Odissea

 

LIBRO IX

 

"Alcinoo Rege, che ai mortali tutti

Di grandezza e di gloria innanzi vai,

Bello è l'udir", gli replicava Ulisse,

"Cantor, come DemOdoco, di cui

Pari a quella d'un dio suona la voce:

Né spettacol più grato havvi, che quando

Tutta una gente si dissolve in gioia,

Quando alla mensa, che il cantor rallegra,

Molti siedono in ordine, e le lanci

Colme di cibo son, di vino l'urne,

Donde coppier nell'auree tazze il versi,

E ai convitati assisi il porga in giro.

Ma tu la storia de' miei guai domandi,

Perch'io rinnovi ed inacerbi il duolo.

Qual pria dirò, qual poi, qual nell'estremo

Racconto serberò delle sventure,

Che gravi e molte m'invïAro i numi?

Prima il mio nome, acciò, se vita un giorno,

Mi si concede riposata e ferma,

Dell'ospitalità ci unisca il nodo,

Benché quinci lontan sorga il mio tetto.

Ulisse, il figlio di Laerte, io sono,

Per tutti accorgimenti al mondo in pregio,

E già noto per fama in sino agli astri.

Abito la serena Itaca, dove

Lo scotifronde Nérito si leva

Superbo in vista, ed a cui giaccion molte

Non lontane tra loro isole intorno,

Dulichio, Same, e la di selve bruna

Zacinto. All'orto e al mezzogiorno queste,

Itaca al polo si rivolge, e meno

Dal continente fugge: aspra di scogli,

Ma di gagliarda gioventù nutrice.

Deh qual giammai l'uom può della natìa

Sua contrada veder cosa più dolce?

Calipso, inclita diva, in cave grotte

Mi ritenea, mi ritenea con arte

Nelle sue case la dedalea Circe,

Desïando d'avermi entrambe a sposo.

Ma né Calipso a me, né Circe il core

Piegava mai; ché di dolcezza tutto

La patria avanza, e nulla giova un ricco

Splendido albergo a chi, da' suoi disgiunto,

Vive in estrania terra. Or tu mi chiedi

Quel che da Troia prescriveami Giove

Lacrimabil ritorno; ed io tel narro.

Ad Ismaro, de' Cìconi alla sede,

Me, che lasciava Troia, il vento spinse.

Saccheggiai la città, strage menai

Degli abitanti; e sì le molte robe

Dividemmo e le donne, che alla preda

Ciascuno ebbe ugual parte. Io gli esortava

Partir subito e in fretta; e i forsennati,

Dispregiando il mio dir, pecore pingui,

Pingui a scannar tortocornuti tori,

E larghi nappi ad asciugar sul lido.

S'allontanaro in questo mezzo, e voce

Diero i Cìconi ai Cìconi vicini,

Che più addentro abitavano. Costoro,

Che in numero vincean gli altri, ed in forza,

E battagliare a piè, come dal carro,

Sapean del pari, mattutini, e tanti,

Quante son fronde a primavera e fiori,

Vennero; e allor di cielo a noi meschini

Riversò addosso un gran sinistro Giove.

Stabile accanto alle veloci navi

Pugna si commettea: d'ambo le parti

Volavan le pungenti aste omicide.

Finché il mattin durava, e il sacro sole

Acquistava del ciel, benché più scarsi,

Sostenevam della battaglia il nembo.

Ma come il sol, calandosi all'Occaso,

L'ora menò, che dal pesante giogo

Si disciolgono i buoi, l'achiva forza

Fu dall'aste de' Cìconi respinta.

Sei de' compagni agli schinieri egregi

Perdé ogni nave: io mi salvai col resto.

Lieti nel cor della schivata morte,

E de' compagni nella pugna uccisi

Dolenti in un, ci allargavam dal lido;

Ma le ondìvaghe navi il lor cammino

Non proseguian, che tre fïate in prima,

Non si fosse da noi chiamato a nome

Ciascun di quei che giacean freddi addietro.

L'adunator de' nembi olimpio Giove

Contro ci svegliò intanto una feroce

Tempesta boreal, che d'atre nubi

La terra a un tempo ricoverse e il mare,

E la notte di cielo a piombo scese.

Le vele ai legni, che moveansi obbliqui,

Squarciò in tre e quattro parti il forte turbo.

Noi del timore ammainammo, e ratto

I navigli affrettammo in vêr la spiaggia,

Ove due giorni interi, e tante notti,

Posavam lassi, e addolorati e muti.

Ma come l'Alba dai capelli d'oro

Il dì terzo recò, gli alberi alzati,

E dispiegate le candide vele,

Entro i navigli sedevam, la cura

Al timonier lasciandone ed al vento.

Tempo era quello da toccar le amate

Sponde natìe: se non che Borea e un'aspra

Corrente me, che la Malèa girava,

Respinse indietro ed a Citera volse.

Per nove infausti dì sul mar pescoso

I venti rei mi trasportâro. Al fine

Nel decimo sbarcammo in su le rive

De' Lotofàgi, un popolo, a cui cibo

È d'una pianta il florido germoglio.

Entrammo nella terra, acqua attignemmo,

E pasteggiammo appo le navi. Estinti

Della fame i desiri e della sete,

Io due scelgo de' nostri, a cui per terzo

Giungo un araldo, e a investigar li mando,

Quai mortali il paese alberghi e nutra.

Partiro e s'affrontaro a quella gente,

Che, lunge dal voler la vita loro,

Il dolce loto a savorar lor porse.

Chïunque l'esca dilettosa e nuova

Gustato avea, con le novelle indietro

Non bramava tornar: colà bramava

Starsi, e, mangiando del soave loto,

La contrada natìa sbandir dal petto.

È ver ch'io lagrimosi al mar per forza

Li ricondussi, entro i cavati legni

Li cacciai, gli annodai di sotto ai banchi:

E agli altri risalir con gran prestezza

Le negre navi comandai, non forse

Ponesse alcun nel dolce loto il dente,

E la patria cadessegli dal core.

Quei le navi saliano, e sovra i banchi

Sedean l'un dopo l'altro, e gìan battendo

Co' pareggiati remi il mar canuto.

Ci portammo oltre, e de' Ciclopi altieri,

Che vivon senza leggi, a vista fummo.

Questi, lasciando ai numi ogni pensiero,

Né ramo o seme por, né soglion gleba

Col vomero spezzar; ma il tutto viene

Non seminato, non piantato o arato:

L'orzo, il frumento e la gioconda vite,

Che si carca di grosse uva, e cui Giove

Con pioggia tempestiva educa e cresce.

Leggi non han, non radunanze, in cui

Si consulti tra lor: de' monti eccelsi

Dimoran per le cime, o in antri cavi;

Su la moglie ciascun regna e su i figli,

Né l'uno all'altro tanto o quanto guarda.

Ai Ciclopi di contra, e né vicino

Troppo, né lunge, un'isoletta siede

Di foreste ombreggiata, ed abitata

Da un'infinita nazïon di capre

Silvestri, onde la pace alcun non turba;

Che il cacciator, che per burroni e boschi

Si consuma la vita, ivi non entra,

Non aratore o mandrïan v'alberga.

Manca d'umani totalmente, e solo

Le belanti caprette, inculta, pasce.

Però che navi dalle rosse guance

Tu cerchi indarno tra i Ciclopi, indarno

Cerchi fabbro di nave a saldi banchi,

Su cui passare i golfi, e le straniere

Città trovar, qual delle genti è usanza,

Che spesso van l'una dall'altra ai lidi,

E all'isola deserta addur coloni.

Malvagia non è certo, e in sua stagione

Tutto darebbe. Molli e irrigui prati

Spiegansi in riva del canuto mare.

Si vestirìan di grappi ognor le viti,

E così un pingue suolo il vomer curvo

Riceverìa, che altissima troncarvi

Potrìasi al tempo la bramata messe.

Che del porto dirò? Non v'ha di fune

Ne d'àncora mestieri; e chi già entrovvi,

Tanto vi può indugiar, che de' nocchieri

Le voglie si raccendano, e secondi

Spirino i venti. Ma del porto in cima

S'apre una grotta, sotto cui zampilla

L'argentina onda d'una fonte, e a cui

Fan verdissimi pioppi ombra e corona.

Là smontavamo, e per l'oscura notte,

Noi, spenta ogni veduta, un dio scorgea:

Ché una densa caligine alle navi

Stava d'intorno, né splendea dal cielo

La luna, che d'un nembo era coverta.

Quindi nessun l'isola vide, e i vasti

Flutti al lido volventisi, che prima

Approdati non fossimo. Approdati,

Tutte le vele raccogliemmo, uscimmo

Sul lido, e l'Alba dalle rosee dita,

Nel sonno disciogliendoci, aspettammo.

Sorta la figlia del mattino appena,

L'isoletta, che in noi gran maraviglia

Destò, passeggiavamo. Allor le Ninfe,

Prole cortese dell'egïoco Giove,

Per fornir di convito i miei compagni,

Quelle capre levaro. E noi repente,

Presi i curvi archi e le asticciuole acute,

E tre schiere di noi fatte, in tal guisa

Il monte fulminammo e il bosco tutto,

Ch'io non so, se dai numi in sì brev'ora

Fu concessa giammai caccia sì ricca.

Dodici navi mi seguìano, e nove

Capre ottenne ciascuna: io dieci n'ebbi.

Tutto quel giorno sedevamo a mensa

Tra carni immense e prezïoso vino:

Poiché restava su le navi ancora

Del licore, onde molte anfore e molte

Rïempiuto avevam, quando la sacra

Dispogliammo de' Cìconi cittade.

E de' Ciclopi nel vicin paese

Levate intanto tenevam le ciglia,

E salir vedevamo il fumo, e miste

Col belo dell'agnelle e delle capre

Raccoglievam le voci. Il sole ascoso,

Ed apparse le tenebre, le membra

Sul marin lido a riposar gettammo.

Ma come del mattin la figlia sorse,

Tutti chiamati a parlamento: "Amici",

Dissi, vi piaccia rimaner, mentr'io

Della gente a spïar vo' col mio legno,

Se ingiusta, soperchievole, selvaggia,

O di core ospital siasi, ed a cui

Timor de' numi si racchiuda in petto".

Detto, io montai la nave, e ai remiganti

Montarla ingiunsi, e liberar la fune.

E quei ratto ubbidiro, e già su i banchi

Sedean l'un dopo l'altro, e gìan battendo

Co' pareggiati remi il mar canuto.

Giunti alla terra, che sorgeaci a fronte,

Spelonca eccelsa nell'estremo fianco

Di lauri opaca, e al mar vicina, io vidi.

Entro giaceavi innumerabil greggia,

Pecore e capre, e di recise pietre

Composto, e di gran pini e querce ombrose

Alto recinto vi correa d'intorno.

Uom gigantesco abita qui, che lunge

Pasturava le pecore solingo.

In disparte costui vivea da tutti,

E cose inique nella mente cruda

Covava: orrendo mostro, né sembiante

Punto alla stirpe che di pan si nutre,

Ma più presto al cucuzzolo selvoso

D'una montagna smisurata, dove

Non gli s'alzi da presso altro cacume.

Lascio i compagni della nave a guardia,

E con dodici sol, che i più robusti

Mi pareano e più arditi, in via mi pongo,

Meco in otre caprin recando un negro

Licor nettàreo, che ci diè Marone

D'Evantèo figlio, e sacerdote a Febo,

Cui d'Ismaro le torri erano in cura.

Soggiornava del dio nel verde bosco,

E noi, di santa riverenza tocchi,

Con la moglie il salvammo e con la prole.

Quindi ei mi porse incliti doni: sette

Talenti d'or ben lavorato, un'urna

D'argento tutta, e dodici d'un vino

Soave, incorruttibile, celeste,

Anfore colme; un vin ch'egli, la casta

Moglie e la fida dispensiera solo,

Non donzelli sapeanlo, e non ancelle.

Quandunque ne bevean, chi empiea la tazza,

Venti metri infondea d'acqua di fonte,

E tal dall'urna scoverchiata odore

Spirava, e sì divin, che somma noia

Stato sarìa non confortarne il petto.

Io dell'alma bevanda un otre adunque

Tenea, tenea vivande a un zaino in grembo:

Ché ben diceami il cor, quale di strana

Forza dotato le gran membra, e insieme

Debil conoscitor di leggi e dritti,

Salvatic'uom mi si farebbe incontra.

Alla spelonca divenuti in breve,

Lui non trovammo, che per l'erte cime

Le pecore lanigere aderbava.

Entrati, gli occhi stupefatti in giro

Noi portavam: le aggraticciate corbe

Cedeano al peso de' formaggi, e piene

D'agnelli e di capretti eran le stalle:

E i più grandi, i mezzani, i nati appena,

Tutti, come l'etade, avean del pari

Lor propria stanza, e i pastorali vasi,

Secchie, conche, catini, ov'ei le poppe

Premer solea delle feconde madri,

Entro il siere nôtavano. Qui forte

I compagni pregavanmi che, tolto

Pria di quel cacio, si tornasse addietro,

Capretti s'adducessero ed agnelli

Alla nave di fretta, e in mar s'entrasse.

Ma io non volli, benché il meglio fosse:

Quando io bramava pur vederlo in faccia,

E trar doni da lui, che rïuscirci

Ospite sì inamabile dovea.

Racceso il foco, un sagrifizio ai numi

Femmo, e assaggiammo del rappreso latte:

Indi l'attendevam nell'antro assisi.

Venne, pascendo la sua greggia, e in collo

Pondo non lieve di risecca selva

Che la cena cocessegli, portando.

Davanti all'antro gittò il carco, e tale

Levòssene un romor, che sbigottiti

Nel più interno di quel ci ritraemmo.

Ei dentro mise le feconde madri,

E gl'irchi a cielo aperto, ed i montoni

Nella corte lasciò. Poscia una vasta

Sollevò in alto ponderosa pietra,

Che ventidue da quattro ruote e forti

Carri di loco non avrìano smossa,

E l'ingresso acciecò della spelonca.

Fatto, le agnelle, assiso, e le belanti

Capre mugnea, tutto serbando il rito,

E a questa i parti mettea sotto, e a quella.

Mezzo il candido latte insieme strinse,

E su i canestri d'intrecciato vinco

Collocollo ammontato; e l'altro mezzo,

Che dovea della cena esser bevanda,

Il ricevero i pastorecci vasi.

Di queste sciolto cotidiane cure,

Mentre il foco accendea, ci scòrse, e disse:

"Forestieri, chi siete? E da quai lidi

Prendeste a frequentar l'umide strade?

Siete voi trafficanti? O errando andate,

Come corsari che la vita in forse,

Per danno altrui recar, metton su i flutti?"

Della voce al rimbombo, ed all'orrenda

Faccia del mostro, ci s'infranse il core.

Pure io così gli rispondea: Siam Greci

Che di Troia partiti e trabalzati

Su pel ceruleo mar da molti venti

Cercando il suol natìo, per altre vie,

E con vïaggi non pensati, a queste

(Così piacque agli dèi), sponde afferrammo.

Seguimmo, e cen vantiam, per nostro capo

Quell'Atrìde Agamennone che il mondo

Empièo della sua fama, ei che distrusse

Città sì grande, e tante genti ancise.

Ed or, prostesi alle ginocchia tue,

Averci ti preghiam d'ospiti in grado,

E d'un tuo dono rimandarci lieti.

Ah! temi, o potentissimo, gli dèi:

Che tuoi supplici siam, pensa, e che Giove

Il supplicante vendica, e l'estrano,

Giove ospital, che l'accompagna e il rende

Venerabile altrui". Ciò detto, io tacqui.

Ed ei con atroce alma: "O ti fallisce

Straniero, il senno, o tu di lunge vieni,

Che vuoi che i numi io riverisca e tema.

L'Egidarmato di Saturno figlio

Non temono i Ciclopi, o gli altri iddii:

Ché di loro siam noi molto più forti.

Né perché Giove inimicarmi io debba,

A te concederò perdono, e a questi

Compagni tuoi, se a me il mio cor nol detta.

Ma dimmi: ove approdasti? All'orlo estremo

Di questa terra, o a più propinquo lido?"

Così egli tastommi; ed io, che molto

D'esperïenza ricettai nel petto,

Ravvìstomi del tratto, incontanente

Arte in tal modo gli rendei per arte:

"Nettuno là, 've termina e s'avanza

La vostra terra con gran punta in mare,

Spinse la nave mia contra uno scoglio,

E le spezzate tavole per l'onda

Sen portò il vento. Dall'estremo danno

Con questi pochi io mi sottrassi appena".

Nulla il barbaro a ciò: ma, dando un lancio,

La man ponea sovra i compagni, e due

Brancavane ad un tempo, e, quai cagnuoli,

Percoteali alla terra, e ne spargea

Le cervella ed il sangue. A brano a brano

Dilacerolli, e s'imbandì la cena.

Qual digiuno leon, che in monte alberga,

Carni ed interïora, ossa e midolle,

Tutto vorò, consumò tutto. E noi

A Giove ambo le man tra il pianto alzammo,

Spettacol miserabile scorgendo

Con gli occhi nostri, e disperando scampo.

Poiché la gran ventraia empiuto s'ebbe,

Pasteggiando dell'uomo, e puro latte

Tracannandovi sopra, in fra le agnelle

Tutto quant'era ei si distese, e giacque.

Io, di me ricordandomi, pensai

Fàrmigli presso, e la pungente spada

Tirar nuda dal fianco, e al petto, dove

La coràta dal fegato si cinge,

Ferirlo. Se non ch'io vidi che certa

Morte noi pure incontreremmo, e acerba:

Che non era da noi tôr dall'immenso

Vano dell'antro la sformata pietra

Che il Ciclope fortissimo v'impose.

Però, gemendo, attendevam l'aurora.

Sorta l'aurora, e tinto in roseo il cielo,

Il foco ei raccendea, mugnea le grasse

Pecore belle, acconciamente il tutto,

E i parti a questa mettea sotto e a quella.

Né appena fu delle sue cure uscito,

Che altri due mi ghermì de' cari amici,

E carne umana desinò. Satollo,

Cacciava il gregge fuor dell'antro, tolto

Senza fatica il disonesto sasso,

Che dell'antro alla bocca indi ripose,

Qual chi a farètra il suo coverchio assesta.

Poi su pel monte si mandava il pingue

Gregge davanti, alto per via fischiando.

Ed io tutti a raccolta i miei pensieri

Chiamai, per iscoprir come di lui

Vendicarmi io potessi, e un'immortale

Gloria comprarmi col favor di Palla.

Ciò al fin mi parve il meglio. Un verde, enorme

Tronco d'oliva, che il Ciclope svelse

Di terra, onde fermar con quello i passi,

Entro la stalla a inaridir giacea.

Albero scorger credevam di nave

Larga, mercanteggiante, e l'onde brune

Con venti remi a valicare usata:

Sì lungo era e sì grosso. Io ne recisi

Quanto è sei piedi, e la recisa parte

Diedi ai compagni da polirla. Come

Polita fu, da un lato io l'affilai,

L'abbrustolai nel foco, e sotto il fimo,

Ch'ivi in gran copia s'accogliea, l'ascosi.

Quindi a sorte tirar coloro io feci,

Che alzar meco dovessero, e al Ciclope

L'adusto palo conficcar nell'occhio,

Tosto che i sensi gli togliesse il sonno.

Fortuna i quattro, ch'io bramava, appunto

Donommi, e il quinto io fui. Cadea la sera,

E dai campi tornava il fier pastore,

Che la sua greggia di lucenti lane

Tutta introdusse nel capace speco:

O di noi sospettasse, o prescrivesse

Così il Saturnio. Novamente imposto

Quel, che rimosso avea, disconcio masso,

Pecore e capre alla tremola voce

Mungea sedendo, a maraviglia il tutto,

E a questa mettea sotto e a quella i parti.

Fornita ogni opra, m'abbrancò di nuovo

Due de' compagni, e cenò d'essi il mostro.

Allora io trassi avanti, e, in man tenendo

D'edra una coppa: "Te' Ciclope", io dissi:

"Poiché cibasti umana carne, vino

Bevi ora, e impara, qual su l'onde salse

Bevanda carreggiava il nostro legno.

Questa, con cui libar, recarti io volli,

Se mai, compunto di nuova pietade,

Mi rimandassi alle paterne case.

Ma il tuo furor passa ogni segno. Iniquo!

Chi più tra gl'infiniti uomini in terra

Fia che s'accosti a te? Male adoprasti".

La coppa ei tolse, e bevve, ed un supremo

Del soave licor prese diletto,

E un'altra volta men chiedea: "Straniero,

Darmene ancor ti piaccia, e mi palesa

Subito il nome tuo, perch'io ti porga

L'ospital dono che ti metta in festa.

Vino ai Ciclopi la feconda terra

Produce col favor di tempestiva

Pioggia, onde Giove le nostre uve ingrossa:

Ma questo è ambrosia e nèttare celeste".

Un'altra volta io gli stendea la coppa.

Tre volte io la gli stesi; ed ei ne vide

Nella stoltezza sua tre volte il fondo.

Quando m'accorsi che saliti al capo

Del possente licor gli erano i fumi,

Voci blande io drizzavagli: "Il mio nome

Ciclope, vuoi? L'avrai: ma non frodarmi

Tu del promesso a me dono ospitale.

Nessuno è il nome; me la madre e il padre

Chiaman Nessuno, e tutti gli altri amici".

Ed ei con fiero cor: "L'ultimo ch'io

Divorerò, sarà Nessuno. Questo

Riceverai da me dono ospitale".

Disse, diè indietro, e rovescion cascò.

Giacea nell'antro con la gran cervice

Ripiegata su l'omero: e dal sonno,

Che tutti doma, vinto, e dalla molta

Crapula oppresso, per la gola fuori

Il negro vino e della carne i pezzi,

Con sonanti mandava orrendi rutti.

Immantinente dell'ulivo il palo

Tra la cenere io spinsi; e in questo gli altri

Rincorava, non forse alcun per tema

M'abbandonasse nel miglior dell'opra.

Come, verde quantunque, a prender fiamma

Vicin mi parve, rosseggiante il trassi

Dalle ceneri ardenti, e al mostro andai

Con intorno i compagni: un dio per fermo

D'insolito ardimento il cor ci armava.

Quelli afferrâr l'acuto palo, e in mezzo

Dell'occhio il conficcaro; ed io di sopra,

Levandomi su i piè, movealo in giro.

E come allor che tavola di nave

Il trapano appuntato investe e fora,

Che altri il regge con mano, altri tirando

Va d'ambo i lati le corregge, e attorno

L'instancabile trapano si volve:

Sì nell'ampia lucerna il trave acceso

Noi giravamo. Scaturiva il sangue,

La pupilla bruciava, ed un focoso

Vapor, che tutta la palpèbra e il ciglio

Struggeva, uscìa della pupilla, e l'ime

Crepitarne io sentìa rotte radici.

Qual se fabbro talor nell'onda fredda

Attuffò un'ascia o una stridente scure,

E temprò il ferro, e gli diè forza; tale,

L'occhio intorno al troncon cigola e frigge.

Urlo il Ciclope sì tremendo mise,

E tanto l'antro rimbombò, che noi

Qua e là ci spargemmo impauriti.

Ei fuor cavossi dall'occhiaia il trave,

E da sé lo scagliò di sangue lordo,

Furïando per doglia: indi i Ciclopi,

Che non lontani le ventose cime

Abitavan de' monti in cave grotte,

Con voce alta chiamava. Ed i Ciclopi

Quinci e quindi accorrean, la voce udita

E soffermando alla spelonca il passo,

Della cagione il richiedean del duolo:

"Per quale offesa, o Polifemo, tanto

Gridàstu mai? Perché così ci turbi

La balsamica notte e i dolci sonni?

Fùrati alcun la greggià? o uccider forse

Con inganno ti vuole, o a forza aperta?"

E Polifemo dal profondo speco:

"Nessuno, amici, uccidemi, e ad inganno,

Non già colla virtude". "Or se nessuno

Ti nuoce", rispondeano, "e solo alberghi,

Da Giove è il morbo, e non v'ha scampo. Al padre

Puoi bene, a re Nettun, drizzare i prieghi".

Dopo ciò, ritornâr su i lor vestigi:

Ed a me il cor ridea, che sol d'un nome

Tutta si fosse la mia frode ordita.

Polifemo da duoli aspri crucciato,

Sospirando altamente, e brancolando

Con le mani il pietron di loco tolse.

Poi, dove l'antro vaneggiava, assiso

Stavasi con le braccia aperte e stese,

Se alcun di noi, che tra le agnelle uscisse,

Giungesse ad aggrappar: tanta ei credeo

Semplicitade in me. Ma io gli amici

E me studiava riscattar, correndo

Per molte strade con la mente astuta:

Ché la vita ne andava, e già pendea

Su le teste il disastro. Al fine in questa,

Dopo molto girar, fraude io m'arresto.

Montoni di gran mole e pingui e belli,

Di folta carchi porporina lana,

Rinchiudea la caverna. Io tre per volta

Prendeane, e in un gli unìa tacitamente

Co' vinchi attorti, sovra cui solea

Polifemo dormir: quel ch'era in mezzo,

Portava sotto il ventre un de' compagni,

Cui fean riparo i due ch'ivan da lato,

E così un uomo conducean tre bruti.

Indi afferrai pel tergo un arïete

Maggior di tutti, e della greggia il fiore;

Mi rivoltai sotto il lanoso ventre,

E, le mani avolgendo entro ai gran velli,

Con fermo cor mi v'attenea sospeso.

Così, gemendo, aspettavam l'aurora.

Sorta l'aurora, e tinto in roseo il cielo,

Fuor della grotta i maschi alla pastura

Gittavansi; e le femmine non munte,

Che gravi molto si sentìan le poppe,

Rïempìan di belati i lor serragli.

Il padron, cui ferìan continue doglie,

D'ogni montone, che diritto stava,

Palpava il tergo, e non s'avvide il folle

Che dalle pance del velluto gregge

Pendean gli uomini avvinti. Ultimo uscìa

De' suoi velli bellissimi gravato

L'arïete, e di me, cui molte cose

S'aggiravan per l'alma. Polifemo

Tai detti, brancicandolo, gli volse:

"Arïete dappoco, e perché fuori

Così da sezzo per la grotta m'esci?

Già non solevi dell'agnelle addietro

Restarti: primo, e di gran lunga, i molli

Fiori del prato a lacerar correvi

Con lunghi passi; degli argentei fiumi

Primo giungevi alle correnti; primo

Ritornavi da sera al tuo presepe:

Ed oggi ultimo sei. Sospiri forse

L'occhio del tuo signor? L'occhio che un tristo

Mortal mi svelse co' suoi rei compagni,

Poiché doma col vin m'ebbe la mente,

Nessuno, ch'io non credo in salvo ancora.

Oh! se a parte venir de' miei pensieri

Potessi, e, voci articolando, dirmi,

Dove dalla mia forza ei si ricovra,

Ti giuro che il cervel, dalla percossa

Testa schizzato, scorrerìa per l'antro,

Ed io qualche riposo avrei da' mali

Che Nessuno recommi, un uom da nulla".

Disse: e da sé lo spingea fuori al pasco.

Tosto che dietro a noi l'infame speco

Lasciato avemmo, ed il cortile ingiusto,

Tardo a sciormi io non fui dall'arïete,

E poi gli altri a slegar, che, ragunate

Molte in gran fretta piedilunghe agnelle,

Cacciavansele avanti in sino al mare.

Desïati apparimmo, e come usciti

Dalle fauci di morte, a quei che in guardia

Rimaser della nave, e che i compagni,

Che non vedeano, a lagrimar si diero.

Ma io non consentìalo, e con le ciglia

Cenno lor fea di ritenere il pianto,

E comandava lor che, messe in nave

Le molte in pria vellosplendenti agnelle,

Si fendessero i flutti. E già il naviglio

Salìan, sedean su i banchi, e percotendo

Gìan co' remi concordi il bianco mare.

Ma come fummo un gridar d'uom lontani

Così il Ciclope io motteggiai: "Ciclope,

Color che nel tuo cavo antro, le grandi

Forze abusando, divorasti, amici

Non eran dunque d'un mortal da nulla,

E il mal te pur coglier dovea. Malvagio!

Che la carne cenar nelle tue case

Non temevi degli ospiti. Vendetta

Però Giove ne prese e gli altri numi".

A queste voci Polifemo in rabbia

Montò più alta, e con istrana possa

Scagliò d'un monte la divelta cima,

Che davanti alla prua càddemi: al tonfo

L'acqua levossi, ed innondò la nave,

Che alla terra crudel, dai rifluenti

Flutti portata, quasi a romper venne.

Ma io, dato di piglio a un lungo palo,

Ne la staccai, pontando; ed i compagni

D'incurvarsi sul remo, e in salvo addursi,

Più de' cenni pregai che della voce:

E quelli tutte ad inarcar le terga.

Scorso di mar due volte tanto, i detti

A Polifemo io rivolgea di nuovo,

Benché gli amici con parole blande

D'ambo i lati tenessermi: "Infelice!

Perché la fera irritar vuoi più ancora?

Così poc'anzi a saettar si mise,

Che tre dita mancò, che risospinto

Non percotesse al continente il legno.

Fa che gridare o favellar ci senta,

E volerà per l'aere un'altra rupe,

Che le nostre cervella, e in un la nave

Sfracellerà: tanto colui dardeggia".

L'alto mio cor non si piegava. Quindi:

"Ciclope", io dissi con lo sdegno in petto,

"Se della notte, in che or tu giaci, alcuno

Ti chiederà, gli narrerai che Ulisse,

D'Itaca abitator, figlio a Laerte,

Struggitor di cittadi, il dì ti tolse".

Egli allora, ululando: "Ohimè!" rispose,

Da' prischi vaticinî eccomi côlto.

Indovino era qui, prode uomo e illustre,

Tèlemo figliuol d'Eurimo, che avea

Dell'arte il pregio, ed ai Ciclopi in mezzo

Profetando invecchiava. Ei queste cose

Mi presagì: mi presagì che il caro

Lume dell'occhio spegnerìami Ulisse.

Se non ch'io sempre uom gigantesco e bello

E di forze invincibili dotato,

Rimirar m'aspettava; ed ecco in vece

La pupilla smorzarmi un piccoletto

Greco ed imbelle, che col vin mi vinse.

Ma qua, su via vientene, Ulisse, ch'io

Ti porga l'ospital dono, e Nettuno

Di fortunare il tuo ritorno prieghi.

Io di lui nacqui, ed ei sen vanta, e solo

Voglial, mi sanerà; non altri, io credo,

Tra i mortali nel mondo, o in ciel tra i numi".

"Oh! così potess'io", ratto ripresi,

"Te spogliar della vita, e negli oscuri

Precipitar regni di Pluto, come

Né da Nettuno ti verrà salute".

Ed ei, le palme alla stellata volta

Levando, il supplicava: "O chiomazzurro,

Che la terra circondi, odi un mio voto.

Se tuo pur son, se padre mio ti chiami,

Di tanto mi contenta: in patria Ulisse,

D'Itaca abitator, figlio a Laerte

Struggitor di cittadi, unqua non rieda.

E dove il natìo suolo, e le paterne

Case il destin non gli negasse, almeno

Vi giunga tardi e a stento, e in nave altrui,

Perduti in pria tutti i compagni, e nuove

Nell'avìta magion trovi sciagure".

Fatte le preci e da Nettuno accolte,

Sollevò un masso di più vasta mole,

E, rotandol nell'aria, e una più grande

Forza immensa imprimendovi, lanciollo.

Cadde dopo la poppa, e del timone

La punta rasentò: levossi al tonfo

L'onda, e il legno coprì, che all'isoletta,

Spinto dal mar, subitamente giunse.

Quivi eran l'altre navi in su l'arena,

E i compagni, che assisi ad esse intorno

Ci attendean sempre con agli occhi il pianto.

Noi tosto in secco la veloce nave

Tirammo, e fuor n'uscimmo, e, del Ciclope

Trattone il gregge, il dividemmo in guisa,

Che parte ugual n'ebbe ciascuno. È vero

Che voller che a me sol, partite l'agne,

Il superbo arïete anco toccasse.

Io di mia mano al Saturnìde, al cinto

D'oscure nubi Correttor del Mondo,

L'uccisi, e n'arsi le fiorite cosce.

Ma non curava i sacrifizi Giove,

Che anzi tra sé volgea, com'io le navi

Tutte, e tutti i compagni al fin perdessi.

L'intero dì sino al calar del Sole

Sedevam banchettando: il Sole ascoso,

Ed apparse le tenebre, le membra

Sul marin lido a riposar gettammo.

Ma come del mattin la figlia, l'Alba

Ditirosata in Orïente sorse,

I compagni esortai, comandai loro

Di rimbarcarsi, e liberar le funi.

E quei si rimbarcavano, e su i banchi

Sedean l'un dopo l'altro, e percotendo

Gìan co' remi concordi il bianco mare.

Così noi lieti per lo scampo nostro

E per l'altrui sventura in un dolenti,

Del mar di nuovo solcavam le spume.

 

LIBRO X

 

Giungemmo nell'Eolia, ove il diletto

Agl'immortali dèi d'Ippota figlio,

Eolo, abitava in isola natante,

Cui tutta un muro d'infrangibil rame

E una liscia circonda eccelsa rupe.

Dodici, sei d'un sesso e sei dell'altro,

Gli nacquer figli in casa; ed ei congiunse

Per nodo marital suore e fratelli,

Che avean degli anni il più bel fior sul volto.

Costoro ciascun dì siedon tra il padre

Caro e l'augusta madre, ad una mensa

Di varie carca dilicate dapi.

Tutto il palagio, finché il giorno splende,

Spira fragranze, e d'armonie risuona;

Poi, caduta su l'isola la notte,

Chiudono al sonno le bramose ciglia

In traforati e attappezzati letti

Con le donne pudìche i fidi sposi.

Questo il paese fu, questo il superbo

Tetto, in cui me per un intero mese

Co' modi più gentili Eolo trattava.

Di molte cose mi chiedea: di Troia,

Del navile de' Greci, e del ritorno;

E il tutto io gli narrai di punto in punto.

Ma come, giunta del partir mio l'ora,

Parole io mossi ad impetrar licenza,

Ei, non che dissentir, del mio vïaggio

Pensier si tolse e cura, e della pelle

Di bue novenne appresentommi un otre,

Che imprigionava i tempestosi venti:

Poiché de' venti dispensier supremo

Fu da Giove nomato; ed a sua voglia

Stringer lor puote, o rallentare il freno.

L'otre nel fondo del naviglio avvinse

Con funicella lucida d'argento,

Che non ne uscisse la più picciol'aura;

E sol tenne di fuori un opportuno

Zefiro, cui le navi e i naviganti

Diede a spinger su l'onda. Eccelso dono,

Che la nostra follìa volse in disastro!

Nove dì senza posa, e tante notti

Veleggiavamo; e già venìaci incontro

Nel decimo la patria, e omai vicini

Quei vedevam che raccendeano i fochi:

Quando me stanco, perch'io regger volli

Della nave il timon, né in mano altrui,

Onde il corso affrettar, lasciarlo mai,

Sorprese il sonno. I miei compagni intanto

Favellavan tra loro, e fean pensiero

Che argento ed oro alle mie case, doni

Del generoso Ippòtade, io recassi.

"Numi!" come di sé, "dicea taluno

Rivolto al suo vicin, "tutti innamora

Costui, dovunque navigando arriva!

Molti da Troia dispogliata arredi

Riporta belli e preziosi; e noi,

Che le vie stesse misurammo, a casa

Torniam con le man vote. Inoltre questi

L'Ippòtade gli diè pegni d'amore.

Orsù, veggiam quanto in suo grembo asconda

D'oro e d'argento la bovina pelle".

Così prevalse il mal consiglio. L'otre

Fu preso e sciolto; e immantinente tutti

Con furia ne scoppiâr gli agili venti.

La subitana orribile procella

Li rapìa dalla patria e li portava

Sospirosi nell'alto. Io, cui l'infausto

Sonno si ruppe, rivolgea nell'alma,

Se di poppa dovessi in mar lanciarmi,

O soffrir muto, e rimaner tra i vivi.

Soffrii, rimasi: ma, coverto il capo,

Giù nel fondo io giacea, mentre le navi,

Che i compagni di lutto empieano indarno,

Ricacciava in Eolia il fiero turbo.

Scendemmo a terra, acqua attignemmo e a mensa

Presso le navi ci adagiammo. Estinta

Del cibarsi e del ber l'innata voglia,

Io con un de' compagni, e con l'araldo

M'inviai d'Eolo alla magion superba;

E tra la dolce sposa e i figli cari

Banchettante il trovai. Sul limitare

Sedevam della porta. Alto stupore

Mostrâro i figli, e con parole alate:

"Ulisse", mi dicean, "come venìstu?

Qual t'assalì dèmone avverso? Certo

Cosa non fu da noi lasciata indietro,

Perché alla patria e al tuo palagio, e ovunque

Ti talentasse più, salvo giungessi".

Ed io con petto d'amarezza colmo:

"Tristi compagni, e un sonno infausto a tale

Condotto m'hanno. Or voi sanate, amici,

Ché il potete, tal piaga". In questa guisa

Le anime loro io raddolcir tentai.

Quelli ammutiro. Ma il crucciato padre:

"Via", rispose, "da questa isola, e tosto,

O degli uomini tutti il più malvagio:

Ché a me né accôr, né rimandar con doni

Lice un mortal che degli eterni è in ira.

Via, poiché l'odio lor qua ti condusse".

Così Eolo sbandìa me dal suo tetto,

Che de' gemiti miei tutto sonava.

Mesti di nuovo prendevam dell'alto:

Ma si stancavan di lottar con l'onda,

Remigando, i compagni, e del ritorno

Morìa la speme ne' dogliosi petti.

Sei dì navigavamo, e notti sei;

E col settimo sol della sublime

Città di Lamo dalle larghe porte,

Di Lestrigonia pervenimmo a vista.

Quivi pastor, che a sera entra col gregge,

Chiama un altro, che fuor con l'armento esce.

Quivi uomo insonne avria doppia mercede.

L'una pascendo i buoi, l'altra le agnelle

Dalla candida lana: sì vicini

Sono il dïurno ed il notturno pasco.

Bello ed ampio n'è il porto; eccelsi scogli

Cerchianlo d'ogni parte, e tra due punte,

Che sporgon fuori e ad incontrar si vanno,

S'apre un'angusta bocca. I miei compagni,

Che nel concavo porto a entrar fûr pronti,

Propinque vi tenean le ondivaganti

Navi, e avvinte tra lor; quando né grande

Vi s'alza mai, né picciola onda, e sempre

Una calma vi appar tacita e bianca.

Io sol rimasi col naviglio fuori,

Che al sasso estremo con intorta fune

Raccomandai: poi, su la rupe asceso,

Quanto si discoprìa, mirava intorno.

Lavor di bue non si scorgea, né d'uomo:

Sol di terra salir vedeasi un fumo.

Scelgo allor due compagni, e con l'araldo

Màndoli a investigar, quali l'ignota

Terra produce abitatori e nutre.

La via diritta seguitâr, per dove

I carri conduceano alla cittade

Dagli alti monti la troncata selva;

E s'abbattero a una real fanciulla,

Del Lestrigone Antìfate alla figlia.

Che del fonte d'Artacia, onde costuma

Il cittadino attignere, in quel punto

Alle pure scendea linfe d'argento.

Le si fêro da presso, e chi del loco

Re fosse, e su qual gente avesse impero,

La domandaro; ed ella pronta l'alto

Loro additò con man tetto del padre.

Tocco ne aveano il limitare appena,

Che femmina trovâr di sì gran mole

Che rassembrava una montagna; e un gelo

Si sentîro d'orror correr pel sangue.

Costei di botto Antifate chiamava

Dalla pubblica piazza, il rinomato

Marito suo, che disegnò lor tosto

Morte barbara e orrenda. Uno afferronne,

Che gli fu cena; gli altri due con fuga

Precipitosa giunsero alle navi.

Di grida la cittade intanto empiea

Antifate. I Lestrìgoni l'udiro,

E accorrean chi da un lato e chi dall'altro,

Forti di braccio, in numero infiniti,

E giganti alla vista. Immense pietre

Così dai monti a fulminar si diêro,

Che d'uomini spiranti e infranti legni

Sorse nel porto un suon tetro e confuso.

Ed alcuni infilzati eran con l'aste,

Quali pesci guizzanti, e alle ferali

Mense future riserbati. Mentre

Tal seguìa strage, io, sguainato il brando

E la fune recisa, a' miei compagni

Dar di forza nel mar co' remi ingiunsi,

Se il fuggir morte premea loro; e quelli

Di tal modo arrancavano, che i gravi

Massi, che piovean d'alto, il mio naviglio

Lietamente schivò: ma gli altri tutti

Colà restâro sfracellati e spersi.

Contenti dello scampo, e in un dogliosi

Per li troppi compagni in sì crudele

Guisa periti, navigammo avanti,

E su l'isola Eèa sorgemmo, dove

Circe, diva terribile, dal crespo

Crine e dal dolce canto, avea soggiorno.

Suora germana del prudente Eeta,

Dal Sole aggiornator nacque, e da Persa,

Dell'antico Oceàn figliuola illustre.

Taciti a terra ci accostammo, entrammo,

Non senza un dio che ci guidasse, il cavo

Porto, e sul lido uscimmo; e qui due giorni

Giacevamo, e due notti, il cor del pari

La stanchezza rodendoci e la doglia.

Come recato ebbe il dì terzo l'alba,

Io, presa l'asta ed il pungente brando,

Rapidamente andai sovra un'altezza,

Se d'uomo io vedessi opra, o voce udissi.

Fermato il piè su la scoscesa cima.

Scôrsi un fumo salir d'infra una selva

Di querce annose, che in un vasto piano

Di Circe alla magion sorgeano intorno.

Entrar disposi senza indugio in via,

E il paese cercar: poi, ripensando,

Al legno invece rivoltar i passi,

Cibo dare ai compagni, e alcuni prima

A esplorare invïar, mi parve il meglio.

Già tra la nave e me poco restava:

Quando ad un de' celesti, in cui pietade

Per quella solitudine io destai,

Grosso ed armato di ramose corna

Drizzare alla mia volta un cervo piacque.

Spinto dal Sole, che il cocea co' raggi,

De' paschi uscìa della foresta, e al fiume

Scendea con labbra sitibonde; ed io

Su la spina lo colsi a mezzo il tergo

Sì che tutto il passò l'asta di rame.

Nella polve cadé, mandando un grido,

E via ne volò l'alma. Accorsi, e, il piede

Pontando in esso, dalla fonda piaga

Trassi il cerro sanguigno, ed il sanguigno

Cerro deposi a terra: indi virgulti

Divelsi e giunchi, attorcigliaili, fune

Sei spanne lunga ne composi, e i morti

Piedi ne strinsi dell'enorme fera.

Al fin sul collo io la mi tolsi, e mossi,

Su la lancia poggiandomi, al naviglio:

Ché mal potuto avrei sovra una sola

Spalla portar così sformata belva.

Presso la nave scaricàila; e ratto

Con soavi parole i miei compagni,

A questo rivolgendomi ed a quello,

Così tentai rïanimare: "Amici,

Prima del nostro dì, d'Aide alle porte

Non calerem, benché ci opprima il duolo.

Su, finché cibo avemo, avem licore,

Non mettiamli in obblìo; né all'importuna

Fame lasciamci consumar di dentro".

Quelli ubbidendo alle mie voci, uscîro

Delle latebre loro, e, in riva al mare,

Che frumento non genera, venuti,

Stupìan del cervo: sì gran corno egli era!

E come sazi del mirarlo fûro,

Ne apparecchiâro non vulgar convito,

Sparse prima di chiara onda le palme.

Così tutto quel dì sino all'occaso

Di carne opìma e di fumoso vino

L'alma riconfortammo: il sol caduto

E comparse le tenebre, nel sonno

Ci seppellimmo al mormorio dell'onde.

Ma sorta del mattin la rosea figlia,

Tutti io raccolsi a parlamento, e dissi:

"Compagni, ad onta di guai tanti, udite.

Qui, d'onde l'austro spiri o l'aquilone,

E in qual parte il Sole alza, in qual dechina,

Noto non è. Pur consultare or vuolsi,

Qual consiglio da noi prender si debba,

Se v'ha un consiglio: di che forte io temo,

Io d'in su alpestre poggio isola vidi

Cinta da molto mar, che bassa giace,

E nel cui mezzo un nereggiante fumo

D'infra un bosco di querce al ciel si volve",

Rompere a questo si sentiro il core,

D'Antìfate membrando e del Ciclope

La ferocia, i misfatti, e le nefande

Della carne dell'uom mense imbandite.

Strida metteano, e discioglieansi in pianto.

Ma del pianto che pro? che delle strida?

Tutti in due schiere uguali io li divisi.

E diedi ad ambo un duce: all'una il saggio

Eurìloco, e me all'altra, indi nel cavo

Rame dell'elmo agitavam le sorti,

Ed Euriloco uscì, che in via si pose

Senza dimora. Ventidue compagni,

Lagrimando, il seguìan; né affatto asciutte

Di noi, che rimanemmo, eran le guance.

Edificata con lucenti pietre

Di Circe ad essi la magion s'offerse,

Che vagheggiava una feconda valle.

Montani lupi e leon falbi, ch'ella

Mansuefatti avea con sue bevande,

Stavano a guardia del palagio eccelso,

Né lor già s'avventavano; ma invece

Lusingando scotean le lunghe code,

E su l'anche s'ergeano. E quale i cani

Blandiscono il signor, che dalla mensa

Si leva, e ghiotti bocconcelli ha in mano;

Tal quelle di forte unghia orride belve

Gli ospiti nuovi, che smarriti al primo

Vederle s'arretraro, ivan blandendo.

Giunti alle porte, la deessa udìro

Dai ben torti capei, Circe, che dentro

Canterellava con leggiadra voce,

Ed un'ampia tessea, lucida, fina,

Maravigliosa, immortal tela, e quale

Della man delle dive uscir può solo.

Pòlite allor, d'uomini capo, e molto

Più caro e in pregio a me, che gli altri tutti

Sciogliea tai detti: "Amici, in queste mura

Soggiorna, io non so ben se donna o diva.

Che tele oprando, del suo dolce canto

Tutta fa risentir la casa intorno.

Voce mandiamo a lei." Disse, e a lei voce

Mandaro; e Circe di là tosto ov'era,

Levossi e aprì le luminose porte,

E ad entrare invitavali. In un groppo

La seguìan tutti incautamente salvo

Eurìloco, che fuor, di qualche inganno

Sospettando, restò. La dea li pose

Sovra splendidi seggi: e lor mescea

Il Pramnio vino con rappreso latte,

Bianca farina e mel recente; e un succo

Giungeavi esizïal, perché con questo

Della patria l'obblìo ciascun bevesse.

Preso e vôtato dai meschini il nappo,

Circe batteali d'una verga, e in vile

Stalla chiudeali: avean di porco testa,

Corpo, sétole, voce; ma lo spirto

Serbavan dentro, qual da prima, intègro.

Così rinchiusi, sospirando, fûro:

Ed ella innanzi a lor del cornio i frutti

Gettava, e della rovere e dell'elce,

De' verri accovacciati usato cibo.

Nunzio verace dell'infausto caso

Venne rapido Euriloco alla nave.

Ma non potea per iterati sforzi

La lingua disnodar: gonfi portava

Di pianto i lumi, e un vïolento duolo

L'alma gli percotea. Noi, figurando

Sventure nel pensier, con maraviglia

L'interrogammo; ed ei l'eccidio al fine

De' compagni narrò: "Nobile Ulisse,

Attraversato delle querce il bosco,

Come tu comandavi, eccoci a fronte

Magion construtta di politi marmi,

Che di mezzo a una valle alto s'ergea.

Tessea di dentro una gran tela, e canto,

Donna o diva, chi 'l sa? stridulo alzava.

Voce mandaro a lei. Levossi e aperse

Le porte e ne invitò. Tutti ad un corpo

Nella magion disavvedutamente

Seguìanla: io no, che sospettai di frode.

Svaniro insieme tutti; e per istarmi

Lungo ch'io feci ad esplorare assiso,

Traccia d'alcun di lor più non m'apparve".

Disse; ed io grande alle mie spalle, e acuta,

Spada, d'argento bullettata, appesi,

Appesi un valid'arco, e ingiunsi a lui,

Che innanzi per la via stessa mi gisse.

Ma Euriloco, i ginocchi ad ambe mani

Stringendomi e piangendo: "Ah! mal mio grado",

Con sùpplici gridò parole alate,

"Lá non guidarmi, o del gran Giove alunno,

Donde, non che altri ricondur, tu stesso

Ritornar non potrai. Fuggiam, fuggiamo

Senza indugio con questi, e la vicina

Parca schiviam, finché schivarla è dato".

"Euriloco", io risposi, "e tu rimanti,

Di carne e vino a riempirti il ventre,

Lungo la nave. Io, cui severa stringe

Necessitate, andrò". Ciò detto, a tergo

La nave negra io mi lasciava e il mare.

Già per le sacre solitarie valli

Della Maga possente all'alta casa

Presso io mi fea, quando Mercurio, il nume

Che arma dell'aureo caduceo la destra,

In forma di garzone, a cui fiorisce

Di lanugine molle il mento appena,

Mi venne incontro, e per la man mi prese,

E: "Misero!" diss'ei con voce amica,

"Perché ignaro de' lochi, e tutto solo,

Muòvi così per queste balze a caso?

Sono in poter di Circe i tuoi compagni,

E li chiudon, quai verri, anguste stalle.

Venìstu forse a riscattarli? Uscito

Dell'immagine tua penso che a terra

Tu ancor cadrai. Se non che trarti io voglio

Fuor d'ogni storpio, e in salvo porti. Prendi

Questo mirabil farmaco, che il tristo

Giorno dal capo tuo storni, e con esso

Trova il tetto di Circe, i cui perversi

Consigli tutti io t'aprirò. Bevanda

Mista, e di succo esizïale infusa,

Colei t'appresterà: ma le sue tazze

Contra il farmaco mio nulla varranno.

Più oltre intendi. Come te la diva

Percosso avrà d'una sua lunga verga,

Tu cava il brando che ti pende al fianco,

E, di ferirla in atto, a lei t'avventa.

Circe, compresa da timor, sue nozze

T'offrirà pronta: non voler tu il letto

Della dea ricusare, acciò ti sciolga

Gli amici, e amica ti si renda. Solo

Di giurarti costringila col grande

Degl'immortali dèi giuro, che nulla

Più non sarà per macchinarti a danno;

Onde, poiché t'avrà l'armi spogliate,

Del cor la forza non ti spogli ancora".

Finito il ragionar l'erba salubre

Porsemi già dal suol per lui divelta,

E la natura divisonne: bruna

N'è la radice; il fior bianco di latte;

Moli i numi la chiamano: resiste

Alla mano mortal, che vuol dal suolo

Staccarla; ai dèi, che tutto ponno, cede.

Detto, dalla boscosa isola il nume

Alle pendici dell'Olimpo ascese;

Ed io vêr Circe andai; ma di pensieri

In gran tempesta m'ondeggiava il core.

Giunto alla diva dalle belle trecce,

La voce alzai dall'atrio. Udimmi, e ratta

Levossi, e aprì le luminose porte,

E m'invitava: io la seguìa non lieto.

Sovra un distinto d'argentini chiovi

Seggio a grand'arte fatto, e vago assai,

Mi pose: lo sgabello i piè reggea.

Quindi con alma che pensava mali,

La mista preparommi in aureo nappo

Bevanda incantatrice, ed io la presi

Dalla sua mano, e bebbi; e non mi nocque.

Però in quel che la dea me della lunga

Verga percosse, e: "Vanne", disse, "e a terra

Co' tuoi compagni nella stalla giaci",

Tirai dal fianco il brando, e contra lei,

Di trafiggerla in atto, io mi scagliai.

Circe, mandando una gran voce, corse

Rapida sotto il colpo, e le ginocchia

Con le braccia afferrommi, e queste alate

Parole mi drizzò, non senza pianto:

"Chi sei tu? donde sei? la patria dove?

Dove i parenti a te? Stupor m'ingombra,

Che l'incanto bevuto in te non possa,

Quando io non vidi, cui passasse indarno

Per la chiostra de' denti il mio veleno.

Certo un'anima invitta in petto chiudi.

Saréstu forse quel sagace Ulisse,

Che Mercurio a me sempre iva dicendo

Dover d'Ilio venir su negra nave?

Per fermo sei. Nella vagina il brando

Riponi, e sali il letto mio: dal core

D'entrambi ogni sospetto amor bandisca".

"Circe", risposi, "che da me richiedi?

Io cortese vêr te, che in sozze belve

Mi trasformasti gli uomini? Rivolgi

Tacite frodi entro te stessa; ed io

La tua penetrerò stanza secreta,

Onde, poiché m'avrai l'armi spogliate,

Del cor la forza tu mi spogli ancora?

No, se non giuri prima, e con quel grande

Degl'immortali dèi giuro, che nulla

Più non sarai per macchinarmi a danno".

Dissi; e la dea giurò. Di Circe allora

Le belle io salsi maritali piume.

Quattro serviano a lei nel suo palagio

Di quelle Ninfe che dai boschi nate

Sono, o dai fonti liquidi, o dai sacri,

Che devolvonsi al mar, rapidi fiumi.

L'una gittava su i politi seggi

Bei tappeti di porpora, cui sotto

Bei tappeti mettea di bianco lino:

L'altra mense d'argento innanzi ai seggi

Spiegava, e d'oro v'imponea canestri:

Mescea la terza nell'argentee brocche

Soavissimi vini, e d'auree tazze

Coprìa le mense: ma la quarta il fresco

Fonte recava, e raccendea gran fuoco

Sotto il vasto treppié, che l'onda cape.

Già fervea questa nel cavato bronzo,

E me la ninfa guidò al bagno, e l'onda

Pel capo mollemente e per le spalle

Spargermi non cessò, ch'io mi sentii

Di vigor nuovo rifiorir le membra.

Lavato ed unto di licor d'oliva,

E di tunica e clamide coverto,

Sovra un distinto d'argentini chiovi

Seggio a grand'arte fatto, e vago assai,

Mi pose: lo sgabello i piè reggea.

E un'altra ninfa da bel vaso d'oro

Purissim'acqua nel bacil d'argento

Mi versava, e stendeami un liscio desco,

Che di candido pane e di serbate

Dapi a fornir la dispensiera venne:

"Cìbati", mi dicea la veneranda

Dispensiera, ed instava; ed io, d'ogni esca

Schivo, in altri pensieri, e tutti foschi,

Tenea la mente, pur sedendo, infissa.

Circe, ratto che avvidesi ch'io mesto

Non mi curava della mensa punto,

Con queste m'appresso voci sul labbro:

"Perché così, qual chi non ha favella,

Siedi, Ulisse, struggendoti, e vivanda

Non tocchi, né bevanda? In te sospetto

S'annida forse di novello inganno?

Dopo il mio giuramento a torto temi".

Ed io: "Circe, qual mai retto uomo e saggio

Vivanda toccheria prima, o bevanda,

Che i suoi vedesse riscattati e salvi?

Fa' che liberi io scorga i miei compagni,

Se vuoi che della mensa io mi sovvegna".

Circe uscì tosto con in man la verga,

E della stalla gl'infelici trasse,

Che di porci novenni avean l'aspetto.

Tutti le stavan di rincontro; e Circe,

D'uno all'altro passando, un prezïoso

Sovra lor distendea benigno unguento.

Gli odiati peli, che la tazza infesta

Produsse, a terra dalle membra loro

Cadevano; e ciascun più che non era,

Grande apparve di corpo, e assai più fresco

D'etade in faccia, e di beltà più adorno.

Mi ravvisò ciascuno, ed afferrommi

La destra; e un così tenero e sì forte

Compianto si levò, che la magione

Ne risonava orrendamente, e punta

Sentìasi di pietà la stessa Maga.

Ella, standomi al fianco: "O sovrumano

Di Laerte figliuol, provvido Ulisse,

Corri", diceami, "alla tua nave, e in secco

La tira, e cela nelle cave grotte

Le ricchezze e gli arnesi: indi a me torna.

E i diletti compagni adduci teco".

M'entrò il suo dir nell'alma. Al lido io corsi,

E i compagni trovai, che appo la nave

Di lagrime nutrìansi e di sospiri.

Come, se riedon le satolle vacche

Dai verdi prati al rusticale albergo,

I vitelli saltellano, e alle madri,

Che più serraglio non ritienli o chiostra,

Con frequente muggir corrono intorno:

Così con pianto a me, vistomi appena,

Intorno s'aggiravano i compagni,

E quei mostravan su la faccia segni,

Che vi si scorgerìan, se il dolce nido,

Dove nacquero e crebbero, se l'aspra

Itaca avesser tocca: "O", lagrimando

Dicean, "di Giove alunno, una tal gioia

Sarebbe a stento in noi, se ci accogliesse

D'Itaca il porto. Ma, su via, l'acerbo

Fato degli altri raccontar ti piaccia".

Ed io con dolce favellar: "La nave

Si tiri in secco, e nelle cave grotte

Le ricchezze si celino e gli arnesi.

Poi seguitemi in fretta; ed i compagni

Nel tetto sacro dell'illustre Circe

Vedrete assisi ad una mensa, in cui

Di là d'ogni desio la copia regna".

Pronti obbediro. Ripugnava Euriloco

Solo, ed or questo m'arrestava, or quello,

Gridando: "Sventurati, ove ne andiamo?

Qual mai vi punge del disastro sete,

Che discendiate alla maliarda, e vôlti

Siate in leoni, in lupi, o in sozzi verri,

Il suo palagio a custodir dannati?

L'ospizio avrete del Ciclope, quando

Calâro i nostri nella grotta, e questo

Prode Ulisse guidavali, di cui

Morte ai miseri fu lo stolto ardire".

Così Euriloco; ed io la lunga spada

Cavar pensai della vagina, e il capo

Dal busto ai piè sbalzargli in su la polve,

Benché vincol di sangue a me l'unisse.

Ma tutti quinci riteneanmi, e quindi

Con favella gentil: "Di Giove alunno,

Costui sul lido, se ti piace in guardia

Della nave rimangasi, e alla sacra

Magion noi guida". Detto ciò, dal mare

Meco venìan, né restò quegli indietro:

Tanto della minaccia ebbe spavento.

Cura prendeasi Circe in questo mezzo

Degli altri, che lavati, unti, e di buone

Tuniche cinti e di bei manti fûro.

Seduti a mensa li trovammo. Come

Si sguardâro l'un l'altro, e sul passato

Con la mente tornâro, in pianti e in grida

Davano; e ne gemean pareti e volte.

M'appressò allora, e mi parlò in tal guisa

L'inclita tra le dive: "O di Laerte

Gran prole, o ricco di consigli Ulisse,

Modo al dirotto lagrimar si ponga.

Noto è a me pur, quanti nel mar pescoso

Duraste affanni, e so le crude offese

Che vi recâro in terra uomini ostili.

Su via, gioite omai, finché nel petto

Vi rinasca l'ardir, ch'era in voi, quando

Itaca alpestre abbandonaste in prima.

Bassi or gli spirti avete, e freddo il sangue,

Per la memoria de' vïaggi amari

Nelle menti ancor viva, e l'allegrezza

Disimparaste tra cotanti guai".

Agevolmente ci arrendemmo. Quindi

Pel continuo rotar d'un anno intero

Giorno non ispuntò, che a lauta mensa

Me non vedesse e i miei compagni in festa.

Ma rivolto già l'anno, e le stagioni

Tornate in sé col varïar de' mesi,

Ed il cerchio dei dì molti compiuto,

I compagni, traendomi in disparte:

"Infelice!" mi dissero, "del caro

Cielo nativo e delle avite mura

Non ti rammenterai, se vuole il fato

Che in vita tu rimanga, e le rivegga?"

Sano avviso mi parve. Il sol caduto,

E coverta di tenebre la terra,

Quei si corcâro per le stanze; ed io,

Salito il letto a maraviglia bello

Di Circe, supplichevoli drizzai

Alla dea, che m'udì, queste parole:

"Attiemmi, o Circe, le impromesse, e al caro

Rendimi natìo ciel, cui sempre vola,

Non pure il mio, ma de' compagni il core,

De' compagni, che stanno a me d'intorno,

Sempre che tu da me t'apparti, e tutta

Con le lagrime lor mi struggon l'alma".

"O di Laerte sovrumana prole",

La dea rispose, "ritenervi a forza

Io più oltre non vo'. Ma un'altra via

Correre in prima è d'uopo: è d'uopo i foschi

Di Pluto e di Proserpina soggiorni

Vedere in prima, e interrogar lo spirto

Del teban vate, che, degli occhi cieco,

Puro conserva della mente il lume;

Di Tiresia, cui sol diè Proserpina

Tutto portar tra i morti il senno antico.

Gli altri non son che vani spettri ed ombre".

Rompere il core io mi sentìi. Piagnea,

Su le piume giacendomi, né i raggi

Volea del Sol più rimirare. Al fine,

Poiché del pianger mio, del mio voltarmi

Su le piume io fui sazio: "Or qual", ripresi,

"Di tal vïaggio sarà il duce? All'Orco

Nessun giunse finor su negra nave".

"Per difetto di guida", ella rispose

Non t'annoiar. L'albero alzato, e aperte

Le tue candide vele, in su la poppa

T'assidi, e spingerà Borea la nave.

Come varcato l'Oceàno avrai,

Ti appariranno i bassi lidi, e il folto

Di pioppi eccelsi e d'infecondi salci

Bosco di Proserpìna: e a quella piaggia,

Che l'Oceán gorghiprofondo batte,

Ferma il naviglio, e i regni entra di Pluto.

Rupe ivi s'alza, presso cui due fiumi

S'urtan tra lor rumoreggiando, e uniti

Nell'Acheronte cadono: Cocito,

Ramo di Stige, e Piriflegetonte.

Appréssati alla rupe, ed una fossa,

Che un cubito si stenda in lungo e in largo,

Scava, o prode, tu stesso; e mel con vino,

Indi vin puro e limpidissim'onda

Vèrsavi, a onor de' trapassati, intorno,

E di bianche farine il tutto aspergi.

Poi degli estinti prega i frali e vôti

Capi, e prometti lor che nel tuo tetto

Entrato con la nave in porto appena,

Vacca infeconda, dell'armento fiore

Lor sagrificherai, di doni il rogo

Riempiendo; e che al sol Tiresia, e a parte,

Immolerai nerissimo arïete,

Che della greggia tua pasca il più bello.

Compiute ai mani le preghiere, uccidi

Pecora bruna, ed un monton, che all'Orco

Volgan la fronte: ma converso tieni

Del fiume alla corrente in quella il viso.

Molte Ombre accorreranno. A' tuoi compagni

Le già sgozzate vittime e scoiate

Mettere allor sovra la fiamma, e ai numi,

Al prepotente Pluto e alla tremenda

Proserpina drizzar voti comanda.

E tu col brando sguainato siedi,

Né consentir, che anzi che parli al vate,

I mani al sangue accostinsi. Repente

Il profeta verrà, duce di genti,

Che sul vïaggio tuo, sul tuo ritorno

Pel mar pescoso alle natìe contrade

Ti darà, quanto basta, indizio e lume".

Così la diva; e d'in su l'aureo trono

L'Aurora comparì. Tunica e manto

Circe stessa vestimmi; a sé ravvolse

Bella, candida, fina ed ampia gonna;

Si strinse al fianco un'aurea fascia, e un vago

Su i ben torti capei velo s'impose.

Ma io, passando d'una in altra stanza,

Confortava i compagni, e ad uno ad uno

Con molli detti gli abbordava: "Tempo

Non è più da sfiorare i dolci sonni.

Partiamo, e tosto. Il mi consiglia Circe".

Si levâro, e obbedîro. Ahi che né quinci

Mi si concesse ricondurli tutti!

Un Elpénore v'era, il qual d'etate

Dopo gli altri venìa, poco nell'armi

Forte, né troppo della mente accorto.

Caldo del buon licore, onde irrigossi,

Si divise dagli altri, ed al palagio

Mi si corcò, per rinfrescarsi, in cima.

Udìto il suon della partenza, e il moto,

Riscossesi ad un tratto, e, per la lunga

Scala di dietro scendere obblïando.

Mosse di punta sovra il tetto, e cadde

Precipite dall'alto: il collo ai nodi

Gli s'infranse, e volò l'anima a Dite.

Ragunatisi i miei: "Forse", io lor dissi,

"Alle patrie contrade andar credete.

Ma un altro pria la venerabil diva

Ci destinò cammin, che ai foschi regni

Di Pluto e di Proserpina conduce,

Per quivi interrogar del rinomato

Teban Tiresia l'indovino spirto".

Duol mortale gli assalse a questi detti.

Piangeano, e fermi rimanean lì lì,

E la chioma stracciavansi: ma indarno

Lo strazio della chioma era, ed il pianto.

Mentre al mar tristi tendevamo, e spesse

Lagrime spargevam, Circe, che in via

Pur s'era posta, alla veloce nave

Legò la bruna pecora e il montone.

Ci oltrepassò, che non ce ne avvedemmo,

Con piè leggiero. Chi potrìa de' numi

Scorgere alcun che qua o là si mova

Quando dall'occhio uman voglion celarsi?

 

LIBRO XI

 

Giunti al divino mare, il negro legno

Prima varammo, albero ergemmo e vele,

E prendemmo le vittime, e nel cavo

Legno le introducemmo: indi con molto

Terrore e pianto v'entravam noi stessi.

La dal crin crespo e dal canoro labbro

Dea veneranda un gonfiator di vela

Vento in poppa mandò, che fedelmente

Ci accompagnava per l'ondosa via;

Tal che ozïosi nella ratta nave

Dalla cerulea prua, giacean gli arnesi,

E noi tranquilli sedevam, la cura

Al timonier lasciandone ed al vento.

Quanto il dì risplendé, con vele sparse

Navigavamo. Spento il giorno, e d'ombra

Ricoperte le vie, dell'Oceano

Toccò la nave i gelidi confini,

Là 've la gente de' Cimmerî alberga,

Cui nebbia e buio sempiterno involve.

Monti pel cielo stelleggiato, o scenda

Lo sfavillante d'ôr sole non guarda

Quegl'infelici popoli, che trista

Circonda ognor pernizïosa notte.

Addotto in su l'arena il buon naviglio,

E il monto e la pecora sbarcati,

Alla corrente dell'Oceano in riva

Camminavam; finché venimmo ai lochi

Che la dea c'insegnò. Quivi per mano

Eurìloco teneano e Perimede

Le due vittime; ed io, fuor tratto il brando,

Scavai la fossa cubitale, e mele

Con vino, indi vin puro e lucid'onda

Versàivi, a onor de' trapassati, intorno

E di bianche farine il tutto aspersi.

Poi degli estinti le debili teste

Pregai, promisi lor che nel mio tetto,

Entrato con la nave in porto appena,

Vacca infeconda, dell'armento fiore,

Lor sagrificherei, di doni il rogo

Rïempiendo; e che al sol Tiresia, e a parte,

Immolerei nerissimo arïete,

Che della greggia mia pasca il più bello.

Fatte ai mani le preci, ambo afferrai

Le vittime, e sgozzàile in su la fossa,

Che tutto riceveane il sangue oscuro.

Ed ecco sorger della gente morta

Dal più cupo dell'Erebo, e assembrarsi

Le pallid'ombre: giovanette spose,

Garzoni ignari delle nozze, vecchi

Da nemica fortuna assai versati,

E verginelle tenere, che impressi

Portano i cuori di recente lutto;

E molti dalle acute aste guerrieri

Nel campo un dì feriti, a cui rosseggia

Sul petto ancor l'insanguinato usbergo.

Accorrean quinci e quindi, e tanti a tondo

Aggiravan la fossa, e con tai grida,

Ch'io ne gelai per subitana tema.

Pure a Eurìloco ingiunsi, e a Periméde

Le già scannate vittime e scoiate

Por su la fiamma, e molti ai dèi far voti,

Al prepotente Pluto e alla tremenda

Proserpina: ma io col brando ignudo

Sedea, né consentia che al vivo sangue,

Pria ch'io Tiresia interrogato avessi,

S'accostasser dell'ombre i vôti capi.

Primo ad offrirsi a me fu il simulacro

D'Elpènore, di cui non rinchiudea

La terra il corpo nel suo grembo ancora.

Lasciato in casa l'avevam di Circe

Non sepolto cadavere e non pianto.

Che incalzavaci allor diversa cura.

Piansi a vederlo, e ne sentii pietade,

E, con alate voci a lui converso:

"Elpènore", diss'io, "come scendesti

Nell'oscura caligine? Venisti

Più ratto a piè, ch'io su la negra nave".

Ed ei, piangendo: "O di Laerte egregia

Prole, sagace Ulisse, un nequitoso

Demone avverso, e il molto vin m'offese.

Stretto dal sonno alla magione in cima,

Men disciolsi ad un tratto: e, per la lunga

Di calar non membrando interna scala

Mossi di punta sovra il tetto, e d'alto

Precipitai: della cervice i nodi

Ruppersi, ed io volai qua con lo spirto.

Ora io per quelli da cui lunge vivi,

Per la consorte tua, pel vecchio padre,

Che a tanta cura t'allevò bambino,

Pel giovane Telemaco, che dolce

Nella casa lasciasti unico germe,

Ti prego, quando io so, che alla Circea

Isola il legno arriverai di nuovo,

Ti prego che di me, signor mio, vogli

Là ricordarti, onde io non resti, come

Della partenza spiegherai le vele,

Senza lagrime addietro e senza tomba,

E tu venghi per questo ai numi in ira.

Ma con quell'armi, ch'io vestìa, sul foco

Mi poni, e in riva del canuto mare

A un misero guerrier tumulo innalza,

Di cui favelli la ventura etade.

Queste cose m'adempi; ed il buon remo,

Ch'io tra i compagni miei, mentre vivea

Solea trattar, sul mio sepolcro infiggi.

"Sventurato", io risposi, "a pien fornita

Sarà, non dubitarne, ogni tua voglia".

Così noi sedevam, meste parole

Parlando alternamente, io con la spada

Sul vivo sangue ognora, e a me di contra

La forma lieve del compagno, a cui

Suggerìa molti accenti il suo disastro.

Comparve in questo dell'antica madre

L'ombra sottile, d'Anticlèa, che nacque

Dal magnanimo Autolico, e a quel tempo

Era tra i vivi ch'io per Troia sciolsi.

La vidi appena, che pietà mi strinse,

E il lagrimar non tenni: ma né a lei,

Quantunque men dolesse, io permettea

Al sangue atro appressar, se il vate prima

Favellar non s'udìa. Levossi al fine

Con l'aureo scettro nella man famosa

L'alma Tebana di Tiresia, e ratto

Mi riconobbe, e disse: "Uomo infelice,

Perché, del sole abbandonati i raggi,

Le dimore inamabili de' morti

Scendesti a visitar? Da questa fossa

Ti scosta, e torci in altra parte il brando,

Sì ch'io beva del sangue, e il ver ti narri".

Il piè ritrassi, e invaginai l'acuto

D'argentee borchie tempestato brando.

Ma ei, poiché bevuto ebbe, in tal guisa

Movea le labbra: "Rinomato Ulisse,

Tu alla dolcezza del ritorno aneli

E un nume invidïoso il ti contende

Come celarti da Nettun, che grave

Contra te concepì sdegno nel petto

Pel figlio, a cui spegnesti in fronte l'occhio?

Pur, sebbene a gran pena, Itaca avrai,

Sol che te stesso e i tuoi compagni affreni,

Quando, tutti del mar vinti i perigli,

Approderai col ben formato legno

Alla verde Trinacria isola, in cui

Pascon del Sol, che tutto vede ed ode,

I nitidi montoni e i buoi lucenti.

Se pasceranno illesi, e a voi non caglia

Che della patria, il rivederla dato,

Benché a stento, vi fia. Ma dove osiate

Lana o corno toccargli, eccidio a' tuoi,

E alla nave io predico, ed a te stesso.

E ancor che morte tu schivassi, tardo

Fora, ed infausto, e senza un sol compagno,

E su nave straniera, il tuo ritorno.

Mali oltra ciò t'aspetteranno a casa:

Protervo stuol di giovani orgogliosi,

Che ti spolpa, ti mangia, e alla divina

Moglie con doni aspira. È ver che a lungo

Non rimarrai senza vendetta. Uccisi

Dunque o per frode, o alla più chiara luce,

Nel tuo palagio i temerarî amanti,

Prendi un ben fatto remo, e in via ti metti:

Né rattenere il piè, che ad una nuova

Gente non sii, che non conosce il mare,

Né cosperse di sal vivande gusta,

Né delle navi dalle rosse guance,

O de' politi remi, ali di nave,

Notizia vanta. Un manifesto segno

D'esser nella contrada io ti prometto.

Quel dì che un altro pellegrino, a cui

T'abbatterai per via, te quell'arnese

Con che al vento su l'aia il gran si sparge

Portar dirà su la gagliarda spalla,

Tu repente nel suol conficca il remo.

Poi, vittime perfette a re Nettuno

Svenate, un toro, un arïete, un verro,

Riedi, e del cielo agli abitanti tutti

Con l'ordine dovuto offri ecatombe

Nella tua reggia, ove a te fuor del mare,

E a poco a poco da muta vecchiezza

Mollemente consunto, una cortese

Sopravverrà morte tranquilla, mentre

Felici intorno i popoli vivranno.

L'oracol mio, che non t'inganna, è questo.

"Tiresia", io rispondea, "così prescritto

(Chi dubbiar ne potrebbe?) hanno i celesti.

Ma ciò narrami ancora: io della madre

L'anima scorgo, che tacente siede

Appo la cava fossa, e d'uno sguardo,

Non che d'un motto, il suo figliuol non degna.

Che far degg'io, perché mi riconosca?

Ed egli: Troppo bene io nella mente

Io ti porrò. Quai degli spirti al sangue

Non difeso da te giunger potranno,

Sciorran parole non bugiarde: gli altri

Da te si ritrarran taciti indietro".

Svelate a me tai cose, in seno a Dite

Del profetante re l'alma s'immerse.

Ma io di là non mi togliea. La madre

S'accostò intanto, né del negro sangue

Prima bevé, che ravvisommi, e queste

Mi drizzò, lagrimando, alate voci:

"Deh come, figliuol mio, scendéstu vivo

Sotto l'atra caligine? Chi vive,

Difficilmente questi alberghi mira,

Però che vasti fiumi e paurose

Correnti ci dividono, e il temuto

Ocean, cui varcare ad uom non lice,

Se nol trasporta una dedalea nave.

Forse da Troia, e dopo molti errori,

Con la nave e i compagni a questo buio

Tu vieni? Né trovar sapesti ancora

Itaca tua? né della tua consorte

Riveder nel palagio il caro volto? "

"O madre mia, necessità", risposi,

"L'alma indovina a interrogar m'addusse

Del Tebano Tiresia. Il suolo acheo

Non vidi ancor, né i liti nostri attinsi;

Ma vo ramingo, e dalle cure oppresso,

Dappoi che a Troia ne' puledri bella

Seguìi, per disertarla, il primo Atride.

Su via, mi narra, e schiettamente, come

Te la di lunghi sonni apportatrice

Parca domò. Ti vinse un lungo morbo,

O te Dïana faretrata assalse

Con improvvisa non amara freccia?

Vive l'antico padre, il figlio vive,

Che in Itaca io lasciai? Nelle man loro

Resta, o passò ad altrui la mia ricchezza,

E ch'io non rieda più, si fa ragione?

E la consorte mia qual cor, qual mente

Serba? Dimora col fanciullo, e tutto

Gelosamente custodisce, o alcuno

Tra i primi degli Achei forse impalmolla? "

Riprese allor la veneranda madre:

"La moglie tua non lasciò mai la soglia

Del tuo palagio; e lentamente a lei

Scorron nel pianto i dì, scorron le notti.

Stranier nel tuo retaggio, in sin ch'io vissi,

Non entrò: il figlio su i paterni campi

Vigila in pace, e alle più illustri mense,

Cui l'invita ciascuno, e che non dee

Chi nacque al regno dispregiar, s'asside.

Ma in villa i dì passa Laerte, e mai

A cittade non vien: colà non letti,

Non coltri, o strati sontuosi, o manti.

Di vestimenta ignobili coverto

Dorme tra i servi al focolare il verno

Su la pallida cenere: e se torna

L'arida estate, o il verdeggiante autunno,

Lettucci umìli di raccolte foglie,

Stesi a lui qua e là per la feconda

Sua vigna, preme travagliato, e il duolo

Nutre, piangendo la tua sorte: arrogi,

La vecchiezza increscevole che il colse.

Non altrimenti de' miei stanchi giorni

Giunse il termine a me, cui non Dïana,

Sagittaria infallibile, di un sordo

Quadrello assalse, o di que' morbi invase,

Che soglion trar delle consunte membra

L'anima fuor con odïosa tabe:

Ma il desìo di vederti, ma l'affanno

Della tua lontananza, ma i gentili

Modi e costumi tuoi, nobile Ulisse,

La vita un dì sì dolce hannomi tolta".

Io, pensando tra me, l'estinta madre

Volea stringermi al sen: tre volte corsi,

Quale il mio cor mi sospingea, vêr lei,

E tre volte m'usci fuor delle braccia,

Come nebbia sottile, o lieve sogno.

Cura più acerba mi trafisse e ratto:

"Ahi, madre", le diss'io, "perché mi sfuggi

D'abbracciarti bramoso, onde, anco a Dite,

Le man gittando l'un dell'altro al collo,

Di duol ci satolliamo ambi, e di pianto?

Fantasma vano, acciò più sempre io m'anga,

Forse l'alta Proserpina mandommi?"

"O degli uomini tutti il più infelice",

La veneranda genitrice aggiunse,

"No, l'egregia Proserpina, di Giove

La figlia, non t'inganna. È de' mortali

Tale il destin, dacché non son più in vita,

Che i muscoli tra sé, l'ossa ed i nervi

Non si congiungan più: tutto consuma

La gran possanza dell'ardente foco,

Come prima le bianche ossa abbandona,

E vagola per l'aere il nudo spirto.

Ma tu d'uscire alla superna luce

Da questo buio affretta: e ciò che udisti,

E porterai nell'anima scolpito,

Penelope da te risappia un giorno".

Mentre così favellavam, sospinte

Dall'inclita Proserpina le figlie

Degli eroi comparïano, e le consorti

E traean della fossa al margo in folla.

Io, come interrogarle ad una ad una

Rivolgea meco; e ciò mi parve il meglio.

Stretta la spada, non patïa che tutte

Beessero ad un tempo. Alla sua volta

Così accorrea ciascuna, e l'onorato

Lignaggio ed i suoi casi a me narrava.

Prima s'appresentò l'illustre Tiro,

Che, del gran Salmonèo figlia, e consorte

Di Creteo, un de' figliuoli d'Eolo, sé disse.

Costei d'un fiume nell'amore accesa,

Dell'Enipèo divin, che la più bella

Sovra i più ameni campi onda rivolve,

Spesso e bagnarsi in quegli argenti entrava.

L'azzurro nume che la terra cinge,

Nettuno, in forma di quel dio, corcossi

Delle sue vorticose acque alla foce;

E la porporeggiante onda d'intorno

Gli stette, e in un arco si piegò, qual monte,

Lui celando, e la giovane, cui tosto

Sciols'ei la zona virginale, e un casto

Sopore infuse. Indi per man la prese,

E chiamolla per nome, e tai parole

Le feo: "Di questo amor, donna, t'allegra.

Compiuto non avrà l'anno il suo giro,

Che diverrai di bei fanciulli madre,

Quando vane giammai degl'immortali

Non riescon le nozze. I bei fanciulli

Prendi in cura, e nutrisci. Or vanne, e sappi,

Ma il sappi sola, che tu in me vedesti

Nettuno, il nume che la terra scuote".

Disse; e ne' gorghi suoi l'accolse il mare.

Ella di Nèleo e Pèlia, ond'era grave,

S'allevïò. Forti del sommo Giove

Ministri, l'un nell'arenosa Pilo,

Nell'ampia l'altro, e di feconde gregge

Ricca Iaolco, ebbe soggiorno e scettro.

Quindi altra prole, Esòn, Ferete, e il chiaro

Domator di cavalli Amitaòne,

Diede a Creteo costei, che delle donne

Reina parve alla sembianza e agli atti.

Poi d'Asòpo la figlia, Antiopa, venne,

Che dell'amor di Giove andò superba,

E due figli creò, Zeto e Anfione.

Tebe costoro dalle sette porte

Primi fondaro, e la munir di torri:

Ché mal potean la spazïosa Tebe

Senza torri guardar, benché gagliardi.

Venne d'Amfitrïon la moglie, Alcmena

Che al Saturnìde l'animoso Alcide,

Cor di leone, partorì. Megàra

Di Creonte magnanimo figliuola

E moglie dell'invitto Ercole, venne.

D'Edipo ancor la genitrice io vidi,

La leggiadra Epicasta, che nefanda

Per cecità di mente opra commise,

L'uom disposando da lei nato. Edìpo

La man, con che avea prima il padre ucciso,

Porse alla madre: né celaro i dèi

Tal misfatto alle genti. Ei per crudele

Voler de' numi nell'amena Tebe

Addolorato su i Cadmei regnava.

Ma la donna, cui vinse il proprio affanno,

L'infame nodo ad un'eccelsa trave

Legato, scese alla magion di Pluto

Dalle porte infrangibili, e tormenti

Lasciò indietro al figliuol, quanti ne danno

Le ultrici Furie, che una madre invoca.

Vidi colei non men, che ultima nacque

All'Iaside Anfïón, cui l'arenosa

Pilo negli anni andati, e il Minïeo

Orcomeno ubbidìa, l'egregia Clori,

Che Neleo, di lei preso, a sé congiunse,

Poscia ch'egli ebbe di dotali doni

La vergine ricolma. Ed ella il feo

Ricco di vaga e di lui degna prole,

Di Nestore, di Cromio, e dell'eroe

Periclimeno; e poi di quella Pero,

Che maraviglia fu d'ogni mortale.

Tutti i vicini la chiedean; ma il padre

Sol concedeala a chi le belle vacche

Dalla lunata spazïosa fronte,

Che appo sé riteneasi il forte Ificle,

Gli rimenasse, non leggiera impresa,

Dai pascoli di Filaca. L'impresa

Melampo assunse, un indovino illustre;

Se non che a lui s'attraversaro i fati,

E pastori salvatichi, da cui

Soffrir dové d'aspre catene il pondo.

Ma non prima, già in sé rivolto l'anno,

I mesi succedettersi ed i giorni,

E compiêr le stagioni il corso usato

Che Ifìcle, a cui gli oracoli de' numi

Svelati avea l'irreprensibil vate,

I suoi vincoli ruppe; e così al tempo

L'alto di Giove s'adempiea consiglio.

Leda comparve, da cui Tindaro ebbe

Due figli alteri, Castore e Pollùce,

L'un di cavalli domatore, e l'altro

Pugile invitto. Benché l'alma terra

Ritengali nel sen, di vita un germe

(Così Giove tra l'Ombre anco gli onora)

Serbano: ciascun giorno, e alternamente,

Rïapron gli occhi, e chiudonli alla luce,

E glorïosi al par van degli eterni.

Dopo costei mi si parò davanti

D'Aloèo la consorte, Ifimidèa;

Cui di dolce d'amor nodo si strinse

Lo Scuotiterra. Ingenerò due figli,

Oto a un dio pari, e l'inclito Efialte,

Che la luce del sol poco fruîro.

Né di statura ugual, né di beltade,

Altri nodrì la comun madre antica,

Sol che fra tutti d'Orïon si taccia.

Non avean tocco il decim'anno ancora,

Che in largo nove cubiti, e tre volte

Tanto cresciuti erano in lungo i corpi.

Questi volendo ai sommi dèi su l'etra

Nuova portar sediziosa guerra,

L'Ossa sovra l'Olimpo, e sovra l'Ossa

L'arborifero Pelio impor tentaro,

Onde il cielo scalar di monte in monte;

E il fean, se i volti pubertà infiorava;

Ma di Giove il figliuolo, e di Latona,

Sterminolli ambo, che del primo pelo

Le guance non ombravano, ed il mento.

Fedra comparve ancor, Procri ed Arianna

Che l'amante Teseo rapì da Creta,

E al suol fecondo della sacra Atene

Condur volea. Vane speranze! In Nasso,

Cui cinge un vasto mar, fu da Dïana,

Per l'indizio di Bacco, aggiunta e morta.

Né restò Mera inosservata indietro,

Né Climene restò, né l'abborrita

Erifile, che il suo diletto sposo

Per un aureo monil vender poteo.

Ma dove io tutte degli eroi le apparse

Figlie nomar volessi, e le consorti,

Pria mancherìami la divina Notte.

E a me par tempo da posar la testa

O in nave o qui, tutta del mio ritorno

Ai celesti lasciando, e a voi la cura.

Tacque. I Feaci per l'oscura sala

Stavansi muti, e nel piacere assorti.

Ruppe il silenzio l'immortal regina

La bracciobianca Arete: "Feacesi,

Che vi par di costui? del suo sembiante?

Della maschia persona? e di quel senno

Che in lui risiede? Ospite è mio, ma tutti

Dell'onor, che io ricevo, a parte siete.

Non congedate in fretta, e senza doni

Chi nulla tien, voi, che di buono in casa

Per favor degli dèi tanto serbate".

Qui favellò Echenèo, che gli altri tutti

Vincea d'etade: "Fuor del segno, amici,

Arete non colpì con la sua voce.

Obbediscasi a lei: se non che prima

Del re l'esempio attenderemo e il detto".

"Ciò sarà ch'ella vuole", Alcinoo disse

"Se vita e scettro a me lascian gli dèi.

Ma, benché tanto di partir gli tardi,

L'ospite indugi sino al nuovo sole,

Sì ch'io tutti i regali insieme accoglia.

Cura esser dee comun che lieto ei parta

E più, che d'altri, mia, s'io qui son primo".

"Alcinoo re, che di grandezza e fama",

Riprese Ulisse, "ogni mortale avanzi,

Sei mesi ancor mi riteneste e sei,

E fida scorta intanto e ricchi doni

M'apparecchiaste, io non dovrei sgradirlo:

Ché quanto io tornerò con man più piene

A' miei sassi natii, tanto la gente

Con più onore accorrammi e con più affetto".

Ed Alcinoo in risposta: "Allora, Ulisse

Che ti adocchiamo, un impostor fallace,

D'alte menzogne inaspettato fabbro,

Scorger non sospettiam, quali benigna

La terra qua e là molti ne pasce.

Leggiadria di parole i labbri t'orna,

Né prudenza minor t'alberga in petto.

L'opre de' Greci e le tue doglie, quasi

Lo spirto della Musa in te piovesse,

Ci narrasti così, ch'era un vederle.

Deh siegui, e dimmi, se t'apparve alcuno

Di tanti eroi che veleggiâro a Troia

Teco, e spenti rimaservi. La notte

Con lenti passi or per lo ciel cammina,

E finché ci esporrai stupende cose,

Non fia chi del dormir qui si rammenti.

Quando parlar di te sino all'aurora

Ti consentisse il duol sino all'aurora

Io penderei dalle tue labbra immoto".

"V'ha un tempo Alcinoo, di racconti ed havvi",

Ulisse ripigliò, "di sonni un tempo;

Che se udir vuoi più avanti, io non ricuso

La sorte di color molto più dura

Rappresentarti, che scampâr dai rischi

D'una terribil guerra, e nel ritorno,

Colpa d'una rea donna, ohimé! periro.

Poiché le femminili Ombre famose

La casta Proserpìna ebbe disperse,

Mesto, e cinto da quei che fato uguale

Trovâr d'Egisto negl'infidi alberghi,

Si levò d'Agamennone il fantasma.

Assaggiò appena dell'oscuro sangue,

Che ravvisommi; e dalle tristi ciglia

Versava in copia lagrime, e le mani

Mi stendea, di toccarmi invan bramose;

Ché quel vigor, quella possanza, ch'era

Nelle sue membra ubbidïenti ed atte,

Derelitto l'avea. Lagrime anch'io

Sparsi a vederlo, e intenerìi nell'alma,

E tai voci, nomandolo, gli volsi:

"O inclito d'Atrèo figlio, o de' prodi

re, Agamennòne, qual destin ti vinse,

E i lunghi t'arrecò sonni di morte?

Nettuno in mar ti domò forse, i fieri

Spirti eccitando de' crudeli venti?

O t'offesero in terra uomini ostili,

Che armenti depredavi e pingui greggi.

O delle patrie mura, e delle caste

Donne a difesa, roteavi il brando? "

"Laerziade preclaro, accorto Ulisse"

Ratto rispose dell'Atride l'ombra

Me non domò Nettuno all'onde sopra,

Né m'offesero in terra uomini ostili.

Egisto, ordita con la mia perversa

Donna una frode, a sé invitommi, e a mensa

Come alle greppie inconsapevol bue,

L'empio mi trucidò. Così morìi

Di morte infelicissima; e non lunge

Gli amici mi cadean, quai per illustri

Nozze, o banchetto sontuoso, o lauta

A dispendio comun mensa imbandita,

Cadono i verri dalle bianche sanne.

Benché molti a' tuoi giorni o in folta pugna;

Vedessi estinti, o in singolar certame,

Non solita pietà tocco t'avrebbe,

Noi mirando, che stesi all'ospitali

Coppe intorno eravam, mentre correa

Purpureo sangue il pavimento tutto.

La dolente io sentìi voce pietosa

Della figlia di Priamo, di Cassandra,

Cui Clitennestra m'uccidea da presso,

La moglie iniqua; ed io, giacendo a terra,

Con moribonda man cercava il brando:

Ma la sfrontata si rivolse altrove,

Né gli occhi a me, che già scendea tra l'Ombre

Chiudere, né compor degnò le labbra.

No: più rea peste, più crudel non dassi

Di donna, che sì atroci opre commetta,

Come questa infedel, che il danno estremo

Tramò, cui s'era vergine congiunta.

Lasso! dove io credea che, ritornando,

Figliuoli e servi m'accorrìan con festa,

Costei, che tutta del peccar sa l'arte,

Si ricoprì d'infamia, e quante al mondo

Verranno, e le più oneste anco, ne asperse".

"Oh quanta", io ripigliai, "sovra gli Atridi

Le femmine attirâro ira di Giove!

Fu di molti de' Greci Elena strage!

E a te, cogliendo l'assenza il tempo,

Funesta rete Clitennestra tese".

"Quindi troppa tu stesso", ei rispondea,

"Con la tua donna non usar dolcezza,

Né il tutto a lei svelar, ma parte narra

De' tuoi secreti a lei, parte ne taci,

Benché a te dalla tua venir disastro

Non debba: ché Penelope, la saggia

Figlia d'Icario, altri consigli ha in core.

Moglie ancor giovinetta, e con un bimbo,

Che dalla mamma le pendea contento,

Tu la lasciavi, navigando a Troia:

Ed oggi il tuo Telemaco felice

Già s'asside uom tra gli uomini, e il diletto

Padre lui vedrà, un giorno, ed egli al padre

Giusti baci porrà sovra la fronte.

Ma la consorte mia né questo almeno

Mi consentì, ch'io satollassi gli occhi

Nel volto del mio figlio, e pria mi spense.

Credi al fine a' miei detti, e ciò nel fondo

Serba del petto: le native spiagge

Secretamente afferra, e a tutti ignoto,

Quando fidar più non si puote in donna.

Or ciò mi conta, e schiettamente: udisti,

Dove questo mio figlio i giorni tragga?

In Orcomeno forse? O forse tienlo

Pilo arenosa, o la capace Sparta

Presso re Menelao? Certo non venne

Finor sotterra il mio gentil Oreste".

Ed io: "Perché di ciò domandi, Atride,

Me, cui né conto è pur se Oreste spira

Le dolci aure di sopra, o qui soggiorna?

Lode non merta il favellare al vento".

Così parlando alternamente, e il volto

Di lagrime rigando, e il suol di Dite,

Ce ne stavam disconsolati: ed ecco

Sorger lo spirto del Pelìade Achille,

Di Patroclo, d'Antìloco e d'Aiace,

Che gli Achei tutti, se il Pelìde togli,

Di corpo superava e di sembiante.

Mi riconobbe del veloce al corso

Eacide l'imago; e, lamentando:

O, disse, di Laerte inclita prole,

Qual nuova in mente, sciagurato, volgi

Macchina, che ad ogni altra il pregio scemi?

Come osasti calar ne' foschi regni,

Degli estinti magion, che altro non sono

Che aeree forme e simulacri ignudi? "

"Di Peleo", io rispondea, "figlio, da cui

Tanto spazio rimase ogni altro Greco,

Tiresia io scesi a interrogar, che l'arte

Di prender m'insegnasse Itaca alpestre

Sempre involto ne' guai, l'Acaica terra

Non vidi ancor, né il patrio lido attinsi.

Ma di te, forte Achille, uom più beato

Non fu, né giammai fia. Vivo d'un nume

T'onoravamo al pari, ed or tu regni

Sovra i defunti. Puoi tristarti morto?"

"Non consolarmi della morte", a Ulisse

Replicava il Pelìde. "Io pria torrei

Servir bifolco per mercede, a cui

Scarso e vil cibo difendesse i giorni,

Che del Mondo defunto aver l'impero.

Su via, ciò lascia, e del mio figlio illustre

Parlami in vece. Nelle ardenti pugne

Corre tra i primi avanti? E di Pelèo

Del mio gran genitor, nulla sapesti?

Sieguon fedeli a reverirlo i molti

Mirmìdoni, o nell'Ellada ed in Ftia

Spregiato vive per la troppa etade,

Che le membra gli agghiaccia? Ahi! che guardarlo

Sotto i raggi del Sol più non mi lice:

Ché passò il tempo che la Troica sabbia

D'esanimi io covrìa corpi famosi,

Proteggendo gli Achei. S'io con la forza

Che a que' giorni era in me, toccar potessi

Per un istante la paterna soglia,

A chïunque oltraggiarlo, e degli onori

Fraudarlo ardisse, questa invitta mano

Metterebbe nel core alto spavento.

Nulla, io risposi, di Pelèo, ma tutto

Del figliuol posso, e fedelmente, dirti,

Di Neottolemo tuo, che all'oste Achiva

Io stesso sopra cava e d'uguai fianchi

Munita nave rimenai da Sciro.

Sempre che ad Ilio tenevam consulte,

Primo egli a favellar s'alzava in piedi,

Né mai dal punto devïava; soli

Gareggiavam con lui Nestore ed io.

Ma dove l'armi si prendean, confuso

Già non restava in fra la turba, e ignoto:

Precorrea tutti, e di gran lunga, e intere

Le falangi struggea. Quant'ei mandasse

Propugnacol de' Greci, anime all'Orco,

Da me non t'aspettare. Abbiti solo,

Che il Telefìde Eurìpilo trafisse

Fra i suoi Cetèi, che gli morìano intorno;

Euripilo di Troia ai sacri muri

Per la impromessa man d'una del rege

Figlia venuto, ed in quell'oste intera,

Dopo il deiforme Mènnone, il più bello.

Che del giorno dirò, che il fior de' Greci

Nel costrutto da Epèo cavallo salse,

Che in cura ebb'io, poiché a mia voglia solo

Aprìasi, o rinchiudeasi, il cavo agguato?

Tergeansi capi e condottier con mano

Le umide ciglia, e le ginocchia sotto

Tremavano a ciascun; né bagnare una

Lagrima a lui, né di pallore un'ombra

Tingere io vidi la leggiadra guancia.

Bensì prieghi porgeami onde calarsi

Giù del cavallo, e della lunga spada

Palpeggiava il grand'else, e l'asta grave

Crollava, mali divisando a Troia

Poi la cittade incenerita, in nave

Delle spoglie più belle adorno e carco

Montava, e illeso: quando lunge, o presso,

Di spada, o stral, non fu giammai chi vanto

Del ferito Neottòlemo si desse".

Dissi, e d'Achille alle veloci piante

Per li prati d'asfodelo vestiti

L'alma da me sen giva a lunghi passi,

Lieta, che udì del figliuol suo la lode.

D'altri guerrieri le sembianze tristi

Compariano; e ciascun suoi guai narrava.

Sol dello spento Telamonio Aiace

Stava in disparte il disdegnoso spirto

Perché vinto da me nella contesa

Dell'armi del Pelide appo le navi.

Teti, la madre veneranda, in mezzo

Le pose, e giudicaro i Teucri e Palla.

Oh côlta mai non avess'io tal palma,

Se l'alma terra nel suo vasto grembo

Celar dovea sì glorïosa testa,

Aiace, a cui d'aspetto e d'opre illustri,

Salvo l'irreprensibile Pelìde

Non fu tra i Greci chi agguagliarsi osasse!

Io con blande parole: "Aiace", dissi,

"Figlio del sommo Telamon, gli sdegni

Per quelle maledette arme concetti

Dunque né morto spoglierai? Fatali

Certo reser gli dèi quell'arme ai Greci,

Che in te perdero una sì ferma torre.

Noi per te nulla men, che per Achille,

Dolenti andiam; né alcuno n'è in colpa, il credi:

Ma Giove, che infinito ai bellicosi

Danai odio porta, la tua morte volle.

Su via, t'accosta, o re, porgi cortese

L'orecchio alle mie voci, e la soverchia

Forza del generoso animo doma".

Nulla egli a ciò: ma, ritraendo il piede,

Fra l'altre degli estinti Ombre si mise:

Pur, seguendolo io quivi, una risposta

Forse data ei m'avrìa; se non che voglia

Altro di rimirar m'ardea nel petto.

Minosse io vidi, del Saturnio il chiaro

Figliuol, che assiso in trono, e un aureo scettro

Stringendo in man, tenea ragione all'ombre

Che tutte, qual seduta e quale in piedi,

Conti di sé rendeangli entro l'oscura

Di Pluto casa dalle larghe porte.

Vidi il grande Orïòn, che delle fiere,

Che uccise un dì sovra i boscosi monti,

Or gli spettri seguìa de' prati inferni

Per l'asfodelo in caccia; e maneggiava

Perpetua mazza d'infrangibil rame.

Ecco poi Tizio, della Terra figlio,

Che sforzar non temé l'alma di Giove

Sposa, Latona, che volgeasi a Pito

Per le ridenti Panopèe campagne.

Sul terren distendevasi, e ingombrava

Quando in dì nove ara di tauri un giogo:

E due avvoltoi, l'un quinci, e l'altro quindi,

Ch'ei con mano scacciar tentava indarno

rodeangli il cor, sempre ficcando addentro

Nelle fibre rinate il curvo rostro.

Stava là presso con acerba pena

Tantalo in piedi entro un argenteo lago,

La cui bell'onda gli toccava il mento.

Sitibondo mostravasi, e una stilla

Non ne potea gustar: ché quante volte

Chinava il veglio le bramose labbra,

Tante l'onda fuggìa dal fondo assorta,

Sì che apparìagli ai piè solo una bruna

Da un Genio avverso inaridita terra.

Piante superbe, il melagrano, il pero,

E di lucide poma il melo adorno,

E il dolce fico, e la canuta oliva,

Gli piegavan sul capo i carchi rami;

E in quel ch'egli stendea dritto la destra

Vêr le nubi lanciava i rami il vento.

Sìsifo altrove smisurato sasso

Tra l'una e l'altra man portava, e doglia

Pungealo inenarrabile. Costui

La gran pietra alla cima alta d'un monte,

Urtando con le man, coi piè pontando,

Spingea: ma giunto in sul ciglion non era,

Che, risospinta da un poter supremo,

Rotolavasi rapida pel chino

Sino alla valle la pesante massa.

Ei nuovamente di tutta sua forza

Su la cacciava: dalle membra a gronde

Il sudore colavagli, e perenne

Dal capo gli salìa di polve un nembo.

D'Ercole mi s'offerse al fin la possa,

Anzi il fantasma: però ch'ei de' numi

Giocondasi alla mensa e cara sposa

Gli siede accanto la dal piè leggiadro

Ebe, di Giove figlia e di Giunone,

Che muta il passo, coturnata d'oro.

Schiamazzavan gli spirti a lui d'intorno,

Come volanti augei da subitana

Tema compresi; ed ei fosco, qual notte,

Con l'arco in mano, e con lo stral sul nervo,

Ed in atto ad ognor di chi saetta,

Orrendamente qua e là guatava.

Ma il petto attraversavagli una larga

D'ôr cintura terribile, su cui

Storïate vedeansi opre ammirande,

Orsi, cinghiai feroci e leon torvi,

E pugne, e stragi, e sanguinose morti;

Cintura, a cui l'eguale, o prima o dopo,

Non fabbricò, qual che si fosse, il mastro.

Mi sguardò, riconobbemi, e con voce

Lugubre: "O", disse, "di Laerte figlio,

Ulisse accorto, ed infelice a un'ora,

Certo un crudo t'opprime avverso fato,

Qual sotto i rai del Sole anch'io sostenni.

Figliuol quantunque dell'Egìoco Giove,

Pur, soggetto vivendo ad uom che tanto

Valea manco di me, molto io soffersi.

Fatiche gravi ei m'addossava, e un tratto

Spedimmi a quinci trarre il can trifauce,

Che la prova di tutte a me più dura

Sembravagli; ed io venni, e quinci il cane

Trifauce trassi ripugnante indarno,

D'Ermete col favore e di Minerva".

Tacque, e nel più profondo Erebo scese.

Di loco io non moveami, altri aspettando

De' prodi, che spariro, è omai gran tempo.

E que' due forse mi sarien comparsi,

Ch'io più veder bramava, eroi primieri,

Teseo e Piritoo, glorïosa prole

Degl'immortali dèi. Ma un infinito

Popol di spirti con frastuono immenso

Si ragunava; e in quella un improvviso

Timor m'assalse, non l'orribil testa

Della tremenda Gòrgone la diva

Proserpina invïasse a me dall'Orco.

Dunque senza dimora al cavo legno

Mossi, e ai compagni comandai salirlo,

E liberar le funi; ed i compagni

Ratto il salìano, e s'assidean su i banchi.

Pria l'aleggiar de' remi il cavo legno

Mandava innanzi d'Ocean su l'onde:

Poscia quel, che levossi, ottimo vento.

 

LIBRO XII

 

Poiché la nave uscì dalle correnti

Del gran fiume Oceàno, ed all'Eèa

Isola giunse nell'immenso mare,

Là 've gli alberghi dell'Aurora e i balli

Sono, e del sole i lucidi Levanti,

Noi dalla nave, che fu in secco tratta,

Scesi, e corcati su la muta spiaggia,

Aspettammo dell'alba il sacro lume.

Ma come del mattin la bella figlia

Colorò il ciel con le rosate dita,

Di Circe andaro alla magione alcuni,

Che dell'estinto Elpenore la fredda

Spoglia ne riportassero. Troncammo

Frassini e abeti, e all'infelice amico,

Dolenti il core, e lagrimosi il ciglio,

L'esequie femmo, ove sporgea più il lido.

Né prima il corpo e le armi ebbe arse il foco,

Che noi, composto un tumulo, ed eretta

SOpravi una colonna, il ben formato

Remo infiggemmo della tomba in cima.

Mentr'eravamo al trist'ufficio intenti,

Circe, che d'Aide ci sapea tornati,

S'adornò e venne in fretta, e con la dea

Venner d'un passo le serventi ninfe,

Forza di carni e pan seco recando,

E rosso vino, che le vene infiamma.

L'inclita tra le dee stava nel mezzo,

E così favellava: "O sventurati,

Che in carne viva nel soggiorno entraste

D'Aide, e di cui la sorte è due fiate

Morir, quando d'ogni altro uomo è una sola.

Su via, tra i cibi scorra ed i licori

Tutto a voi questo dì su le mie rive.

Come nel ciel rosseggerà l'Aurora,

Navigherete; ma il cammino, e quanto

Di saper v'è mestieri, udrete in prima,

Sì che non abbia per un mal consiglio

Grave in terra, od in mare, a incorvi danno".

Chi persuaso non sarìasi? Quindi

Tra lanci piene e coronate tazze,

Finché il sol si mostrò, sedemmo a mensa.

Il sol celato ed imbrunito il mondo,

Si colcaro i compagni appo la nave.

Ma Circe me prese per mano, e trasse

Da parte, e a seder pose; indi, seduta

Di contra, interrogommi, ed io su tutto

La satisfeci pienamente. Allora

Tai parole sciogliea l'illustre diva:

"Tu compiesti ogni cosa. Or quello ascolta,

Ch'io vo' manifestarti, e che al bisogno

Ti torneranno nella mente i numi.

Alle Sirene giungerai da prima,

Che affascìnan chïunque i lidi loro

Con la sua prora veleggiando tocca.

Chïunque i lidi incautamente afferra

Delle Sirene, e n'ode il canto, a lui

Né la sposa fedel, né i cari figli

Verranno incontro su le soglie in festa.

Le Sirene sedendo in un bel prato,

Mandano un canto dalle argute labbra,

Che alletta il passeggier: ma non lontano

D'ossa d'umani putrefatti corpi

E di pelli marcite, un monte s'alza.

Tu veloce oltrepassa, e con mollita

Cera de' tuoi così l'orecchio tura,

Che non vi possa penetrar la voce.

Odila tu, se vuoi; sol che diritto

Te della nave all'albero i compagni

Leghino, e i piedi stringanti, e le mani;

Perché il diletto di sentir la voce

Delle Sirene tu non perda. E dove

Pregassi o comandassi a' tuoi di sciorti,

Le ritorte raddoppino ed i lacci.

Poiché trascorso tu sarai, due vie

Ti s'apriranno innanzi; ed io non dico,

Qual più giovi pigliar, ma, come d'ambo

Ragionato t'avrò, tu stesso il pensa.

Vedrai da un lato discoscese rupi

Sovra l'onde pendenti, a cui rimbomba

Dell'azzurra Anfitrite il salso fiotto.

Gl'Iddii beati nella lor favella

Chiàmanle Erranti. Non che ogni altro augello,

Trasvolarle non sanno impunemente

Né le colombe pur, che al padre Giove

Recan l'ambrosia: la polita pietra

Sempre alcuna ne fura, e della spenta

Surroga invece altra colomba il padre.

Nave non iscampò dal periglioso

Varco sin qui: ché de' navigli tutti

Le tavole del pari e i naviganti

Sen porta il vincitor flutto, e la pregna

Di mortifero foco atra procella.

Sola quell'Argo che solcava il mare,

Degli uomini pensiero e degli dèi

Trapassar valse, navigando a Colco:

E se non che Giunon, cui molto a cuore

Giasone stava, di sua man la spinse,

Quella non meno avrìan contra le vaste

Rupi cacciata i tempestosi flutti.

Dall'altra parte havvi due scogli: l'uno

Va sino agli astri, e fosca nube il cinge

Né su l'acuto vertice, l'estate

Corra o l'autunno, un puro ciel mai ride.

Montarvi non potrebbe altri, o calarne,

Venti mani movesse e venti piedi:

Sì liscio è il sasso e la costa superba.

Nel mezzo, vôlta all'occidente e all'orco,

S'apre oscura caverna, a cui davanti

Dovrai ratto passar; giovane arciero

Che dalla nave disfrenasse il dardo,

Non toccherebbe l'incavato speco.

Scilla ivi alberga, che moleste grida

Di mandar non ristà. La costei voce

Altro non par che un guaiolar perenne

Di lattante cagnuol: ma Scilla è atroce

Mostro, e sino ad un dio, che a lei si fesse,

Non mirerebbe in lei senza ribrezzo.

Dodici ha piedi, anterïori tutti,

Sei lunghissimi colli, e su ciascuno

Spaventosa una testa, e nelle bocche

Di spessi denti un triplicato giro,

E la morte più amara in ogni dente.

Con la metà di sé nell'incavato

Speco profondo ella s'attuffa, e fuori

Sporge le teste, riguardando intorno

Se delfini pescar, lupi, o alcun puote

Di que' mostri maggior che a mille a mille

Chiude Anfitrite nei suoi gorghi e nutre.

Né mai nocchieri oltrepassaro illesi:

Poiché quante apre disoneste bocche,

Tanti dal cavo legno uomini invola.

Men l'altro s'alza contrapposto scoglio

E il dardo tuo ne colpirìa la cima.

Grande verdeggia in questo e d'ampie foglie

Selvaggio fico; e alle sue falde assorbe

La temuta Cariddi il negro mare.

Tre fiate il rigetta, e tre nel giorno

L'assorbe orribilmente. Or tu a Cariddi

Non t'accostar mentre il mar negro inghiotte;

Ché mal saprìa dalla ruina estrema

Nettuno stesso dilivrarti. A Scilla

Tienti vicino, e rapido trascorri.

Perder sei de' compagni entro la nave

Torna più assai, che perir tutti a un tempo".

Tal ragionava; ed io: "Quando m'avvegna

Schivare, o Circe, la fatal Cariddi,

Respinger, dimmi il ver, Scilla non deggio,

Che gli amici a distruggermi s'avventa?"

"O sventurato", rispondea la diva

Dunque le pugne in mente ed i travagli

Rivolgi ancor, né ceder pensi ai numi?

Cosa mortal credi tu Scilla? Eterno

Credila, e duro, e faticoso, e immenso

Male, ed inespugnabile, da cui

Schermo non havvi, e cui fuggir fia ìl meglio

Se indugi, e vesti appo lo scoglio l'armi,

Sbucherà, temo, ad un secondo assalto,

E tanti de' compagni un'altra volta

Ti rapirà, quante spalanca bocche.

Vola dunque sul pelago, e la madre

Cratèi, che al mondo generò tal peste,

E ritenerla, che a novella preda

Non si slanci, potrà, nel corso invoca.

Allora incontro ti verran le belle

Spiagge della Trinacria isola, dove

Pasce il gregge del Sol, pasce l'armento:

Sette branchi di buoi, d'agnello tanti,

E di teste cinquanta i branchi tutti.

Non cresce, o scema, per natale o morte,

Branco; e le Dive sono i lor pastori

Faetusa e Lampezie il crin ricciute

Che partorì d'Iperïone al figlio

Ninfe leggiadre, la immortal Neera.

Come l'augusta madre ambo le ninfe

Dopo il felice parto ebbe nodrite,

A soggiornar lungi da sé mandolle

Nella Trinacria; e le paterne vacche

Dalla fronte lunata, ed i paterni

Monton lucenti a custodir lor diede.

Pascoleranno intatti e a voi soltanto

Calerà del ritorno? il suol nativo,

Non però senza guai, fiavi concesso.

Ma se giovenca molestaste od agna,

Sterminio a te predìco, al legno e a' tuoi

E pognam, che tu salvo ancor ne andassi,

Riederai tardi, e a gran fatica, e solo".

Disse; e sul trono d'ôr l'Aurora apparve.

Circe, non molto poi, da me rivolse

Per l'isola i suoi passi; ed io, trovata

La nave, a entrarvi e a disnodar la fune

Confortava i compagni; ed i compagni

V'entraro, e s'assidean su i banchi, e assisi

Fean co' remi nel mar spume d'argento.

La dea possente ci spedì un amico

Vento di vela gonfiator, che fido

Per l'ondoso cammin ne accompagnava:

Sì che, deposti nella negra nave

Dalla prora cerulea i lunghi remi,

Sedevamo, di spingerci e guidarci

Lasciando al timonier la cura e al vento.

Qui, turbato del core: "Amici", io dissi,

Degno mi par che a tutti voi sia conto

Quel che predisse a me l'inclita Circe.

Scoltate adunque, acciocché, tristo o lieto,

Non ci sorprenda ignari il nostro fato.

Sfuggire in pria delle Sirene il verde

Prato e la voce dilettosa ingiunge.

Vuole ch'io l'oda io sol: ma voi diritto

Me della nave all'albero legate

Con fune sì, ch'io dar non possa un crollo;

E dove di slegarmi io vi pregassi

Pur con le ciglia, o comandassi, voi

Le ritorte doppiatemi ed i lacci".

Mentre ciò loro io discoprìa, la nave,

Che avea da poppa il vento, in picciol tempo

Delle Sirene all'isola pervenne.

Là il vento cadde, ed agguagliossi il mare,

E l'onde assonnò un demone. I compagni

Si levâr pronti, e ripiegâr le vele,

E nella nave collocarle: quindi

Sedean sui banchi ed imbiancavan l'onde

Co' forti remi di polito abete.

Io la duttile cera, onde una tonda

Tenea gran massa, sminuzzai con destro

Rame affilato; ed i frammenti n'iva

Rivoltando e premendo in fra le dita.

Né a scaldarsi tardò la molle pasta;

Perocché lucidissimi dall'alto

Scoccava i rai d'Iperïone il figlio.

De' compagni incerai senza dimora

Le orecchie di mia mano; e quei diritto

Me della nave all'albero legaro

Con fune, i piè stringendomi e le mani.

Poi su i banchi adagiavansi, e co' remi

Batteano il mar, che ne tornava bianco.

Già, vogando di forza, eravam quanto

Corre un grido dell'uomo, alle Sirene

Vicini. Udito il flagellar de' remi,

E non lontana omai vista la nave,

Un dolce canto cominciaro a sciorre:

"O molto illustre Ulisse, o degli Achei

Somma gloria immortal, su via, qua vieni,

Ferma la nave; e il nostro canto ascolta.

Nessun passò di qua su negro legno,

Che non udisse pria questa che noi

Dalle labbra mandiam, voce soave;

Voce, che innonda di diletto il core,

E di molto saver la mente abbella.

Ché non pur ciò, che sopportaro a Troia

Per celeste voler Teucri ed Argivi,

Noi conosciam, ma non avvien su tutta

La delle vite serbatrice terra

Nulla, che ignoto o scuro a noi rimanga".

Cosi cantaro. Ed io, porger volendo

Più da vicino il dilettato orecchio,

Cenno ai compagni fea, che ogni legame

Fossemi rotto; e quei più ancor sul remo

Incurvavano il dorso, e Perimede

Sorgea ratto, ed Euriloco, e di nuovi

Nodi cingeanmi, e mi premean più ancora.

Come trascorsa fu tanto la nave,

Che non potea la perigliosa voce

Delle Sirene aggiungerci, coloro

A sé la cera dall'orecchio tosto,

E dalle membra a me tolsero i lacci.

Già rimanea l'isola indietro; ed ecco

Denso apparirmi un fumo e vasti flutti,

E gli orecchi intronarmi alto fragore.

Ne sbigottiro i miei compagni, e i lunghi

Remi di man lor caddero, e la nave,

Che de' fidi suoi remi era tarpata,

Là immantinente s'arrestò. Ma io

Di su, di giù, per la corsìa movendo,

E con blanda favella or questo, or quello

De' compagni abbordando: "O", dissi, "meco

Sin qua passati per cotanti affanni,

Non ci sovrasta un maggior mal, che quando

L'infinito vigor di Polifemo

Nell'antro ci chiudea. Pur quinci ancora

Col valor mio vi trassi, e col mio senno,

E vi fia dolce il rimembrarlo un giorno.

Via, dunque, via, ciò ch'io comando, tutti

Facciam: voi, stando sovra i banchi, l'onde

Percotete co' remi, e Giove, io spero,

Concederà dalle correnti scampo.

Ma tu, che il timon reggi, abbiti in mente

Questo, né l'obblïar: guida il naviglio

Fuor del fumo e del fiotto, ed all'opposta

Rupe ognor mira e ad essa tienti, o noi

Getterai nell'orribile vorago".

Tutti alla voce mia ratto ubbidiro.

Se non ch'io Scilla, immedicabil piaga,

Tacqui, non forse, abbandonati i banchi,

L'un sovra l'altro per soverchia tema

Della nave cacciassersi nel fondo.

E qui, di Circe, che vietommi l'arme,

Negletto il disamabile comando,

Io dell'arme vestìami, e con due lunghe

Nell'impavida mano aste lucenti

Salìa sul palco della nave in prua,

Attendendo colà, che l'efferata

Abitatrice dell'infame scoglio

Indi, gli amici a m'involar, sbalzasse:

Né, perché del ficcarli in tutto il bruno

Macigno stanchi io mi sentissi gli occhi,

Da parte alcuna rimirarla io valsi.

Navigavamo addolorati intanto

Per l'angusto sentier: Scilla da un lato,

Dall'altro era l'orribile Cariddi,

Che del mare inghiottia l'onde spumose.

Sempre che rigettavale, siccome

Caldaia in molto rilucente foco,

Mormorava bollendo; e i larghi sprazzi,

Che andavan sino al cielo, in vetta d'ambo

Gli scogli ricadevano. Ma quando

I salsi flutti ringhiottiva, tutta

Commovéasi di dentro, ed alla rupe

Terribilmente rimbombava intorno,

E, l'onda il seno aprendo, un'azzurrigna

Sabbia parea nell'imo fondo: verdi

Le guance di paura a tutti io scôrsi.

Mentre in Cariddi tenevam le ciglia,

Una morte temendone vicina,

Sei de' compagni, i più di man gagliardi,

Scilla rapimmi dal naviglio. Io gli occhi

Torsi, e li vidi che levati in alto

Braccia e piedi agitavano, ed Ulisse

Chiamavan, lassi!, per l'estrema volta.

Qual pescatore che su pendente rupe

Tuffa di bue silvestre in mare il corno

Con lunghissima canna, un'infedele

Esca ai minuti abitatori offrendo,

E fuor li trae dall'onda, e palpitanti

Scagliali sul terren: non altrimenti

Scilla i compagni dal naviglio alzava

E innanzi divoravali allo speco,

Che dolenti mettean grida, e le mani

Nel gran disastro mi stendeano indarno.

Fra i molti acerbi casi, ond'io sostenni,

Solcando il mar, la vista, oggetto mai

Di cotanta pietà non mi s'offerse.

Scilla e Cariddi oltrepassate, in faccia

La feconda ci apparve isola amena,

Ove il gregge del Sol pasce e l'armento;

E ne giungean dall'ampie stalle a noi

I belati su l'aure ed i muggiti.

Gli avvisi allor mi si svegliaro in mente

Del Teban vate e della maga Circe,

Ch'io l'isola schivar del Sol dovessi,

Di cui rallegra ogni vivente il raggio.

Ond'io: "Compagni, lor dicea, per quanto

Siate angosciati, la sentenza udite

Del Teban vate e della maga Circe,

Ch'io l'isola schivar debba del Sole,

Di cui rallegra ogni vivente il raggio.

Circe affermava che il maggior de' guai

Quivi c'incoglieria. Lasciarla indietro

Ci convien dunque con la negra nave".

Colpo tai detti fûr quasi mortale.

Né a molestarmi Euriloco in tal guisa

Tardava: "Ulisse, un barbaro io ti chiamo,

Perché di forze abbondi, e mai non cedi,

Né fibra è in te che non sia ferro, a' tuoi

Contendi il toccar terra, e di non parca

Cena sul lido ristorarsi. Esigi

Che in mezzo le notturne ombre su questo

Pelago a caso erriam, benché la notte

Gravi produca disastrosi venti.

Or chi fuggir potrà l'ultimo danno

Dove repente un procelloso fiato

Di Mezzodì ci assalga, o di Ponente,

Che de' numi anco ad onta, il legno sperda?

S'obbedisca oggi alla divina notte,

E la cena nell'isola s'appresti.

Come il dì spunti, salirem di nuovo

La nave, e nell'immensa onda entreremo".

Questa favella con applauso accolta

Fu dai compagni ad una; ed io ben m'avvidi

Che mali un genio prepotente ordìa:

"Euriloco", io risposi, "oggimai troppa,

Tutti contra ad un sol, forza mi fate.

Giurate almeno, e col più saldo giuro,

Che, se greggi troviam, troviamo armenti,

Non sia chi, spinto da stoltezza iniqua,

Giovenca uccida, o pecorella offenda:

Ma tranquilli di ciò pasteggerete,

Che in don vi porse la benigna Circe".

Quelli giuraro, e non sì tosto a fine

L'invïolabil giuro ebber condotto,

Che la nave nel porto appo una fonte

Fermâro, e ne smontaro, e lauta cena

Solertemente apparecchiâr sul lido.

Paga delle vivande e de' licori

La naturale avidità pungente,

Risovvenìansi di color che Scilla

Dalla misera nave alto rapiti

Vorossi, e li piangean, finché discese

Su gli occhi lagrimosi il dolce sonno.

Già corsi avea del suo cammin due terzi

La notte e dechinavano le stelle,

Quando il cinto di nembi Olimpio Giove

Destò un gagliardo, turbinoso vento,

Che la terra coverse, e il mar di nubi,

E la notte di cielo a piombo cadde.

Ma come poi l'orocrinita Aurora

Colorò il ciel con le rosate dita,

Tirammo a terra il legno, e in cavo speco

De' seggi ornato delle ninfe, ch'ivi

I lor balli tessean, l'introducemmo.

Subito io tutti mi raccolsi intorno

E: "Compagni", diss'io, "cibo e bevanda

Restanci ancor nella veloce nave.

Se non vogliam perir, lungi, vedete,

La man dal gregge e dall'armento; al Sole,

Terribil dio, che tutto vede ed ode,

Pascono i monton pingui e i bianchi tori".

Dissi; e acchetârsi i generosi petti.

Per un intero mese Austro giammai

Di spirar non restava, e poscia fiato

Non sorgea mai, che di Levante o d'Austro.

Finché il pan non fallì loro ed il vino,

Ubbidïenti e della vita avari,

Rispettavan l'armento. E già la nave

Nulla contenea più. Gìvano adunque,

Come il bisogno li pungea, dispersi

Per l'isola, d'augelli e pesci in traccia,

Con archi ed ami, o di quale altra preda

Lor venisse alle man; però che forte

Rodeali dentro l'importuna fame.

Io, dai compagni scevro, una remota

Cercai del piede solitaria piaggia,

Gli eterni a Supplicar, se alcun la via

Mi dimostrasse del ritorno, e in parte

Giunto, che d'aura non sentìasi colpo,

Sparsi di limpid'onda, e a tutti alzai

Gli abitanti del cielo ambo le palme.

Né guari andò, che d'un tranquillo sonno

Gli occhi ed il petto rïempièrmi i numi.

Eurìloco frattanto un mal consiglio

Pose innanzi ai compagni: "O da sì acerbe

Sciagure oppressi, la mia voce udite.

Tutte odïose certo ad uom le morti;

Ma nulla tanto, che il perir di fame.

Che più si tarda? Meniam via le belle

Giovenche, e sagrifici ai numi offriamo.

Ché se afferrar ci sarà dato i lidi

Nativi, al Sole Iperïone un ricco

Tempio illustre alzeremo, appenderemo

Molti alle mura prezïosi doni.

E dov'ei, per li buoi dalla superba

Testa crucciato, sperder voglia il legno,

Né alcun dio gli contrasti, io tolgo l'alma

Pria tra i flutti esalar, che, su deserta

Isola stando, intisichir più a lungo".

Disse: e tutti assentìano. Incontanente

Del Sol cacciate le più belle vacche

Di fronte larga e con le corna in arco,

Che dalla nave non pascean lontane,

Stavano ad esse intorno, e, côlte prima,

Per difetto che avean di candid'orzo,

Tenere foglie di sublime quercia,

Voti féano agli dèi. Compiuti i voti,

Le vittime sgozzaro e le scoiaro,

E, le cosce tagliatene, di zirbo

Le copriro doppiate, e i crudi brani

Sopra vi collocaro. Acqua, che il rosso

Vino scusasse, onde patìan disagio,

Versavan poi su i sagrifici ardenti,

E abbrostìan tutti gl'intestini. Quindi,

Le cosce omai combuste, ed assaggiate

Le interïora, tutto l'altro in pezzi

Fu messo, e infitto negli acuti spiedi;

E a me uscì delle ciglia il dolce sonno.

Sorsi, e alla nave in fretta io mi condussi.

Ma vicina del tutto ancor non m'era,

Ch'io mi sentii dall'avvampate carni

Muovere incontro un odoroso vento,

E gridai, lamentando, ai numi eterni:

"O Giove padre, e voi, dèi sempre stanti,

Certo in un crudo e fatal sonno voi

Mi seppelliste, se doveasi intanto

Compier da cotestoro un tal misfatto".

Nunzia non tarda dell'ucciso armento,

Lampezie al Sole andò, di lungo peplo

Coperta. Il Sole, in grande ira montato,

Si volse ai numi e: "Giove", disse, e voi

Tutti, immortali dèi, paghino il fio

Del Laerzìade Ulisse i rei compagni,

Che le giovenche trucidarmi osaro,

Della cui vista, o ch'io per la stellata

Volta salissi, o discendessi, nuovo

Diletto ciascun dì prendea il mio core.

Colpa e pena in lor sia d'una misura:

O calerò nella magion di Pluto,

E al popol morto porterò mia luce".

E il nimbifero Giove a lui rispose:

"Tra gl'Immortali, o Sole, ed i mortali

Vibra su l'alma terra, e in cielo, i raggi.

Io senza indugio d'un sol tocco lieve

Del fulmine affocato il lor naviglio

Sfracellerò del negro mar nel seno".

Queste cose Calipso un giorno udìa

Dal messaggier Mercurio; e a me narrolle

La ricciuta il bel crin ninfa Calipso.

Giunto alla nave, io rampognavo or questo

De' compagni, ed or quel: ma vïolato

L'armento fu, né avea compenso il male.

Strani prodigi intanto agl'infelici

Mostravano gl'iddii: le fresche pelli

Strisciavan sul terren, muggian le incotte

Carni e le crude, agli schidoni intorno,

E de' buoi lor sembrava udir la voce.

Pur del fior dell'armento ancor sei giorni

Si cibaro i colpevoli. Comparsa

La settim'alba, il turbinoso vento

Stancossi: e noi ci rimbarcammo, e, alzato

L'albero prontamente, e dispiegate

Le bianche vele, ci mettemmo in mare.

Di vista già della Trinacria usciti,

Altro non ci apparìa che il cielo e l'onda,

Quando il Saturnio sul veloce legno

Sospese in alto una cerulea nube,

Sotto cui tutte intenebrârsi l'acque.

La nave non correa che un tempo breve;

Poiché ratto uno stridulo Ponente,

Infurïando, imperversando, venne

Di contra e ruppe con tremenda buffa

Le due funi dell'albero, che a poppa

Cadde; ed antenne in uno, e vele e sarte

Nella sentina scesero. Percosse

L'alber, cadendo, al timoniere in capo,

E l'ossa fracassògli; ed ei da poppa

Saltò nel mar, di palombaro in guisa,

E cacciata volò dal corpo l'alma.

Ma Giove che tonato avea più volte,

Scagliò il fulmine suo contra la nave,

Che si girò, dal fulmine colpita

Del Saturnio, e s'empieo di zolfo tutta.

Tutti fuor ne cascarono i compagni,

E ad essa intorno l'ondeggiante sale,

Quai corvi, li portava; e così Giove

Il ritorno togliea loro, e la vita.

Io pel naviglio su e giù movea,

Finché gli sciolse la tempesta i fianchi

Dalla carena, che rimase inerme.

Poi la base dell'albero l'irata

Onda schiantò: ma di taurino cuoio

Rivestìalo una striscia, ed io con questa

L'albero e la carena in un legai,

E sopra mi v'assisi; e tale i venti

Esizïali mi spingean su l'onde.

Zefiro a un tratto rallentò la rabbia:

Se non che sopraggiunse un Austro in fretta,

Che, noiandomi forte in ver Cariddi

Ricondur mi volea. L'intera notte

Scorsi su i flutti; e col novello Sole

Tra la grotta di Scilla, e la corrente

Mi ritrovai della fatal vorago,

Che in quel punto inghiottia le salse spume

Io, slanciandomi in alto, a quel selvaggio

M'aggrappai fico eccelso, e mi v'attenni,

Qual vipistrello: ché né dove i piedi

Fermar, né come ascendere, io sapea,

Tanto eran lungi le radici, e tanto

Remoti dalla mano i lunghi, immensi

Rami, che d'ombra ricoprìan Cariddi.

Là dunque io m'attenea bramando sempre,

Che rigettati dall'orrendo abisso

Fosser gli avanzi della nave. Al fine

Dopo un lungo desìo vennero a galla.

Nella stagion che il giudicante, sciolte

Varie di caldi giovani contese,

Sorge dal foro, e per cenar s'avvìa,

Dell'onde usciro i sospirati avanzi.

Le braccia apersi allora, e mi lasciai

Giù piombar con gran tonfo all'onde in mezzo,

Non lunge da que' legni, a cui m'assisi

Di sopra, e delle man remi io mi feci.

Ma degli uomini il padre e de' Celesti

Di rivedermi non permise a Scilla;

Ché toccata sarìami orrida morte.

Per nove dì mi trabalzava il fiotto,

E la decima notte i dèi sul lido

Mi gettâr dell'Ogigia isola, dove

Calipso alberga, la divina ninfa,

Che raccoglieami amica, e in molte guise

Mi confortava. Perché ciò ti narro?

Tai cose, Alcinoo illustre, ieri le udivi,

Le udìa con teco la tua casta donna,

E ciò ridir, ch'io dissi, a me non torna".

 

LIBRO XIII

 

Stavansi tutti per l'oscura sala

Taciti, immoti, e nel diletto assorti.

Così al fine il silenzio Alcinoo ruppe:

"Poiché alla mia venisti alta e di rame

Solido e liscio edificata casa,

No, Ulisse, non cred'io che al tuo ritorno

L'onde t'agiteran, comunque afflitto

T'abbia sin qui co' suoi decreti il fato.

Voi, tutti, che vôtar nel mio palagio

Del serbato ai più degni ardente vino

Solete i nappi, ed ascoltare il vate,

L'animo a quel ch'io vi dichiaro, aprite.

Le vesti e l'oro d'artificio miro,

E ogni altro don, che de' Feaci i capi

Recâro al forestier, l'arca polìta

Già nel suo grembo accolse. Or d'un treppiede

Anco e d'un'urna il presentiam per testa;

Indi farem che tutta in questi doni,

Di cui male potremmo al grave peso

Regger noi soli, la città concorra".

Disse; e piacquero i detti, e al proprio albergo

Ciascun le piume a ritrovar si volse.

Ma come del mattin la bella figlia

Aperse il ciel con le rosate dita,

Vêr la nave affrettavansi, portando

Il bel, che onora l'uom, bronzo foggiato.

Lo stesso re, ch'entrò per questo in nave,

Attentamente sotto i banchi il mise,

Onde, mentre daran de' remi in acqua,

Non impedisse alcun de' Feacesi

Giovani, e l'offendesse urna o treppiede.

Né di condursi al real tetto, dove

La mensa gli attendea, tardaro i prenci.

Per lor d'Alcinoo la sacrata possa

Un bue quel giorno uccise al ghirlandato

D'atre nubi Signor dell'Universo.

Arse le pingui cosce, un prandio lauto

Celebran lietamente; e il venerato

Dalla gente Demodoco, il divino

Cantor, percuote la sonante cetra.

Ma Ulisse il capo alla dïurna lampa

Spesso torcea, se tramontasse al fine;

Ché il ritorno nel cor sempre gli stava.

Quale a villan, che dalla prima luce

Co' negri tori e col pesante aratro

Un terren franse riposato e duro,

Cade gradito il Sole in occidente,

Pel desìo della cena, a cui s'avvia

Con le ginocchia, che gli treman sotto:

Tal cadde a Ulisse in occidente il sole.

Tosto agli amanti del remar Feaci,

E al re, più che ad altrui, così drizzossi:

"Facciansi, Alcinoo, i libamenti, e illeso

Mandatemi; e gl'iddii vi guardin sempre.

Tutti ho già i miei desir: pronta è la scorta,

E della nave in sen giacciono i doni,

Da cui vogliano i dèi che pro mi vegna.

Vogliano ancor, che in Itaca l'egregia

Consorte io trovi, e i cari amici in vita.

Voi, restandovi qui, serbate in gioia

Quelle, che uniste a voi, vergini spose,

E i dolci figli che ne aveste: i numi

V'ornin d'ogni virtù, né possa mai

I dì vostri turbar pubblico danno".

Tacque; e applaudìa ciascuno, e molto instava

Si compiacesse allo stranier, da cui

Uscita era sì nobile favella.

Ed Alcinoo all'araldo allor tai detti:

"Pontonoo, il vino mesci, e a tutti in giro

Porgilo, acciò da noi, pregato Giove,

S'accommiati oggimai l'ospite amico".

Mescé l'araldo il vino, e il porse in giro;

E tutti dai lor seggi agl'immortali

Numi libaro. Ma il divino Ulisse

Sorse, e d'Arete in man gemina pose

Tazza rotonda, e tai parole sciolse:

"Vivi felici dì, Regina illustre,

Finché vecchiezza ti sorprenda, e morte,

Comun retaggio degli umani. Io parto:

Te del popol, de' figli e del marito

Il rispetto feliciti e l'amore".

Disse, e varcò la soglia. Alcinoo innanzi

Muover gli fece il banditor, che al ratto

Legno li guidasse e al mare: e Arete dietro

Tre serve gli spedì, l'un con tersa

Tunica in mano ed un lucente manto,

L'altra con la fedele arca, e con bianchi

pani la terza e rosseggianti vini.

Tutto da lor, come sul lido fûro,

I remiganti tolsero, e nel fondo

Della nave allogar: poi su la poppa

Steser candidi lini e bella coltre,

Dove tranquillo il forestier dormisse.

Vi montò egli, e tacito corcossi.

E quei sedean su i banchi, e, poiché sciolta

Dal traforato sasso ebber la fune,

Fatigavan co' remi il mar canuto.

Ma un dolce sonno al Laerzïade, un sonno

Profondo, ineccitabile, e alla morte

Per poco egual, su le palpebre scese.

Come talvolta in polveroso campo

Quattro maschi destrieri a un cocchio aggiunti,

E tutti dal flagel percossi a un tempo,

Sembran levarsi nel vôto aere in alto,

E la prescritta via compier volando:

Sì la nave correa con alta poppa,

Dietro da cui precipitava il grosso

Del risonante mar flutto cilestro.

Correa sicura, né l'avrìa sparviere,

Degli augei velocissimo, raggiunta;

Con sì celere prora i salsi flutti

Solcava, un uom seco recando ai dii

Pari di senno, che infiniti affanni

Durati avea tra l'armi, avea tra l'onde,

E allor, d'obblìo sparsa ogni cura, in braccio

D'un sonno placidissimo giacea.

Quando comparve quel sì fulgid'astro,

Che della rosea Aurora è messaggiero,

La ratta nave ad Itaca approdava.

Il porto è qui del marin vecchio Forco,

Che due sporgenti in mar lidi scoscesi,

E l'uno all'altro ripieganti incontra,

Sì dal vento riparano e dal fiotto,

Che di fune mestier non v'han le navi.

Spande sovra la cima i larghi rami

Vivace oliva, e presso a questa un antro

S'apre amabile, opaco, ed alle ninfe

Nàiadi sacro. Anfore ed urne, in cui

Forman le industri pecchie il mel soave,

Vi son di marmo tutte, e pur di marmo

Lunghi telai, dove purpurei drappi,

Maraviglia a veder, tesson le ninfe.

Perenni onde vi scorrono, e due porte

Mettono ad esso: ad Aquilon si volge

L'una, e schiudesi all'uom; l'altra, che Noto

Guarda, ha più del divino, ed un mortale

Per lei non varca: ella è la via de' numi.

In questo porto ai Feacesi conto,

Dirittamente entrò l'agile nave,

Che sul lido andò mezza: di sì forti

Remigatori la spingean le braccia!

Si gittaro nel lido; e Ulisse in prima

Co' bianchi lini e con la bella coltre

Sollevâr dalla nave, e seppellito

Nel sonno, siccom'era, in su l'arena

Poserlo giù. Poi ne levaro i doni,

Ch'ei riportò dalla Feacia gente,

Per favor di Minerva, e al piede uniti

Li collocaro della verde oliva,

Fuor del cammin, non s'avvenisse in loro

Vïandante, e la man su lor mettesse,

Mentre l'eroe dormìa. Quindi ritorno

Fean con la nave alla natìa contrada.

Nettuno intanto, che serbava in mente

Le minacce che un dì contra il divino

Laerzìade scagliò, così il pensiero

Ne spïava di Giove: "O Giove padre,

Chi più tra i dèi m'onorerà, se onore

Nieganmi i Feacesi, che mortali

Sono, e a me dèon l'origine? Io credea

Che della sua nativa isola ai sassi

Giunger dovesse tra gli affanni Ulisse,

Cui non invidïava io quel ritorno

Che tu gli promettesti, e del tuo capo

Confermasti col cenno. Ma i Feaci

Dormendo il trasportâr su ratta nave,

E in Itaca il deposero, e il colmâro

Di doni in bronzo, e in oro, e in bei tessuti:

Ricchezza immensa, e qual dall'arsa Troia

Recato ei non avrìa, se con la preda,

Che gli toccò, ne ritornava illeso".

"O della terra scotitor possente",

Il nubiadunator Giove rispose,

"Qual parola parlasti? Alcun de' numi

Te in dispregio non ha, né lieve fôra

Dispregiar dio sì poderoso e antico.

Ma dove uom troppo di suo forze altero

T'osasse ingiurïar, tu ne puoi sempre

Qual più t'aggradirà, prender vendetta".

"Mi starei forse, o nubipadre Giove",

Nettun riprese, "s'io dal tuo corruccio

Non mi guardassi ognora? Io de' Feaci

Perché di ricondur gli ospiti il vezzo

Pèrdano al fin, strugger vorrei nel mare

L'inclita nave ritornante; e in oltre

Grande alla lor città montagna imporre".

"Ciò", replicava il Nubipadre, "il meglio,

Ottimo nume, anco a me sembra: quando

I Feacesi scorgeran dal lido

Venir la nave a tutto corso, e poco

Sarà lontana, convertirla in sasso

Che di naviglio abbia sembianza, e oggetto

Si mostri a ognun di maraviglia; e in oltre

Grande alla lor città montagna imporre".

Lo Scuotiterra, udito questo appena,

Si portò a Scheria in fretta, e qui fermossi.

Ed ecco spinta dagl'illustri remi

Su per l'onde venir l'agile nave.

Egli appressolla, e convertilla in sasso,

E d'un sol tocco della man divina

La radicò nel fondo. Indi scomparve.

Molte allor de' Feaci in mar famosi

Fur le alterne parole. "Ahi! chi nel mare

Legò la nave che vêr noi solcava

L'acque di volo, che apparìa già tutta"?

Così, gli occhi volgendo al suo vicino,

Favellava talun: ma rimanea

La cagion del portento a tutti ignota.

Se non che Alcinoo a ragionar tra loro

Prese in tal foggia: "Oh dèi! côlto io mi veggo,

Qual dubbio v'ha? dai vaticini antichi

Del padre, che dicea, come sdegnato

Nettun fosse con noi, perché securo

Riconduciam su l'acque ogni mortale.

Dicea, che insigne de' Feaci nave,

Dagli altrui nel redire ai porti suoi,

Distruggerìa nell'oscure onde, e questa

Cittade coprirìa d'alta montagna.

Così arringava il vecchio, ed oggi il tutto

Si compie. Or via, sottomettiamoci ognuno:

Dal ricondur cessiam gli ospiti nostri,

E dodici a Nettuno eletti tori

Sagrifichiam, perché di noi gl'incresca,

Né d'alto monte la città ricopra".

Disse. Penetrò in quelli un timor sacro,

E i cornigeri tori apparecchiaro.

Mentre intorno all'altar prieghi a Nettuno

Drizzavan della Scheria i duci e i capi,

Svegliossi il pari agl'immortali Ulisse,

Che su la terra sua dormìa disteso,

Né la sua terra riconobbe: stato

N'era lunge gran tempo, e Palla cinto

L'avea di nebbia, per celarlo altrui,

E di quanto è mestier dargli contezza,

Sì che la moglie, i cittadin, gli amici

Nol ravvisin, che prìa de' tristi proci

Fatto ei non abbia universal macello.

Quindi ogni cosa gli parea mutata,

Le lunghe strade, i ben difesi porti,

E le ombrose foreste, e l'alte rupi.

Sguardò, fermo su i piè, la patria ignota,

Poi non tenne le lagrime, e la mano

Batté su l'anca, e lagrimando disse:

"Misero! tra qual nuova estrania gente

Sono io? Chi sa, se nequitosa e cruda,

O giusta in vece, ed ospitale e pia?

Ove questa recar molta ricchezza,

Ove ire io stesso? Oh nella Scheria fosse

Rimasta, ed io giunto all'eccelsa casa

D'altro signor magnanimo, che, accolto

Dolcemente m'avesse, e rimandato

Securamente! Io, dove porla ignoro,

Né lasciarla vo' qui, che altri la involi.

Men che saggi eran dunque, e men che probi

De' Feacesi i condottieri e i capi,

Che non alla serena Itaca, come

Dicean, ma in questa sconosciuta piaggia

Condur mi fêro. Li punisca Giove,

De' supplici custode, a cui nessuno

Celasi, e che non lascia inulto un fallo.

Queste ricchezze noveriam, veggiamo,

Se via non ne portò nulla la nave".

Dette tai cose, i tripodi superbi

Contava, e l'urne e l'oro e le tessute

Vesti leggiadre; e non fallìagli nulla,

Ma la sua patria sospirava, e molti

Lungo il lido del mar romoreggiante

Passi e lamenti fea. Pallade allora,

Di pastorello delicato in forma,

Quale un figlio di re mostrasi al guardo,

S'offerse a lui: doppia e ben fatta veste

Avea d'intorno agli omeri, calzari

Sotto i piè molli, e nella destra un dardo.

Gioì Ulisse a mirarla, e incontanente

Le mosse incontro con tai detti: "Amico,

Che qui primiero mi t'affacci, salve.

Deh non mi t'affacciar con alma ostile:

Ma questi beni e me serba, che abbraccio

Le tue ginocchia, e te, qual nume, invoco.

Che terra è questa? che città? che gente?

Una dell'ondicinte isole forse?

O di fecondo continente spiaggia,

Che scende in sino al mar? Schietto favella".

"Stolto sei bene, o di lontan venisti",

La dea rispose dall'azzurro sguardo,

"Se di questa contrada, ospite, chiedi.

Cui non è nota? La conosce appieno

Qual vêr l'aurora e il Sol, qual vêr l'oscura

Notte soggiorna. Alpestra sorge, e male

Vi si cavalca, né si stende assai.

Sterile non però torna: di grano

Risponde e d'uva, e la rugiada sempre

Bàgnala, e il nembo: ottimo pasco i buoi

E le capre vi trovano; verdeggia

D'ogni pianta, e perenne acqua l'irrìga.

Sin d'Ilio ai campi, che dal suolo Acheo,

Come sentìi narrar, molto distanno,

D'Itaca giunge, o forestiero, il nome.

Al nome della patria, che su i labbri

Dell'immortal sonò figlia di Giove,

S'empié di gioia il Laerzìade, e tardo

A risponder non fu, benché, volgendo

Nel suo cor sempre gli artifici usati,

Contraria al vero una novella ordisse.

"Io già d'Itaca udìa nell'ampia Creta,

Che lungi nel mar giace, e donde io venni,

Metà recando de' miei beni, e ai figli

Lasciandone metà. Di Creta io fuggo,

Perché vi uccisi Orsiloco, il diletto

D'Idomenèo figliuol, da cui nel corso

Uom non era colà che non perdesse.

Costui di tutta la Troiana preda,

Che tanti in mezzo all'onde, in mezzo all'arme,

Travagli mi costò, volea fraudarmi,

Sdegnato, ch'io, d'altri guerrieri duce,

Sotto il padre di lui servir negassi.

In quel ch'ei nella strada uscìa dal campo,

Gli tesi insidie con un mio compagno,

E di lancia il ferìi. Notte assai fosca

L'aere ingombrava, e non che agli altri, a lui,

Che di vita io spogliai, rimasi occulto.

Trovai sul lido una Fenicia nave,

E a quegl'illustri naviganti ricca

Mercede offersi, e li pregai che in Pilo

Mi ponessero, o in Elide divina,

Dominio, degli Epéi. Se non che il vento

Indi gli svolse, e forte a lor mal cuore;

Ché inganni non pensavano. Venimmo,

Notturni errando, a questa piaggia, e a forza

Di remi, e con gran stento, il porto entrammo.

Né della cena favellossi punto,

Benché ciascuno in grande uopo ne fosse;

Ma del naviglio alla rinfusa usciti,

Giacevam su l'arena. Ivi un tranquillo

Sonno me stanco invase; e quei, levate

Dalla nave e deposte, ov'io giaceva,

Le mie ricchezze, in ver la popolosa

Sidone andaro, e me lasciâr nel duolo".

Sorrise a questo la degli occhi azzurra,

E con man careggiollo; e uguale a donna

Bella, di gran sembiante, e di famosi

Lavori esperta, in un momento apparve,

E a così fatti accenti il volo sciolse:

"Certo sagace anco tra i numi, e solo

Colui sarìa, che d'ingannar nell'arte

Te superasse! Sciagurato, scaltro,

Di frodi insazïabile, non cessi

Dunque né in patria dai fallaci detti,

Che ti piaccion così sin dalla culla?

Ma di questo non più: che d'astuzie ambo

Maestri siam; tu di gran lunga tutti

D'inventive i mortali e di parole

Sorpassi, tutti io di gran lunga i numi.

Dunque la figlia ravvisar di Giove

Tu non sapesti, che a te assisto sempre

Nelle tue prove, e te conservo, e grazia

Ti fei trovare appo i Feaci? E or venni

Per ammonirti, e per celare i fatti

Col mio soccorso a te splendidi doni,

Non che narrarti ciò che per destino

Nel tuo palagio a sopportar ti resta.

Tu soffri, benché astretto; e ad uomo o a donna

L'arrivo tuo non palesar; ma tieni

Chiusi nel petto i tuoi dolori, e solo

Col silenzio rispondi a chi t'oltraggia".

E tosto il ricco di consigli Ulisse:

"Difficilmente, o dea, può ravvisarti

Mortal, cui t'appresenti, ancor che saggio;

Tante forme rivesti. Io ben rammento

Che visitar tu mi degnavi un giorno,

Mentre noi, figli degli Achivi, a Troia

Combattevam: ma poiché l'alte torri

Ruinammo di Priamo, e su le navi

Partimmo, e un dio l'Achiva oste disperse,

Più non ti scôrsi, o del Tonante figlia,

Né m'avvidi unqua che m'entrassi in nave,

per cavarmi d'affanno. Abbandonato

Solo a me stesso e afflitto io gìa vagando,

Finché pria che il tuo labbro in tra i Feaci

Mi confortasse, e nella lor cittade

M'introducessi tu, le mie sventure

Gl'Immortali finiro. Ora io ti priego

Pel tuo gran padre, quando in terra estrana,

Non nella patria mia, credomi, e temo

Che tu di me prender ti voglia gioco,

Ti priego dirmi, o dea, se veramente

Degli occhi Itaca io veggio, e del piè calco".

E la dea, che rivolge azzurri i lumi:

"Tu mai te stesso non oblii. Quind'io

Non posso ai mali abbandonarti in preda;

Tal mostri ingegno, tal facondia e senno.

Altri, che dopo error molti giungesse,

Sposa e figli mirar vorrìa repente;

E a te nulla sapere, o chieder piace,

Se con gran cura non assaggi e tenti

Prima la tua, che invan t'aspetta, e a cui

Scorron nel pianto i dì, scorron le notti.

Dubbio io non ebbi mai del tuo ritorno,

Benché ritorno solitario e tristo;

Se non che al zio Nettun con te crucciato

Dell'occhio che spegnesti al figlio in fronte,

Repugnar non volea. Ma or ti mostro

D'Itaca il sito, e a credermi io ti sforzo.

Ecco il porto di Forcine, e la verde

Frondosa oliva che gli sorge in cima.

Ecco non lunge opaco antro ameno,

Alle Naiadi sacro; la convessa

Spelonca vasta riconosci, dove

Ecatombi legittime alle ninfe

Sagrificar solevi. Ecco il sublime

Nerito monte che di selve ondeggia.

Disse, e ruppe la nebbia, e il sito apparve.

Giubilò Ulisse alla diletta vista

Della sua patria, e baciò l'alma terra.

Poi levando le man, subitamente

Le ninfe supplicò: "Naiadi ninfe,

Non credea rivedervi, e con devote

Labbra, in vece io salùtovi, o di Giove

Nate; a cui doni porgerem novelli,

Se me in vita conserva, e dì felici

A Telemaco mio concede amica

La bellicosa del Saturnio figlia".

"Ti rassicura, e non temer, riprese

La dea dagli occhi di cilestro tinti,

"Che d'aiuto io ti manchi. Or senza indugio

Nel cavo sen della divina grotta,

Su via, poniam queste ricchezze in salvo,

E di ciò consultiam che più ti torna".

Tacque, ed entrava nella grotta oscura,

Le ascosaglie cercandone; ed Ulisse,

L'oro ed il bronzo, e le superbe vesti

Portando, la seguìa. Tutto depose

Acconciamente dell'Egìoco Giove

La figlia, e l'antro d'un macigno chiuse;

Ciò fatto, al piè della sacrata oliva

Ambi sedendo, e investigando l'arte

Di tor di mezzo i temerari proci,

Così a parlar la prima era Minerva:

"Studiar convienti, o Laerzìade, come

Metter la man su gli arroganti drudi,

Che regnano in tua casa, oggi è terz'anno,

E della moglie tua con ricchi doni

Chiedono a gara le bramate nozze.

Ella, ognor sospirando il tuo ritorno,

Ciascun di speme e d'impromesse allatta,

Manda messaggi a tutti, ed altro ha in core".

"Ah! Dunque", le rispose il saggio Ulisse,

"Me dell'Atride Agamennòn l'acerbo

Fato attendea nelle paterne case,

Se il tutto, inclita dea, tu non m'aprivi.

Ma tu la via, che a vendicarmi io prenda,

M'addita, e a me soccorri, e quell'audace

Spirto m'infondi, che accendeami, quando

Sfemmo di Troia le famose mura.

Mi starai tu del pari al fianco sempre?

Io pugnar con trecento allor non temo".

"Sempre al fianco m'avrai, non m'uscirai",

La dea riprese dalle glauche luci,

"Di vista un sol momento in questa impresa.

Questi superbi, che le tue sostanze

Mandano a male, imbratteran di sangue

L'immenso pavimento, e di cervella.

Ma io così vo' trasformarti, Ulisse,

Che riconoscer non ti possa uom vivo,

Cotesta liscia ed ancor fresca pelle,

Che le membra flessibili ti copre,

Disseccherò, raggrinzerò; di biondo

Nulla ti rimarrà sovra la testa,

E te circonderan miseri panni,

Da cui lo sguardo di ciascun rifugga.

Gli occhi poi sì belli e sì vivaci,

Saran sì oscuri e avran tai pieghe intorno,

Che turpe ai proci, e alla tua donna e al figlio,

Cui lasciasti bambin, cosa parrai.

Tu prima cerca de' tuoi pingui verri

Il fido guardïan che t'ama, ed ama

Telemaco, ama la tua saggia donna.

Il troverai, che guarderà la nera

Greggia che beve d'Aretusa al fonte,

E alla pietra del Corvo addenta, e rompe

La dolce ghianda, per la cui virtude

Il florido sul dosso adipe cresce.

Quivi ti ferma, ed al suo fianco assisa

D'ogni cosa il richiedi; ed io frattanto

Andrò alla bella nelle donne Sparta,

In traccia del figliuol, che vi s'addusse,

Onde saper di te dal bellicoso

Menelao biondo; e udir, se vivi, e dove".

"Perché non dirgliel tu, cui noto è il tutto?"

Rispose il ricco di consigli Ulisse.

"Forse perch'ei su l'infecondo mare

Tormenti errando, come il padre, e intanto

Le sue sostanze a male altri gli mandi?"

"Ciò non t'affligga", ripigliò la dea

Che cilestre in altrui le luci intende.

"Io stessa, nome ad acquistarsi e grido,

Già l'invïava là, 've nulla il turba:

Là 've tranquillo, e d'ogni cosa agiato,

Nel regal siede dell'Atride albergo.

So ben che agguati in nave negra i proci

Tendongli, desïando a lui dar morte

Pria ch'ei torni; ma invan: che anzi, lui vivo

Coprirà i suoi nemici e tuoi, la terra".

Disse Minerva, e della sua potente

Verga l'eroe toccò. S'inaridisce

La molle cute, e si rincrespa; rari

Spuntano e bianchi su la testa i crini;

Tutta d'un vecchio la persona ei prende,

Rotto dagli anni, e stanco; e foschi, estinti

Son gli occhi, in che un divin foco brillava.

Tunica trista, e mala cappa in dosso

L'amica dea cacciògli, ambo squarciate,

Discolorate, affumicate e sozze:

Sopra gli vestì ancor di ratto cervo

Un gran cuoio spelato, e nella destra

Pose bastone; ed una vil bisaccia,

Che in più luoghi s'aprìa, per una torta

Coreggia antica agli òmeri sospese.

Preso il consiglio che più acconcio parve,

L'un dall'altro staccârsi; e alla divina

Sparta, del figlio in traccia, andò Minerva.

 

LIBRO XIV

 

Ei, la riva lasciata, entrò in un'aspra

Strada, e per gioghi e per silvestri lochi

Là si rivolse, dove Palla môstro

Gli avea l'inclito Eumèo, di cui fra tutti

D'Ulisse i miglior servi alcun non era,

Che i beni del padron meglio guardasse.

Trovollo assiso nella prima entrata

D'un ampio e bello ed altamente estrutto

Recinto, a un colle solitario in cima.

Il fabbricava Eumèo con pietre tolte

Da una cava propinqua, e mentre lungi

Stavasi Ulisse, e senz'alcun dal veglio

Laerte, o da Penelope, soccorso:

D'un'irta siepe ricingealo, e folti

Di bruna, che spezzò, quercia scorzata

Pali frequenti vi piantava intorno.

Dodici v'eran dentro, una appo l'altra,

Comode stalle, che cinquanta a sera

Madri feconde ricevean ciascuna.

I maschi dormìan fuor, molto più scarsi,

Perché scemati dall'ingordo dente

De' proci, a cui mandar sempre dovea

L'ottimo della greggia il buon custode.

Trecento ne contava egli, e sessanta;

E presso lor, quando volgea la notte

Quattro cani giacean pari a leoni,

Che il pastor di sua mano avea nodriti.

Calzari allor s'accomodava ai piedi,

Di bue tagliando una ben tinta pelle,

Mentre chi qua chi là gìano i garzoni.

Tre conducean la nera mandra, e il quarto

Alla cittade col tributo usato

Lo stesso Eumèo spedìalo, e a que' superbi,

Cui ciascun dì gli avidi ventri empiea

Della sgozzata vittima la carne.

Videro Ulisse i latratori cani,

E a lui con grida corsero: ma egli

S'assise accorto, e il baston pose a terra.

Pur fiero strazio alle sue stalle avanti

Soffrìa, s'Eumèo non era, il qual, veloce

Scaglìandosi dall'atrio, e la bovina

Pelle di man lasciandosi cadere,

Sgridava i suoi mastini, e or questo, or quello

Con spesse pietre qua o là cacciava.

Poi, rivolto al suo re: "Vecchio", gli disse,

"Poco fallì non te n'andassi in pezzi,

E il biasmo in me ne ricadesse, quasi

Sciagure altre io non pata, io, che dolente

Siedo, e piango un signore ai numi eguale,

E i pingui verri all'altrui gola allevo:

Mentr'ei s'aggira per estranie terre

Famelico e digiuno; ove ancor viva,

E gli splenda del Sole il dolce lume.

Ma tu séguimi, o vecchio, ed al mio albergo

Vientene, acciò, come di cibo e vino

Sentirai sazio il natural talento,

La tua patria io conosca, e i mali tuoi".

Ciò detto, gli entrò innanzi, e l'introdusse

Nel padiglione suo. Qui di fogliosi

Virgulti densi, sovra cui velloso

Cuoio distese di selvaggia capra,

Gli feo, non so qual più, se letto o seggio,

L'eroe gioìa dell'accoglienza amica,

E così favellava: "Ospite, Giove

Con tutti gli altri dèi compia i tuoi voti,

E d'accoglienza tal largo ti paghi".

E tu così gli rispondesti, Eumèo:

"Buon vecchio, a me non lice uno straniero,

Fosse di te men degno, avere a scherno;

Che gli stranieri tutti ed i mendichi

Vengon da Giove. Poco fare io posso,

Poco potendo far servi che stanno

Sempre in timor sotto un novello impero:

Pure anco un picciol don grazia ritrova.

Colui fraudAro del ritorno i numi,

Che amor sincero mi portava, e dato

Podere avrìami, e casa, e donna molto

Bramata; e quanto al fin dolce signore

A servo dà, che in suo pro sudi, e il cui

Travaglio prosperar degnino i dèi,

Come arridono al mio. Certo ei giovato,

Se incanutiva qui, molto m'avrebbe.

Ma perì l'infelice. Ah perché tutta

D'Elena in vece non perì la stirpe,

Che di cotanti eroi sciolse le membra?

Quel prode anch'ei volger le prore armato,

per l'onor degli Atridi, a Troia volle".

Detto così, la tunica si strinse

Col cinto, ed alle stalle in fretta mosse,

E, tolti due dalla rinchiusa mandra

Giovinetti porcelli, ambo gli uccise,

Gli abbronzò, gli spartì, negli appuntati

Spiedi gl'infisse: indi, arrostito il tutto,

Caldo e fumante negli stessi spiedi

Recollo, e il pose al Laerzìade innanzi,

E di farina candida l'asperse.

Ciò fatto, e in tazza d'ellera mesciuto

L'umor dolce dell'uva, a lui di fronte

S'assise, e rincorollo in questa forma:

"Su via, quel mangia, o forestier, che a servi

Lice imbandir, di porcelletti carne:

Quando i più grandi corpi ed i più pingui

Li divorano i proci, a cui non entra

Pietade in petto, né timor de' numi.

Ma non aman gli dèi l'opre malvage,

E il giusto ricompensano ed il retto.

Quelli che armati su le altrui riviere

Scendono, e a cui tornar Giove consente

Co' legni carchi alla natìa contrada,

Spavento ad essi ancor delle divine

Vendette passa nel rapace spirto.

Certo, per voce umana o per divina,

Han della morte del mio re contezza,

Poiché né gareggiar, come s'addice,

Per la sua donna, né ai dominî loro

Voglionsi ricondur; ma gli altrui beni

Senza pudore alcun struggono in pace.

Giove dì o notte non produce, in cui

Una vittima o due paghi li renda

E il più scelto licor bevono a oltraggio.

Dovizia molta ei possedea, qual venti,

Sul continente o in Itaca, mortali

Non felicita insieme. Udirla vuoi?

Dodici armenti nell'Epiro, e tante

Di pecorelle greggi e di maiali

Pastori a guardia. In Itaca serragli

Di capre undici, e larghi, e nell'estremo

Tutti della campagna, e con robusti

Custodi, che ogni dì recano ai drudi

Qual nel vasto capril veggion più grassa

Bestia, e più bella. Io sovra i porci veglio,

E della mandra il fior sempre lor mando".

Ulisse intanto, senza dir parola,

Tutto in cacciar la fame era e la sete,

E i mali ai proci macchinava in petto.

Rinfrancati ch'egli ebbe i fiacchi spirti,

Eumèo la tazza, entro cui ber solea,

Colma gli porse, ed ei la prese, e questi

Detti, brillando in core, ad Eumèo volse:

"Amico, chi l'uom fu sì ricco e forte,

Che del suo ti comprò, come racconti?

Morto tu il dici per l'Atride. Io forse

Conòbbilo. Il Saturnio e gli altri numi

Sanno s'io di lui visto alcuna posso

Contezza darti, io, che vagai cotanto".

"Vecchio", rispose Eumèo, d'uomini capo,

"Pellegrin che venisse oggi il ritorno

Del Rege a nunzïar, né la sua donna

Gli crederebbe, né il diletto figlio:

Troppo usati a mentir son questi erranti,

Che mestieri han d'asilo. Un non ne giunge,

E alla reina mia non si presenta,

Che false cose non favelli, o vane.

Tutti ella accoglie con benigno aspetto,

Cento cose domanda, e dalle ciglia

Le cadono le lagrime: costume

Di donna, cui morì lo sposo altrove.

E chi m'accerta che tu ancor, buon vecchio,

Una favola a ordir non fossi pronto,

Dove tunica e manto altri ti desse?

Ma i cani, io temo, ed i veloci augelli

Tutta dall'ossa gli staccar la cute,

O i pesci il divoraro, e l'ossa ignude

Giaccion sul lido nell'arena involte.

Cosi perìo, lungo agli amici affanno

Lasciando, ed a me più, che, ovunque io vada,

Non ispero trovar bontà sì grande,

Non, se del padre e della madre al dolce

Nativo albergo io riparassi. È vero

Che rivederli ardentemente io bramo

Nella terra natìa: pur men li piango

D'Ulisse, ond'io l'assenza ognor sospiro

Ospite, così appena io nomar l'oso,

Benché lontan da me: tanto ei m'amava,

Tal pigliava di me cura e pensiero.

Maggior fratello, dopo ancor la cruda

Sua dipartita, io più sovente il chiamo".

"Dunque", l'eroe riprese, "al suo ritorno

Non credi, e stai sul niego? Ed io ti giuro

Che Ulisse riede; né già parlo a caso.

Ma tu la strenna del felice annunzio

M'appresta, bella tunica, bel manto

Di cui mi coprirai, com'egli appaia.

Prima, sebben d'ogni sostanza scusso,

Nulla io riceverei: ché delle inferne

Porte al par sempre io destai chi, vinto

Dalla sua povertade, il falso vende.

Chiamo il Saturnio in testimonio, chiamo

L'ospital mensa, e dell'egregio Ulisse

Il venerando focolar, cui venni:

Ciò ch'io dico, avverrà. Quest'anno istesso,

L'un mese uscendo o entrando l'altro, il piede

Ei metterà nella sua reggia, e grande

Di chïunque il figliuolo, e la pudica

Donna gli oltraggia, prenderà vendetta".

E tu in risposta gli dicesti, Eumèo:

"Né strenna, o vecchio, io ti darò, né Ulisse

Metterà più nella sua reggia il piede.

Su via, tranquillo bevi, e ad altra cosa

Voltiam la lingua: ché mi cruccia troppo

Di sì nobil signor la rimembranza.

Lasciam da parte i giuramenti, e Ulisse

Venga, qual bramiam tutti, io, la Regina,

E l'antico Laerte, e il pari a un nume

Telemaco, per cui tremando io vivo.

Questo fanciullo, che d'Ulisse nacque,

E cui poscia, qual pianta in florid'orto,

Crebber gli dèi, sì ch'io credea che il padre

Di senno agguaglierìa, come d'aspetto,

La dritta mente or degli eterni alcuno

Gli offese, io penso, o de' mortali. Ei mosse,

L'orme paterne investigando, a Pilo,

E agguati i proci tendongli al ritorno,

Perché tutto d'Arcesio il sangue manchi.

Or né di questo più: trarranlo a morte

Forse i nemici, o forse a vôto ancora

Le insidie andranno, e la sua destra Giove

Sul capo gli terrà. Ma tu gli affanni

Tuoi stessi, o vecchio, e il tuo destin mi narra

Chi sei tu? Donde sei? Dove i parenti?

Dove la tua città? Quai ti menaro

Nocchieri, e di qual guisa, e con qual nave?

Certo in Itaca il piè non ti condusse".

"Tutto", rispose lo scaltrito Ulisse,

"Schiettamente io dirò. Ma un anno intero,

Che, fuori uscito a sue faccende ogni altro,

Da noi si consumasse ad una lauta

Nel padiglione tuo mensa tranquilla,

Per raccontar non basterìa le pene

Di cui tessermi ai dèi piacque la vita.

Patria m'è l'ampia Creta, e mi fu padre

Ricco uom, cui di legittima consorte

Molti nacquero in casa e crebber figli.

Me compra donna generò, né m'ebbe

Men per ciò de' fratelli il padre in conto,

L'Ilacide Castòr, di cui mi vanto

Sentirmi il sangue nelle vene, e a cui

Per fortuna, dovizia e illustre prole

Divin rendeasi dai Cretesi onore.

Sorpreso dalla Parca, e ad Aide spinto,

Tra sé partiro le sostanze i figli.

Gittate in pria le sorti, e me di scarsa

Provvigion consolaro, e d'umil tetto.

Ma donna io tolsi di gran beni in moglie,

E a me solo il dovei, però ch'io vile

Non fui d'aspetto, nè fugace in guerra.

E benché nulla oggi mi resti, e gli anni

M'opprimano ed i guai, la mêsse, io credo,

Può dalla paglia ravvisarsi ancora.

Forza tra l'armi e ardir Marte e Minerva

Sempre infusero a me, quando i migliori

Per gli agguati io scegliea contra i nemici:

O allor che primo, e senza mai la morte

Dinanzi a me veder, nelle battaglie

Mi scagliava, e color che dal mio brando

Si sottraeano, io raggiungea con l'asta.

Tal nella guerra io fui. Me della pace

Non dilettavan l'arti, o della casa

Le molli cure e della prole. Navi

Dilettavano e pugne, e rilucenti

Dardi, e quadrelli acuti: amare, orrende

Cose per molti, a me soavi e belle,

Come vari dell'uom sono i desiri.

Prima che la Greca oste Ilio cercasse,

Nove fïate io comandai sul mare

Contra gente straniera; e la fortuna

Così m'arrise, che tra ciò che in sorte

Toccommi della preda, e quel ch'io stesso

A mio senno eleggea, rapidamente

Crebbe il mio stato, e non passò gran tempo

Che in sommo pregio tra i Cretesi io salsi.

Ma quando Giove quel fatal viaggio

Prescrisse, che mandò tante alme a Pluto,

A me de' legni ondivaghi, ed al noto

Per fama Idomenèo, diero il governo,

Né modo v'ebbe a ricusar: sì grave

Il popolo e sì ardita ergea la voce.

Colà nove anni pugnavam noi Greci,

E nel decimo al fin, Troia combusta,

Ritornavamo; e ci disperse un nume.

Se non che Giove una più ria ventura

Contra me disegnò. Passato un mese

Tra i figli cari appena e la diletta

Sposa che vergin s'era a me congiunta,

Novella brama dell'Egitto ai lidi

Con egregi compagni, e su navigli

Ben corredati a navigar m'indusse.

Nove legni adornai; né a rïunirsi

Tardò l'amica gente, a cui non poche

Pe' sacrifizi loro e pe' conviti,

Che durâro sei dì, vittime io dava.

La settim'alba in orïente apparsa,

Creta lasciammo, e con un Borea in poppa

Sincero e fido, agevolmente, e come

Sovra un fiume a seconda, il mar fendemmo.

Nave non fu né leggermente offesa,

E noi sicuri sedevam, bastando

I timonieri al nostro uopo ed il vento.

Presa il dì quinto la bramata foce

Del ricco di bell'onda Egitto fiume

Io nel fiume arrestai le veleggianti

Navi, e ai compagni comandai che in guardia

De' legni rimanessero, e la terra

Gissero alcuni ad esplorar dall'alto.

Ma questi, da un ardir folle e da un cieco

Desìo portati, a saccheggiar le belle

Campagne degli Egizi, a via menarne

Le donne e i figli non parlanti, i grami

Coltivatori a uccidere. Ne giunse

Tosto il rumore alla città, né prima

L'aurora comparì, che i cittadini

Vennero, e pieno di cavalli e fanti

Fu tutto il campo, e del fulgor dell'armi.

Cotale allora il Fulminante pose

Desir di fuga de' compagni in petto,

Che un sol far fronte non osava: uccisi

Fur parte, e parte presi, e ad opre dure

Sforzati; e ovunque rivolgeansi gli occhi,

Un disastro apparìa. Ma il Saturnide

Nuovo consiglio m'ispirò nel core.

(Deh, perché nell'Egitto anch'io non caddi,

Se nuovi guai m'apparecchiava il fato?)

Io l'elmo dalla testa al suol deposi,

Dagli omeri lo scudo, e gittai lunge

Da me la lancia: indi ai cavalli incontro

Corsi e al cocchio del re, strinsi e baciai

Le sue ginocchia; ed ei serbommi in vita.

Compunto di pietà, me che piagnea

Levò nel cocchio, e al suo palagio addusse.

È ver che gli altri m'assalìan con l'aste

Di rabbia accesi, e mi voleano estinto.

Ma il re lontani e con cenni e con voci

Teneali per timor dell'ospitale

Giove, che i supplicanti, a cui mercede

Dall'uom non s'usi, vendicar suol sempre.

Sett'anni io colà vissi, e assai tesori

Raccolsi: doni mi porgea chïunque.

Poi, volgendo l'ottavo anno, un Fenice

Comparve, uom fraudolento, e di menzogne

Gran fabbro, che già molti avea tradito.

Nella Fenicia a seguitarlo, dove

Casa e poderi avea, costui piegommi;

E seco io dimorai di sole un giro.

Ma, rivolto già l'anno, e le stagioni

Tornate in sé col trapassar de' mesi,

Ed il cerchio dei dì lunghi compiuto,

Far vela volle per la Libia, e finse

Non poter senza me carcar la nave.

Che nave? in Libia vendermi a gran prezzo

Pensava il tristo. Io che potea? Costretto,

Di nuovo il seguitai: benché del vero

Mi trascorresse per la mente un lampo.

Su Creta sorse il rapido naviglio,

Che un gagliardo Aquilon feriva in poppa,

Mentre gli ordìa l'ultimo eccidio Giove.

Già né più Creta si vedea, né altra

Terra, ma cielo in ogni parte, o mare,

Quando il Fulminator sul nostro capo

Sospese d'alto una cerulea nube,

Sotto a cui tutte intenebrarsi l'acque.

Tonò più volte, e al fin lanció il suo telo

Contra la nave, che del fiero colpo

Si contorse, s'empieo di zolfo, e tutti

Ne cadettero giù. Quai corvi, intorno

Le s'aggiravan su per l'onde, e Giove

Lor togliea con la patria anco la vita.

Salvò me solo nel mortal periglio:

Ché alle mani venir mi fece il lungo

Albero della nave, a cui m'attenni,

E così mi lasciai su i tempestosi

Flutti portar per nove giorni ai venti:

Finché la notte decima mi spinse

De' Tespròti alla terra il negro fiotto.

Qui de' Tespròti il Sir, l'eroe Fidone,

Generoso m'accolse. A sorte il figlio

Sul lido mi trovò tutto tremante

Di freddo, e omai dalla fatica vinto,

E, con man sollevatomi, del padre

Al real tetto mi condusse, e pormi

Tunica e manto si compiacque in dosso.

Quivi io d'Ulisse udii. Diceami il Rege,

Ch'ei l'accolse, e il trattò cortesemente

Nel suo ritorno alle natìe contrade:

E il rame e l'ôr mostravami, ed il ferro,

E quanto al fin di prezïoso e bello

Ulisse avea raccolto, e nella reggia

Deposto; forza, che per dieci etadi

Padri e figliuoli a sostener bastava.

E aggiungea, che a Dodona era passato,

Per Giove consultare, e udir dall'alta

Quercia indovina, se ridursi ai dolci

Colli d'Itaca sua dopo sì lunga

Stagion dovea palesemente, o ignoto.

Poi, libando, giurò ch'era nel mare

Tratta la nave, e i remiganti pronti,

Per rimenarlo in Itaca. Ma prima

Me stesso accommiatò: ché per ventura

Al ferace Dulichio un legno andava

Di nocchieri Tespròti. Al Rege Acasto

Costor dovean raccomandarmi, e in vece

Un consiglio tessean, perch'io cadessi

Novamente ne' guai. Come lontano

Da terra fu l'ondivagante legno,

Il negro m'apparì giorno servile.

Tunica e manto mi spogliaro, e questi

In dosso mi gettâr laceri panni,

E, venuti all'amena Itaca a notte

Me nella nave con ben torta e salda

Fune legaro. Indi n'usciro, e cena

Frettolosa del mar presero in riva.

Ma un nume ruppe i miei legami; ed io

Giù sdrucciolai pel timon liscio; al mare

Mi consegnai col petto, e ad ambe mani

Nôtando remigai sì, che in brev'ora

Fuori di lor vista io fui. Giunsi, ove bella

Sorgea di querce una foresta, e giacqui.

Quei, di me con dolore in traccia mossi,

Né credendo cercarne invan più oltre,

Si rimbarcaro, e me gl'Iddii, che ascoso

Facilmente m'avean, d'un uom saputo

Guidâr benigni al pastoreccio albergo,

poiché in vita il destin mi vuole ancora".

E tal fu a lui la tua risposta, Eumèo:

"O degli ospiti misero, tu l'alma

Mi commovesti addentro, i tuoi vïaggi

Narrando, e i mali tuoi. Sol ciò non lodo,

Che d'Ulisse dicesti, e non tel credo,

Perché, degno uom qual sei, mentire indarno?

So anch'io pur troppo, qual del suo ritorno

Speme nodrir si possa, e l'infinito,

Che gli portano i numi, odio io conosco.

Quindi ei non cadde, combattendo, a Troia,

O degli amici in sen dopo la guerra.

Sepolto avrianlo nobilmente i Greci,

E dalla tomba sua verrìa un rilampo

Di gloria al suo figliuol: ma inonorato

Le Arpie crudeli sel rapiro in vece.

Tale io ne provo duol, che appo la mandra

Vivomi occulto, ed a città non vado,

Se non quando Penelope, comparso

Da qualche banda con novelle alcuno,

Chiamami a sé per caso. Allora stanno

Tutti d'intorno allo straniero, e mille

Gli fan domande, così quei che doglia

Dell'assenza del re sentono in petto,

Come color che gioia; e le sostanze

Ne distruggon frattanto in tutta pace.

Ma io domande far dal dì non amo,

Che mi deluse un vagabondo Etòlo,

Reo d'omicidio, che al mio tetto giunse.

Molto io l'accarezzava, ed ei mi disse

Che presso Idomenèo nell'ampia Creta

Veduto avealo risarcir le navi

Dalla procella sconquassate, e aggiunse

Che l'estate o l'autunno al suo paese

Capiterìa ben compagnato e ricco.

Or non volermi e tu, vecchio infelice,

Con falsi detti, poiché un dio t'addusse

Molcere o lusingar: ché non per questo

Ben trattato sarai, ma perché temo

L'ospital Giove, e che ho di te pietade".

"Un incredulo cor", rispose Ulisse

"Tu chiudi in te, quando a prestarmi fede

Né co' miei giuramenti indurti posso

Su via, férmisi un patto, e testimoni

Ne sien dall'alto gl'immortali dèi.

Riederà il tuo signor, com'io predissi?

Tunica e manto vestimi, e a Dulichio

Mi manda, ov'io da molti giorni ir bramo.

Ma s'ei non torna, eccita i servi, e getta

Me capovolto da un'eccelsa rupe,

Sì che più non ti beffi alcun mendico".

"Gran merto in vero, e memorabil nome,"

Il pastor ripigliò, m'acquisterei

"Appo la nostra e la ventura etade

E, ricevuto avendoti, e trattato

Ospitalmente, io t'uccidessi, e fuori

Ti traessi del sen l'anima cara!

Come franco io potrei preghiere a Giove

Porgere allora! Or della cena è il tempo

I miei compagni entreran tosto, e lauta

S'appresterà nel padiglion la mensa".

Così tra lor diceano; ed ecco il nero

Gregge, e i garzoni che ne' suoi serragli

Metteanlo: immenso delle pingui troie,

Che andavansi a corcar, sorse il grugnito.

Ratto ai compagni favellava Eumèo:

"L'ottimo a me de' porci, affinché muoia

Pel venuto di lungi ospite, e un tratto

Noi pur festa facciam, noi, che soffriamo

Per questo armento dalle bianche sanne,

Mentre in riposo e in gioia altri le nostre

Fatiche si divorano e gli affanni".

Detto così, con affilata scure

Quercia secca recise, e quelli un grasso

D'anni cinque d'età porco menaro,

E al focolare il collocâr davanti.

Né de' celesti Eumèo, che molto senno

Nutriva in sé, dimenticossi. I peli

Dal capo svelti del grugnante, in mezzo

Gittolli al foco, e innalzò voti ai numi

Pel ritorno d'Ulisse. Indi un troncone

Della quercia ch'ei fèsse, alto levando,

Percosse e senza vita a terra stese

La vittima. I garzoni ad ammazzarla,

Ad abbronzarla e a farla in pezzi; ed egli

I crudi brani da ogni membro tolti

Parte metteali su l'omento, e parte,

Di farina bianchissima cospersi

Consegnavali al foco. Il resto tutto

Poi sminuzzâro, e l'abbrostîro infisso

Con modo acconcio negli spiedi; e al fine

Dagli spiedi cavato in su la mensa

Poserlo. Eumèo, che sapea il giusto e il retto,

Surse, e il tutto divise in sette parti:

Offrì l'una alle Ninfe, ed al figliuolo

Di Maia, e l'altre a ciascun porse in giro.

Ma dell'intera del sannuto schiena

Solo Ulisse onorava, e gaudio in petto

Spandea del sire, che diceagli: "Eumèo,

Così tu possa caro al padre Giove

Viver, qual vivi a me, poiché sì grande

Nello stato, in ch'io son, mi rendi onore".

E tu dicesti, rispondendo, Eumèo:

"O preclaro degli ospiti, ti ciba,

E di quel godi, che imbandirti io valgo

Concede, o niega, il correttor del mondo,

Come gli aggrada più: ché tutto ei puote.

Ciò detto, ai numi le primizie offerse;

E, libato ch'egli ebbe, in man d'Ulisse,

Che al suo loco sedea, pose la tazza.

Mesaulio, ch'ei del proprio, e nol sapendo

Né la regina né Laerte, avea,

Mentre lungi era il sir, compro dai Tafi,

Il pane dispensò. Stendeano ai cibi

La mano; e, paga del mangiar la voglia,

Paga quella del ber, Mesaulio il pane

Raccolse, e gli altri a dar le membra al sonno

Ristorati affrettavansi e satolli.

Fosca sorvenne e disastrosa notte:

Giove piovea senza intervallo, e fiero

Di ponente spirava un vento acquoso.

Ulisse allor, poiché vedeasi tanto

Carezzato da Eumèo, tentare il volle,

Se gli prestasse il proprio manto, o almeno

Quel d'alcun de' compagni aver gli fesse:

"Eumèo", diss'egli, "ascoltami, e i compagni

M'ascoltin tutti. Io millantarmi alquanto

Voglio qual mi comanda il folle vino,

Che talvolta i più saggi a cantar mosse

Più in là d'ogni misura, a mollemente

Rider, spiccar salti improvvisi, ed anche

Quello a parlar, ch'era tacere il meglio.

Ma dacché un tratto a cicalare io presi,

Nulla io terrò nel petto. Oh di quel fiore

Fossi, e tornassi in quelle forze, ch'io

Sentìami al tempo che sott'Ilio agguati

Tendemmo, Ulisse ed il secondo Atride,

E, così ad essi piacque, io terzo duce!

Tosto che alla cittade e all'alte mura

Vicini fummo, tra i virgulti densi,

E nelle canne paludose a terra

Giacevam sotto l'armi. Impronta notte

Ci assalse: un crudo tramontan soffiava,

Scendea la neve, qual gelata brina,

E gli scudi incrostava il ghiaccio. Gli altri,

Che manti avevano e tuniche, tranquilli

Dormìan, poggiando alle lor targhe il dosso

Ma io, partendo dai compagni, il manto

Nella stoltezza mia lasciai tra loro,

Non isperando un sì pungente verno;

E una tunica, un cingolo e uno scudo

Meco sol tolsi. Della notte il terzo

Era, e gli astri cadevano, e ad Ulisse,

Che mi giacea da presso, io tai parole,

Frugandolo del gomito, rivolsi:

"Illustre e scaltro di Laerte figlio,

Così mi doma il gel, ch'io più tra i vivi

Non rimarrò. Mi falla un manto. Un dio,

Che mi deluse, di vestirmi solo

La tunica inspirommi. Or quale scampo?"

Ei, le parole udite un suo partito

Scelse di botto, come quei che meno

Ai consigli non fu, che all'armi, pronto:

"Taci", rispose con sommessa voce,

Che alcun Greco non t'oda. "E poi, del braccio

Facendo e della man sostegno al mento:

"Amici, disse, un sogno, un divin sogno,

Dormendo m'avvertì, che dilungati

Troppo ci siam dalle veloci navi.

Quindi al pastor di genti Agamennòne

Corra un di noi, perché, se ben gli sembra,

Ne mandi altri guerrieri e ne rinforzi".

Disse, e Toante, d'Andremòne il figlio,

Sorse, e corse al navil, deposto prima

Il purpureo suo manto; ed io con gioia

Men cinsi, e vi stetti entro, in sin che apparve

Sul trono d'ôr la ditirosea Aurora.

Se quel fior, quelle forze io non piangessi,

Me forse alcun de' tuoi compagni, Eumèo,

Per riverenza e amore ad un buon vecchio,

Di manto fornirìa: ma or veggendo

Questi miei cenci, ciascun tiemmi a vile".

Tu così, Eumèo, gli rispondesti allora:

"Bella fu, amico, la tua storia, e un motto

Non t'usci dalle labbra o sconcio o vano.

Però di veste o d'altro, che infelice

Merta supplicante uomo, in questa notte

Difetto non avrai. Ma, nato il sole,

T'adatterai gli usati panni intorno.

Poche son qui le cappe, e a suo piacere

Di tunica non puote alcun mutarsi:

Star dee contento ad una sola ognuno.

Come giunto sarà d'Ulisse il figlio,

Ei di vestirti e di mandarti, dove

Ti consiglia il tuo cor, pensier darassi".

S'alzò, così dicendo, e presso al foco

Poneagli il letto, e di montoni e capre

Pelli stendeavi, in che l'eroe sdraiossi;

E d'un largo il coprì suo denso manto,

Ch'egli a se stesso circondar solea

Quando turbava il ciel fiera tempesta.

Così là giacque Ulisse; e accanto a lui

Si corcâro i garzoni: ma corcarsi

Disgiunto da' suoi verri Eumèo non volle.

Fuori uscito ei s'armava; e Ulisse in core

Gioìa, mirando lui del suo re tanto

Curare i beni, benché lungi il creda.

Prima ei sospese agli omeri gagliardi

L'acuta spada: indi a sé intorno un folto

Manto gittò, che il difendea dal vento;

Tolse una pelle di corputa e grassa

Capra; e un pungente dardo in man recossi,

Degli uomini spavento e de' mastini.

Tale s'andò a corcar, dove protetti

Dal soffio d'Aquilone i setolosi

Verri dormìan sotto una cava rupe.

 

LIBRO XV

 

Nell'ampia Lacedèmone Minerva

Entrava intanto ad ammonir d'Ulisse

L'inclita prole, che di far ritorno

Alle patrie contrade era già tempo.

Trovollo che giacea di Menelao

Nell'atrio con Pisistrato. Ingombrava

Un molle sonno di Nestorre il figlio:

Ma l'Ulisside, cui l'incerta sorte

Del caro padre fieramente turba,

Pensavane ad ognora, e invan per lui

D'alto i balsami suoi spargea la notte.

La dea, che azzurri gli occhi in giro muove,

Appressollo, e: "Telemaco", gli disse,

"Non fa per te di rimanerti ancora

D'Itaca fuori, e lungi dall'altera

Turba malnata degli arditi proci,

Che, divisa tra lor la tua sostanza

Divorinsi al fin tutto, e, non che vano,

Dannoso a te questo vïaggio torni.

Lèvati, e pressa il valoroso Atride

Di congedarti, onde nel tuo palagio

Trovi la madre tua, che Icario il padre

Co' fratelli oggimai sforza alla mano

D'Eurimaco, il qual cresce i maritali

Doni, e ogni suo rival d'àmbito vince.

Guarda non del palagio, a tuo dispetto,

Parte de' beni con la madre t'esca:

Però che sai qual cor s'abbia ogni donna:

Ingrandir brama del secondo sposo

La nuova casa; e de' suoi primi figli

E di colui che vergin impalmolla

Non si rammenta più, più non ricerca,

Quando ei nel buio della tomba giace.

Tu, partita la madre, a quale ancella

Più dabbene ti sembri e più sentita,

Commetti il tutto, finché illustre sposa

Ti presentino al guardo i dèi clementi.

Altro dirotti, e il riporrai nel core.

Degli amanti i più rei, che tôr dal mondo

Prima vorrìanti che alla patria arrivi,

Nel mar tra la pietrosa Itaca e Same

Stanno in agguato. Io crederò che indarno,

E che la terra pria l'ossa spolpate

De' tuoi nemici chiuderà nel seno.

Non pertanto la nave indi lontana

Tieni, e notturno naviga: un amico

Vento t'invïerà quel tra gli eterni,

Chïunque sia, che ti difende e guarda.

Come d'Itaca giunto alla più estrema

Riva sarai, lascia ir la nave, e tutti

Alla città i compagni; e tu il custode

Cerca de' verri, che un gran ben ti vuole.

Seco passa la notte, ed in sull'alba

Mandal significando alla Regina,

Che a lei da Pilo ritornasti illeso".

Ciò detto, in un balen salse all'Olimpo.

Egli l'amico dal suo dolce sonno,

Urtandolo del pie', subito scosse,

E gli drizzò queste parole: "Sorgi,

Pisistrato, ed al cocchio i corridori

Solidounghiati sottoponi e accoppia,

Se anche il viaggio nostro aver dee fine".

"Telemaco", il Nestoride rispose,

"Benché ci tardi di partir, non lice

Dell'atra notte carreggiar per l'ombre.

Poco l'Aurora tarderà. Sostieni

Tanto almen che il di lancia esperto Atride

Ponga nel cocchio gli ospitali doni,

E gentilmente ti licenzi. Eterna

L'ospite rimembranza in petto serba

Di chi un bel pegno d'amistà gli porse".

Disse; e nel trono d'ôr l'Aurora apparve.

Il prode Menelao, di letto allora

Sorto e d'allato della bella Elèna,

Venne alla volta lor; né prima il caro

Figliuol d'Ulisse l'avvisò, che in fretta

Della lucente tunica le membra

Cinse e gittò il gran manto a sé d'intorno,

Ed uscì fuori, e l'abbordò e gli disse:

"Figlio d'Atrèo, di Giove alunno, duce

Di genti, me rimanda oggi al diletto

Nativo ciel, cui già con l'alma io volo".

"Telemaco", rispose il forte Atride,

"Io ritenerti qui lunga stagione

Non voglio a tuo mal cuore. Odio chi suole

Gli ospiti suoi festeggiar troppo, o troppo

Spregiarli: il meglio sempre è star nel mezzo.

Certo peccan del par chi discortese

L'ospite caccia di restar bramoso,

E chi bramoso di partir l'arresta.

Carezzalo indugiante, e quando scorgi

Che levarsi desìa, dágli commiato.

Tanto dimora sol, ch'io non vulgari

Doni nel cocchio, te presente, ponga,

E comandi alle femmine che un pronto

Conforto largo di serbate dapi

T'apprestin nella sala. È glorïoso

Del par che utile a te dell'infinita

Terra su i campi non passar digiuno.

Vuoi tu aggirarti per la Grecia e l'Argo?

Giungerò i miei destrieri, e alle diverse

Città ti condurrò: treppiede o conca

Di bronzo o due bene appaiati muli,

O vaga d'oro effigïata tazza,

Ci donerà ciascuno, e senza doni

Cittade non sarà che ci accommiati".

Telemaco a rincontro: "Menelao,

Di Giove alunno, condottier di genti,

Nel mio palagio, ove nessun che il guardi,

Partendone, io lasciai, rieder mi giova,

Acciocché, mentre il padre indarno io cerco,

Tutti io non perda i suoi tesori e i miei".

Udito questo, ad Elena e alle fanti

L'Atride comandò s'apparecchiasse

Subita e lauta mensa. Eteonèo,

Che poco lungi dal suo re dormìa,

Sorto appena di letto, a lui sen venne;

E il foco suscitar, cuocer le carni

Gl'impose Menelao: né ad ubbidirgli

Tardò un istante di Boete il figlio.

Nell'odorata solitaria stanza

Menelao scese, e non già sol: ché seco

Scesero Elèna e Megapente. Giunti

Là 've la ricca suppellettil giace,

Tolse l'Atride biondo una ritonda

Gemina coppa, e di levare un'urna

D'argento al figlio Megapente ingiunse.

Ma la donna fermossi all'arche innanzi,

Ove i pepli giacean che da lei stessa

Travagliati già fûro, e varïati

Con ogni sorta d'artificio. Elèna

Il più ampio traeane, ed il più bello

Per molteplici fregi: era nel fondo

Dell'arca, e sì rilusse in quel che alzollo,

Che stella parve che dai flutti emerga.

Con tai doni le stanze attraversaro,

Finché fûro a Telemaco davante,

Cui questi accenti Menelao converse:

"Fortunato così, come tu il brami,

Ti consenta, o Telemaco, il ritorno

L'altitonante di Giunon marito.

Io di quel che possiedo, a te dar voglio

Ciò che mi sembra più leggiadro e raro:

Un'urna effigïata, argento tutta,

Se non quanto su i labbri oro gialleggia,

Di Vulcano fattura. Il generoso

Re di Sidone Fèdimo donolla

A me, che d'Ilio ritornava, e cui

Ricettò ne' suoi tetti; e a te io la dono.

L'Atride in mano gli mettea la tonda

Gèmina coppa: Megapente ai piedi

Gli recò l'urna sfolgorante; e poi

Elena, bella guancia, a lui di contra

Stette col peplo su le braccia e disse:

"Ricevi anco da me, figlio diletto,

Quest'altro dono, e per memoria tienlo

Delle mani d'Elèna. Alla tua sposa

Nel sospirato dì delle sue nozze

Le membra coprirà. Rimanga intanto

Della prudente genitrice in guardia;

E tu alla patria terra e alle superbe

Case de' padri tuoi giungi felice".

Ei con gioia sel prese: e i doni tutti,

Poiché ammirata la materia e l'arte

N'ebbe, allogò Pisistrato nel carro.

Quindi l'Atride dalla bionda testa

Ambi condusse nella reggia, dove

Sovra i troni sedettero. L'ancella

Subitamente da bel vaso d'oro

Nell'argenteo bacile acqua lucente

Spandea, stendea desco polito, in cui

La veneranda dispensiera i bianchi

Pani venne ad imporre, e non già poche

Delle dapi serbate, ond'è custode.

Eteonèo partìa le carni, e il vino

Megapente versava; e i due stranieri

La mano all'uno e all'altro ivan porgendo.

Ma come sazi della mensa fûro,

Aggiogaro i cavalli, e la vergata

Biga pronti salîro, e l'agitaro

Fuor dell'atrio e del portico sonante.

Uscì con essi Menelao, spumosa,

Perché libasser pria, ciotola d'oro

Nella destra tenendo, e de' cavalli

Fermossi a fronte, e, propinando, disse:

"Salute, o prodi giovinetti, a voi

Ed al pastor de' popoli salute

Per vostra bocca, a Nestore, che fummi

Dolce, qual padre, sotto i Teucri muri".

Ed il saggio Telemaco a rincontro:

"Tutto, non dubitar, di Giove alunno,

Saprà il buon vecchio. Oh potess'io non manco,

Tosto ch'io sarò in Itaca, ad Ulisse

Mostrare i tanti e così ricchi doni

Ch'io da te ricevetti, e raccontargli

Quale accoglienza io n'ebbi e qual commiato!"

Tal favellava; e a lui di sopra e a destra

Un'aquila volò, che bianca e grande

Domestica oca con gli adunchi artigli

Dalla corte rapia. Dietro gridando

Uomini e donne le correan: ma quella

S'accostò pur da destra ai due garzoni,

E davanti ai destrier rivolò in alto.

Tutti gioiro a cotal vista, e primo

Fu Pisistrato a dir: "Nobile Atride,

Pensa in te stesso, se a te forse o a noi

Tal prodigio invïâro i sempiterni".

Ei la risposta entro da sé cercava;

Ma l'antivenne la divina Elèna

Dicendo: "Udite me. Quel ch'io indovino,

Certo avverrà: ché me l'inspira un nume.

Come questa valente aquila scesa

Dal natìo monte, che i suoi parti guarda,

Si rapì l'oca nel cortil nodrita,

Non altrimenti Ulisse, alle paterne

Case venuto da lontani lidi,

Su i proci piomberà; se pur non venne,

E lor non apparecchia orrida morte".

E Telemaco allor: "Così ciò voglia

L'altitonante di Giunon marito,

Come voti da me tu avrai, qual diva!"

Disse, e i destrieri flagellò, che ratti

Mosser per la cittade e ai campi usciro.

Correan l'intero dì, squassando il giogo,

Che ad ambi stava sul robusto collo.

Tramontò il Sole ed imbrunìan le strade;

E i due giovani a Fera, e alla magione

Di Dïòcle, del prode figlio

D'Orsìloco d'Alfèo, dove riposi

Ebber tranquilli ed ospitali doni.

Ma come al sole con le man rosate

L'Aurora aperse le celesti porte,

I cavalli aggiogaro, e risaliro

La vergolata biga e l'agitaro

Fuor dell'atrio e del portico sonante.

Sferzò i destrier Pisistrato, e i destrieri

Di buon grado volavano: né molto

Stetter di Pilo ad apparir le torri.

Allor così Telemaco si volse

Al figliuol di Nestorre: "O di Nestorre

Figliuol, non desti a me fede, che sempre

Ciò tu faresti che mi fosse gioia?

Paterni ospiti siam, siam d'un'etade,

E più ancor ci unirà questo vïaggio.

Non mi guidare oltra il naviglio mio;

Colà mi lascia. Ritenermi il vecchio,

Mal mio grado, appo sé di carezzarmi

Desïoso, potrebbe: e a me bisogna

Toccare in breve la natìa contrada".

Mentre così l'un favellava all'altro,

Che d'attener la sua promessa i modi

Discorrea con la mente, in questo parve

Dover fermarsi. Ripiegò i destrieri

Verso il mare e il naviglio; e i bei presenti,

Onde ornato il compagno aveva l'Atride,

Scaricò su la poppa. Indi: "Su via

Monta", disse, "di fretta, e a' tuoi comanda

Pria la nave salir, che me il mio tetto

Riceva, e il tutto al genitore io narri.

So, qual chiuda nel petto alma sdegnosa:

Ti negherà il congedo, in su la riva

Verrà egli stesso, e benché senza doni

Da lui, cred'io, tu non partissi, un forte

Della collera sua scoppio io preveggo".

Dette tai cose, alla città de' Pili

Spinse i destrieri dal leggiadro crine,

E all'eccelsa magion rapido giunse.

E Telemaco a' suoi: "Pronti la nave,

Compagni, armate, e su montiamvi e andiamo".

L'ascoltâro, e ubbidiro. Immantinente

Montava e s'assidea ciascun su i banchi.

Ei, la partenza accelerando, a Palla

Prieghi, alla poppa, e sagrifici offrìa;

Quando, esul dalla verde Argo ferace,

Per non voluta uccisïone ignoto

Vïandante appressollo: era indovino,

E di Melampo dalla stirpe sceso.

Nella madre di greggi inclita Pilo

Melampo prima soggiornava, e, come

Ricco uom, superbo vi abitava ostello:

Poi, fuggendo la patria ed il più illustre

Tra gli uomini Nelèo, che i suoi tesori

Un anno intiero riteneagli a forza,

Capitò ad altre genti, e duri lacci

Nell'albergo di Filaco, e dolori

Gravi sostenne per la vaga figlia

Di Nelèo e per l'audace opra, cui messa

Gli aveva nel capo la tremenda Erinni.

Ma scampò dalla morte, e a Pilo addusse

Le contrastate altomugghianti vacche;

Si vendicò dell'infedel Nelèo,

E consorte al fratel la vaga Pero

Da Filace menò. Quindi all'altrìce

Di nobili destrieri Argo sen venne,

Volendo il fato che su i molti Argivi

Regnasse; sposa quivi scelse; al cielo

Levò le pietre della sua dimora;

E i forti generò Mantio e Antifáte.

Di questo il grande Oiclèo nacque, e d'Oiclèo

Il salvator di genti Anfiarao,

Cui tanto amor Febo portava e Giove.

Pur di vecchiezza non toccò la soglia:

Ché, generati Anfiloco e Alcmeòne,

Sotto Tebe perì, dalla più avara

Donna tradito. Ma da Mantio al giorno

Clito usciro e Polìfide. L'Aurora,

Per la beltà che in Clito alta splendea,

Rapillo, e il collocò tra gl'immortali;

E Febo, spento Anfiarao, concesse

Più che ad altr'uom, de' vaticini il dono

A Polifide, il qual, crucciato al padre,

Trapassò in Iperesia, ove a ciascuno

Del futuro squarciar solea il velame.

Figlio a questo era il pellegrin che stette

Di Telemaco al fianco, e si chiamava

Teoclimèno; appo la negra nave,

Mentr'ei libava e supplicava, il colse,

E a lui con voci alate: "Amico", disse,

"Poich'io ti trovo a questi uffici intento,

Pe' sagrifizi tuoi, pel dio cui gli offri,

Per lo tuo capo stesso e per cotesti

Compagni tuoi, non mi nasconder nulla

Di quanto io chiederò. Chi, e donde sei?

Dove i parenti a te? e la patria dove?

"Stranier", così Telemaco rispose,

"Su i labbri miei non sonerà che il vero.

Itaca è la mia patria, il padre è Ulisse,

Se un padre ho ancor: quel, di cui forte io temo.

Però con negra nave e gente fida

Partii, cercando per diversi lochi

Novelle di quel misero, cui lunge

Tien dalla patria sua gran tempo il fato".

E il pari ai dèi Teoclimèno: "Anch'io

Lungi erro dalla mia, dacché v'uccisi

Uom della mia tribù, che lasciò molti

Parenti e amici prepossenti in Argo.

Delle lor man vendicatrici uscito,

Fuggo, e sieguo il destin che l'ampia terra

Con pie' ramingo a calpestar mi tragge.

Deh! su la nave tua me supplicante

Ricovra, e da color che vengon forse

Su i miei vestigi, tu, che il puoi, mi salva".

Il prudente Telemaco di nuovo:

"Dalla mia nave, in cui salir tu brami,

Esser non potrà mai ch'io ti respinga.

Seguimi pur: non mancheranti in nave

Quei, che di darti è in me, doni ospitali".

Ciò detto, l'asta dalla man gli prese,

E della nave stésela sul palco.

Poscia montovvi e sedé in poppa, e al fianco

Seder si feo Teoclimèno. Sciolte

Dai compagni le funi, ei lor impose

Di correre agli attrezzi, ed i compagni

Ratti ubbidiro: il grosso abete in alto

Drizzaro, e l'impiantâro entro la cava

Base, di corda l'annodaro al piede,

E le candide vele in su tiraro

Con bene attorti cuoi. La dea che in giro

Pupille tinte d'azzurrino muove,

Precipite mandò dal cielo un vento

Destro, gagliardo, perché in brevi istanti

Misurasse del mar l'onde il naviglio.

Crune passò il buon legno, e la di belle

Acque irrigata Calcide, che il sole

Già tramontava ed imbrunìan le strade;

E, spinto sempre da quel vento amico,

Cui governava un dio, sopra Fea sorse,

E di là costeggiò l'Elide, dove

Regnan gli Epei. Quinci il figliuol d'Ulisse

Tra le scoscese Echinadi si mise,

Pur rivolgendo nel suo cor, se i lacci

Schiverebbe de' proci, o vi cadrebbe.

Ma in altra parte Ulisse e il buon custode,

Sedean sott'esso il padiglione a cena,

E non lunge sedean gli altri pastori.

Pago de' cibi il natural talento,

Ulisse favellò, tentando Eumèo,

S'ei, non cessando dalle cure amiche,

Ritenerlo appo sé nella sua cara

Stalla intendesse o alla città mandarlo:

"Eumèo", disse, "m'ascolta; e voi pur tutti.

Tosto che il ciel s'inalbi, alla cittade,

Ond'io te non consumi ed i compagni,

Condurmi io voglio a mendicar la vita.

Ma tu d'utili avvisi, e d'una scorta

Fidata mi provvedi. Andrò vagando

Di porta in porta, e ricercando, come

Sfòrzami rea necessità, chi un pane

Mi porga ed una ciotola. D'Ulisse

Mi farò ai tetti, e alla sua donna saggia

Novelle recheronne, e avvolgerommi

Tra i proci alteri, che lasciarmi forse

Nella lor copia non vorran digiuno.

Io, che piaccia lor, subito e bene,

Eseguirò; poiché saper t'è d'uopo

Che per favor del messaggiero Ermete,

Da cui grazia ed onore acquista ogni opra,

Tal son, che ne' servigi, o il foco sparso

Raccor convenga, o le risecche legna

Fendere, o cuocer le tagliate carni,

O il vin d'alto versare, uffici tutti

Che i minori prestar sogliono i grandi,

Me nessun vince su l'immensa terra".

Sdegnato assai gli rispondesti, Eumèo:

"Ahi! qual pensier ti cadde, ospite, in capo?

Brami perir, se raggirarti pensi

Tra i proci, la cui folle oltracotanza

Sale del ciel sino alla ferrea volta.

Credi a te somigliare i lor donzelli?

Giovani in bella vestimenta, ed unti

La chioma sempre e la leggiadra faccia,

Ministrano ai superbi; e sempre carche

Delle carni, de' pani e de' licori

Splendono agli occhi le polite mense.

Rimani: che né a me, né de' compagni

Grave ad alcun la tua presenza torna.

Ma come giunto sia d'Ulisse il figlio,

Da lui tunica e manto, e da lui scorta

Riceverai, dove che andar t'aggradi".

"Eumèo", rispose il pazïente Ulisse,

"possa Giove amar te, siccome io t'amo,

Te, che al vagar mio lungo ed all'inopia

Ponesti fine! Io non so peggio vita:

Ma il famelico stomaco latrante

Gl'ìnopi a errar, per acchetarlo, sforza,

E que' mali a soffrir, che ad una vita

Povera s'accompagnano e raminga.

Or, quando vuoi ch'io teco resti e aspetti

Telemaco, su via, della canuta

Madre d'Ulisse parlami e del padre,

Che al tempo che il figliuol sciolse per Troia,

Della vecchiezza il limitar toccava.

Veggon del Sole in qualche parte i rai?

O d'Aide la magion freddi gli accolse?"

"Ospite", ripigliò l'inclito Eumèo,

"Altro da me tu non udrai che il vero.

Laerte vive ancora, e Giove prega

Che la stanca dal corpo alma gli tragga:

Tanto del figlio per l'assenza, tanto

Per la morte si duol della prudente

Moglie, che intatta disposollo, e in trista

Morendo il collocò vecchiezza cruda.

La lontananza del suo figlio illustre

A poco a poco ed infelicemente,

Sotterra la condusse. Ah tolga Giove,

Che qual m'è amico, e con amor mi tratta,

Per una simil via discenda a Dite!

Finch'ella visse, m'era dolce cosa,

Sebben dolente si mostrasse in faccia,

L'interrogarla e il ricercarla spesso:

Poich'ella mi nutrì con la de' pepli

Vaga Ctimene, sua figliuola egregia,

E de' suoi parti l'ultimo. Con questa

Cresceami, e quasi m'onorava al pari.

Ma come fummo della nostra etade

Ambi sul primo invidïabil fiore,

Sposa lei fêro in Same, e ricchi doni

N'ebbero ed infiniti; e me con vesti

Leggiadre in dosso e bei calzari ai piedi,

Mandò i campi abitar la mia signora,

Che di cor ciascun dì vie più m'amava.

Quanto seco io perdetti! È ver che queste

Fatiche dure, in che la vita io spendo,

Mi fortunano i numi, e ch'io gli estrani

Finor ne alimentai, non che me stesso.

Ma di fatti conforto o di parole

Sperare or da Penelope non lice:

Ché tutta in preda di superba gente

È la magion; né alla regina ponno

Rappresentarsi e far domande i servi,

Pigliar cibo e bevanda al suo cospetto,

E poi di quello ancor, che l'alma loro

Sempre rallegra, riportare ai campi".

"Eumèo", rispose l'avveduto Ulisse,

"Te dalla patria lungi e da' parenti

Pargoletto sbalzò dunque il tuo fato?

Orsù, ciò dimmi e schiettamente: venne

La città disertata, in cui soggiorno

Avea la madre veneranda e il padre?

O incautamente abbandonato fosti

Presso le agnelle o i tori, e gente ostile

Ti rapì su le navi, e ai tetti addusse

Di questo re, che ti comprò a gran prezzo?"

Ed a rincontro Eumèo, d'uomini capo:

"Quando a te risaperlo, ospite, cale,

Tacito ascolta e goditi, e alle labbra

Metti, assiso, la tazza. Or così lunghe

Le notti van, che trapassar si ponno

Parte dormendo, e novellando parte.

Né corcarti t'è d'uopo innanzi al tempo:

Anco il gran sonno nuoce. Ove degli altri

Ciò piacesse ad alcuno, esca e s'addorma:

Ma, fatto bianco l'orïente, siegua,

Non digiuno però, gl'ispidi verri.

E noi sediam nel padiglione a mensa,

Ambi a vicenda delle nostre doglie

Diletto, rimembrandole, prendendo;

Poiché de' mali ancora uom, che sofferse

Molto e molto vagò, prende diletto.

"Cert'isola, se mai parlar ne udisti,

Giace a Delo di sopra, e Siria è detta,

Dove segnati del corrente sole

I ritorni si veggono. Già grande

Non è troppo, ma buona; armenti e greggi

Produce in copia, e ogni speranza vince

Col frumento e col vino. Ivi la fame

Non entra mai, né alcun funesto morbo

Consuma lento i miseri mortali:

Ma come il crine agli abitanti imbianca,

Cala, portando in man l'arco d'argento,

Apollo con Artèmide, e gli uccide

Di saetta non vista un dolce colpo.

Due cittadi ivi son di nerbo eguale;

E l'Ormenide Ctesio, il mio divino

Padre, dell'una e l'altra il fren reggea.

Capitò un giorno di Fenicî, scaltra

Gente e del mare misuratrice illustre,

Rapida nave negra, che infinite

Chiudea in se stessa bagattelle industri.

Sedusser questi una Fenicia donna,

Che il padre schiava nel palagio avea,

Bella, di gran persona, e di leggiadri

Lavori esperta. I maculati panni

Lavava al fonte, presso il cavo legno,

Quando un di que' ribaldi a ciò la trasse,

Che alle femmine incaute, ancor che vôte

Non sien d'ogni virtude, il senno invola,

Poscia chi fosse, richiedeale, e donde

Venuta; ed ella senza indugio l'alte

Del padre mio case additògli e disse:

"Io cittadina della chiara al mondo

Sidone metallifera e del ricco

Aribante figliuola esser mi vanto.

Tafî ladroni mi rapiro un giorno,

Che dai campi tornava, e mi vendèro,

Trasportata sul mare, a quel signore,

Che ben degno di me prezzo lor diede".

"Non ti sarìa", colui rispose allora,

"Caro dunque il seguirci, ed il superbo

De' tuoi parenti rivedere albergo?

Riveder lor, che pur son vivi, e in fama

Di dovizia tra noi?" "Certo mi fôra"

La donna ripigliò, "sol che voi tutti

Di ricondurmi al natìo suol giuriate

Salva sul mar navigero e sicura".

Disse; e tutti giuravano. E in tal guisa

Tra lor di nuovo favellò la donna:

"Statevi or cheti e, o per trovarmi al fonte

O incontrarmi tra via, nessun mi parli.

Risaprebbelo il vecchio e di catene

Me graverebbe, sospettando, e a voi

Morte, cred'io, macchinerìa. La cosa

Tenete dunque in seno, e a provvedervi

Di quanto v'è mestier pensate intanto.

La nave appien vettovagliata e carca,

Giungane a me l'annunzio in tutta fretta,

Ed io non che altro, recherò con meco

Quanto sotto alle man verrammi d'oro.

Altra mercé vi darò ancora: un figlio

Di quest'ottimo re nel suo palagio

Rallevo, un vispo tal, che ad ogn'istante

Fuor mi scappa di casa. Io vi prometto

Alla nave condurlovi; né voi

Picciol tesor ne ritrarrete, ovunque

Per venderlo il meniate a estranie genti".

Disse, e alla reggia ritornò. Coloro,

Nel paese restando un anno intero

Fean di vitto e di merci immenso acquisto.

Fornito il carco e di salpare in punto,

Un messaggio alla femmina spedîro,

Uomo spedir d'accorgimenti mastro,

Che con un bello, aureo monile e d'ambra

Vagamente intrecciato, a noi sen venne.

Madre ed ancelle il rivolgean tra mano,

Prezzo non lieve promettendo, e a gara

Gli occhi vi tenean su. Tacitamente

Quegli ammiccò alla donna: indi alla nave

Drizzava i passi. Ella per mano allora

Presemi, e fuori uscì: trovò le mense

Nell'atrio e i nappi, in che bevean del padre

I commensali al parlamento andati

Con esso il padre caro; e di que' nappi

Tre, che in grembo celò, via ne portava;

Ed io seguìala nella mia stoltezza.

Già tramontava il Sole, e di tenèbre

Ricoprìasi ogni strada; e noi veloci

Giungemmo al porto e alla Fenicia nave.

Tutti saliti, le campagne acquose

Fendevam lieti con un vento in poppa,

Che da Giove spiccavasi. Sei giorni

Le fendevamo e notti sei: ma Giove

Il settimo non ebbe agli altri aggiunto,

Che dalla dea, d'avventar dardi amante,

Colpita fu la nequitosa donna.

Nella sentina con rimbombo cadde,

Quasi trafitta folaga. Tra l'acque

La scagliaro i Fenici, esca futura

Ai marini vitelli; e nella nave

Solo io rimasi, abbandonato e mesto.

Poi l'onda e il vento li sospinse ai lidi

D'Itaca, dove me comprò Laerte.

E così questa terra, ospite, io vidi".

"Eumèo", rispose il pazïente Ulisse,

"Molto a me l'alma commovesti in petto,

Narrando i casi tuoi. Ma Giove almeno

Vicin tosto ti pose al male il bene,

Poiché venisti ad un signor cortese,

Che quanto a rallegrar non che a serbare,

La vita e d'uopo, non ti niega. Ed io

Sol dopo lunghi e incomodi vïaggi

Di terra in terra, a queste rive approdo.

Tali fra lor correan parole alterne.

Dormiro al fin, ma non un lungo sonno;

Ché in seggio a comparir d'oro la bella

Già non tardò ditirosata Aurora.

Frattanto di Telemaco i compagni

Presso alla riva raccogliean le vele.

L'albero declinâr, lanciâro a remi

La nave in porto, l'ancore gittâro,

Ed i canapi avvinsero. Ciò fatto,

Sul lido usciàno ed allestìan la cena.

Rintuzzata la fame, e spenta in loro

La sete: "Voi", così d'Ulisse il figlio,

"Alla città guidatemi la nave,

Mentre a' miei campi ed ai pastori io movo.

Del cielo all'imbrunir, visti i lavori,

Io pure inurberommi, e in premio a voi

Lauto domani imbandirò convito".

"E io dove ne andrò, figlio diletto?"

Teoclimèno disse. "A chi tra quelli,

Che nella discoscesa Itaca sono

Più potenti, offrirommi? Alla tua madre

Dritto ir dovronne, e alla magion tua bella?"

Il prudente Telemaco riprese:

"Io stesso in miglior tempo al mio palagio

T'invïerei, dove cortese ospizio

Tu non avresti a desïare. Or male

Capiteresti: io non sarei con teco

Né te vedrìa Penelope, che scevra

Dai proci, a cui raro si mostra, tele

Nelle più alte stanze a oprare intende.

Un uom bensì t'additerò, cui franco

Puoi presentarti: Eurimaco, del saggio

Polibo il figlio, che di nume in guisa

Onoran gl'Itacesi. Egli è il più prode,

E il regno, più che agli altri, e la consorte

D'Ulisse affêtta. Ma se, pria che questo

Maritaggio si compia, i proci tutti

Non scenderanno ad abitar con Pluto,

L'Olimpio il sa, benché sì alto alberghi".

Tal favellava; ed un augello a destra

Gli volò sovra il capo, uno sparviere

Ratto nunzio d'Apollo: avea nell'ugne

Bianca colomba e la spennava, e a terra

Fra lo stesso Telemaco e la nave

Le piume ne spargea. Teoclimèno

Ciò vide appena, che il garzon per mano

Prese e il trasse in disparte, e sì gli disse:

"Senza un nume, o Telemaco, l'augello

Non volò a destra. Io, che di contra il vidi

Per augurale il riconobbi. Stirpe

Più regia della tua qui non si trova,

Qui possente ad ognor fia la tua casa".

"Così questo", Telemaco rispose,

"S'avveri o forestier, com'io tai pegni

Ti darei d'amistà, che te, chiunque

Ti riscontrasse, chiamerìa beato".

Quindi si volse in cotal guisa al fido

Suo compagno Pirèo: "Figlio di Clito,

Tu che le voglie mie festi mai sempre

Tra quanti a Pilo mi seguiro e a Sparta,

Condurmi il forestiero in tua magione

Piacciati e usargli, finché io vengo, onore".

"Per tardi", gli rispose il buon Pireo,

"Che tu venissi, io ne avrò cura, e nulla

D'ospitale sarà che nel mio tetto,

Dove il condurrò tosto, ei non riceva".

Detto, salse il naviglio, e dopo lui

Gli altri salìanlo, e s'assidean su i banchi.

Telemaco s'avvinse i bei calzari

Sotto i pie' molli, e la sua valid'asta

Rameappuntata, che giacea sul palco

Della nave, in man tolse; e quei le funi

Sciolsero. Si spingean su con la nave

Vêr la città, come il garzone ingiunse;

Ed ei studiava il passo, in sin che innanzi

Gli s'aperse il cortile ove le molte

S'accovacciavan setolose scrofe,

Tra cui vivea l'inclito Eumèo, che, o fosse

Nella veglia o nel sonno, i suoi padroni

Dormendo ancor, non che vegliando, amava.

 

LIBRO XVI

 

L'inclito Eumèo nel padiglione e Ulisse,

Racceso il foco in su la prima luce,

Leggier pasto allestìano; e fuori al campo

Co' neri porci uscìan gli altri custodi.

Ma i cani latrator, non che a Telemaco

Non abbaiar, festa gli feano intorno.

S'avvide Ulisse del blandir de' cani,

E d'uomo un calpestìo raccolse e queste

Voci drizzò al pastor: "Certo qua, Eumèo,

O tuo compagno o conoscente, giunge,

Poichè, lontani dal gridare, i cani

Latratori carezzanlo, ed il basso

De' suoi vicini piè strepito io sento.

Non era Ulisse al fin di questi detti,

Che nell'atrio Telemaco gli apparve".

Balzò Eumèo stupefatto e a lui di mano

I vasi, ove mescea l'ardente vino,

Caddero: andògli incontro e il capo ed ambi

Gli baciò i rilucenti occhi e le mani,

E un largo pianto di dolcezza sparse.

Come un tenero padre un figlio abbraccia,

Che il decim'anno da remota piaggia

Ritorna, unico figlio e tardi nato,

Per cui soffrì cento dolori e cento:

Non altrimenti Eumèo, gittate al collo

Del leggiadro Telemaco le braccia,

Tutto baciollo, quasi allora uscito

Dalle branche di Morte, e lagrimando:

"Telemaco", gli disse, "amato lume,

Venisti adunque! Io non avea più speme

Di te veder, poiché volasti a Pilo.

Su via, diletto figlio, entrar ti piaccia,

Sì ch'io goda mirarti or che d'altronde

Nel mio soggiorno capitasti appena.

Raro i campi tu visiti e i pastori:

Ma la città ritienti e la funesta

Turba de' proci che osservar ti cale".

"Entrerò, babbo mio, quegli rispose:

Ché per te vederti, e le tue voci

Per ascoltare, al padiglione io vegno.

Restami nel palagio ancor la madre?

O alcun de' proci disposolla, e nudo

Di coltri e strati, e ai sozzi aragni in preda

Giace del figlio di Laerte il letto?"

"Nel tuo palagio", ripigliava Eumèo,

"Riman con alma intrepida la madre,

Benché nel pianto a lei passino i giorni,

Passin le notti; ed ella viva indarno".

Ciò detto, l'asta dalla man gli prese,

E Telemaco il piè mettea sul marmo

Della soglia; ed entrava. Ulisse a lui

Lo scanno, in cui sedea, cesse; ma egli

Dal lato suo non consentìalo, e: "Statti,

Forestier", disse, "assiso; un altro seggio

Noi troverem nella capanna nostra.

Né quell'uomo è lontan, che dar mel puote".

Ulisse, indietro fAttosi, di nuovo

Sedea. Ma il saggio guardïan distese

Virgulti verdi e una vellosa pelle,

E il garzon vi adagiò. Poi le rimaste

Del giorno addietro abbrustolate carni

Lor recò su i taglieri; e, ne' canestri

Posti l'un sovra l'altro in fretta i pani,

E il rosso vino nelle tazze infuso,

Ad Ulisse di contra egli s'assise.

Sbramato della mensa ebbero appena

Il desiderio natural, che queste

Telemaco ad Eumèo drizzò parole:

"Babbo, d'onde quest'ospite? In che guisa

E quai nocchieri ad Itaca il menâro?

Certo a piedi su l'onda ei qua non venne".

E tu così gli rispondesti, Eumèo:

"Nulla, figliuol, ti celerò. Natìo

Dell'ampia Creta egli si vanta, e dice

Molti paesi errando aver trascorsi

Per volontà d'un nume avverso. Al fine

Si calò giù da una Tesprozia nave,

E al mio tugurio trasse. Io tel consegno.

Quel che tu vuoi, ne fa': sol ti rammenta

Ch'ei di tuo supplicante ambisce il nome".

"Grave al mio cor", Telemaco riprese,

"Parola, Eumèo, tu proferisti. Come

L'ospite ricettar nella paterna

Magion poss'io? Troppo io son verde ancora,

Né respinger da lui con questo braccio

Chi primo l'assalisse, io mi confido.

La madre sta infra due, se, rispettando

La comun voce e il marital suo letto,

Viva col figlio e la magion governi;

O a quel s'unisca degli Achei, che doni

Le presenta più ricchi ed è più prode.

Bensì al tuo forestier tunica e manto,

E una spada a due tagli e bei calzari

Dar voglio, e là invïarlo, ov'ei desìa.

Che se a te piace ritenerlo, e cura

Prenderne, io vesti e d'ogni sorta cibi,

Perché te non consumi e i tuoi compagni,

Qua manderò. Ma ch'ei s'accosti ai proci,

Che d'ingiurie il feriscano e d'oltraggi

Con dolor mio, non sarà mai ch'io soffra.

Che potrìa contro a tanti e sì valenti

Nemici un sol, benché animoso e forte?"

"Nobile amico", così allora Ulisse,

"Se anco a me favellare or si concede,

Il cor nel petto mi si rode, udendo

La indegnitade in tua magion de' proci,

Mentre di tal sembiante io pur ti veggo.

Cedi tu volontario? O in odio forse

Per l'oracolo d'un dio t'ha la cittade?

O i fratelli abbandónanti, cui tanto

S'affida l'uom nelle più dure imprese?

Perché con questo cor l'età mia prima

Non ho? Perché non son d'Ulisse il figlio?

Perché Ulisse non son? Vorrei che tronco

Per mano estrana mi cadesse il capo,

S'io, nella reggia penetrando, tutti

Non mandassi in rovina. E quando ancora

Me soverchiasse l'infinita turba,

Perir torrei nella mia reggia ucciso

Pria che mirar tuttora opre sì turpi,

Gli ospiti mal menati, vïolate

(Ahi colpa!) le fantesche, ed inghiottito

A caso, indarno e senza fine o frutto,

Quanto si miete ogni anno e si vendemmia.

"Straniero", eccoti il ver, ratto rispose

Il prudente Telemaco: "non tutti

M'odiano i cittadin, né de' fratelli,

Cui tanto l'uom nelle più dubbie imprese

Suole appoggiarsi, richiamarmi io posso.

Volle il Saturnio che di nostra stirpe

D'età in età spuntasse un sol rampollo.

Arcesio generò Laerte solo,

Laerte il solo Ulisse, e poscia Ulisse

Me lasciò nel palagio, unico figlio

Di cui poco godé: quindi piantossi

Nemica gente al nostro albergo in seno.

Quanti ha Dulichio e Same e la selvosa

Zacinto e la pietrosa Itaca prenci,

Ciascun la destra della madre agogna.

Ella né rigettar può, né fermare

Le inamabili nozze. Intanto i proci

Coprono i deschi con le pingui membra

Delle sgozzate vittime, e gli averi

Mi struggon tutti; né anderá molto forse,

Che più grata sarò vittima io stesso;

Ma ciò de' numi su i ginocchi posa.

Babbo, tu vanne rapido, e alla madre

Narra che salvo io le tornai da Pilo.

Così nárralo a lei, che alcun non t'oda

Degli Achivi e qua riedi, ov'io m'arresto.

Ben sai che molti del mio sangue han sete".

E tu in risposta gli dicesti, Eumèo:

"Conosco, veggo: ad uom che intende, parli.

Ma non vorrai che messo all'infelice

Laerte ancor per la via stessa io vada?

Ei, pensoso d'Ulisse un tempo e tristo,

Pur dei campi ai lavor guardava intento,

E dove brama nel pungesse, in casa

Pasteggiava co' servi. Ed oggi è fama

Che da quel dì che navigasti a Pilo,

Né pasteggiò co' servi, né de' campi

Più ai lavori guardò: ma sospirando

Siede e piangendo, e alle scarne ossa intanto

S'affigge, ohimè! l'inaridita cute".

"Gran pietade"Télemaco riprese,

"Ma lasciamolo ancor per brevi istanti

Nella sua doglia. Se in man nostra tutto

Fosse, il ritorno a procurar del padre

Non si rivolgerebbe ogni mia cura?

Esponi adunque l'imbasciata, e riedi,

Né a lui pe' campi divertir; ma solo

Priega la madre, che in tua vece al vecchio

Secreta imbasciatrice e frettolosa

La veneranda economa destini.

Detto così, eccitollo; ed ei con mano

Presi i calzari, e avvìntiseli ai piedi,

Subitamente alla città tendea.

Non partì dalla stalla il buon custode,

Che l'armigera dea non se ne addesse.

Scese dal cielo e somigliante in vista

A bella e grande e de' più bei lavori

Femmina esperta, si fermò alla porta

Del padiglion di contra, e a Ulisse apparve.

Telemaco non vìdela: ché a tutti

Non si mostran gl'Iddii. Videla il padre,

E i mastini la videro, che a lei

Non abbaiAr, ma del cortil nel fondo

Trepidi si celâro e guaiolanti.

Ella accennò co' sopraccigli, e il padre

La intese, ed uscì fuori, e innanzi stette

Nella corte alla dea, che sì gli disse:

"O Laerzìade generoso e accorto,

Tempo è che al tuo figliuol tu ti palesi,

Onde, sterminio meditando ai proci,

Moviate uniti alla città. Vicina

Ed accinta a pugnar, tosto m'avrete".

Tacque Minerva, e della verga d'oro

Toccollo. Ed ecco circondargli a un tratto

Belle vesti le membra, e il corpo farsi

Più grande e più robusto ecco le guance

Stendersi, e già ricolorarsi in bruno,

E all'azzurro tirar su per lo mento

I peli, che parean d'argento in prima.

La dea sparì, rïentrò Ulisse; e il figlio,

Da maraviglia preso e da terrore,

Chinò gli sguardi, e poscia: "Ospite", disse,

"Altro da quel di prima or mi ti mostri,

Altri panni tu vesti, ed a te stesso

Più non somigli. Alcun per fermo sei

Degli abitanti dell'Olimpo. Amico

Guárdane, acciò per noi vittime grate,

Grati s'offrano a te doni nell'oro

Con arte sculti: ma tu a noi perdona".

"Non sono alcun degl'Immortali", Ulisse

Gli rispondea. "Perché agli dèi m'agguagli?

Tuo padre io son: quel per cui tante soffri

Nella tua fresca età sciagure ed onte".

Così dicendo baciò il figlio, e al pianto,

Che dentro gli occhi avea costantemente

Ritenuto sin qui, l'uscita aperse.

Telemaco d'aver su gli occhi il padre

Credere ancor non sa. "No", replicava,

"Ulisse tu, tu il genitor non sei,

Ma per maggior mia pena un dio m'inganna.

Tai cose oprar non vale uom da se stesso,

Ed è mestier che a suo talento il voglia

Ringiovanire, od invecchiarlo, un nume.

Bianco i capei testé, turpe le vesti

Eri, ed ora un Celicola pareggi".

"Telemaco", riprese il saggio eroe,

"Poco per veritade a te s'addice,

Mentre possiedi il caro padre, solo

Maraviglia da lui trarre e spavento:

Ché un altro Ulisse aspetteresti indarno.

Si, quello io son, che dopo tanti affanni

Durati e tanti, nel vigesim'anno

La mia patria rividi. Opra fu questa

Della Tritonia bellicosa diva,

Che qual più aggrada a lei, tale mi forma:

Ora un canuto mendicante, e quando

Giovane con bei panni al corpo intorno:

Però che alzare un de' mortali al cielo,

O negli abissi porlo, è lieve ai numi".

Così detto, s'assise. Il figlio allora

Del genitor s'abbandonò sul collo,

In lagrime scoppiando ed in singhiozzi.

Ambi un vivo desir sentìan del pianto:

Né di voci sì flebili e stridenti

Risonar s'ode il saccheggiato nido

D'aquila o d'avoltoio, a cui pastore

Rubò i figliuoli non ancor pennuti,

Come de' pianti loro e delle grida

Miseramente il padiglion sonava.

E già piagnenti e sospirosi ancora

Lasciati avrìali, tramontando, il Sole,

Se il figlio al padre non dicea: "Qual nave,

Padre, qua ti condusse, e quai nocchieri?

Certo in Itaca il piè non ti portava".

"Celerò il vero a te?" l'eroe rispose,

"I Feaci sul mar dotti, e di quanti

Giungono errando alle lor piagge industri

Riconduttori, me su ratta nave

Dormendo per le salse onde guidâro,

E in Itaca deposero. Mi fêro

Di bronzo in oltre e d'oro e intesti panni

Bei doni, e molti, che in profonde grotte

Per consiglio divin giaccionmi ascosi.

Ed io qua venni al fin, teco de' proci

Nostri nemici a divisar la strage,

Con l'avviso di Pallade. Su via,

Cóntali a me, si ch'io conosca, quanti

Uomini sono e quali, e nella mente

Libri, se contra lor combatter soli,

O in aiuto chiamare altri convegna".

"O padre mio", Telemaco riprese,

"Io sempre udìa te celebrar la fama

Bellicoso di man, di mente accorto:

Ma tu cosa dicesti or gigantesca

Cotanto che alta maraviglia tiemmi:

Due soli battagliar con molti e forti?

Non pensar che a una decade o due sole

Montin: sono assai più. Cinquantadue

Giovani eletti da Dulichio uscîro,

E sei donzelli li seguìano. Venti

Ne mandò Same e quattro; e abbandonâro

Venti Zacinto. Itaca stessa danne

Dodici, e tutti prodi; e v'ha con essi

Medonte araldo ed il cantor divino,

E due dell'arte loro incliti scalchi.

Ci affronterem con questa turba intera,

Che la nostra magion possiede a forza?

Temo che allegra non ne avrem vendetta.

Se rinvenir si può chi a noi soccorra

Con pronto braccio e cor dunque tu pensa".

"Chi a noi soccorra?" rispondeagli Ulisse.

"Giudicar lascio a te, figlio diletto,

Se Pallade a noi basti, e basti Giove,

O cercar d'altri, che ci aiuti, io deggia".

E il prudente Telemaco: "Quantunque

Siedan lungi da noi su l'alte nubi,

Nessun ci può meglio aiutar di loro,

Che su i mortali imperano e su i Divi".

"Non sederan da noi lungi gran tempo",

Il saggio Ulisse ripigliava, "quando

Sarà della gran lite arbitro Marte.

Ma tu il palagio su l'aprir dell'alba

Trova, e t'aggira tra i superbi proci.

Me poi simile in vista ad un mendìco

Dispregevole vecchio il fido Eumèo

Nella cittade condurrà. Se oltraggio

Mi verrà fatto tra le nostre mura,

Soffrilo; e dove ancor tu mi vedessi

Trar per il piè fuor della soglia, o segno

D'acerbi colpi far, lo sdegno affrena.

Sol di cessar dalle follìe gli esorta,

Parole usando di mèle consperse,

A cui non baderan: però che pende

L'ultimo sovra lor giorno fatale.

Altro dirôtti, e tu fedel conserva

Nel tuo petto ne fa'. Sei tu mio figlio?

Scorre per le tue vene il sangue mio?

Non oda alcun ch'è in sua magione Ulisse;

E né a Laerte pur, né al fido Eumèo,

Né alla stessa Penelope, ne venga.

Noi soli spïerem, tu ed io, l'ingegno

Dell'ancelle e de' servi; e vedrem noi,

Qual ci rispetti e nel suo cuor ci tema,

O quale a me non guardi e te non curi,

Benché fuor dell'infanzia, e non da ieri".

"Padre", riprese il giovinetto illustre,

"Spero che me conoscerai tra poco,

E ch'io né ignavo ti parrò, né folle.

Ma troppo utile a noi questa ricerca,

Credo, non fôra; e ciò pesar ti stringo.

Vagar dovresti lungamente e indarno

Visitando i lavori e ciascun servo

Tentando; e intanto i proci entro il palagio

Ogni sostanza tua struggon tranquilli.

Ben tastar puoi delle fantesche l'alma

Qual colpevole sia, quale innocente:

Ma de' famigli a investigar pe' campi

Soprastare io vorrei, se di vittoria

Segno ti diè l'egidarmato Giove".

Mentre si fean da lor queste parole,

La nave, che Telemaco e i compagni

Condotti avea da Pilo, alla cittade

Giunse e nel porto entrò. Tirâro in secco

Gli abili servi e disarmâro il legno,

E di Clito alla casa i prezïosi

Doni recAro dell'Atride. In oltre

Mosse un araldo alla magion d'Ulisse

Nunzïando a Penelope che il figlio

Ne' campi suoi si trattenea, perch'ella,

Visto entrar senza lui nel porto il legno,

Di nuovo pianto non bagnasse il volto.

L'araldo ed il pastor diêr l'un nell'altro

Con la stessa imbasciata entro i lor petti.

Né pria varcar della magion la soglia,

Che il banditor gridò tra le fantesche:

"Reina, è giunto il tuo diletto figlio".

Ma il pastore a lei sola e all'orecchio,

Ciò tutto espose, che versato in core

Telemaco gli avea: quindi alle mandre

Ritornare affrettavasi, l'eccelse

Case lasciando, e gli steccati a tergo.

Ma tristezza e dolor l'animo invase

De' proci. Uscîro del palagio, il vasto

Cortile attraversAro, ed alle porte

Sedean davanti! "Amici", in cotal guisa

Eurìmaco a parlar tra lor fu il primo:

"Ebben, che dite voi di questo, a cui

Fede sì poca ciaschedun prestava,

Vïaggio di Telemaco? Gran cosa

Certo, e condotta audacemente a fine.

Convien nave mandar delle migliori

Con buoni remiganti, acciocchè torni

Quella di botto, che Agli agguati stava".

Profferte non avea l'ultime voci,

Che Anfinomo, rivolti al lido gli occhi,

Un legno scorse nel profondo porto,

Ed altri intesi a ripiegar le vele,

Altri i remi a deporre, e, dolcemente

Ridendo: "Non s'invii messaggio alcuno,

Disse; già dentro sono: o un nume accorti

Li fece, o trapassar videro, o indarno

Giunger tentáro del garzon la nave".

Sorsero, e al lito andro. Il negro legno

Fu tratto in secco, e disarmato; e tutti

Per consultar si radunaro i proci.

Né con lor permettean che altri sedesse,

Giovane o vecchio; e così Antinoo disse:

"Poh! come a tempo il dilivraro i numi!

L'intero dì su le ventose cime

A vicenda sedean gli esploratori:

Poi, dato volta il sol, la notte a terra

Mai non passammo, ma su ratta nave

Stancavam l'onde sino ai primi albori,

Tendendo insidie al giovane, e l'estremo

Preparandogli eccidio. E non pertanto

Nella sua patria il ricondusse un dio.

Consultiam dunque, come certa morte

Dare al giovine qui. Speriamo indarno

La nostra impresa maturar, s'ei vive:

Ché non gli falla il senno, e a favor nostro

La gente, come un dì, più non inchina.

Non aspettiam che a parlamento ei chiami

Gli Achivi tutti, né crediam che lento

Si mostri, e molle troppo. Arder di sdegno

Véggolo, e, sorto in piè, dir che ruina

Noi gli ordivamo, e che andò il colpo a vôto,

Prevenirlo è mestieri, e o su la via

Della cittade spegnerlo, o ne' campi.

Non piace forse a voi la mia favella,

E bramate ch'ei viva, e del paterno

Retaggio goda interamente? Adunque

Noi dal fruirlo ritiriamci, l'uno

Disgiungasi dall'altro, e al proprio albergo

Si renda. Indi Penelope richieda,

E quel cui sceglie il fato, e che offre a lei

Più ricchi doni la regina impalmi".

Tutti ammutîro a cotai voci. Al fine

Sorse tra lor dell'Arezìade Niso

La regia prole, Anfinomo, che, duce

Di quei competitor che dal ferace

Dulichio uscîro, e di più sana mente

Tra i rivali dotato, alla regina

Men, che ogni altro, sgradìa co' detti suoi:

"Amici", disse, "troppo forte impresa

Struggere affatto un real germe. I numi

Domandiamone in pria. Sarà di Giove

Questo il voler? Vibrerò il colpo io stesso,

Non che gli altri animar; dov'ei decreti

Diversamente, io vi consiglio starvi".

Così d'Arezio il figlio, e non indarno.

S'alzaro, e rïentrâr nell'ampia sala,

E sovra i seggi nitidi posaro.

Ma la casta Penelope, che udito

Avea per bocca del fedel Medonte

Il mortal rischio del figliuol, consiglio

Prese di comparire ai tracotanti

Proci davante. La divina donna

Uscì dell'erma stanza; e con le ancelle

Sul limitar della dedalea sala

Giunta, e adombrando co' sottili veli,

Che le pendean dal capo, ambe le guance,

Antinoo rampognava in questi accenti:

Antinoo, alma oltraggiosa, e di sciagure

Macchinator, nella città v'ha dunque

Chi tra gli eguali tuoi primo vantarti

Per saggezza osi, e per facondia? Tale

Giammai non fosti. Insano! e al par che insano

Empio, che di Telemaco alla vita

Miri e non cùri i supplici, per cui

Giove dall'alto si dichiara. Ignoto

Forse ti fu sin qui, che fuggitivo

Qua riparava e sbigottito un giorno

Il padre tuo, che de' Tesproti a danno

Co' Tafî predator s'era congiunto?

Nostri amici eran quelli, e porlo a morte

Voleano, il cor volean trargli del petto,

Non che i suoi campi disertar: ma Ulisse

Si levò, si frammise; e, benché ardenti,

Li ritenea. Tu di quest'uom la casa

Ruini e disonori; la consorte

Ne ambisci, uccidi il figlio, e me nel fondo

Sommergi delle cure. Ah! cessa, e agli altri

Cessare ancor, quanto è da te, comanda".

"Figlia illustre d'Icario", a lei rispose

Eurimaco di Pòlibo, "fa' core,

E sì tristi pensier da te discaccia.

Non è, non fu, non sarà mai chi ardisca

Contra il figlio d'Ulisse alzar la mano,

Me vivo, e con questi occhi in fronte aperti.

Di cotestui, cosa non dubbia, il nero

Sangue scorrerìa giù per la mia lancia.

Me il distruttor delle cittadi Ulisse

Tolse non rado sovra i suoi ginocchi,

Le incotte carni nella man mi pose,

L'almo licor m'offrì. Quindi uom più caro

Io non ho di Telemaco, e non voglio

Che la morte dai proci egli paventi.

Se la mandan gli dèi, chi può scamparne?"

Così dicea, lei confortando, e intanto

L'eccidio del figliuol gli stava in core.

Ma ella salse alle sue stanze, dove

A lagrimar si dava il suo consorte,

Finché, per tregua a tanti affanni, un dolce

Sonno invïolle l'occhiglauca Palla.

Con la notte comparve il fido Eumèo

Ad Ulisse ed a Telemaco, che, pingue

Sagrificato ai numi adulto porco,

Lauta se ne allestìan cena in quel punto.

Se non che Palla al Laerziade appresso

Fecesi, e lui della sua verga tocco,

Nella vecchiezza il ritornò di prima

E ne' primi suoi cenci; onde il pastore

Non ravvisasse in faccia, e, mal potendo

Premer nel cor la subitanea gioia,

Con l'annunzio a Penelope non gisse.

"Ben venga il buon pastor! così primiero."

Telemaco parlò. "Qual corre grido

Per la città? Vi rïentrâro i proci?

O mi tendon sul mare insidie ancora?"

E tu così gli rispondesti Eumèo:

"La mente a questo io non avea, passando

Fra i cittadini: ché portar l'avviso,

E di botto redir, fu sol mia cura.

Bensì m'avvenni al banditor, che primo

Corse parlando alla Regina. Un'altra

Cosa dirò, quando la vidi io stesso.

Prendendo il monte che a Mercurio sorge,

E la cittade signoreggia, vidi

Rapidamente scendere nel porto

Nave d'uomini piena, e d'aste acute

Carca e di scudi. Sospettai che il legno

Fosse de' proci; né più avanti io seppi".

A tai voci Telemaco sorrise,

Pur sogguardando il padre e gli occhi a un tempo

Del custode schivando. A questo modo

Fornita ogni opra e già parati i cibi,

D'una egual parte in questi ognun godea.

Ma come il lor desìo più non richiese,

Si corcâro al fin tutti, ed il salubre

Dono del sonno ricettâr nel petto.