quando Giove quel fatal viaggio
Prescrisse,
che mandò tante alme a Pluto,
A me
de' legni ondivaghi, ed al noto
Per
fama Idomenèo, diero il governo,
Né modo
v'ebbe a ricusar: sì grave
Il
popolo e sì ardita ergea la voce.
Colà
nove anni pugnavam noi Greci,
E nel
decimo al fin, Troia combusta,
Ritornavamo;
e ci disperse un nume.
Se non
che Giove una più ria ventura
Contra
me disegnò. Passato un mese
Tra i
figli cari appena e la diletta
Sposa
che vergin s'era a me congiunta,
Novella
brama dell'Egitto ai lidi
Con
egregi compagni, e su navigli
Ben
corredati a navigar m'indusse.
Nove
legni adornai; né a rïunirsi
Tardò
l'amica gente, a cui non poche
Pe'
sacrifizi loro e pe' conviti,
Che
durâro sei dì, vittime io dava.
La
settim'alba in orïente apparsa,
Creta
lasciammo, e con un Borea in poppa
Sincero
e fido, agevolmente, e come
Sovra
un fiume a seconda, il mar fendemmo.
Nave
non fu né leggermente offesa,
E noi
sicuri sedevam, bastando
I
timonieri al nostro uopo ed il vento.
Presa
il dì quinto la bramata foce
Del
ricco di bell'onda Egitto fiume
Io nel
fiume arrestai le veleggianti
Navi, e
ai compagni comandai che in guardia
De'
legni rimanessero, e la terra
Gissero
alcuni ad esplorar dall'alto.
Ma
questi, da un ardir folle e da un cieco
Desìo
portati, a saccheggiar le belle
Campagne
degli Egizi, a via menarne
Le
donne e i figli non parlanti, i grami
Coltivatori
a uccidere. Ne giunse
Tosto
il rumore alla città, né prima
L'aurora
comparì, che i cittadini
Vennero,
e pieno di cavalli e fanti
Fu
tutto il campo, e del fulgor dell'armi.
Cotale
allora il Fulminante pose
Desir
di fuga de' compagni in petto,
Che un
sol far fronte non osava: uccisi
Fur
parte, e parte presi, e ad opre dure
Sforzati;
e ovunque rivolgeansi gli occhi,
Un
disastro apparìa. Ma il Saturnide
Nuovo
consiglio m'ispirò nel core.
(Deh,
perché nell'Egitto anch'io non caddi,
Se
nuovi guai m'apparecchiava il fato?)
Io
l'elmo dalla testa al suol deposi,
Dagli
omeri lo scudo, e gittai lunge
Da me
la lancia: indi ai cavalli incontro
Corsi e
al cocchio del re, strinsi e baciai
Le sue
ginocchia; ed ei serbommi in vita.
Compunto
di pietà, me che piagnea
Levò
nel cocchio, e al suo palagio addusse.
È ver
che gli altri m'assalìan con l'aste
Di
rabbia accesi, e mi voleano estinto.
Ma il
re lontani e con cenni e con voci
Teneali
per timor dell'ospitale
Giove,
che i supplicanti, a cui mercede
Dall'uom
non s'usi, vendicar suol sempre.
Sett'anni
io colà vissi, e assai tesori
Raccolsi:
doni mi porgea chïunque.
Poi,
volgendo l'ottavo anno, un Fenice
Comparve,
uom fraudolento, e di menzogne
Gran fabbro,
che già molti avea tradito.
Nella
Fenicia a seguitarlo, dove
Casa e
poderi avea, costui piegommi;
E seco
io dimorai di sole un giro.
Ma,
rivolto già l'anno, e le stagioni
Tornate
in sé col trapassar de' mesi,
Ed il
cerchio dei dì lunghi compiuto,
Far
vela volle per la Libia, e finse
Non
poter senza me carcar la nave.
Che
nave? in Libia vendermi a gran prezzo
Pensava
il tristo. Io che potea? Costretto,
Di
nuovo il seguitai: benché del vero
Mi
trascorresse per la mente un lampo.
Su
Creta sorse il rapido naviglio,
Che un
gagliardo Aquilon feriva in poppa,
Mentre
gli ordìa l'ultimo eccidio Giove.
Già né
più Creta si vedea, né altra
Terra,
ma cielo in ogni parte, o mare,
Quando
il Fulminator sul nostro capo
Sospese
d'alto una cerulea nube,
Sotto a
cui tutte intenebrarsi l'acque.
Tonò
più volte, e al fin lanció il suo telo
Contra
la nave, che del fiero colpo
Si
contorse, s'empieo di zolfo, e tutti
Ne
cadettero giù. Quai corvi, intorno
Le
s'aggiravan su per l'onde, e Giove
Lor
togliea con la patria anco la vita.
Salvò
me solo nel mortal periglio:
Ché
alle mani venir mi fece il lungo
Albero
della nave, a cui m'attenni,
E così
mi lasciai su i tempestosi
Flutti
portar per nove giorni ai venti:
Finché
la notte decima mi spinse
De'
Tespròti alla terra il negro fiotto.
Qui de'
Tespròti il Sir, l'eroe Fidone,
Generoso
m'accolse. A sorte il figlio
Sul
lido mi trovò tutto tremante
Di
freddo, e omai dalla fatica vinto,
E, con
man sollevatomi, del padre
Al real
tetto mi condusse, e pormi
Tunica
e manto si compiacque in dosso.
Quivi
io d'Ulisse udii. Diceami il Rege,
Ch'ei
l'accolse, e il trattò cortesemente
Nel suo
ritorno alle natìe contrade:
E il
rame e l'ôr mostravami, ed il ferro,
E
quanto al fin di prezïoso e bello
Ulisse
avea raccolto, e nella reggia
Deposto;
forza, che per dieci etadi
Padri e
figliuoli a sostener bastava.
E
aggiungea, che a Dodona era passato,
Per
Giove consultare, e udir dall'alta
Quercia
indovina, se ridursi ai dolci
Colli
d'Itaca sua dopo sì lunga
Stagion
dovea palesemente, o ignoto.
Poi,
libando, giurò ch'era nel mare
Tratta
la nave, e i remiganti pronti,
Per
rimenarlo in Itaca. Ma prima
Me
stesso accommiatò: ché per ventura
Al
ferace Dulichio un legno andava
Di
nocchieri Tespròti. Al Rege Acasto
Costor
dovean raccomandarmi, e in vece
Un
consiglio tessean, perch'io cadessi
Novamente
ne' guai. Come lontano
Da
terra fu l'ondivagante legno,
Il
negro m'apparì giorno servile.
Tunica
e manto mi spogliaro, e questi
In
dosso mi gettâr laceri panni,
E,
venuti all'amena Itaca a notte
Me
nella nave con ben torta e salda
Fune
legaro. Indi n'usciro, e cena
Frettolosa
del mar presero in riva.
Ma un
nume ruppe i miei legami; ed io
Giù
sdrucciolai pel timon liscio; al mare
Mi
consegnai col petto, e ad ambe mani
Nôtando
remigai sì, che in brev'ora
Fuori
di lor vista io fui. Giunsi, ove bella
Sorgea
di querce una foresta, e giacqui.
Quei,
di me con dolore in traccia mossi,
Né
credendo cercarne invan più oltre,
Si
rimbarcaro, e me gl'Iddii, che ascoso
Facilmente
m'avean, d'un uom saputo
Guidâr
benigni al pastoreccio albergo,
poiché
in vita il destin mi vuole ancora".
E tal
fu a lui la tua risposta, Eumèo:
"O
degli ospiti misero, tu l'alma
Mi
commovesti addentro, i tuoi vïaggi
Narrando,
e i mali tuoi. Sol ciò non lodo,
Che
d'Ulisse dicesti, e non tel credo,
Perché,
degno uom qual sei, mentire indarno?
So
anch'io pur troppo, qual del suo ritorno
Speme
nodrir si possa, e l'infinito,
Che gli
portano i numi, odio io conosco.
Quindi
ei non cadde, combattendo, a Troia,
O degli
amici in sen dopo la guerra.
Sepolto
avrianlo nobilmente i Greci,
E dalla
tomba sua verrìa un rilampo
Di
gloria al suo figliuol: ma inonorato
Le
Arpie crudeli sel rapiro in vece.
Tale io
ne provo duol, che appo la mandra
Vivomi
occulto, ed a città non vado,
Se non
quando Penelope, comparso
Da
qualche banda con novelle alcuno,
Chiamami
a sé per caso. Allora stanno
Tutti
d'intorno allo straniero, e mille
Gli fan
domande, così quei che doglia
Dell'assenza
del re sentono in petto,
Come
color che gioia; e le sostanze
Ne
distruggon frattanto in tutta pace.
Ma io domande
far dal dì non amo,
Che mi
deluse un vagabondo Etòlo,
Reo
d'omicidio, che al mio tetto giunse.
Molto
io l'accarezzava, ed ei mi disse
Che
presso Idomenèo nell'ampia Creta
Veduto
avealo risarcir le navi
Dalla
procella sconquassate, e aggiunse
Che l'estate
o l'autunno al suo paese
Capiterìa
ben compagnato e ricco.
Or non
volermi e tu, vecchio infelice,
Con
falsi detti, poiché un dio t'addusse
Molcere
o lusingar: ché non per questo
Ben
trattato sarai, ma perché temo
L'ospital
Giove, e che ho di te pietade".
"Un
incredulo cor", rispose Ulisse
"Tu
chiudi in te, quando a prestarmi fede
Né co'
miei giuramenti indurti posso
Su via,
férmisi un patto, e testimoni
Ne sien
dall'alto gl'immortali dèi.
Riederà
il tuo signor, com'io predissi?
Tunica
e manto vestimi, e a Dulichio
Mi
manda, ov'io da molti giorni ir bramo.
Ma s'ei
non torna, eccita i servi, e getta
Me
capovolto da un'eccelsa rupe,
Sì che
più non ti beffi alcun mendico".
"Gran
merto in vero, e memorabil nome,"
Il
pastor ripigliò, m'acquisterei
"Appo
la nostra e la ventura etade
E,
ricevuto avendoti, e trattato
Ospitalmente,
io t'uccidessi, e fuori
Ti
traessi del sen l'anima cara!
Come
franco io potrei preghiere a Giove
Porgere
allora! Or della cena è il tempo
I miei
compagni entreran tosto, e lauta
S'appresterà
nel padiglion la mensa".
Così
tra lor diceano; ed ecco il nero
Gregge,
e i garzoni che ne' suoi serragli
Metteanlo:
immenso delle pingui troie,
Che
andavansi a corcar, sorse il grugnito.
Ratto
ai compagni favellava Eumèo:
"L'ottimo
a me de' porci, affinché muoia
Pel
venuto di lungi ospite, e un tratto
Noi pur
festa facciam, noi, che soffriamo
Per
questo armento dalle bianche sanne,
Mentre
in riposo e in gioia altri le nostre
Fatiche
si divorano e gli affanni".
Detto
così, con affilata scure
Quercia
secca recise, e quelli un grasso
D'anni
cinque d'età porco menaro,
E al
focolare il collocâr davanti.
Né de'
celesti Eumèo, che molto senno
Nutriva
in sé, dimenticossi. I peli
Dal
capo svelti del grugnante, in mezzo
Gittolli
al foco, e innalzò voti ai numi
Pel
ritorno d'Ulisse. Indi un troncone
Della
quercia ch'ei fèsse, alto levando,
Percosse
e senza vita a terra stese
La
vittima. I garzoni ad ammazzarla,
Ad
abbronzarla e a farla in pezzi; ed egli
I crudi
brani da ogni membro tolti
Parte
metteali su l'omento, e parte,
Di
farina bianchissima cospersi
Consegnavali
al foco. Il resto tutto
Poi
sminuzzâro, e l'abbrostîro infisso
Con
modo acconcio negli spiedi; e al fine
Dagli
spiedi cavato in su la mensa
Poserlo.
Eumèo, che sapea il giusto e il retto,
Surse,
e il tutto divise in sette parti:
Offrì
l'una alle Ninfe, ed al figliuolo
Di
Maia, e l'altre a ciascun porse in giro.
Ma
dell'intera del sannuto schiena
Solo
Ulisse onorava, e gaudio in petto
Spandea
del sire, che diceagli: "Eumèo,
Così tu
possa caro al padre Giove
Viver,
qual vivi a me, poiché sì grande
Nello
stato, in ch'io son, mi rendi onore".
E tu
dicesti, rispondendo, Eumèo:
"O
preclaro degli ospiti, ti ciba,
E di
quel godi, che imbandirti io valgo
Concede,
o niega, il correttor del mondo,
Come
gli aggrada più: ché tutto ei puote.
Ciò
detto, ai numi le primizie offerse;
E,
libato ch'egli ebbe, in man d'Ulisse,
Che al
suo loco sedea, pose la tazza.
Mesaulio,
ch'ei del proprio, e nol sapendo
Né la
regina né Laerte, avea,
Mentre
lungi era il sir, compro dai Tafi,
Il pane
dispensò. Stendeano ai cibi
La
mano; e, paga del mangiar la voglia,
Paga
quella del ber, Mesaulio il pane
Raccolse,
e gli altri a dar le membra al sonno
Ristorati
affrettavansi e satolli.
Fosca
sorvenne e disastrosa notte:
Giove
piovea senza intervallo, e fiero
Di
ponente spirava un vento acquoso.
Ulisse
allor, poiché vedeasi tanto
Carezzato
da Eumèo, tentare il volle,
Se gli
prestasse il proprio manto, o almeno
Quel
d'alcun de' compagni aver gli fesse:
"Eumèo",
diss'egli, "ascoltami, e i compagni
M'ascoltin
tutti. Io millantarmi alquanto
Voglio
qual mi comanda il folle vino,
Che
talvolta i più saggi a cantar mosse
Più in
là d'ogni misura, a mollemente
Rider,
spiccar salti improvvisi, ed anche
Quello
a parlar, ch'era tacere il meglio.
Ma
dacché un tratto a cicalare io presi,
Nulla
io terrò nel petto. Oh di quel fiore
Fossi,
e tornassi in quelle forze, ch'io
Sentìami
al tempo che sott'Ilio agguati
Tendemmo,
Ulisse ed il secondo Atride,
E, così
ad essi piacque, io terzo duce!
Tosto
che alla cittade e all'alte mura
Vicini
fummo, tra i virgulti densi,
E nelle
canne paludose a terra
Giacevam
sotto l'armi. Impronta notte
Ci
assalse: un crudo tramontan soffiava,
Scendea
la neve, qual gelata brina,
E gli
scudi incrostava il ghiaccio. Gli altri,
Che
manti avevano e tuniche, tranquilli
Dormìan,
poggiando alle lor targhe il dosso
Ma io,
partendo dai compagni, il manto
Nella
stoltezza mia lasciai tra loro,
Non
isperando un sì pungente verno;
E una
tunica, un cingolo e uno scudo
Meco
sol tolsi. Della notte il terzo
Era, e
gli astri cadevano, e ad Ulisse,
Che mi
giacea da presso, io tai parole,
Frugandolo
del gomito, rivolsi:
"Illustre
e scaltro di Laerte figlio,
Così mi
doma il gel, ch'io più tra i vivi
Non
rimarrò. Mi falla un manto. Un dio,
Che mi
deluse, di vestirmi solo
La
tunica inspirommi. Or quale scampo?"
Ei, le
parole udite un suo partito
Scelse
di botto, come quei che meno
Ai
consigli non fu, che all'armi, pronto:
"Taci",
rispose con sommessa voce,
Che
alcun Greco non t'oda. "E poi, del braccio
Facendo
e della man sostegno al mento:
"Amici,
disse, un sogno, un divin sogno,
Dormendo
m'avvertì, che dilungati
Troppo
ci siam dalle veloci navi.
Quindi
al pastor di genti Agamennòne
Corra
un di noi, perché, se ben gli sembra,
Ne
mandi altri guerrieri e ne rinforzi".
Disse,
e Toante, d'Andremòne il figlio,
Sorse,
e corse al navil, deposto prima
Il
purpureo suo manto; ed io con gioia
Men
cinsi, e vi stetti entro, in sin che apparve
Sul
trono d'ôr la ditirosea Aurora.
Se quel
fior, quelle forze io non piangessi,
Me
forse alcun de' tuoi compagni, Eumèo,
Per
riverenza e amore ad un buon vecchio,
Di
manto fornirìa: ma or veggendo
Questi
miei cenci, ciascun tiemmi a vile".
Tu
così, Eumèo, gli rispondesti allora:
"Bella
fu, amico, la tua storia, e un motto
Non
t'usci dalle labbra o sconcio o vano.
Però di
veste o d'altro, che infelice
Merta
supplicante uomo, in questa notte
Difetto
non avrai. Ma, nato il sole,
T'adatterai
gli usati panni intorno.
Poche
son qui le cappe, e a suo piacere
Di
tunica non puote alcun mutarsi:
Star
dee contento ad una sola ognuno.
Come
giunto sarà d'Ulisse il figlio,
Ei di
vestirti e di mandarti, dove
Ti
consiglia il tuo cor, pensier darassi".
S'alzò,
così dicendo, e presso al foco
Poneagli
il letto, e di montoni e capre
Pelli
stendeavi, in che l'eroe sdraiossi;
E d'un
largo il coprì suo denso manto,
Ch'egli
a se stesso circondar solea
Quando
turbava il ciel fiera tempesta.
Così là
giacque Ulisse; e accanto a lui
Si
corcâro i garzoni: ma corcarsi
Disgiunto
da' suoi verri Eumèo non volle.
Fuori
uscito ei s'armava; e Ulisse in core
Gioìa,
mirando lui del suo re tanto
Curare
i beni, benché lungi il creda.
Prima
ei sospese agli omeri gagliardi
L'acuta
spada: indi a sé intorno un folto
Manto
gittò, che il difendea dal vento;
Tolse
una pelle di corputa e grassa
Capra;
e un pungente dardo in man recossi,
Degli
uomini spavento e de' mastini.
Tale
s'andò a corcar, dove protetti
Dal
soffio d'Aquilone i setolosi
Verri
dormìan sotto una cava rupe.
LIBRO XV
Nell'ampia
Lacedèmone Minerva
Entrava
intanto ad ammonir d'Ulisse
L'inclita
prole, che di far ritorno
Alle
patrie contrade era già tempo.
Trovollo
che giacea di Menelao
Nell'atrio
con Pisistrato. Ingombrava
Un
molle sonno di Nestorre il figlio:
Ma
l'Ulisside, cui l'incerta sorte
Del
caro padre fieramente turba,
Pensavane
ad ognora, e invan per lui
D'alto
i balsami suoi spargea la notte.
La dea,
che azzurri gli occhi in giro muove,
Appressollo,
e: "Telemaco", gli disse,
"Non
fa per te di rimanerti ancora
D'Itaca
fuori, e lungi dall'altera
Turba
malnata degli arditi proci,
Che,
divisa tra lor la tua sostanza
Divorinsi
al fin tutto, e, non che vano,
Dannoso
a te questo vïaggio torni.
Lèvati,
e pressa il valoroso Atride
Di
congedarti, onde nel tuo palagio
Trovi
la madre tua, che Icario il padre
Co'
fratelli oggimai sforza alla mano
D'Eurimaco,
il qual cresce i maritali
Doni, e
ogni suo rival d'àmbito vince.
Guarda
non del palagio, a tuo dispetto,
Parte
de' beni con la madre t'esca:
Però
che sai qual cor s'abbia ogni donna:
Ingrandir
brama del secondo sposo
La nuova
casa; e de' suoi primi figli
E di
colui che vergin impalmolla
Non si
rammenta più, più non ricerca,
Quando
ei nel buio della tomba giace.
Tu,
partita la madre, a quale ancella
Più
dabbene ti sembri e più sentita,
Commetti
il tutto, finché illustre sposa
Ti
presentino al guardo i dèi clementi.
Altro
dirotti, e il riporrai nel core.
Degli
amanti i più rei, che tôr dal mondo
Prima
vorrìanti che alla patria arrivi,
Nel mar
tra la pietrosa Itaca e Same
Stanno
in agguato. Io crederò che indarno,
E che
la terra pria l'ossa spolpate
De'
tuoi nemici chiuderà nel seno.
Non
pertanto la nave indi lontana
Tieni,
e notturno naviga: un amico
Vento
t'invïerà quel tra gli eterni,
Chïunque
sia, che ti difende e guarda.
Come
d'Itaca giunto alla più estrema
Riva
sarai, lascia ir la nave, e tutti
Alla
città i compagni; e tu il custode
Cerca
de' verri, che un gran ben ti vuole.
Seco
passa la notte, ed in sull'alba
Mandal
significando alla Regina,
Che a
lei da Pilo ritornasti illeso".
Ciò
detto, in un balen salse all'Olimpo.
Egli
l'amico dal suo dolce sonno,
Urtandolo
del pie', subito scosse,
E gli
drizzò queste parole: "Sorgi,
Pisistrato,
ed al cocchio i corridori
Solidounghiati
sottoponi e accoppia,
Se
anche il viaggio nostro aver dee fine".
"Telemaco",
il Nestoride rispose,
"Benché
ci tardi di partir, non lice
Dell'atra
notte carreggiar per l'ombre.
Poco
l'Aurora tarderà. Sostieni
Tanto
almen che il di lancia esperto Atride
Ponga
nel cocchio gli ospitali doni,
E
gentilmente ti licenzi. Eterna
L'ospite
rimembranza in petto serba
Di chi
un bel pegno d'amistà gli porse".
Disse;
e nel trono d'ôr l'Aurora apparve.
Il
prode Menelao, di letto allora
Sorto e
d'allato della bella Elèna,
Venne
alla volta lor; né prima il caro
Figliuol
d'Ulisse l'avvisò, che in fretta
Della
lucente tunica le membra
Cinse e
gittò il gran manto a sé d'intorno,
Ed uscì
fuori, e l'abbordò e gli disse:
"Figlio
d'Atrèo, di Giove alunno, duce
Di
genti, me rimanda oggi al diletto
Nativo
ciel, cui già con l'alma io volo".
"Telemaco",
rispose il forte Atride,
"Io
ritenerti qui lunga stagione
Non
voglio a tuo mal cuore. Odio chi suole
Gli
ospiti suoi festeggiar troppo, o troppo
Spregiarli:
il meglio sempre è star nel mezzo.
Certo
peccan del par chi discortese
L'ospite
caccia di restar bramoso,
E chi
bramoso di partir l'arresta.
Carezzalo
indugiante, e quando scorgi
Che
levarsi desìa, dágli commiato.
Tanto
dimora sol, ch'io non vulgari
Doni
nel cocchio, te presente, ponga,
E
comandi alle femmine che un pronto
Conforto
largo di serbate dapi
T'apprestin
nella sala. È glorïoso
Del par
che utile a te dell'infinita
Terra
su i campi non passar digiuno.
Vuoi tu
aggirarti per la Grecia e l'Argo?
Giungerò
i miei destrieri, e alle diverse
Città
ti condurrò: treppiede o conca
Di
bronzo o due bene appaiati muli,
O vaga
d'oro effigïata tazza,
Ci
donerà ciascuno, e senza doni
Cittade
non sarà che ci accommiati".
Telemaco
a rincontro: "Menelao,
Di
Giove alunno, condottier di genti,
Nel mio
palagio, ove nessun che il guardi,
Partendone,
io lasciai, rieder mi giova,
Acciocché,
mentre il padre indarno io cerco,
Tutti
io non perda i suoi tesori e i miei".
Udito
questo, ad Elena e alle fanti
L'Atride
comandò s'apparecchiasse
Subita
e lauta mensa. Eteonèo,
Che
poco lungi dal suo re dormìa,
Sorto
appena di letto, a lui sen venne;
E il
foco suscitar, cuocer le carni
Gl'impose
Menelao: né ad ubbidirgli
Tardò
un istante di Boete il figlio.
Nell'odorata
solitaria stanza
Menelao
scese, e non già sol: ché seco
Scesero
Elèna e Megapente. Giunti
Là 've
la ricca suppellettil giace,
Tolse
l'Atride biondo una ritonda
Gemina
coppa, e di levare un'urna
D'argento
al figlio Megapente ingiunse.
Ma la
donna fermossi all'arche innanzi,
Ove i
pepli giacean che da lei stessa
Travagliati
già fûro, e varïati
Con
ogni sorta d'artificio. Elèna
Il più
ampio traeane, ed il più bello
Per
molteplici fregi: era nel fondo
Dell'arca,
e sì rilusse in quel che alzollo,
Che
stella parve che dai flutti emerga.
Con tai
doni le stanze attraversaro,
Finché
fûro a Telemaco davante,
Cui
questi accenti Menelao converse:
"Fortunato
così, come tu il brami,
Ti
consenta, o Telemaco, il ritorno
L'altitonante
di Giunon marito.
Io di
quel che possiedo, a te dar voglio
Ciò che
mi sembra più leggiadro e raro:
Un'urna
effigïata, argento tutta,
Se non
quanto su i labbri oro gialleggia,
Di
Vulcano fattura. Il generoso
Re di
Sidone Fèdimo donolla
A me,
che d'Ilio ritornava, e cui
Ricettò
ne' suoi tetti; e a te io la dono.
L'Atride
in mano gli mettea la tonda
Gèmina
coppa: Megapente ai piedi
Gli
recò l'urna sfolgorante; e poi
Elena,
bella guancia, a lui di contra
Stette
col peplo su le braccia e disse:
"Ricevi
anco da me, figlio diletto,
Quest'altro
dono, e per memoria tienlo
Delle
mani d'Elèna. Alla tua sposa
Nel
sospirato dì delle sue nozze
Le
membra coprirà. Rimanga intanto
Della
prudente genitrice in guardia;
E tu
alla patria terra e alle superbe
Case
de' padri tuoi giungi felice".
Ei con
gioia sel prese: e i doni tutti,
Poiché
ammirata la materia e l'arte
N'ebbe,
allogò Pisistrato nel carro.
Quindi
l'Atride dalla bionda testa
Ambi
condusse nella reggia, dove
Sovra i
troni sedettero. L'ancella
Subitamente
da bel vaso d'oro
Nell'argenteo
bacile acqua lucente
Spandea,
stendea desco polito, in cui
La
veneranda dispensiera i bianchi
Pani
venne ad imporre, e non già poche
Delle
dapi serbate, ond'è custode.
Eteonèo
partìa le carni, e il vino
Megapente
versava; e i due stranieri
La mano
all'uno e all'altro ivan porgendo.
Ma come
sazi della mensa fûro,
Aggiogaro
i cavalli, e la vergata
Biga
pronti salîro, e l'agitaro
Fuor
dell'atrio e del portico sonante.
Uscì con
essi Menelao, spumosa,
Perché
libasser pria, ciotola d'oro
Nella
destra tenendo, e de' cavalli
Fermossi
a fronte, e, propinando, disse:
"Salute,
o prodi giovinetti, a voi
Ed al
pastor de' popoli salute
Per
vostra bocca, a Nestore, che fummi
Dolce,
qual padre, sotto i Teucri muri".
Ed il
saggio Telemaco a rincontro:
"Tutto,
non dubitar, di Giove alunno,
Saprà
il buon vecchio. Oh potess'io non manco,
Tosto
ch'io sarò in Itaca, ad Ulisse
Mostrare
i tanti e così ricchi doni
Ch'io
da te ricevetti, e raccontargli
Quale
accoglienza io n'ebbi e qual commiato!"
Tal
favellava; e a lui di sopra e a destra
Un'aquila
volò, che bianca e grande
Domestica
oca con gli adunchi artigli
Dalla
corte rapia. Dietro gridando
Uomini
e donne le correan: ma quella
S'accostò
pur da destra ai due garzoni,
E
davanti ai destrier rivolò in alto.
Tutti
gioiro a cotal vista, e primo
Fu
Pisistrato a dir: "Nobile Atride,
Pensa
in te stesso, se a te forse o a noi
Tal
prodigio invïâro i sempiterni".
Ei la
risposta entro da sé cercava;
Ma l'antivenne
la divina Elèna
Dicendo:
"Udite me. Quel ch'io indovino,
Certo
avverrà: ché me l'inspira un nume.
Come
questa valente aquila scesa
Dal
natìo monte, che i suoi parti guarda,
Si rapì
l'oca nel cortil nodrita,
Non
altrimenti Ulisse, alle paterne
Case venuto
da lontani lidi,
Su i
proci piomberà; se pur non venne,
E lor
non apparecchia orrida morte".
E
Telemaco allor: "Così ciò voglia
L'altitonante
di Giunon marito,
Come
voti da me tu avrai, qual diva!"
Disse,
e i destrieri flagellò, che ratti
Mosser
per la cittade e ai campi usciro.
Correan
l'intero dì, squassando il giogo,
Che ad
ambi stava sul robusto collo.
Tramontò
il Sole ed imbrunìan le strade;
E i due
giovani a Fera, e alla magione
Di
Dïòcle, del prode figlio
D'Orsìloco
d'Alfèo, dove riposi
Ebber tranquilli
ed ospitali doni.
Ma come
al sole con le man rosate
L'Aurora
aperse le celesti porte,
I
cavalli aggiogaro, e risaliro
La
vergolata biga e l'agitaro
Fuor
dell'atrio e del portico sonante.
Sferzò
i destrier Pisistrato, e i destrieri
Di buon
grado volavano: né molto
Stetter
di Pilo ad apparir le torri.
Allor
così Telemaco si volse
Al
figliuol di Nestorre: "O di Nestorre
Figliuol,
non desti a me fede, che sempre
Ciò tu
faresti che mi fosse gioia?
Paterni
ospiti siam, siam d'un'etade,
E più
ancor ci unirà questo vïaggio.
Non mi
guidare oltra il naviglio mio;
Colà mi
lascia. Ritenermi il vecchio,
Mal mio
grado, appo sé di carezzarmi
Desïoso,
potrebbe: e a me bisogna
Toccare
in breve la natìa contrada".
Mentre
così l'un favellava all'altro,
Che
d'attener la sua promessa i modi
Discorrea
con la mente, in questo parve
Dover
fermarsi. Ripiegò i destrieri
Verso
il mare e il naviglio; e i bei presenti,
Onde
ornato il compagno aveva l'Atride,
Scaricò
su la poppa. Indi: "Su via
Monta",
disse, "di fretta, e a' tuoi comanda
Pria la
nave salir, che me il mio tetto
Riceva,
e il tutto al genitore io narri.
So,
qual chiuda nel petto alma sdegnosa:
Ti
negherà il congedo, in su la riva
Verrà
egli stesso, e benché senza doni
Da lui,
cred'io, tu non partissi, un forte
Della
collera sua scoppio io preveggo".
Dette
tai cose, alla città de' Pili
Spinse
i destrieri dal leggiadro crine,
E
all'eccelsa magion rapido giunse.
E
Telemaco a' suoi: "Pronti la nave,
Compagni,
armate, e su montiamvi e andiamo".
L'ascoltâro,
e ubbidiro. Immantinente
Montava
e s'assidea ciascun su i banchi.
Ei, la
partenza accelerando, a Palla
Prieghi,
alla poppa, e sagrifici offrìa;
Quando,
esul dalla verde Argo ferace,
Per non
voluta uccisïone ignoto
Vïandante
appressollo: era indovino,
E di
Melampo dalla stirpe sceso.
Nella
madre di greggi inclita Pilo
Melampo
prima soggiornava, e, come
Ricco
uom, superbo vi abitava ostello:
Poi,
fuggendo la patria ed il più illustre
Tra gli
uomini Nelèo, che i suoi tesori
Un anno
intiero riteneagli a forza,
Capitò
ad altre genti, e duri lacci
Nell'albergo
di Filaco, e dolori
Gravi
sostenne per la vaga figlia
Di
Nelèo e per l'audace opra, cui messa
Gli
aveva nel capo la tremenda Erinni.
Ma
scampò dalla morte, e a Pilo addusse
Le
contrastate altomugghianti vacche;
Si
vendicò dell'infedel Nelèo,
E
consorte al fratel la vaga Pero
Da
Filace menò. Quindi all'altrìce
Di
nobili destrieri Argo sen venne,
Volendo
il fato che su i molti Argivi
Regnasse;
sposa quivi scelse; al cielo
Levò le
pietre della sua dimora;
E i
forti generò Mantio e Antifáte.
Di
questo il grande Oiclèo nacque, e d'Oiclèo
Il
salvator di genti Anfiarao,
Cui
tanto amor Febo portava e Giove.
Pur di
vecchiezza non toccò la soglia:
Ché,
generati Anfiloco e Alcmeòne,
Sotto
Tebe perì, dalla più avara
Donna
tradito. Ma da Mantio al giorno
Clito
usciro e Polìfide. L'Aurora,
Per la
beltà che in Clito alta splendea,
Rapillo,
e il collocò tra gl'immortali;
E Febo,
spento Anfiarao, concesse
Più che
ad altr'uom, de' vaticini il dono
A
Polifide, il qual, crucciato al padre,
Trapassò
in Iperesia, ove a ciascuno
Del
futuro squarciar solea il velame.
Figlio
a questo era il pellegrin che stette
Di
Telemaco al fianco, e si chiamava
Teoclimèno;
appo la negra nave,
Mentr'ei
libava e supplicava, il colse,
E a lui
con voci alate: "Amico", disse,
"Poich'io
ti trovo a questi uffici intento,
Pe'
sagrifizi tuoi, pel dio cui gli offri,
Per lo
tuo capo stesso e per cotesti
Compagni
tuoi, non mi nasconder nulla
Di
quanto io chiederò. Chi, e donde sei?
Dove i
parenti a te? e la patria dove?
"Stranier",
così Telemaco rispose,
"Su
i labbri miei non sonerà che il vero.
Itaca è
la mia patria, il padre è Ulisse,
Se un
padre ho ancor: quel, di cui forte io temo.
Però
con negra nave e gente fida
Partii,
cercando per diversi lochi
Novelle
di quel misero, cui lunge
Tien
dalla patria sua gran tempo il fato".
E il
pari ai dèi Teoclimèno: "Anch'io
Lungi
erro dalla mia, dacché v'uccisi
Uom
della mia tribù, che lasciò molti
Parenti
e amici prepossenti in Argo.
Delle
lor man vendicatrici uscito,
Fuggo,
e sieguo il destin che l'ampia terra
Con
pie' ramingo a calpestar mi tragge.
Deh! su
la nave tua me supplicante
Ricovra,
e da color che vengon forse
Su i
miei vestigi, tu, che il puoi, mi salva".
Il
prudente Telemaco di nuovo:
"Dalla
mia nave, in cui salir tu brami,
Esser
non potrà mai ch'io ti respinga.
Seguimi
pur: non mancheranti in nave
Quei,
che di darti è in me, doni ospitali".
Ciò
detto, l'asta dalla man gli prese,
E della
nave stésela sul palco.
Poscia
montovvi e sedé in poppa, e al fianco
Seder
si feo Teoclimèno. Sciolte
Dai
compagni le funi, ei lor impose
Di
correre agli attrezzi, ed i compagni
Ratti
ubbidiro: il grosso abete in alto
Drizzaro,
e l'impiantâro entro la cava
Base,
di corda l'annodaro al piede,
E le
candide vele in su tiraro
Con
bene attorti cuoi. La dea che in giro
Pupille
tinte d'azzurrino muove,
Precipite
mandò dal cielo un vento
Destro,
gagliardo, perché in brevi istanti
Misurasse
del mar l'onde il naviglio.
Crune
passò il buon legno, e la di belle
Acque
irrigata Calcide, che il sole
Già
tramontava ed imbrunìan le strade;
E,
spinto sempre da quel vento amico,
Cui
governava un dio, sopra Fea sorse,
E di là
costeggiò l'Elide, dove
Regnan
gli Epei. Quinci il figliuol d'Ulisse
Tra le
scoscese Echinadi si mise,
Pur
rivolgendo nel suo cor, se i lacci
Schiverebbe
de' proci, o vi cadrebbe.
Ma in
altra parte Ulisse e il buon custode,
Sedean
sott'esso il padiglione a cena,
E non
lunge sedean gli altri pastori.
Pago
de' cibi il natural talento,
Ulisse
favellò, tentando Eumèo,
S'ei,
non cessando dalle cure amiche,
Ritenerlo
appo sé nella sua cara
Stalla
intendesse o alla città mandarlo:
"Eumèo",
disse, "m'ascolta; e voi pur tutti.
Tosto
che il ciel s'inalbi, alla cittade,
Ond'io
te non consumi ed i compagni,
Condurmi
io voglio a mendicar la vita.
Ma tu
d'utili avvisi, e d'una scorta
Fidata
mi provvedi. Andrò vagando
Di
porta in porta, e ricercando, come
Sfòrzami
rea necessità, chi un pane
Mi
porga ed una ciotola. D'Ulisse
Mi farò
ai tetti, e alla sua donna saggia
Novelle
recheronne, e avvolgerommi
Tra i
proci alteri, che lasciarmi forse
Nella
lor copia non vorran digiuno.
Io, che
piaccia lor, subito e bene,
Eseguirò;
poiché saper t'è d'uopo
Che per
favor del messaggiero Ermete,
Da cui
grazia ed onore acquista ogni opra,
Tal
son, che ne' servigi, o il foco sparso
Raccor
convenga, o le risecche legna
Fendere,
o cuocer le tagliate carni,
O il
vin d'alto versare, uffici tutti
Che i
minori prestar sogliono i grandi,
Me
nessun vince su l'immensa terra".
Sdegnato
assai gli rispondesti, Eumèo:
"Ahi!
qual pensier ti cadde, ospite, in capo?
Brami
perir, se raggirarti pensi
Tra i
proci, la cui folle oltracotanza
Sale
del ciel sino alla ferrea volta.
Credi a
te somigliare i lor donzelli?
Giovani
in bella vestimenta, ed unti
La
chioma sempre e la leggiadra faccia,
Ministrano
ai superbi; e sempre carche
Delle
carni, de' pani e de' licori
Splendono
agli occhi le polite mense.
Rimani:
che né a me, né de' compagni
Grave
ad alcun la tua presenza torna.
Ma come
giunto sia d'Ulisse il figlio,
Da lui
tunica e manto, e da lui scorta
Riceverai,
dove che andar t'aggradi".
"Eumèo",
rispose il pazïente Ulisse,
"possa
Giove amar te, siccome io t'amo,
Te, che
al vagar mio lungo ed all'inopia
Ponesti
fine! Io non so peggio vita:
Ma il
famelico stomaco latrante
Gl'ìnopi
a errar, per acchetarlo, sforza,
E que'
mali a soffrir, che ad una vita
Povera
s'accompagnano e raminga.
Or,
quando vuoi ch'io teco resti e aspetti
Telemaco,
su via, della canuta
Madre
d'Ulisse parlami e del padre,
Che al
tempo che il figliuol sciolse per Troia,
Della
vecchiezza il limitar toccava.
Veggon
del Sole in qualche parte i rai?
O
d'Aide la magion freddi gli accolse?"
"Ospite",
ripigliò l'inclito Eumèo,
"Altro
da me tu non udrai che il vero.
Laerte
vive ancora, e Giove prega
Che la
stanca dal corpo alma gli tragga:
Tanto
del figlio per l'assenza, tanto
Per la
morte si duol della prudente
Moglie,
che intatta disposollo, e in trista
Morendo
il collocò vecchiezza cruda.
La
lontananza del suo figlio illustre
A poco
a poco ed infelicemente,
Sotterra
la condusse. Ah tolga Giove,
Che
qual m'è amico, e con amor mi tratta,
Per una
simil via discenda a Dite!
Finch'ella
visse, m'era dolce cosa,
Sebben
dolente si mostrasse in faccia,
L'interrogarla
e il ricercarla spesso:
Poich'ella
mi nutrì con la de' pepli
Vaga
Ctimene, sua figliuola egregia,
E de'
suoi parti l'ultimo. Con questa
Cresceami,
e quasi m'onorava al pari.
Ma come
fummo della nostra etade
Ambi
sul primo invidïabil fiore,
Sposa
lei fêro in Same, e ricchi doni
N'ebbero
ed infiniti; e me con vesti
Leggiadre
in dosso e bei calzari ai piedi,
Mandò i
campi abitar la mia signora,
Che di
cor ciascun dì vie più m'amava.
Quanto
seco io perdetti! È ver che queste
Fatiche
dure, in che la vita io spendo,
Mi
fortunano i numi, e ch'io gli estrani
Finor
ne alimentai, non che me stesso.
Ma di
fatti conforto o di parole
Sperare
or da Penelope non lice:
Ché
tutta in preda di superba gente
È la
magion; né alla regina ponno
Rappresentarsi
e far domande i servi,
Pigliar
cibo e bevanda al suo cospetto,
E poi
di quello ancor, che l'alma loro
Sempre
rallegra, riportare ai campi".
"Eumèo",
rispose l'avveduto Ulisse,
"Te
dalla patria lungi e da' parenti
Pargoletto
sbalzò dunque il tuo fato?
Orsù,
ciò dimmi e schiettamente: venne
La
città disertata, in cui soggiorno
Avea la
madre veneranda e il padre?
O
incautamente abbandonato fosti
Presso
le agnelle o i tori, e gente ostile
Ti rapì
su le navi, e ai tetti addusse
Di
questo re, che ti comprò a gran prezzo?"
Ed a
rincontro Eumèo, d'uomini capo:
"Quando
a te risaperlo, ospite, cale,
Tacito
ascolta e goditi, e alle labbra
Metti,
assiso, la tazza. Or così lunghe
Le
notti van, che trapassar si ponno
Parte
dormendo, e novellando parte.
Né
corcarti t'è d'uopo innanzi al tempo:
Anco il
gran sonno nuoce. Ove degli altri
Ciò
piacesse ad alcuno, esca e s'addorma:
Ma,
fatto bianco l'orïente, siegua,
Non
digiuno però, gl'ispidi verri.
E noi
sediam nel padiglione a mensa,
Ambi a
vicenda delle nostre doglie
Diletto,
rimembrandole, prendendo;
Poiché
de' mali ancora uom, che sofferse
Molto e
molto vagò, prende diletto.
"Cert'isola,
se mai parlar ne udisti,
Giace a
Delo di sopra, e Siria è detta,
Dove
segnati del corrente sole
I
ritorni si veggono. Già grande
Non è
troppo, ma buona; armenti e greggi
Produce
in copia, e ogni speranza vince
Col
frumento e col vino. Ivi la fame
Non
entra mai, né alcun funesto morbo
Consuma
lento i miseri mortali:
Ma come
il crine agli abitanti imbianca,
Cala,
portando in man l'arco d'argento,
Apollo
con Artèmide, e gli uccide
Di
saetta non vista un dolce colpo.
Due
cittadi ivi son di nerbo eguale;
E
l'Ormenide Ctesio, il mio divino
Padre,
dell'una e l'altra il fren reggea.
Capitò
un giorno di Fenicî, scaltra
Gente e
del mare misuratrice illustre,
Rapida
nave negra, che infinite
Chiudea
in se stessa bagattelle industri.
Sedusser
questi una Fenicia donna,
Che il
padre schiava nel palagio avea,
Bella,
di gran persona, e di leggiadri
Lavori
esperta. I maculati panni
Lavava
al fonte, presso il cavo legno,
Quando
un di que' ribaldi a ciò la trasse,
Che
alle femmine incaute, ancor che vôte
Non
sien d'ogni virtude, il senno invola,
Poscia
chi fosse, richiedeale, e donde
Venuta;
ed ella senza indugio l'alte
Del
padre mio case additògli e disse:
"Io
cittadina della chiara al mondo
Sidone
metallifera e del ricco
Aribante
figliuola esser mi vanto.
Tafî
ladroni mi rapiro un giorno,
Che dai
campi tornava, e mi vendèro,
Trasportata
sul mare, a quel signore,
Che ben
degno di me prezzo lor diede".
"Non
ti sarìa", colui rispose allora,
"Caro
dunque il seguirci, ed il superbo
De'
tuoi parenti rivedere albergo?
Riveder
lor, che pur son vivi, e in fama
Di
dovizia tra noi?" "Certo mi fôra"
La
donna ripigliò, "sol che voi tutti
Di
ricondurmi al natìo suol giuriate
Salva
sul mar navigero e sicura".
Disse;
e tutti giuravano. E in tal guisa
Tra lor
di nuovo favellò la donna:
"Statevi
or cheti e, o per trovarmi al fonte
O
incontrarmi tra via, nessun mi parli.
Risaprebbelo
il vecchio e di catene
Me
graverebbe, sospettando, e a voi
Morte,
cred'io, macchinerìa. La cosa
Tenete
dunque in seno, e a provvedervi
Di
quanto v'è mestier pensate intanto.
La nave
appien vettovagliata e carca,
Giungane
a me l'annunzio in tutta fretta,
Ed io
non che altro, recherò con meco
Quanto
sotto alle man verrammi d'oro.
Altra
mercé vi darò ancora: un figlio
Di
quest'ottimo re nel suo palagio
Rallevo,
un vispo tal, che ad ogn'istante
Fuor mi
scappa di casa. Io vi prometto
Alla
nave condurlovi; né voi
Picciol
tesor ne ritrarrete, ovunque
Per
venderlo il meniate a estranie genti".
Disse,
e alla reggia ritornò. Coloro,
Nel
paese restando un anno intero
Fean di
vitto e di merci immenso acquisto.
Fornito
il carco e di salpare in punto,
Un
messaggio alla femmina spedîro,
Uomo
spedir d'accorgimenti mastro,
Che con
un bello, aureo monile e d'ambra
Vagamente
intrecciato, a noi sen venne.
Madre
ed ancelle il rivolgean tra mano,
Prezzo
non lieve promettendo, e a gara
Gli
occhi vi tenean su. Tacitamente
Quegli
ammiccò alla donna: indi alla nave
Drizzava
i passi. Ella per mano allora
Presemi,
e fuori uscì: trovò le mense
Nell'atrio
e i nappi, in che bevean del padre
I commensali
al parlamento andati
Con
esso il padre caro; e di que' nappi
Tre,
che in grembo celò, via ne portava;
Ed io
seguìala nella mia stoltezza.
Già
tramontava il Sole, e di tenèbre
Ricoprìasi
ogni strada; e noi veloci
Giungemmo
al porto e alla Fenicia nave.
Tutti
saliti, le campagne acquose
Fendevam
lieti con un vento in poppa,
Che da
Giove spiccavasi. Sei giorni
Le
fendevamo e notti sei: ma Giove
Il
settimo non ebbe agli altri aggiunto,
Che
dalla dea, d'avventar dardi amante,
Colpita
fu la nequitosa donna.
Nella
sentina con rimbombo cadde,
Quasi
trafitta folaga. Tra l'acque
La
scagliaro i Fenici, esca futura
Ai
marini vitelli; e nella nave
Solo io
rimasi, abbandonato e mesto.
Poi
l'onda e il vento li sospinse ai lidi
D'Itaca,
dove me comprò Laerte.
E così
questa terra, ospite, io vidi".
"Eumèo",
rispose il pazïente Ulisse,
"Molto
a me l'alma commovesti in petto,
Narrando
i casi tuoi. Ma Giove almeno
Vicin
tosto ti pose al male il bene,
Poiché
venisti ad un signor cortese,
Che
quanto a rallegrar non che a serbare,
La vita
e d'uopo, non ti niega. Ed io
Sol
dopo lunghi e incomodi vïaggi
Di
terra in terra, a queste rive approdo.
Tali
fra lor correan parole alterne.
Dormiro
al fin, ma non un lungo sonno;
Ché in
seggio a comparir d'oro la bella
Già non
tardò ditirosata Aurora.
Frattanto
di Telemaco i compagni
Presso
alla riva raccogliean le vele.
L'albero
declinâr, lanciâro a remi
La nave
in porto, l'ancore gittâro,
Ed i
canapi avvinsero. Ciò fatto,
Sul
lido usciàno ed allestìan la cena.
Rintuzzata
la fame, e spenta in loro
La
sete: "Voi", così d'Ulisse il figlio,
"Alla
città guidatemi la nave,
Mentre
a' miei campi ed ai pastori io movo.
Del
cielo all'imbrunir, visti i lavori,
Io pure
inurberommi, e in premio a voi
Lauto
domani imbandirò convito".
"E
io dove ne andrò, figlio diletto?"
Teoclimèno
disse. "A chi tra quelli,
Che
nella discoscesa Itaca sono
Più
potenti, offrirommi? Alla tua madre
Dritto
ir dovronne, e alla magion tua bella?"
Il
prudente Telemaco riprese:
"Io
stesso in miglior tempo al mio palagio
T'invïerei,
dove cortese ospizio
Tu non
avresti a desïare. Or male
Capiteresti:
io non sarei con teco
Né te
vedrìa Penelope, che scevra
Dai
proci, a cui raro si mostra, tele
Nelle
più alte stanze a oprare intende.
Un uom
bensì t'additerò, cui franco
Puoi
presentarti: Eurimaco, del saggio
Polibo
il figlio, che di nume in guisa
Onoran
gl'Itacesi. Egli è il più prode,
E il
regno, più che agli altri, e la consorte
D'Ulisse
affêtta. Ma se, pria che questo
Maritaggio
si compia, i proci tutti
Non
scenderanno ad abitar con Pluto,
L'Olimpio
il sa, benché sì alto alberghi".
Tal
favellava; ed un augello a destra
Gli
volò sovra il capo, uno sparviere
Ratto
nunzio d'Apollo: avea nell'ugne
Bianca
colomba e la spennava, e a terra
Fra lo
stesso Telemaco e la nave
Le
piume ne spargea. Teoclimèno
Ciò
vide appena, che il garzon per mano
Prese e
il trasse in disparte, e sì gli disse:
"Senza
un nume, o Telemaco, l'augello
Non
volò a destra. Io, che di contra il vidi
Per
augurale il riconobbi. Stirpe
Più
regia della tua qui non si trova,
Qui
possente ad ognor fia la tua casa".
"Così
questo", Telemaco rispose,
"S'avveri
o forestier, com'io tai pegni
Ti
darei d'amistà, che te, chiunque
Ti
riscontrasse, chiamerìa beato".
Quindi
si volse in cotal guisa al fido
Suo
compagno Pirèo: "Figlio di Clito,
Tu che
le voglie mie festi mai sempre
Tra
quanti a Pilo mi seguiro e a Sparta,
Condurmi
il forestiero in tua magione
Piacciati
e usargli, finché io vengo, onore".
"Per
tardi", gli rispose il buon Pireo,
"Che
tu venissi, io ne avrò cura, e nulla
D'ospitale
sarà che nel mio tetto,
Dove il
condurrò tosto, ei non riceva".
Detto,
salse il naviglio, e dopo lui
Gli
altri salìanlo, e s'assidean su i banchi.
Telemaco
s'avvinse i bei calzari
Sotto i
pie' molli, e la sua valid'asta
Rameappuntata,
che giacea sul palco
Della
nave, in man tolse; e quei le funi
Sciolsero.
Si spingean su con la nave
Vêr la
città, come il garzone ingiunse;
Ed ei
studiava il passo, in sin che innanzi
Gli
s'aperse il cortile ove le molte
S'accovacciavan
setolose scrofe,
Tra cui
vivea l'inclito Eumèo, che, o fosse
Nella
veglia o nel sonno, i suoi padroni
Dormendo
ancor, non che vegliando, amava.
LIBRO
XVI
L'inclito
Eumèo nel padiglione e Ulisse,
Racceso
il foco in su la prima luce,
Leggier
pasto allestìano; e fuori al campo
Co'
neri porci uscìan gli altri custodi.
Ma i
cani latrator, non che a Telemaco
Non
abbaiar, festa gli feano intorno.
S'avvide
Ulisse del blandir de' cani,
E
d'uomo un calpestìo raccolse e queste
Voci
drizzò al pastor: "Certo qua, Eumèo,
O tuo
compagno o conoscente, giunge,
Poichè,
lontani dal gridare, i cani
Latratori
carezzanlo, ed il basso
De'
suoi vicini piè strepito io sento.
Non era
Ulisse al fin di questi detti,
Che
nell'atrio Telemaco gli apparve".
Balzò
Eumèo stupefatto e a lui di mano
I vasi,
ove mescea l'ardente vino,
Caddero:
andògli incontro e il capo ed ambi
Gli
baciò i rilucenti occhi e le mani,
E un
largo pianto di dolcezza sparse.
Come un
tenero padre un figlio abbraccia,
Che il
decim'anno da remota piaggia
Ritorna,
unico figlio e tardi nato,
Per cui
soffrì cento dolori e cento:
Non
altrimenti Eumèo, gittate al collo
Del
leggiadro Telemaco le braccia,
Tutto
baciollo, quasi allora uscito
Dalle
branche di Morte, e lagrimando:
"Telemaco",
gli disse, "amato lume,
Venisti
adunque! Io non avea più speme
Di te
veder, poiché volasti a Pilo.
Su via,
diletto figlio, entrar ti piaccia,
Sì
ch'io goda mirarti or che d'altronde
Nel mio
soggiorno capitasti appena.
Raro i
campi tu visiti e i pastori:
Ma la
città ritienti e la funesta
Turba
de' proci che osservar ti cale".
"Entrerò,
babbo mio, quegli rispose:
Ché per
te vederti, e le tue voci
Per
ascoltare, al padiglione io vegno.
Restami
nel palagio ancor la madre?
O alcun
de' proci disposolla, e nudo
Di
coltri e strati, e ai sozzi aragni in preda
Giace
del figlio di Laerte il letto?"
"Nel
tuo palagio", ripigliava Eumèo,
"Riman
con alma intrepida la madre,
Benché
nel pianto a lei passino i giorni,
Passin
le notti; ed ella viva indarno".
Ciò
detto, l'asta dalla man gli prese,
E
Telemaco il piè mettea sul marmo
Della
soglia; ed entrava. Ulisse a lui
Lo
scanno, in cui sedea, cesse; ma egli
Dal
lato suo non consentìalo, e: "Statti,
Forestier",
disse, "assiso; un altro seggio
Noi
troverem nella capanna nostra.
Né
quell'uomo è lontan, che dar mel puote".
Ulisse,
indietro fAttosi, di nuovo
Sedea.
Ma il saggio guardïan distese
Virgulti
verdi e una vellosa pelle,
E il
garzon vi adagiò. Poi le rimaste
Del
giorno addietro abbrustolate carni
Lor
recò su i taglieri; e, ne' canestri
Posti
l'un sovra l'altro in fretta i pani,
E il
rosso vino nelle tazze infuso,
Ad
Ulisse di contra egli s'assise.
Sbramato
della mensa ebbero appena
Il
desiderio natural, che queste
Telemaco
ad Eumèo drizzò parole:
"Babbo,
d'onde quest'ospite? In che guisa
E quai
nocchieri ad Itaca il menâro?
Certo a
piedi su l'onda ei qua non venne".
E tu
così gli rispondesti, Eumèo:
"Nulla,
figliuol, ti celerò. Natìo
Dell'ampia
Creta egli si vanta, e dice
Molti
paesi errando aver trascorsi
Per
volontà d'un nume avverso. Al fine
Si calò
giù da una Tesprozia nave,
E al
mio tugurio trasse. Io tel consegno.
Quel
che tu vuoi, ne fa': sol ti rammenta
Ch'ei
di tuo supplicante ambisce il nome".
"Grave
al mio cor", Telemaco riprese,
"Parola,
Eumèo, tu proferisti. Come
L'ospite
ricettar nella paterna
Magion
poss'io? Troppo io son verde ancora,
Né
respinger da lui con questo braccio
Chi
primo l'assalisse, io mi confido.
La
madre sta infra due, se, rispettando
La
comun voce e il marital suo letto,
Viva
col figlio e la magion governi;
O a
quel s'unisca degli Achei, che doni
Le
presenta più ricchi ed è più prode.
Bensì
al tuo forestier tunica e manto,
E una
spada a due tagli e bei calzari
Dar
voglio, e là invïarlo, ov'ei desìa.
Che se
a te piace ritenerlo, e cura
Prenderne,
io vesti e d'ogni sorta cibi,
Perché
te non consumi e i tuoi compagni,
Qua
manderò. Ma ch'ei s'accosti ai proci,
Che
d'ingiurie il feriscano e d'oltraggi
Con
dolor mio, non sarà mai ch'io soffra.
Che
potrìa contro a tanti e sì valenti
Nemici
un sol, benché animoso e forte?"
"Nobile
amico", così allora Ulisse,
"Se
anco a me favellare or si concede,
Il cor
nel petto mi si rode, udendo
La
indegnitade in tua magion de' proci,
Mentre
di tal sembiante io pur ti veggo.
Cedi tu
volontario? O in odio forse
Per
l'oracolo d'un dio t'ha la cittade?
O i
fratelli abbandónanti, cui tanto
S'affida
l'uom nelle più dure imprese?
Perché
con questo cor l'età mia prima
Non ho?
Perché non son d'Ulisse il figlio?
Perché
Ulisse non son? Vorrei che tronco
Per
mano estrana mi cadesse il capo,
S'io,
nella reggia penetrando, tutti
Non
mandassi in rovina. E quando ancora
Me
soverchiasse l'infinita turba,
Perir
torrei nella mia reggia ucciso
Pria
che mirar tuttora opre sì turpi,
Gli
ospiti mal menati, vïolate
(Ahi
colpa!) le fantesche, ed inghiottito
A caso,
indarno e senza fine o frutto,
Quanto
si miete ogni anno e si vendemmia.
"Straniero",
eccoti il ver, ratto rispose
Il
prudente Telemaco: "non tutti
M'odiano
i cittadin, né de' fratelli,
Cui
tanto l'uom nelle più dubbie imprese
Suole
appoggiarsi, richiamarmi io posso.
Volle
il Saturnio che di nostra stirpe
D'età
in età spuntasse un sol rampollo.
Arcesio
generò Laerte solo,
Laerte
il solo Ulisse, e poscia Ulisse
Me
lasciò nel palagio, unico figlio
Di cui
poco godé: quindi piantossi
Nemica
gente al nostro albergo in seno.
Quanti
ha Dulichio e Same e la selvosa
Zacinto
e la pietrosa Itaca prenci,
Ciascun
la destra della madre agogna.
Ella né
rigettar può, né fermare
Le
inamabili nozze. Intanto i proci
Coprono
i deschi con le pingui membra
Delle
sgozzate vittime, e gli averi
Mi
struggon tutti; né anderá molto forse,
Che più
grata sarò vittima io stesso;
Ma ciò
de' numi su i ginocchi posa.
Babbo,
tu vanne rapido, e alla madre
Narra
che salvo io le tornai da Pilo.
Così
nárralo a lei, che alcun non t'oda
Degli
Achivi e qua riedi, ov'io m'arresto.
Ben sai
che molti del mio sangue han sete".
E tu in
risposta gli dicesti, Eumèo:
"Conosco,
veggo: ad uom che intende, parli.
Ma non
vorrai che messo all'infelice
Laerte
ancor per la via stessa io vada?
Ei,
pensoso d'Ulisse un tempo e tristo,
Pur dei
campi ai lavor guardava intento,
E dove
brama nel pungesse, in casa
Pasteggiava
co' servi. Ed oggi è fama
Che da
quel dì che navigasti a Pilo,
Né
pasteggiò co' servi, né de' campi
Più ai
lavori guardò: ma sospirando
Siede e
piangendo, e alle scarne ossa intanto
S'affigge,
ohimè! l'inaridita cute".
"Gran
pietade"Télemaco riprese,
"Ma
lasciamolo ancor per brevi istanti
Nella
sua doglia. Se in man nostra tutto
Fosse,
il ritorno a procurar del padre
Non si
rivolgerebbe ogni mia cura?
Esponi
adunque l'imbasciata, e riedi,
Né a
lui pe' campi divertir; ma solo
Priega
la madre, che in tua vece al vecchio
Secreta
imbasciatrice e frettolosa
La
veneranda economa destini.
Detto
così, eccitollo; ed ei con mano
Presi i
calzari, e avvìntiseli ai piedi,
Subitamente
alla città tendea.
Non
partì dalla stalla il buon custode,
Che
l'armigera dea non se ne addesse.
Scese
dal cielo e somigliante in vista
A bella
e grande e de' più bei lavori
Femmina
esperta, si fermò alla porta
Del
padiglion di contra, e a Ulisse apparve.
Telemaco
non vìdela: ché a tutti
Non si
mostran gl'Iddii. Videla il padre,
E i
mastini la videro, che a lei
Non
abbaiAr, ma del cortil nel fondo
Trepidi
si celâro e guaiolanti.
Ella
accennò co' sopraccigli, e il padre
La
intese, ed uscì fuori, e innanzi stette
Nella
corte alla dea, che sì gli disse:
"O
Laerzìade generoso e accorto,
Tempo è
che al tuo figliuol tu ti palesi,
Onde,
sterminio meditando ai proci,
Moviate
uniti alla città. Vicina
Ed
accinta a pugnar, tosto m'avrete".
Tacque
Minerva, e della verga d'oro
Toccollo.
Ed ecco circondargli a un tratto
Belle
vesti le membra, e il corpo farsi
Più
grande e più robusto ecco le guance
Stendersi,
e già ricolorarsi in bruno,
E
all'azzurro tirar su per lo mento
I peli,
che parean d'argento in prima.
La dea
sparì, rïentrò Ulisse; e il figlio,
Da
maraviglia preso e da terrore,
Chinò
gli sguardi, e poscia: "Ospite", disse,
"Altro
da quel di prima or mi ti mostri,
Altri
panni tu vesti, ed a te stesso
Più non
somigli. Alcun per fermo sei
Degli
abitanti dell'Olimpo. Amico
Guárdane,
acciò per noi vittime grate,
Grati
s'offrano a te doni nell'oro
Con
arte sculti: ma tu a noi perdona".
"Non
sono alcun degl'Immortali", Ulisse
Gli
rispondea. "Perché agli dèi m'agguagli?
Tuo
padre io son: quel per cui tante soffri
Nella
tua fresca età sciagure ed onte".
Così
dicendo baciò il figlio, e al pianto,
Che
dentro gli occhi avea costantemente
Ritenuto
sin qui, l'uscita aperse.
Telemaco
d'aver su gli occhi il padre
Credere
ancor non sa. "No", replicava,
"Ulisse
tu, tu il genitor non sei,
Ma per
maggior mia pena un dio m'inganna.
Tai
cose oprar non vale uom da se stesso,
Ed è
mestier che a suo talento il voglia
Ringiovanire,
od invecchiarlo, un nume.
Bianco
i capei testé, turpe le vesti
Eri, ed
ora un Celicola pareggi".
"Telemaco",
riprese il saggio eroe,
"Poco
per veritade a te s'addice,
Mentre
possiedi il caro padre, solo
Maraviglia
da lui trarre e spavento:
Ché un
altro Ulisse aspetteresti indarno.
Si,
quello io son, che dopo tanti affanni
Durati
e tanti, nel vigesim'anno
La mia
patria rividi. Opra fu questa
Della
Tritonia bellicosa diva,
Che
qual più aggrada a lei, tale mi forma:
Ora un
canuto mendicante, e quando
Giovane
con bei panni al corpo intorno:
Però
che alzare un de' mortali al cielo,
O negli
abissi porlo, è lieve ai numi".
Così
detto, s'assise. Il figlio allora
Del
genitor s'abbandonò sul collo,
In
lagrime scoppiando ed in singhiozzi.
Ambi un
vivo desir sentìan del pianto:
Né di
voci sì flebili e stridenti
Risonar
s'ode il saccheggiato nido
D'aquila
o d'avoltoio, a cui pastore
Rubò i
figliuoli non ancor pennuti,
Come
de' pianti loro e delle grida
Miseramente
il padiglion sonava.
E già
piagnenti e sospirosi ancora
Lasciati
avrìali, tramontando, il Sole,
Se il
figlio al padre non dicea: "Qual nave,
Padre,
qua ti condusse, e quai nocchieri?
Certo
in Itaca il piè non ti portava".
"Celerò
il vero a te?" l'eroe rispose,
"I
Feaci sul mar dotti, e di quanti
Giungono
errando alle lor piagge industri
Riconduttori,
me su ratta nave
Dormendo
per le salse onde guidâro,
E in
Itaca deposero. Mi fêro
Di
bronzo in oltre e d'oro e intesti panni
Bei
doni, e molti, che in profonde grotte
Per
consiglio divin giaccionmi ascosi.
Ed io
qua venni al fin, teco de' proci
Nostri
nemici a divisar la strage,
Con
l'avviso di Pallade. Su via,
Cóntali
a me, si ch'io conosca, quanti
Uomini
sono e quali, e nella mente
Libri,
se contra lor combatter soli,
O in
aiuto chiamare altri convegna".
"O
padre mio", Telemaco riprese,
"Io
sempre udìa te celebrar la fama
Bellicoso
di man, di mente accorto:
Ma tu
cosa dicesti or gigantesca
Cotanto
che alta maraviglia tiemmi:
Due
soli battagliar con molti e forti?
Non
pensar che a una decade o due sole
Montin:
sono assai più. Cinquantadue
Giovani
eletti da Dulichio uscîro,
E sei
donzelli li seguìano. Venti
Ne
mandò Same e quattro; e abbandonâro
Venti
Zacinto. Itaca stessa danne
Dodici,
e tutti prodi; e v'ha con essi
Medonte
araldo ed il cantor divino,
E due
dell'arte loro incliti scalchi.
Ci
affronterem con questa turba intera,
Che la
nostra magion possiede a forza?
Temo
che allegra non ne avrem vendetta.
Se rinvenir
si può chi a noi soccorra
Con
pronto braccio e cor dunque tu pensa".
"Chi
a noi soccorra?" rispondeagli Ulisse.
"Giudicar
lascio a te, figlio diletto,
Se
Pallade a noi basti, e basti Giove,
O
cercar d'altri, che ci aiuti, io deggia".
E il
prudente Telemaco: "Quantunque
Siedan
lungi da noi su l'alte nubi,
Nessun
ci può meglio aiutar di loro,
Che su
i mortali imperano e su i Divi".
"Non
sederan da noi lungi gran tempo",
Il
saggio Ulisse ripigliava, "quando
Sarà
della gran lite arbitro Marte.
Ma tu
il palagio su l'aprir dell'alba
Trova,
e t'aggira tra i superbi proci.
Me poi
simile in vista ad un mendìco
Dispregevole
vecchio il fido Eumèo
Nella
cittade condurrà. Se oltraggio
Mi
verrà fatto tra le nostre mura,
Soffrilo;
e dove ancor tu mi vedessi
Trar per
il piè fuor della soglia, o segno
D'acerbi
colpi far, lo sdegno affrena.
Sol di
cessar dalle follìe gli esorta,
Parole
usando di mèle consperse,
A cui
non baderan: però che pende
L'ultimo
sovra lor giorno fatale.
Altro
dirôtti, e tu fedel conserva
Nel tuo
petto ne fa'. Sei tu mio figlio?
Scorre
per le tue vene il sangue mio?
Non oda
alcun ch'è in sua magione Ulisse;
E né a
Laerte pur, né al fido Eumèo,
Né alla
stessa Penelope, ne venga.
Noi
soli spïerem, tu ed io, l'ingegno
Dell'ancelle
e de' servi; e vedrem noi,
Qual ci
rispetti e nel suo cuor ci tema,
O quale
a me non guardi e te non curi,
Benché
fuor dell'infanzia, e non da ieri".
"Padre",
riprese il giovinetto illustre,
"Spero
che me conoscerai tra poco,
E ch'io
né ignavo ti parrò, né folle.
Ma
troppo utile a noi questa ricerca,
Credo,
non fôra; e ciò pesar ti stringo.
Vagar
dovresti lungamente e indarno
Visitando
i lavori e ciascun servo
Tentando;
e intanto i proci entro il palagio
Ogni
sostanza tua struggon tranquilli.
Ben
tastar puoi delle fantesche l'alma
Qual
colpevole sia, quale innocente:
Ma de'
famigli a investigar pe' campi
Soprastare
io vorrei, se di vittoria
Segno
ti diè l'egidarmato Giove".
Mentre
si fean da lor queste parole,
La
nave, che Telemaco e i compagni
Condotti
avea da Pilo, alla cittade
Giunse
e nel porto entrò. Tirâro in secco
Gli
abili servi e disarmâro il legno,
E di
Clito alla casa i prezïosi
Doni
recAro dell'Atride. In oltre
Mosse
un araldo alla magion d'Ulisse
Nunzïando
a Penelope che il figlio
Ne'
campi suoi si trattenea, perch'ella,
Visto
entrar senza lui nel porto il legno,
Di
nuovo pianto non bagnasse il volto.
L'araldo
ed il pastor diêr l'un nell'altro
Con la
stessa imbasciata entro i lor petti.
Né pria
varcar della magion la soglia,
Che il
banditor gridò tra le fantesche:
"Reina,
è giunto il tuo diletto figlio".
Ma il
pastore a lei sola e all'orecchio,
Ciò
tutto espose, che versato in core
Telemaco
gli avea: quindi alle mandre
Ritornare
affrettavasi, l'eccelse
Case
lasciando, e gli steccati a tergo.
Ma
tristezza e dolor l'animo invase
De'
proci. Uscîro del palagio, il vasto
Cortile
attraversAro, ed alle porte
Sedean
davanti! "Amici", in cotal guisa
Eurìmaco
a parlar tra lor fu il primo:
"Ebben,
che dite voi di questo, a cui
Fede sì
poca ciaschedun prestava,
Vïaggio
di Telemaco? Gran cosa
Certo,
e condotta audacemente a fine.
Convien
nave mandar delle migliori
Con
buoni remiganti, acciocchè torni
Quella
di botto, che Agli agguati stava".
Profferte
non avea l'ultime voci,
Che
Anfinomo, rivolti al lido gli occhi,
Un
legno scorse nel profondo porto,
Ed
altri intesi a ripiegar le vele,
Altri i
remi a deporre, e, dolcemente
Ridendo:
"Non s'invii messaggio alcuno,
Disse;
già dentro sono: o un nume accorti
Li
fece, o trapassar videro, o indarno
Giunger
tentáro del garzon la nave".
Sorsero,
e al lito andro. Il negro legno
Fu
tratto in secco, e disarmato; e tutti
Per
consultar si radunaro i proci.
Né con
lor permettean che altri sedesse,
Giovane
o vecchio; e così Antinoo disse:
"Poh!
come a tempo il dilivraro i numi!
L'intero
dì su le ventose cime
A
vicenda sedean gli esploratori:
Poi,
dato volta il sol, la notte a terra
Mai non
passammo, ma su ratta nave
Stancavam
l'onde sino ai primi albori,
Tendendo
insidie al giovane, e l'estremo
Preparandogli
eccidio. E non pertanto
Nella
sua patria il ricondusse un dio.
Consultiam
dunque, come certa morte
Dare al
giovine qui. Speriamo indarno
La
nostra impresa maturar, s'ei vive:
Ché non
gli falla il senno, e a favor nostro
La
gente, come un dì, più non inchina.
Non
aspettiam che a parlamento ei chiami
Gli
Achivi tutti, né crediam che lento
Si
mostri, e molle troppo. Arder di sdegno
Véggolo,
e, sorto in piè, dir che ruina
Noi gli
ordivamo, e che andò il colpo a vôto,
Prevenirlo
è mestieri, e o su la via
Della
cittade spegnerlo, o ne' campi.
Non
piace forse a voi la mia favella,
E
bramate ch'ei viva, e del paterno
Retaggio
goda interamente? Adunque
Noi dal
fruirlo ritiriamci, l'uno
Disgiungasi
dall'altro, e al proprio albergo
Si
renda. Indi Penelope richieda,
E quel
cui sceglie il fato, e che offre a lei
Più
ricchi doni la regina impalmi".
Tutti
ammutîro a cotai voci. Al fine
Sorse
tra lor dell'Arezìade Niso
La
regia prole, Anfinomo, che, duce
Di quei
competitor che dal ferace
Dulichio
uscîro, e di più sana mente
Tra i
rivali dotato, alla regina
Men,
che ogni altro, sgradìa co' detti suoi:
"Amici",
disse, "troppo forte impresa
Struggere
affatto un real germe. I numi
Domandiamone
in pria. Sarà di Giove
Questo
il voler? Vibrerò il colpo io stesso,
Non che
gli altri animar; dov'ei decreti
Diversamente,
io vi consiglio starvi".
Così
d'Arezio il figlio, e non indarno.
S'alzaro,
e rïentrâr nell'ampia sala,
E sovra
i seggi nitidi posaro.
Ma la
casta Penelope, che udito
Avea
per bocca del fedel Medonte
Il
mortal rischio del figliuol, consiglio
Prese
di comparire ai tracotanti
Proci
davante. La divina donna
Uscì
dell'erma stanza; e con le ancelle
Sul
limitar della dedalea sala
Giunta,
e adombrando co' sottili veli,
Che le
pendean dal capo, ambe le guance,
Antinoo
rampognava in questi accenti:
Antinoo,
alma oltraggiosa, e di sciagure
Macchinator,
nella città v'ha dunque
Chi tra
gli eguali tuoi primo vantarti
Per
saggezza osi, e per facondia? Tale
Giammai
non fosti. Insano! e al par che insano
Empio,
che di Telemaco alla vita
Miri e
non cùri i supplici, per cui
Giove dall'alto
si dichiara. Ignoto
Forse
ti fu sin qui, che fuggitivo
Qua
riparava e sbigottito un giorno
Il
padre tuo, che de' Tesproti a danno
Co'
Tafî predator s'era congiunto?
Nostri
amici eran quelli, e porlo a morte
Voleano,
il cor volean trargli del petto,
Non che
i suoi campi disertar: ma Ulisse
Si
levò, si frammise; e, benché ardenti,
Li
ritenea. Tu di quest'uom la casa
Ruini e
disonori; la consorte
Ne
ambisci, uccidi il figlio, e me nel fondo
Sommergi
delle cure. Ah! cessa, e agli altri
Cessare
ancor, quanto è da te, comanda".
"Figlia
illustre d'Icario", a lei rispose
Eurimaco
di Pòlibo, "fa' core,
E sì
tristi pensier da te discaccia.
Non è,
non fu, non sarà mai chi ardisca
Contra
il figlio d'Ulisse alzar la mano,
Me
vivo, e con questi occhi in fronte aperti.
Di
cotestui, cosa non dubbia, il nero
Sangue
scorrerìa giù per la mia lancia.
Me il
distruttor delle cittadi Ulisse
Tolse
non rado sovra i suoi ginocchi,
Le
incotte carni nella man mi pose,
L'almo
licor m'offrì. Quindi uom più caro
Io non
ho di Telemaco, e non voglio
Che la
morte dai proci egli paventi.
Se la
mandan gli dèi, chi può scamparne?"
Così
dicea, lei confortando, e intanto
L'eccidio
del figliuol gli stava in core.
Ma ella
salse alle sue stanze, dove
A
lagrimar si dava il suo consorte,
Finché,
per tregua a tanti affanni, un dolce
Sonno
invïolle l'occhiglauca Palla.
Con la
notte comparve il fido Eumèo
Ad
Ulisse ed a Telemaco, che, pingue
Sagrificato
ai numi adulto porco,
Lauta
se ne allestìan cena in quel punto.
Se non
che Palla al Laerziade appresso
Fecesi,
e lui della sua verga tocco,
Nella
vecchiezza il ritornò di prima
E ne'
primi suoi cenci; onde il pastore
Non
ravvisasse in faccia, e, mal potendo
Premer
nel cor la subitanea gioia,
Con
l'annunzio a Penelope non gisse.
"Ben
venga il buon pastor! così primiero."
Telemaco
parlò. "Qual corre grido
Per la
città? Vi rïentrâro i proci?
O mi
tendon sul mare insidie ancora?"
E tu
così gli rispondesti Eumèo:
"La
mente a questo io non avea, passando
Fra i
cittadini: ché portar l'avviso,
E di
botto redir, fu sol mia cura.
Bensì
m'avvenni al banditor, che primo
Corse
parlando alla Regina. Un'altra
Cosa
dirò, quando la vidi io stesso.
Prendendo
il monte che a Mercurio sorge,
E la
cittade signoreggia, vidi
Rapidamente
scendere nel porto
Nave
d'uomini piena, e d'aste acute
Carca e
di scudi. Sospettai che il legno
Fosse
de' proci; né più avanti io seppi".
A tai
voci Telemaco sorrise,
Pur
sogguardando il padre e gli occhi a un tempo
Del
custode schivando. A questo modo
Fornita
ogni opra e già parati i cibi,
D'una
egual parte in questi ognun godea.
Ma come
il lor desìo più non richiese,
Si
corcâro al fin tutti, ed il salubre
Dono
del sonno ricettâr nel petto.
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