Odissea
LIBRO I
Musa,
quell'uom di multiforme ingegno
Dimmi,
che molto errò, poich'ebbe a terra
Gittate
d'Ilïòn le sacre torri;
Che
città vide molte, e delle genti
L'indol
conobbe; che sovr'esso il mare
Molti
dentro del cor sofferse affanni,
Mentre
a guardar la cara vita intende,
E i
suoi compagni a ricondur: ma indarno
Ricondur
desïava i suoi compagni,
Ché
delle colpe lor tutti periro.
Stolti!
che osaro vïolare i sacri
Al Sole
Iperïon candidi buoi
Con
empio dente, ed irritâro il nume,
Che del
ritorno il dì lor non addusse.
Deh!
parte almen di sì ammirande cose
Narra
anco a noi, di Giove figlia e diva.
Già
tutti i Greci, che la nera Parca
Rapiti
non avea, ne' loro alberghi
Fuor
dell'arme sedeano e fuor dell'onde;
Sol dal
suo regno e dalla casta donna
Rimanea
lungi Ulisse: il ritenea
Nel
cavo sen di solitarie grotte
La
bella venerabile Calipso,
Che
unirsi a lui di maritali nodi
Bramava
pur, ninfa quantunque e diva.
E
poiché giunse al fin, volvendo gli anni,
La
destinata dagli dèi stagione
Del suo
ritorno, in Itaca, novelle
Tra i
fidi amici ancor pene durava.
Tutti
pietà ne risentìan gli eterni,
Salvo
Nettuno, in cui l'antico sdegno
Prima
non si stancò, che alla sua terra
Venuto
fosse il pellegrino illustre.
Ma del
mondo ai confini e alla remota
Gente
degli Etïòpi (in duo divisa,
Ver cui
quinci il sorgente ed il cadente
Sole
gli obbliqui rai quindi saetta)
Nettun
condotto a un ecatombe s'era
Di
pingui tori e di montoni; ed ivi
Rallegrava
i pensieri, a mensa assiso.
In
questo mezzo gli altri dèi raccolti
Nella
gran reggia dell'olimpio Giove
Stavansi.
E primo a favellar tra loro
Fu
degli uomini il padre e de' celesti,
Che il
bello Egisto rimembrava, a cui
Tolto
avea di sua man la vita Oreste,
L'inclito
figlio del più vecchio Atride.
"Poh!"
disse Giove, "incolperà l'uom dunque
Sempre
gli dèi? Quando a se stesso i mali
Fabbrica,
de' suoi mali a noi dà carco,
E la
stoltezza sua chiama destino.
Così,
non tratto dal destino, Egisto
Disposó
d'Agamennone la donna,
E lui,
da Troia ritornato, spense;
Benché
conscio dell'ultima ruina
Che
l'Argicida esplorator Mercurio,
Da noi
mandato, prediceagli: "Astienti
Dal
sangue dell'Atride, ed il suo letto
Guàrdati
di salir; ché alta vendetta
Ne farà
Oreste, come il volto adorni
Della
prima lanuggine e lo sguardo
Verso
il retaggio de' suoi padri volga".
Ma
questi di Mercurio utili avvisi
Colui
nell'alma non accolse: quindi
Pagò il
fio d'ogni colpa in un sol punto".
"Di
Saturno figliuol, padre de' numi,
Re de'
regnanti", così a lui rispose
L'occhiazzurra
Minerva: "egli era dritto
Che colui
non vivesse: in simil foggia
Pera
chïunque in simil foggia vive!
Ma io
di doglia per l'egregio Ulisse
Mi
struggo, lasso! che, da' suoi lontano,
Giorni
conduce di rammarco in quella
Isola,
che del mar giace nel cuore,
E di
selve nereggia;:isola, dove
Soggiorna
entro alle sue celle secrete
L'immortal
figlia di quel saggio Atlante,
Che del
mar tutto i più riposti fondi
Conosce
e regge le colonne immense
Che la
volta sopportano del cielo.
Pensoso,
inconsolabile, l'accorta ninfa
il
ritiene e con soavi e molli
Parolette
carezzalo, se mai
Potesse
Itaca sua trargli dal petto:
Ma ei
non brama che veder dai tetti
Sbalzar
della sua dolce Itaca il fumo,
E poi
chiuder per sempre al giorno i lumi.
Né
commuovere, Olimpio, il cuor ti senti?
Grati
d'Ulisse i sagrifici, al greco
Navile
appresso, ne' troiani campi,
Non
t'eran forse? Onde rancor sì fiero,
Giove,
contra lui dunque in te s'alletta?"
"Figlia,
qual ti lasciasti uscir parola
Dalla
chiostra de' denti?" allor riprese
L'eterno
delle nubi addensatore:
"Io
l'uom preclaro disgradir, che in senno
Vince
tutti i mortali, e gl'Immortali
Sempre
onorò di sacrifici opìmi?
Nettuno,
il nume che la terra cinge,
D'infurïar
non resta pel divino
Suo
Polifemo, a cui lo scaltro Ulisse
Dell'unic'occhio
vedovò la fronte,
Benché
possente più d'ogni Ciclope:
Pel
divin Polifemo, che Toòsa
Partorì
al nume, che pria lei soletta
Di
Forco, re degl'infecondi mari,
Nelle
cave trovò paterne grotte.
Lo
scuotitor della terrena mole
Dalla
patria il disvia da quell'istante,
E,
lasciandolo in vita, a errar su i neri
Flutti
lo sforza. Or via, pensiam del modo
Che
l'infelice rieda; e che Nettuno
L'ire
deponga. Pugnerà con tutti
Gli
eterni ei solo? Il tenterebbe indarno."
"Di
Saturno figliuol, padre de' numi,
De'
regi re," replicò a lui la diva
Cui
tinge gli occhi un'azzurrina luce,
"Se
il ritorno d'Ulisse a tutti aggrada,
Ché non
s'invìa nell'isola d'Ogige
L'ambasciator
Mercurio, il qual veloce
Rechi
alla ninfa dalle belle trecce,
Com'è
fermo voler de' sempiterni
Che
Ulisse alfine il natìo suol rivegga?
Scesa
in Itaca intanto, animo e forza
Nel
figlio io spirerò, perch'ei, chiamati
Gli
Achei criniti a parlamento, imbrigli
Que'
proci baldi, che nel suo palagio
L'intero
gregge sgòzzangli, e l'armento
Dai
piedi torti e dalle torte corna.
Ciò
fatto, a Pilo io manderollo e a Sparta,
Acciocché
sappia del suo caro padre,
Se
udirne gli avvenisse in qualche parte,
Ed
anch'ei fama, vïaggiando, acquisti."
Detto
così, sotto l'eterne piante
Si
strinse i bei talar d'oro, immortali,
Che lei
sul mar, lei su l'immensa terra
Col
soffio trasportavano del vento.
Poi la
grande afferrò lancia pesante,
Forte,
massiccia, di appuntato rame
Guernita
in cima, onde le intere doma
Falangi
degli eroi, con cui si sdegna,
E a cui
sentir fa di qual padre è nata.
Dagli
alti gioghi del beato Olimpo
Rapidamente
in Itaca discese.
Si
fermò all'atrio del palagio in faccia,
Del
cortil su la soglia, e le sembianze
Vesti
di Mente, il condottier de' Tafî.
La
forbita in sua man lancia sfavilla.
Nel
regale atrio, e su le fresche pelli
Degli
uccisi da lor pingui giovenchi
Sedeano,
e trastullavansi tra loro
Con gli
schierati combattenti bossi
Della
Regina i mal vissuti drudi.
Trascorrean
qua e là serventi e araldi
Frattanto:
altri mescean nelle capaci
Urne
l'umor dell'uva e il fresco fonte.
Altri
le mense con forata e ingorda
Spugna
tergeano, e le metteano innanzi,
E le
molte partìan fumanti carni.
Simile
a un dio nella beltà, ma lieto
Non già
dentro del sen, sedea tra i proci
Telemaco:
mirava entro il suo spirto
L'inclito
genitor, qual s'ei, d'alcuna
Parte
spuntando, a sbaragliar si desse
Per
l'ampia sala gli abborriti prenci,
E
l'onor prisco a ricovrar e il regno.
Fra
cotali pensier Pallade scorse,
Né
soffrendogli il cor che lo straniero
A cielo
aperto lungamente stesse,
Dritto
uscì fuor, s'accostò ad essa, prese
Con una
man la sua, con l'altra l'asta,
E
queste le drizzò parole alate:
"Forestier,
salve. Accoglimento amico
Tu
avrai, sporrai le brame tue: ma prima
Vieni i
tuoi spirti a rinfrancar col cibo".
Ciò
detto, innanzi andava, ed il seguìa
Minerva.
Entrati nell'eccelso albergo,
Telemaco
portò l'asta, e appoggiolla
A
sublime colonna, ove, in astiera,
Nitida,
molte dell'invitto Ulisse
Dormiano
arme simìli. Indi a posarsi
Su
nobil seggio con sgabello ai piedi
La dea
menò, stesovi sopra un vago
Tappeto
ad arte intesto; e un varïato
Scanno
vicin di lei pose a se stesso.
Così,
scevri ambo dagli arditi proci,
Quell'impronto
frastuon l'ospite a mensa
Non
disagiava, e dell'assente padre
Telemaco
potea cercarlo a un tempo.
Ma
scorta ancella da bel vaso d'oro
Purissim'onda
nel bacil d'argento
Versava,
e stendea loro un liscio desco,
Su cui
la saggia dispensiera i pani
Venne a
impor candidissimi, e di pronte
Dapi
serbate generosa copia;
E carni
d'ogni sorta in larghi piatti
Recò
l'abile scalco, ed auree tazze,
Che,
del succo de' grappoli ricolme,
Lor
presentava il banditor solerte.
Entraro
i proci, ed i sedili e i troni
Per
ordine occuparo: acqua gli araldi
Diero
alle mani, e di recente pane
I
ritondi canestri empièr le ancelle.
Ma in
quel che i proci all'imbandito pasto
Stendean
la man superba, incoronaro
Di
vermiglio licor l'urne i donzelli.
Tosto
che in lor del pasteggiar fu pago,
Pago
del bere il natural talento,
Volgeano
ad altro il core: al canto e al ballo
Che gli
ornamenti son d'ogni convito.
Ed
un'argentea cetera l'araldo
Porse
al buon Femio, che per forza il canto
Tra gli
amanti sciogliea. Mentr'ei le corde
Ne
ricercava con maestre dita,
Telemaco,
piegando in vêr la dea,
Sì che
altri udirlo non potesse, il capo,
Le
parlava in tal guisa: "Ospite caro,
Ti sdegnerai
se l'alma io t'apro? In mente
Non han
costor che suoni e canti. Il credo:!
Siedono
impune agli altrui deschi, ai deschi
Di tal,
le cui bianche ossa in qualche terra
Giacciono
a imputridir sotto la pioggia,
O le
volve nel mare il negro flutto.
Ma s'egli
mai lor s'affacciasse un giorno,
Ben più
che in dosso i ricchi panni e l'oro,
Aver
l'ali vorrebbero alle piante.
Vani
desìri! Una funesta morte
Certo
ei trovò, speme non resta, e invano
Favellariami
alcun del suo ritorno;
Del suo
ritorno il dì più non s'accende.
Su via,
ciò dimmi, e non m'asconder nulla:
Chi? di
che loco? e di che sangue sei?
Con
quai nocchier venìstu, e per qual modo
E su
qual nave, in Itaca? Pedone
Giunto,
per alcun patto io non ti credo.
Di
questo tu mi contenta: nuovo
Giungi,
o al mio genitor t'unisce il nodo
Dell'ospitalità?
Molti stranieri
A' suoi
tetti accostavansi; ché Ulisse
Voltava
in sé d'ogni mortale il core".
"Tutto
da me", gli rispondea la diva
Che
cerùleo splendor porta negli occhi,
T'udrai
narrare. Io Mente esser mi vanto,
Figliuol
d'Anchìalo bellicoso, e ai vaghi
Del
trascorrere il mar Tafî comando.
Con
nave io giunsi e remiganti miei,
Fendendo
le salate onde, vêr gente
D'altro
linguaggio, e a Temesa recando
Ferro
brunito per temprato rame,
Ch'io
ne trarrò. Dalla città lontano
Fermossi
e sotto il Neo frondichiomoso,
Nella
baia di Retro il mio naviglio.
Sì,
d'ospitalità vincol m'unisce
Col
padre tuo. Chieder ne puoi l'antico,
Ristringendoti
seco, eroe Laerte,
Che a
città, com'è fama, or più non viene;
Ma vita
vive solitaria e trista
Ne'
campi suoi, con vecchierella fante,
Che,
quandunque tornar dalla feconda
Vigna,
per dove si trae a stento, il vede,
Di cibo
il riconforta e di bevanda.
Me qua
condusse una bugiarda voce,
Fosse
il tuo padre di Itaca, da cui
Stornanlo
i numi ancor; ché tra gli estinti
L'illustre
pellegrin, no, non comparve,
Ma
vivo, e a forza in barbara contrada,
Cui
cerchia un vasto mar, gente crudele
Rattienlo:
lo rattien gente crudele
Vivo,
ed a forza in barbara contrada.
Pur,
benché il vanto di profeta, o quello
D'augure
insigne io non m'arroghi, ascolta
Presagio
non fallace che su i labbri
Mettono
a me gli eterni. Ulisse troppo
Non
rimarrà della sua patria in bando,
Lo
stringessero ancor ferrei legami.
Da quai
legami uom di cotanti ingegni
Disvilupparsi
non sapria? Ma schietto
Parla:
sei tu vera sua prole? Certo
Nel
capo e ne' leggiadri occhi ad Ulisse
Molto
arïeggi tu. Pria che per Troia,
Che
tutto a sé chiamò di Grecia il fiore,
Sciogliesse
anch'ei su le cavate navi,
Io,
come oggi appo il tuo, così sedea
Spesse
volte al suo fianco, ed egli al mio.
D'allora
io non più lui, né me vid'egli".
E il
prudente Telemaco: "Sincero
Risponderò.
Me di lui nato afferma
La
madre veneranda. E chi fu mai
Che per
se stesso conoscesse il padre?
Oh
foss'io figlio d'un che una tranquilla
Vecchiezza
côlto ne' suoi tetti avesse!
Ma,
poiché tu mel chiedi, al più infelice
Degli
uomini la vita, ospite, io deggio".
"Se
ad Ulisse Penelope", riprese
Pallade
allor dalle cilestre luci,
"Ti
generò, vollero i dèi che gisse
Chiaro
il tuo nome ai secoli più tardi.
Garzon,
dal ver non ti partir: che festa,
Che
turba è qui? Qual ti sovrasta cura?
Convito?
Nozze? Genial non parmi
A carco
di ciascun mensa imbandita.
Parmi
banchetto sì oltraggioso e turpe,
Che
mirarlo, e non irne in foco d'ira,
Mal può
chïunque un'alma in petto chiuda".
Ed il
giovane a lui: "Quando tu brami
Saper
cotanto delle mie vicende,
Abbi
che al mondo non fu mai di questa
Né
ricca più, né più innocente casa,
Finché
quell'uomo il piè dentro vi tenne.
Ma
piacque altro agli dèi, che, divisando
Sinistri
eventi, per le vie più oscure,
Quel
che mi cuoce più, sparir mel fêro.
Piangerei,
sì, ma di dolcezza vôto
Non
fôra il lagrimar, s'ei presso a Troia
Cadea
pugnando, o vincitor chiudea
Tra i
suoi più cari in Itaca le ciglia.
Alzato
avriangli un monumento i Greci,
Che di
gloria immortale al figlio ancora
Stato
sarebbe. Or lui le crude Arpìe
Ignobilmente
per lo ciel rapiro:
Perì
non visto, non udito, e al figlio
Sol di
sturbi e di guai lasciò retaggio.
Ché lui
solo io non piango: altre e non poche
Mi
fabbricaro i numi acerbe cose.
Quanti
ha Dulichio e Samo e la boscosa
Zacinto,
e la pietrosa Itaca prenci,
Ciascun
la destra della madre agogna.
Ella né
rigettar può, né fermare
Le
inamabili nozze. Intanto i proci,
Da mane
a sera banchettando, tutte
Le
sostanze mi struggono e gli averi;
Né
molto andrà che struggeran me stesso".
S'intenerì
Minerva, e: "Oh quanto", disse,
"A
te bisogna il genitor, che metta
La
ultrice man su i chieditori audaci!
Sol
ch'ei con elmo e scudo, e con due lance
Sul
limitar del suo palagio appena
Si
presentasse, quale io prima il vidi,
Che,
ritornato d'Efira, alla nostra
Mensa
ospital si giocondava assiso,
(Ratto
ad Efira andò chiedendo ad Ilo,
Di
Mèrmero al figliuol, velen mortale,
Onde le
frecce unger volea, veleno
Che non
dal Mermerìde, in cui de' numi
Era
grande il timor, ma poscia ottenne
Dal
padre mio, che fieramente ammollo)
Sol
ch'ei così si presentasse armato,
De'
proci non sarìa, cui non tornasse
Breve
la vita e il maritaggio amaro.
Ma
venir debba di sì trista gente
A
vendicarsi o no, su le ginocchia
Sta
degli dèi. Ben di sgombrarla quinci,
Vuolsi
l'arte pensare. Alle mie voci
Porrai
tu mente? Come il ciel s'inalbi,
De'
Greci i capi a parlamento invita,
Ragiona
franco ad essi e al popol tutto,
Chiamando
i numi in testimonio, e ai proci
Nelle
lor case rientrare ingiungi.
La
madre, ove desìo di nuove nozze
Nutra,
ripari alla magion d'Icario,
Che
ordinerà le sponsalizie, e ricca
Dote
apparecchierà, quale a diletta
Figliuola
è degno che largisca un padre.
Tu poi,
se non ricusi un saggio avviso
Ch'io
ti porgo, seguir, la meglio nave
Di
venti e forti remator guernisci,
E, del
tuo genitor molt'anni assente
Novelle
a procacciarti, alza le vele.
Troverai
forse chi ten parli chiaro,
O
quella udrai voce fortuita, in cui
Spesso
il cercato ver Giove nasconde.
Proa
vanne a Pilo, e interroga l'antico
Nestore;
Sparta indi t'accolga, e il prode
Menelao
biondo, che dall'arsa Troia
Tra i
loricati Achivi ultimo giunse.
Vive,
ed è Ulisse, in sul ritorno? Un anno,
Benché
dolente, sosterrai. Ma, dove
Lo
sapessi tra l'ombre, in patria riedi,
E qui
gli ergi un sepolcro, e i più solenni
Rendigli,
qual s'addice, onor funébri,
E alla
madre presenta un altro sposo.
Dopo
ciò, studia per qual modo i proci
Con
l'inganno tu spegna, o alla scoperta;
Ché de'
trastulli il tempo e de' balocchi
Passò,
ed uscito di pupillo sei.
Non odi
tu levare Oreste al cielo,
Dappoi
che uccise il fraudolento Egisto,
Che il
genitor famoso aveagli morto?
Me la
mia nave aspetta e i miei compagni,
Cui
forse incresce questo indugio. Amico,
Di te
stesso a te caglia, e i miei sermoni,
Converti
in opre: d'un eroe l'aspetto
Ti
veggio: abbine il core, acciò risuoni
Forte
ne' dì futuri anco il tuo nome".
"Voci
paterne son, non che benigne",
D'Ulisse
il figlio ripigliava, ed io
Guarderolle
nel sen tutti i miei giorni.
Ma tu,
per fretta che ti punga, tanto
Férmati
almen, che in tepidetto bagno
Entri,
e conforti la dolce alma, e lieto,
Con un
mio dono in man, torni alla nave:
Don
prezïoso per materia ed arte,
Che
sempre in mente mi ti serbi; dono
Non
indegno d'un ospite che piacque".
"No,
di partir mi tarda", a lui rispose
L'occhicerulea
diva. "Il bel presente
Allor
l'accetterò, che, questo mare
Rinavigando,
per ripormi in Tafo,
T'offrirò
un dono anch'io che al tuo non ceda".
Così la
dea dagli occhi glauchi; e, forza
Infondendogli
e ardire, e a lui nel petto
La per
sé viva del suo padre imago
Ravvivando
più ancora, alto levossi,
E
veloce, com'aquila, disparve.
Da
maraviglia, poiché seco in mente
Ripeté
il tutto, e s'avvisò del nume,
Telemaco
fu preso. Indi, già fatto
Di se
stesso maggior, venne tra i proci.
Taciti
sedean questi, e nell'egregio
Vate
conversi tenean gli occhi; e il vate
Quel
difficil ritorno, che da Troia
Pallade
ai Greci destinò crucciata,
Della
cetra d'argento al suon cantava.
Nelle
superne vedovili stanze
Penelope,
d'Icario la prudente
Figlia,
raccolse il divin canto, e scese
Per
l'alte scale al basso, e non già sola,
Ché due
seguìanla vereconde ancelle.
Non fu
de' proci nel cospetto giunta,
Che
s'arrestò della dedalea sala
L'ottima
delle donne in su la porta,
Lieve
adombrando l'una e l'altra gota
Co' bei
veli del capo, e tra le ancelle
Al
sublime cantor gli accenti volse:
"Femio",
diss'ella, e lagrimava, "Femio,
Bocca
divina, non hai tu nel petto
Storie
infinite ad ascoltar soavi,
Di
mortali e di numi imprese altere,
Per cui
toccan la cetra i sacri vati?
Narra
di quelle, e taciturni i prenci
Le
colme tazze vôtino; ma cessa
Canzon
molesta che mi spezza il cuore,
Sempre
che tu la prendi in su le corde;
Il
cuor, cui doglia, qual non mai da donna
Provossi,
invase, mentre aspetto indarno
Cotanti
anni un eroe, che tutta empiéo
Del suo
nome la Grecia, e ch'è il pensiero
De'
giorni miei, delle mie notti è il sogno."
"O
madre mia", Telemaco rispose,
"Lascia
il dolce cantor, che c'innamora,
Là gir
co' versi, dove l'estro il porta.
I guai,
che canta, non li crea già il vate:
Giove
li manda, ed a cui vuole e quando.
Perché
Femio racconti i tristi casi
De'
Greci, biasmo meritar non parmi;
Ché,
quanto agli uditor giunge più nuova,
Tanto
più loro aggrada ogni canzone.
Udirlo
adunque non ti gravi, e pensa
Che del
ritorno il dì Troia non tolse
Solo ad
Ulisse: d'altri eroi non pochi
Fu
sepolcro comune. Or tu risali
Nelle
tue stanze, ed ai lavori tuoi,
Spola e
conocchia, intendi; e alle fantesche
Commetti,
o madre, travagliar di forza.
Il
favellar tra gli uomini assembrati
Cura è
dell'uomo, e in questi alberghi mia
Più che
d'ogni altro; però ch'io qui reggo".
Stupefatta
rimase, e, del figliuolo
Portando
in mezzo l'alma il saggio detto,
Nelle
superne vedovili stanze
Ritornò
con le ancelle. Ulisse a nome
Lassù
chiamava, il fren lentando al pianto.
Finché
inviolle l'occhiglauca Palla,
Sopitor
degli affanni, un sonno amico.
I
drudi, accesi, via più ancor che prima,
Del
desìo delle nozze a quella vista,
Tumulto
fean per l'oscurata sala.
E
Telemaco ad essi: "O della madre
Vagheggiatori
indocili e oltraggiosi,
Diletto
dalla mensa or si riceva,
Né si
schiamazzi, mentre canta un vate,
Che
uguale ai numi stessi è nella voce.
Ma,
riapparsa la bell'alba, tutti
Nel
Foro aduneremci, ov'io dirovvi
Senza
paura, che di qua sgombriate;
Che
gavazziate altrove; che l'un l'altro
Inviti
alla sua volta, e il suo divori.
Che se
disfare impunemente un solo
Vi par
meglio, seguite. Io dell'Olimpo
Gli
abitatori invocherò, né senza
Fiducia,
che il Saturnio a colpe tali
Un
giusto guiderdon renda, e che inulto
Tinga
un dì queste mura il vostro sangue".
Morser
le labbra ed inarcar le ciglia
A sì
franco sermon tutti gli amanti.
E
Antinoo, il figliuol d'Eupìte: "Di fermo
A
ragionar, Telemaco, con sensi
Sublimi
e audaci t'impararo i numi.
Guai,
se il paterno scettro a te porgesse
Nella
cinta dal mare Itaca, Giove!
"Benché
udirlo", Telemaco riprese,
"Forse
Antìnoo, t'incresca, io nol ti celo:
Riceverollo
dalla man di Giove.
Parrìati
una sventura? Il più infelice
Dal mio
lato io non credo in fra i mortali
Chi re
diventa. Di ricchezza il tetto
Gli
splende tosto, e più onorato ei vanne.
Ma la
cinta dal mare Itaca molti
Sì di
canuto pel, come di biondo,
Chiude,
oltre Antìnoo, che potran regnarla,
Quando
sotterra dimorasse il padre.
Non
però ci vivrà chi del palagio
La
signorìa mi tolga, e degli schiavi,
Che a
me solo acquistò l'invitto Ulisse".
Eurìmaco
di Pòlibo allor surse:
"Qual
degli Achei sarà d'Itaca il rege,
Posa
de' numi onnipossenti in grembo.
Di tua
magion tu il sei; né de' tuoi beni,
Finché
in Itaca resti anima viva,
Spogliarti
uomo ardirà. Ma dimmi, o buono,
Chi è
quello stranier? Dond'ei partissi?
Di qual
terra si gloria e di qual ceppo?
Del
padre non lontan forse il ritorno
T'annunzia?
o venne in questi luoghi antico
Debito
a dimandar? Come disparve
Ratto!
come parea da noi celarsi!
Certo
d'uom vile non avea l'aspetto".
"Ah",
ripigliò il garzon, "del genitore
Svanì,
figlio di Pòlibo, il ritorno!
Giungano
ancor novelle, altri indovini
L'avida
madre nel palagio accolga;
Né
indovin più, né più novelle io curo.
Ospite
mio paterno è il forestiere,
Di
Tafo, Mente, che figliuol si vanta
Del
bellicoso Anchìalo, e ai Tafi impera".
Tal
rispondea: ma del suo cor nel fondo
La
calata dal ciel dea riconobbe.
I
proci, al ballo ed al soave canto
Rivolti,
trastullavansi, aspettando
Il buio
della notte. Della notte
Lor
sopravvenne il buio, e ai tetti loro
Negli
occhi il sonno ad accettar n'andàro.
Telemaco
a corcarsi, ove secreta
Stanza
da un lato del cortil superbo
Per lui
costrutta, si spiccava all'aura,
Salse,
agitando molte cose in mente.
E con
accese in man lucide faci
Il
seguiva Euriclèa, l'onesta figlia
D'Opi
di Pisenór, che già Laerte
Col
prezzo comperò di venti tori,
Quando
fiorìale giovinezza in volto:
Né cara
men della consorte l'ebbe,
Benché
temendo i coniugali sdegni,
Del
toccarla giammai non s'attentasse.
Con
accese il seguìa lucide faci:
Più gli
portava amor ch'ogni altra serva,
Ed ella
fu che il rallevò bambino.
Costei
gli aprì della leggiadra stanza
La
porta: sovra il letto egli s'assise,
Levò la
sottil veste a sé di dosso,
E
all'amorosa vecchia in man la pose,
Che
piegolla con arte, e alla caviglia
L'appese,
accanto il traforato letto.
Poi
d'uscire affrettavasi: la porta
Si
trasse dietro per l'anel d'argento;
Tirò la
fune, e il chiavistello corse.
Sotto
un fior molle di tessuta lana
Ei
volgea nel suo cor, per quell'intera
Notte,
il cammin che gli additò Minerva.
LIBRO II
Come la
figlia del mattin, la bella
Dalle
dita di rose Aurora surse,
Surse
di letto anche il figliuol d'Ulisse,
I suoi
panni vestì, sospese il brando
Per lo
pendaglio all'omero, i leggiadri
Calzari
strinse sotto i molli piedi
E della
stanza uscì rapidamente,
Simile
ad un degli Immortali in volto.
Tosto
agli araldi dall'arguta voce
Chiamare
impose i capelluti Achivi;
E
questi, al gridar loro accorsi in fretta,
Si
ragunaro, s'affollaro. Ei pure
Al
parlamento s'avviò: tra mano
Stavagli
un'asta di polito rame
E due
bianchi il seguìan cani fedeli.
Stupìa
ciascun, mentr'ei mutava il passo,
E il
paterno sedil, che dai vecchioni
Gli fu
ceduto, ad occupar sen gìa:
Tanta
in quel punto e sì divina grazia
Sparse
d'intorno a lui Pallade amica.
Chi
ragionò primiero? Egizio illustre,
Che il
dorso avea per l'età grande in arco,
E di vario
saver ricca la mente.
Sulle
navi d'Ulisse alla feconda
Di
nobili destrier ventosa Troia
Andò il
più caro de' figliuoli, Antìfo;
E a lui
diè morte nel cavato speco
Il
Ciclope crudel, che la cruenta
S'imbandì
del suo corpo ultima cena.
Tre
figli al vecchio rimanean: l'un, detto
Eurìnomo,
co' proci erasi unito,
E alla
coltura de' paterni campi
Presedean
gli altri due. Ma in quello, in quello,
Che più
non ha, sempre s'affisa il padre,
Che nel
pianto i dì passa, e che sì fatte
Parole
allor, pur lagrimando, sciolse:
"O
Itacesi, uditemi. Nessuna,
Dacché
Ulisse levò nel mar le vele,
Qui si
tenne assemblea. Chi adunò questa?
Giovane,
o veglio? E a che? Primo udì forse
Di
estrania gente che s'appressi armata?
O
d'altro, da cui penda il ben comune,
Ci
viene a favellar? Giusto ed umano
Costui,
penso, esser dee. Che che s'aggiri
Per la
sua mente, il favorisca Giove!
Telemaco
gioìa di tali accenti,
Quasi
d'ottimo augurio, e, sorto in piedi,
Ché il
pungea d'arringar giovane brama,
Trasse
nel mezzo, dalla man del saggio
Tra gli
araldi Pisènore lo scettro
Prese,
e ad Egizio indi rivolto: "O", disse,
"Buon
vecchio, non è assai quinci lontano
L'uom
che il popol raccolse: a te dinanzi,
Ma
qual, cui punge acuta doglia, il vedi.
Non di
gente che a noi s'appressi armata,
Né d'altro,
da cui penda il ben comune,
Io
vegno a favellarvi. A far parole
Vegno
di me, d'un male, anzi di duo,
Che
aspramente m'investono ad un'ora.
Il mio
padre io perdei! Che dico il mio?
Popol
d'Itaca, il nostro: a tutti padre,
Più
assai che re, si dimostrava Ulisse.
E a
questa piaga, ohimè l'altra s'arroge,
Che
ogni sostanza mi si sperde, e tutta
Spiantasi
dal suo fondo a me la casa.
Noioso
assedio alla ritrosa madre
Poser
de' primi tra gli Achivi i figli.
Perché
di farsi a Icario, e di proporgli
Trepidan
tanto, che la figlia ei doti
E a
consorte la dia cui più vuol bene?
L'intero
dì nel mio palagio in vece
Banchettan
lautamente, e il fior del gregge
Struggendo
e dell'armento, e le ricolme
Della
miglior vendemmia urne votando,
Vivon
di me: né v'ha un secondo Ulisse,
Che
sgombrar d'infra noi vaglia tal peste.
Io da
tanto non son, né uguale all'opra
In me
si trova esperïenza e forza.
Oh così
le avess'io, com'io le bramo!
Poscia
che il lor peccar varca ogni segno.
E, che
più m'ange, con infamia io pero.
Deh
s'accenda in voi pur nobil dispetto;
Temete
il biasmo delle genti intorno;
Degl'immortali
dèi, non forse cada
Delle
colpe de' proci in voi la pena,
L'ira
temete. Per l'Olimpio Giove,
Per
Temi, che i consigli assembra e scioglie,
Costoro,
amici, d'aizzarmi contro
Restate,
e me lasciate a quello in preda
Cordoglio
sol, che il genitor mi reca.
Se non
che forse Ulisse alcuni offese
De'
prodi Achivi, ed or s'intende i torti
Vendicarne
sul figlio. E ben, voi stessi
Stendete
ai beni la rapace destra:
Meglio
fôra per me, quando consunti
Suppellettil
da voi fóssemi e censo,
Da voi,
dond'io sperar potrei restauro.
Vi
assalirei per la città con blande
Parole
ad uno ad un, né cesserei,
Che
tutto in poter mio pria non tornasse,
E di
nuovo s'ergesse in piè il mio stato.
Ma or dolori
entro del petto, a cui
Non so
rimedio alcun, voi mi versate.
Detto
così, gittò lo scettro a terra,
Ruppe
in lagrime d'ira e viva corse
Di core
in cor nel popolo pietade.
Ma
taciturni, immoti, e non osando
Telemaco
ferir d'una risposta,
Tutti
stavano i proci. Antìnoo solo
Sorse e
arringò: "Telemaco, a cui bolle
Nel
petto rabbia che il tuo dir sublìma,
Quai
parole parlasti ad onta nostra?
Improntar
sovra noi macchia sì nera?
Non i
migliori degli Achei: la cara
Tua
madre e l'arti, ond'è maestra, incolpa.
Già il
terzo anno si volse, e or gira il quarto,
Che
degli amanti suoi prendesi gioco;
Tutti
di speme e d'impromesse allatta,
Manda
messaggi a tutti, ed altro ha in core.
Tela
sottile, tela grande, immensa,
Questo
ancor non pensò novello inganno?
A oprar
si mise, e a sé chiamonne, e disse:
"Giovani,
amanti miei, tanto vi piaccia,
Poiché
già Ulisse tra i defunti scese,
Le mie
nozze indugiar, ch'io questo possa
Lugubre
ammanto per l'eroe Laerte,
Acciò
le fila inutili io non perda,
Prima
fornir, che l'inclemente Parca,
Di
lunghi sonni apportatrice, il colga.
Non vo'
che alcuna delle Achee mi morda,
Se ad
uom, che tanto avea d'arredi vivo,
Fallisse
un drappo in cui giacersi estinto".
Con
simil fola leggermente vinse
Gli
animi nostri generosi. Intanto,
Finché
il giorno splendea, tessea la tela
Superba,
e poi la distessea la notte
Al
complice chiaror di mute faci.
Così un
triennio la sua frode ascose,
E
deluse gli Achei. Ma come il quarto
Con le
volubili ore anno sorvenne,
Noi da
un'ancella non ignara instrutti,
Penelope
trovammo, che la bella
Disciogliea
tela ingannatrice: quindi
Compierla
dové al fin, benché a dispetto.
Or,
perché a te sia noto e ai Greci il tutto,
Ecco
risposta che ti fanno i proci.
Accommiata
la madre, e quel di loro,
Che non
dispiace a Icario e a lei talenta,
A
disposar costringila. Ma dove,
Le doti
usando, onde la ornò Minerva,
Che man
formolle così dotta e ingegno
Tanto
sagace, e accorgimenti dielle,
Quali
non s'udir mai né dell'antiche
Di
Grecia donne dalle belle trecce,
Tiro,
Alcmena, Micene, a cui le menti
Di sì
fini pensier mai non fioriro;
Dove
credesse lungo tempo a bada
Tenerci
ancor, la sua prudenza usata
Qui
l'abbandonerìa. Noi tanto il figlio
Consumerem,
quanto la madre in core
Serberà
questo suo, che un dio le infuse,
Strano
proposto. Eterna gloria forse
A sé
procaccerà, ma gran difetto
Di
vettovaglia a te; mentre noi certo
Da te
pensiam non istaccarci, s'ella
Quel
che le aggrada più pria non impalma".
"Io",
rispose Telemaco, "di casa
Colei
sbandir, donde la vita io tengo?
Dal cui
lattante sen pendei bambino?
Grave
inoltre mi fôra, ov'io la madre
Dipartissi
da me, sì ricca dote
Tornare
a Icario. Cruccierìasi un giorno
L'amato
genitor che forse vive,
Benché
lontano, e punìrianmi i numi,
Perch'ella,
slontanandosi, le odiate
Implorerìa
vendicatrici Erinni.
Che le
genti dirìan? No; tal congedo
Non
sarà mai ch'io liberi dal labbro.
L'avete
voi per mal? Da me sgombrate;
Gozzovigliate
altrove; alternamente
L'un
l'altro inviti, e il suo retaggio scemi.
Che se
disfare impunemente un solo
Vi par
meglio, seguìte. Io dell'Olimpo
Gli
abitatori invocherò, né senza
Speme
che il Saturnìde a tai misfatti
La
debita mercé renda, e che inulto
Scorra
nel mio palagio il vostro sangue".
Sì
favellò Telemaco, e dall'alto
Del
monte due volanti aquile a lui
Mandò
l'eterno onniveggente Giove.
Tra lor
vicine, distendendo i vanni,
Fendean
la vana regïon de' venti.
Né
prima fur dell'assemblea sul mezzo,
Che si
volsero in giro, e, l'ali folte
Starnazzando,
e mirando tutti in faccia,
Morte
auguraro: al fin, poiché a vicenda
Con
l'unghie il capo insanguinato e il collo
S'ebber,
volaro a destra, e dileguârsi
Della
città su per gli eccelsi tetti.
Maravigliò
ciascuno, e ruminava
Fra sé
quai mali promettesse il fato.
Quivi
era un uom di molto tempo e senno,
Di
Mastore figliuol, detto Aliterse,
Che
nell'arte di trar dagli osservati
Volanti
augelli le future cose,
Tutti
vinceva i più canuti crini.
"Itacesi,
ascoltatemi, e più ancora
M'ascoltin",
disse, "i proci, a cui davante
S'apre
un gran precipizio. Ulisse lungi
Da'
cari suoi non rimarrà molt'anni.
Che
parlo? Ei spunta, e non ai soli proci
Strage
prepara e morte: altri, e non pochi
Che
abitiam la serena Itaca, troppo
Ci
accorgerem di lui. Consultiam dunque
Come
gli amanti, che pel meglio loro
Cessar
dovrìan per sé, noi raffreniamo.
Uom vi
ragiona de' presagi esperto
Per
lunghissima prova. Ecco maturo
Ciò
ch'io vaticinai, quando per Troia
Scioglieano
i Greci, e Ulisse anch'ei salpava.
"Molti",
io gridai, "patirà duoli, e tutti
Perderà
i suoi: ma nel ventesim'anno,
Solo e
ignoto a ciascun, farà ritorno".
Già si
compie l'oracolo: tremate!"
"Folle
vecchiardo, in tua magion ricovra",
Eurìmaco
di Pòlibo rispose,
"oracoleggia
ai figli tuoi, non forse
Gl'incolga
un dì qualche infortunio. Assai
Più là
di te ne' vaticinî io veggio.
Volan,
rivolan mille augelli e mille
Per
l'aere immenso, e non dibatton tutti
Sotto i
raggi del sol penne fatali.
Quinci
lontano perì Ulisse. Oh fossi
Tu
perito con lui! Ché non t'udremmo
Profetare
in tal guisa, e il furor cieco
Secondar
di Telemaco, da cui
Qualche
don, credo, alle tue porte attendi.
Ma
oracol più verace odi. Se quanto
D'esperïenza
il bianco pel t'addusse,
A
sedurre il fanciullo e a più infiammarlo
L'adopri,
tu gli nuoci, a' tuoi disegni
Non
giovi, e noi tale imporremti multa,
Che
morte fìati il sostenerla. Io poi
Tal
consiglio al fanciul porgo: la madre
Rimandi
a Icario, che i sponsali e ricca,
Qual
dee seguir una diletta figlia,
Dote
apparecchierà. Prima io non penso
Che da
questa di nozze ardua tenzone
I figli
degli Achei vorran giù tôrsi.
Di nessuno
temiam; non, benché tanto
Loquace,
di Telemaco; né punto
Del
vaticinio ci curiam, che indarno
T'uscì,
vecchio, di bocca, e che fruttarti
Maggiore
odio sol può. Fine i conviti
Non
avran dunque, e non sarà mai calma,
Finché
d'oggi in doman costei ci mandi.
Noi
ciascun dì contenderem per lei,
Né ad
altre donne andrem, quali ha l'Acaia
Degne
di noi, perché cagion primiera
Dell'illustre
contesa è la virtude".
"Eurìmaco
e voi tutti", il giovinetto
Soggiunse
allor, "competitori alteri,
Non
più: già il tutto sanno uomini e dèi.
Or non
vi chiedo che veloce nave
Con
dieci e dieci poderosi remi,
Che sul
mar mi trasporti. All'arenosa
Pilo ed
a Sparta valicare io bramo,
Del
padre assente per ritrar s'io mai
Trovar
potessi chi men parli chiaro,
O
quella udir voce fortuita in cui
Spesso
il cercato ver Giove nasconde.
Vivrà?
ritornerà? Benché dolente,
Sosterrò
un anno. Ma se morto e fatto
Cenere
il risapessi, al patrio nido
Riederò
senza indugio; e qui un sepolcro
Gli
alzerò, renderogli i più solenni,
Qual si
convien, fùnebri onori, e un altro
Sposo
da me riceverà la madre".
Tacque,
e s'assise; e Mentore levossi
Del
padre il buon compagno, a cui su tutto
Vegghiar,
guardare il tutto, ed i comandi
Seguitar
di Laerte, Ulisse ingiunse,
Quando
per l'alto sal mise la nave.
"O
Itacesi", tal parlava il saggio
Vecchio,
"alle voci mie l'orecchio date.
Né
giusto più, né liberal, né mite,
Ma
iniquo, ma inflessibile, ma crudo
D'ora
innanzi un re sia, poiché tra gente
Su cui
stendea scettro paterno Ulisse,
Più non
s'incontra un sol, cui viva in core.
Che
arroganti rivali ad opre ingiuste
Trascorran
ciechi della mente, io taccio.
Svelgono,
è ver, sin dalle sue radici,
La casa
di quel Grande, a cui disdetto
Sperano
il ritornar, ma in rischio almeno
Porgon
la vita. Ben con voi m'adiro,
Con
voi, che muti ed infingardi e vili
Vi
state lì, né d'un sol moto il vostro
Signore
ìnclito aitate. Ohimé! dai pochi
Restano
i molti soverchiati e vinti".
"Mentor,
non so qual più, se audace, o stolto",
Leòcrito
d'Evènore rispose,
"Che
mai dicestu? Contra noi tu ardisci
Il
popol eccitar? Non lieve impresa
Una
gente assalir, che per la mensa
Brandisca
l'armi, e i piacer suoi difenda.
Se lo
stesso re d'Itaca tornato
Scacciar
tentasse i banchettanti proci,
Scarso
del suo ritorno avrìa diletto
Questa
sua donna, che il sospira tanto,
E
morire il vedrìa morte crudele,
Benché
tra molti ei combattesse: quindi
Del tuo
parlar la vanità si scorge.
Ma, su
via, dividetevi, e alle vostre
Faccende
usate vi rendete tutti.
Mentore
ed Aliterse, che fedeli
A
Telemaco son paterni amici,
Gli
metteran questo viaggio in punto:
Bench'ei
del padre le novelle, in vece
Di
cercarle sul mar, senza fatica
Le
aspetterà nel suo palagio, io credo".
Disse,
e ruppe il concilio. I cittadini
Scioglieansi
l'un dall'altro, e alle lor case
Qua e
là s'avvïavano: d'Ulisse
Si
ritiraro alla magione i proci.
Ma,
dalla turba solitario e scevro,
Telemaco
rivolse al mare i passi,
Le mani
asterse nel canuto mare,
E
supplicò a Minerva: "O diva amica,
Che
degnasti a me ier scender dal cielo,
E
fender l'onde m'imponesti, un padre
Per
rintracciar, che non ritorna mai,
Il tuo
solo favor puommi davante
Gl'inciampi
tôr, che m'opporranno i Greci,
E più
che altr'uomo in Itaca, i malvagi
Proci,
la cui superbia ognor più monta".
Così
pregava; e se gli pose allato
Con la
faccia di Mentore e la voce,
Palla,
e a nome chiamollo, e feo tai detti:
"Telemaco,
né ardir giammai, né senno
Ti
verrà men, se la virtù col sangue
Trasfuse
in te veracemente Ulisse,
Che
quanto impreso avea, quanto avea detto,
Compiea
mai sempre. Il tuo vïaggio a vôto
Non
andrà, qual temer, dove tu figlio
Non gli
fossi, io dovrei. Vero è che spesso
Dal
padre il figlio non ritrae: rimane
Spesso
da lui lungo intervallo indietro,
E raro
è assai che aggiungalo od il passi.
Ma
senno a te non verrà men, né ardire,
Ed io
vivere Ulisse in te già veggo.
Lieto
dunque degli atti il fine spera;
Né
t'anga il vano macchinar de' proci,
Che non
sentono, incauti e ingiusti al paro,
La nera
Parca che gli assal da tergo,
Ed in
un giorno sol tutti gli abbranca.
Io
d'Ulisse il compagno, un tale aiuto
Ti
porgerò, che partirai di corto
Su
parata da me celere nave,
E con
me stesso al fianco, in su la poppa.
Orsù,
rïentra nel palagio, ai proci
Nuovamente
ti mostra, ed apparecchia
Quanto
al vïaggio si richiede, e il tutto
Riponi:
il bianco nelle dense pelli
Gran
macinato, ch'è dell'uom la vita,
E
nell'urne il licor che la rallegra.
Compagni
a radunarti in fretta io movo,
Che ti
seguano allegri. Ha sull'arena
Molte
l'ondicerchiata Itaca navi
Novelle
e antiche: ne' salati flutti
Noi lancerem
senza ritardo armata
Qual
miglior mi parrà veleggiatrice".
Così di
Giove la celeste figlia:
Né più,
gli accenti della diva uditi,
S'indugiava
Telemaco. Al palagio,
Turbato
della mente, ire affrettossi,
E trovò
i proci, che a scoiar capretti,
E pingui
ad abbronzar corpi di verri,
Nel
cortile intendeano. Il vide appena,
Che gli
fu incontro sogghignando, e il prese
Per
mano Antinoo, e gli parlò in tal guisa:
"O
molto in arringar, ma forte poco
Nel
dominar te stesso, ogni rancore
Scaccia
dal petto, e, qual solevi, adopra
Da
prode il dente, e i colmi nappi asciuga.
Tutto
gli Achei t'allestiran di botto:
Nave e
rèmigi eletti, acciò tu possa,
Ratto
varcando alla divina Pilo,
Correr
del padre tuo dietro alla fama".
E
Telemaco allor: "Sedermi a mensa
Con voi,
superbi, e una tranquilla gioia
Provarvi,
a me non lice. Ah non vi basta
Cio che
de' miei più prezïosi beni
Nella
prima età mia voi mi rapiste?
Ma or
ch'io posso dell'altrui saggezza
Giovarmi,
e sento con le membra in petto
Cresciutami
anco l'alma, io disertarvi
Tenterò
pure, o ch'io qui resti, o parta.
Ma
parto, e non invan, spero, e su nave
Parto
non mia, quando al figliuol d'Ulisse,
Né ciò
sémbravi sconcio, un legno manca".
Tal
rispose crucciato, e destramente
Dalla
man d'Antinòo la sua disvelse.
Già il
convito apprestavano, ed acerbi
Motti
scoccavan dalle labbra i proci.
"Certo",
dicea di que' protervi alcuno,
"Telemaco
un gran danno a noi disegna.
Da Pilo
aiuti validi o da Sparta
Menerà
seco, però ch'ei non vive
Che di
sì fatta speme; o al suol fecondo
D'Efira
condurrassi e ritrarranne
Fiero
velen, che getterà nell'urne
Con man
furtiva; e noi berrem la morte",
E un
altro ancor de' pretendenti audaci:
"Chi
sa ch'egli non men, sul mar vagando,
Dagli
amici lontano, un dì non muoia,
Come il
suo genitor? Carco più grave
Su le
spalle ne avremmo: il suo retaggio
Partirci
tutto, ma la casta madre,
E quel
di noi, ch'ella scegliesse a sposo,
Nel
palagio lasciar sola con solo".
Telemaco
frattanto in quella scese
Di
largo giro e di sublime volta
Paterna
sala, ove rai biondi e rossi
L'oro
mandava e l'ammassato rame;
Ove
nitide vesti, e di fragrante
Olio
gran copia chiudean l'arche in grembo;
E
presso al muro ìvano intorno molte
Di vino
antico, saporoso, degno
Di
presentarsi a un dio, gravide botti,
Che del
ramingo travagliato Ulisse
Il
ritorno aspettavano. Munite
D'opportuni
serrami eranvi, e doppie
Con
lungo studio accomodate imposte;
Ed
Euriclèa, la vigilante figlia
D'Opi
di Pisenorre, il dì e la notte
Questi
tesori custodìa col senno.
Chiamolla
nella sala, e a lei tai voci
Telemaco
drizzò: "Nutrice, vino,
Su via,
m'attigni delicato, e solo
Minor
di quel che a un infelice serbi,
Se mai
scampato dal destin di morte,
Comparisse
tra noi. Dodici n'empi
Anfore,
e tutte le suggella. Venti
Di
macinato gran giuste misure
Versami
ancor ne' fedeli otri, e il tutto
Colloca
in un: ma sappilo tu sola.
Come la
notte alle superne stanze
La
madre inviti e al solitario letto,
Per tai
cose io verrò: ché l'arenosa
Pilo
visitar voglio, e la ferace
Sparta,
e ad entrambe domandar del padre".
Dié un
grido, scoppiò in lagrime, e dal petto
Euriclèa
volar feo queste parole:
"Donde
a te, caro figlio, in mente cadde
Pensiero
tal? Tu l'unico rampollo
Di
Penelope, tu, la nostra gioia,
Per
tanto mondo raggirarti? Lunge
Dal suo
nido perì l'inclito Ulisse,
Fra
estranie genti: e perirai tu ancora.
Sciolta
la fune non avrai, che i proci
Ti
tenderanno agguati, uccideranti,
E tutte
partirannosi tra loro
Le
spoglie tue. Deh qui con noi rimani,
Con noi
qui siedi, e su i marini campi,
Che
fecondi non son che di sventure,
Lascia
che altri a sua posta errando vada".
"Fa
cor, Nutrice", ei le risponde tosto:
"Senza
un nume non è questo consiglio.
Ma
giura che alla madre, ov'aura altronde
Non le
ne giunga prima e ten richiegga,
Nulla
dirai, che non appaia in cielo
La
dodicesim'aurora; onde col pianto
Al suo
bel corpo ella non rechi oltraggio".
L'ottima
vecchia il giuramento grande
Giurò
de' numi: e a lui versò ne' cavi
Otri,
versò nell'anfore capaci
Le
candide farine e il rosso vino.
Ei,
nella sala un'altra volta entrato,
Tra i
proci s'avvolgea: né in questo mezzo
Stavasi
indarno la Tritonia Palla.
Vestite
di Telemaco le forme,
Per
tutto si mostrava ed appressava
Tutti,
e loro ingiungea che al mare in riva
Si
raccogliesser nottetempo, e il ratto
Legno
chiedea di Fronio al figlio illustre,
A
Noemòn, cui non chiedealo indarno.
S'ascose
il Sole, e in Itaca omai tutte
S'inombravan le vie. Minerva
il ratto
Legno
nel mar tirò, l'armò di quanto
Soffre
d'arnesi un'impalcata nave,
E al
porto in bocca l'arrestò. Frequenti
Si raccoglieano
i remator forzuti
Sul
lido, e inanimavali la dea
Dallo
sguardo azzurrin, che altro disegno
Concepì
in mente. La magion d'Ulisse
Ritrova,
e sparge su i beventi proci
Tal di
sonno un vapor, che lor si turba
L'intelletto
e confondesi, e di mano
Casca
sul desco, la sonante coppa.
Sorse,
e mosse ciascuno al proprio albergo,
Né fu
più nulla del sedere a mensa:
Tal
pondo stava sulle lor palpèbre.
Ma
l'occhiglauca dea, ripreso il volto
Di
Mentore e la voce, e richiamato
Fuor
del palagio il giovinetto, disse:
Telemaco,
ciascun de' tuoi compagni,
Che
d'egregi schinier veston le gambe,
Già
siede al remo, e, se tu arrivi, guarda".
Ciò
detto, la via prese, ed il garzone
Seguitavane
l'orme. Al mar calati,
Trovàr
sul lido i capelluti Achivi;
Cui di
tal guisa favellò la sacra
Di
Telemaco possa: "Amici, in casa
Quanto
al cammin bisogna, unito giace:
Trasportarlo
è mestieri. Né la madre
Sa, né,
fuor che una, il mio pensier le ancelle".
Tacque,
e loro entrò innanzi; e quelli dietro
Teneangli.
Indi con l'anfore e con gli otri,
Come
d'Ulisse il caro figlio ingiunse,
Tornâro,
e il carco nella salda nave
Deposero.
Il garzon sopra vi salse,
Preceduto
da Pallade, che in poppa
S'assise;
accanto ei le sedea: la fune
I
remiganti sciolsero, e montàro
La
negra nave anch'essi, e i banchi empiero.
Tosto
la dea dalle cerulee luci
Chiamò
di verso l'occidente un vento
Destro,
gagliardo, che battendo venne
Su pel
tremulo mar l'ale sonanti.
"Mano,
mano agli attrezzi", allor gridava
Telemaco;
"ov'è l'albero"? I compagni
L'udiro,
e il grosso e lungo abete in alto
Drizzaro,
e l'impiantaro entro la cava
Base, e
di corda l'annodaro al piede:
Poi
tiravano in su le bianche vele,
Con
bene attorti cuoi. Gonfiò nel mezzo
Le vele
il vento; e forte alla carena
L'azzurro
mar romoreggiava intorno,
Mentre
la nave sino al fin del corso
Su
l'elemento liquido volava.
Legati
i remi del naviglio ai fianchi,
Incoronaro
di vin maschio l'urne,
E a
ciascun degli dèi sempre viventi
Libaro,
ma più a te, figlia di Giove,
Che le
pupille di cilestro tingi.
Il
naviglio correa la notte intera,
E del
suo corso al fin giungea con l'alba.
LIBRO
III
Uscito
delle salse acque vermiglie,
Montava
il sole per l'eterea volta
Di
bronzo tutta, e in cielo ai dèi recava
Ed agli
uomini il dì su l'alma terra:
Quando
alla forte Pilo, alla cittade
Fondata
da Nelèo, giunse la nave.
Stavano
allor sagrificando i Pili
Tauri
sul lido, tutti negri, al dio
Dai
crini azzurri, che la terra scuote.
Nove
d'uomini squadre, e in ogni squadra
Cinquecento
seduti, e per ciascuna
Svenati
nove buoi, di cui, gustate
Le
interïora, ardean le cosce al nume.
La nave
intanto d'uguai fianchi armata,
Se ne
venìa dirittamente a proda.
Le vele
ammainâr, pigliaro il porto,
Nel
lido si gittaro. Ei pur gittossi
Telemaco,
e Minerva il precedea,
La dea
dagli occhi di ceruleo tinti,
Che gli
accenti al garzon primiera volse:
"Telemaco,
depor tutta oggi è d'uopo
La
pueril vergogna. Il mar passasti,
Ma per
udir, dove s'asconda, e a quale
Destin
soggiacque il generoso padre.
Su,
dunque, dritto al domator t'avvia
Di
cavalli Nestorre, onde si vegga
Quel
ch'ei celato nella mente porta.
Il ver
da lui, se tu nel chiedi, avrai:
Poiché
mentir non può cotanto senno".
Il
prudente Telemaco rispose:
Mentore,
per qual modo al rege amico
M'accosterò?
Con qual saluto? Esperto
Non
sono ancor del favellar de' saggi:
Né
consente pudor, che a far parole
Cominci
col più vecchio il men d'etade".
Ma di
tal guisa ripigliò la dea,
Cui
cilestrino lume i rai colora:
"Telemaco,
di ciò che dir dovrai,
Parte
da sé ti nascerà nel core,
Parte
nel cor la ti porranno i numi:
Ché a
dispetto di questi in luce, io credo,
Non ti
mandò la madre, e non ti crebbe".
Così
parlando, frettolosa innanzi
Palla
si mise, ed ei le andava dopo.
Fur
tosto in mezzo all'assemblea de' Pilî,
Ove
Nestor sedea co' figli suoi,
Mentre
i compagni, apparecchiando il pasto,
Altre
avvampavan delle carni, ed altre
Negli
spiedi infilzavanle. Adocchiati
Ebbero
appena i forestier, che incontro
Lor si
fero in un groppo, e gli abbracciâro,
E a
seder gl'invitaro. Ad appressarli
Pisistrato
fu il primo, un de' figliuoli
Del re.
Li prese ambi per mano, e in molli
Pelli,
onde attappezzata era la sabbia,
Appo la
mensa gli adagiò tra il caro
Suo
padre ed il germano Trasimede:
Delle
viscere calde ad ambi porse;
E,
rosso vin mescendo in tazza d'oro,
E alla
gran figlia dell'Egìoco Giove
Propinando:
"Stranier"; dissele, "or prega
Dell'acque
il sir, nella cui festa, i nostri
Lidi
cercando, t'abbattesti appunto.
Ma i
libamenti, come più s'addice,
Compiuti
e i prieghi, del licor soave
Presenta
il nappo al tuo compagno, in cui
Pur
s'annida, cred'io, timor de' numi,
Quando
ha mestier de' numi ogni vivente.
Meno ei
corse di vita, e d'anni eguale
Parmi
con me: quindi a te pria la coppa".
E il
soave licor le pose in mano.
Godea
Minerva che l'uom giusto pria
Offerto
il nappo d'oro avesse a lei,
E
subito a Nettun così pregava:
"Odi,
o Nettuno, che la terra cingi,
E
questi voti appagar degna. Eterna
Gloria
a Nestorre, ed a' suoi figli in prima
E poi
grata mercede a tutti i Pili
Dell'inclita
ecatombe. Al mio compagno
Concedi
inoltre e a me, che, ciò fornito
Perché
venimmo, su le patrie arene
Con la
negra torniam rapida nave".
Tal
supplicava, e adempiere intendea
Questi
voti ella stessa. Indi al garzone
La
bella offrì gemina coppa e tonda,
Ed una
egual preghiera il caro figlio
D'Ulisse
alzò. S'abbrustolaro intanto
Le
pingui cosce, degli spiedi acuti
Si
dispiccaro e si spartiro: al fine
L'alto
si celebrò prandio solenne.
Giunto
al suo fin, così principio ai detti
Dava il
Gerenio cavalier Nestorre:
"Gli
ospiti ricercare allora è bello,
Che di
cibi e di vini hanno abbastanza
Scaldato
il petto e rallegrato il core.
Forestieri,
chi siete? e da quai lidi
Prendeste
a frequentar l'umide strade?
Trafficate
voi forse? O v'aggirate,
Come
corsali, che la dolce vita,
Per
nuocere ad altrui, rischian sul mare"?
Telemaco,
a cui Palla un nuovo ardire
Spirò
nel seno, acciò del padre assente
Nestore
interrogasse, e chiaro a un tempo
Di sé
spargesse per le genti il grido:
"O
degli Achei", rispose, "illustre vanto,
Di
satisfare ai desir tuoi son presto.
Giungiam
dalla seduta a pie' del Neo
Itaca
alpestre, ed è cagion privata
Che a
Pilo ci menò. Del padre io movo
Dietro
alla fama, che riempie il mondo,
Del
magnanimo Ulisse, onde racconta
Pubblica
voce che i Troiani muri,
Combattendo
con teco, al suol distese.
Degli
altri tutti che co' Troi pugnaro,
Non
ignoriam dove finiro i giorni.
Ma di
lui Giove anco la morte volle
Nasconderci;
né alcun sin qui poteo
Dir se
in terra o sul mar, se per nemico
Brando
incontrolla, o alle irate onde in grembo.
Eccomi
or dunque alle ginocchia tue,
Perché
tu la mi narri, o vista l'abbi
Con gli
occhi propri, o dalle labbra udita
D'un
qualche pellegrin; però che molto
Disventurato
il partorì la madre.
Né
timore, o pietà, del palesarmi
Quanto
sai, ti ritenga. Ah! se l'egregio
Mio
padre in opra o in detto unqua ti feo
Bene o
comodo alcun, là, ne' Troiani
Campi
che tinse il vostro sangue, o Greci,
Tel
rimembra ora, e non tacermi nulla".
Ed il
Gerenio cavalier Nestorre:
"Tu
mi ricordi, amico, i guai che molti
Noi,
prole invitta degli Achei, patimmo,
O
quando erranti per le torbid'onde
Ce ne
andavam sovra le navi in traccia
Di
preda, ovunque ci guidasse Achille;
O allor
che pugnavam sotto le mura
Della
cittade alta di Priamo, dove
Grecia
quasi d'eroi spenta rimase.
Là
cadde Achille, e il marzïale Aiace,
Là
Patroclo, nel senno ai dèi vicino;
Quell'Antiloco
là, forte e gentile,
Mio
diletto figliuol, che abil del pari
La mano
ebbe ai conflitti, e al corso il piede.
Se tu,
queste sciagure ed altre assai
Per
ascoltar, sino al quint'anno e sesto
Qui
t'indugiassi, dalla noia oppresso.
Leveresti
di nuovo in mar le vele,
Ch'io
non sarei del mio racconto a riva.
Nove
anni, offese macchinando, a Troia,
Ci
travagliammo intorno; e, benché ogni arte
Vi si
adoprasse, d'espugnarla Giove
Ci
consentì nel decimo a fatica.
Duce
col padre tuo non s'ardìa quivi
Di
accorgimento gareggiar: cotanto
Per
inventive Ulisse e per ingegni
Ciascun
vincea. Certo gli sei tu figlio,
E me
ingombra stupor, mentr'io ti guardo:
Ché i
detti rassomigliansi, e ne' detti
Tanto
di lui tenère uom, che d'etade
Minor
tanto è di lui, vero non parmi.
L'accorto
Ulisse ed io, né in parlamento
Mai, né
in concilio, parlavam diversi;
Ma,
d'una mente, con maturi avvisi,
Quel
che dell'oste in pro tornar dovesse
Disegnavamo.
Rovesciata l'alta
Città
di Priamo, e i Greci in su le ratte
Navi
saliti, si divise il campo.
Così
piacque al Saturnio; e ben si vide
Da
quell'istante, che un ritorno infausto
Ci
destinava il correttor del mondo.
Senno
non era, né giustizia in tutti:
Quindi
il malanno che su molti cadde,
Per lo
sdegno fatal dell'Occhiglauca,
Di
forte genitor nata, che cieca
Tra i
due figli d'Atrèo discordia mise.
A
parlamento in sul cader del Sole
Chiamaro
incauti, e contra l'uso, i Greci,
Che,
intorbidati dal vapor del vino,
Gli
Atridi ad ascoltar trassero in folla.
Menelao
prescrivea che l'oste tutta
Le vele
aprisse del ritorno ai venti;
Ma
ritenerla in vece Agamennòne
Bramava,
e offrir sacre ecatombe, il fiero
Sdegno
a placar dell'oltraggiata diva.
Stolto!
che non sapea ch'erano indarno:
Quando
per fumo d'immolati tori
Mente i
numi non cangiano in un punto.
Così,
garrendo di parole acerbe,
Non si
movean dal lor proposto. Intanto
Con
insano clamor sorser gli Achivi
Ben
gambierati; e l'un consiglio agli uni,
L'altro
agli altri piacea. Funeste cose
La
notte in mezzo al sonno agitavamo
Dentro
di noi: che dal disastro il danno
Giove
ci apparecchiava. Il dì comparso,
Tirammo
i legni, nel divino mare,
E su i
legni velìvoli le molte
Robe
imponemmo e le altocinte schiave.
Se non
che mezza l'oste appo l'Atrìde
Agamennòn
rimanea ferma: l'altra
Dava
ne' remi, e per lo mar pescoso,
Che
Nettuno spianò, correa veloce.
Tènedo
preso, sagrificî offrimmo,
Anelando
alla patria: ma nemico
Dagli
occhi nostri rimoveala Giove,
Che di
nuovo partì tra loro i Greci.
Alcuni
che d'intorno erano al ricco
Di
scaltrimenti Ulisse, e al re de' regi
Gratificar
volean, torsero a un tratto
Le
quinci e quindi remiganti navi:
Ma io
de' mali che l'avverso nume
Divisava,
m'accorsi e con le prore,
Che
fide mi seguìan, fuggii per l'alto.
Fuggì
di Tideo il bellicoso figlio,
Tutti
animando i suoi. L'acque salate
Solcò
più lento, e in Lesbo al fine il biondo
Menelao
ci trovò, che della via
Consigliavam;
se all'aspra Chio di sopra,
Psiria
lasciando dal sinistro lato,
O
invece sotto Chio, lungo il ventoso
Mimanta,
veleggiassimo. D'un segno
Nettun
pregammo: ei mostrò un segno e il mare
Noi
fendemmo nel mezzo, e dell'Eubèa
Navigammo
alla volta, onde con quanta
Fretta
si potea più, condurci in salvo.
Sorse
allora e soffiò stridulo vento,
Che volar
per le nere onde, e notturni
Sorger
ci feo sovra Geresto, dove
Sbarcammo,
e al nume dagli azzurri crini,
Misurato
gran mar, molte di tori
Cosce
ponemmo in su la viva brace.
Già il
dì quarto splendea, quando i compagni
Del
prode ne' cavalli Dïomede
Le salde
navi riposaro in Argo:
Ed io
vêr Pilo sempre il corso tenni
Con
quel vento, cui pria mandato in poppa
M'aveano
i numi, e che non mai s'estinse.
Così,
mio caro figlio, ignaro io giunsi,
Né so
nulla de' Greci o spenti o salvi.
Ciò poi
che intesi ne' miei tetti assiso,
Celare
a te certo non vuolsi. È fama
Che
felice ritorno ebber gli sperti
Della
lancia Mirmìdoni, che il degno
Figliuol
guidava dell'altero Achille.
Felice
l'ebbe Filottète ancora,
L'illustre
prole di Peante. In Creta
Rimenò
Idomenèo quanti compagni
Con la
vita gli uscir fuori dell'arme:
Un sol
non ne inghiottì l'onda vorace.
D'Agamennòn
voi stessi, e come venne,
Benché
lontani dimoriate, udiste,
E qual
gli tramò Egisto acerba morte.
Ma già
il fio ne pagò. Deh quanto è bello
Che il
figliuol dell'estinto in vita resti!
Quel
dell'Atride vendicossi a pieno
Dell'omicida
fraudolento e vile,
Che
morto aveagli sì famoso padre.
Quinci
e tu, amico, però ch'io ti veggio
Di
sembiante non men grande che bello,
Fortezza
impara, onde te pure alcuno
Benedica
di quei che un dì vivranno".
"Nestore,
degli Achei gloria immortale",
Telemaco
riprese, "ei vendicossi,
E al
cielo i Greci innalzeranlo, e il nome
Nel
canto se n'udrà. Perché in me ancora
Non
infuser gli dèi tanto di lena,
Che
dell'onte de' proci e delle trame
Potessi
a pieno ristorarmi anch'io?
Ma non
a me, non ad Ulisse e al figlio
Tanta
felicità dagl'immortali
Fu
destinata, e tollerar m'è forza".
"Poiché
tai mali", ripigliò Nestorre
"Mi
riduci alla mente, odo la casa
Molti
occuparti a forza, e insidïarti,
Vagheggiatori
della madre. Dimmi:
Volontario
piegasti al giogo il collo?
O in
odio, colpa d'un oracol forse,
I
cittadini t'hanno? Ad ogni modo,
Chi sa
che il padre ne' suoi tetti un giorno
Non si
ricatti, o solo, o con gli Achivi
Tutti
al suo fianco, di cotanti oltraggi?
Se te
così Pallade amasse come
A
Troia, duol de' Greci, amava Ulisse
(Sì
palese favor d'un nume, quale
Di
Pallade per lui, mai non si vide)
Se
ugual di te cura prendesse, ai proci
Della
mente uscirìan le belle nozze".
E
d'Ulisse il figliuol: "Tanto io non penso
Che
s'adempia giammai. Troppo dicesti,
Buon
vecchio, ed io ne maraviglio forte:
Ché ciò
bramar, non conseguir mi lice,
Non, se
agli stessi dèi ciò fosse in grado".
"Qual
ti sentii volar fuori de' denti,
Telemaco,
parola? allor soggiunse
La dea
che lumi cilestrini gira.
"Facile
a un dio, sempre che il voglia, uom vivo
Ripatrïar
dai più remoti lidi.
Io per
me del ritorno anzi torrei
Scorgere
il dì dopo infiniti guai,
Che
rieder prima, e nel suo proprio albergo
Cader,
come d'Egisto, e dell'infida
Moglie
per frode il miserando Atride.
La
morte sola, comun legge amara,
Gli
stessi dèi né da un amato capo
Distornarla
potrìan, quandunque sopra
Gli
venga in sua stagion l'apportatrice
Di
lunghi sonni disamabil parca".
"E
temo io ben", Telemaco rispose,
"Che
una morte crudel, non il ritorno,
Prefissa
gli abbia, o Mentore, il destino.
Ma di
questo non più: benché agli afflitti
Parlare
a un tempo e lagrimar sia gioia.
Io
voglio d'altro dimandar Nestorre,
Che
vede assai più là d'ogni mortale,
E l'età
terza, qual si dice, or regna,
Tal che
mirare in lui sembrami un nume.
Figlio
di Nèleo, il ver, mi narra. Come
Chiuse
gli occhi Agamènnone, il cui regno
Stendeasi
tanto? Menelao dov'era?
Qual
morte al sommo Agamennòne ordìa
L'iniquo
Egisto, che di vita uom tolse
Tanto
miglior di sé? Non era dunque
Nell'Argo
Acaica Menelao? Ma forse
Lontano
errava tra straniere genti,
E quei
la spada, imbaldanzito, strinse?"
Ed il
Gerenio cavalier Nestorre:
"Figlio,
quant'io dirò, per certo il tieni.
Tu
feristi nel segno. Ah! se l'illustre
Menelao
biondo, poiché apparve in Argo,
Nel
palagio trovava Egisto in vita,
Non si
spargea sul costui morto corpo
Un
pugno scarso di cavata terra:
Fuor
delle mura, sovra il nudo campo
Cani e
augelli voravanlo, né un solo
Delle
donne d'Acaia occhio il piangea.
Noi
sotto Troia, travagliando in armi,
Passavam
le giornate; ed ei, nel fondo
Della
ricca di paschi Argo, tranquilla,
Con
detti aspersi di dolce veleno
La
moglie dell'Atride iva blandendo.
Rifugìa
prima dall'indegno fatto
La
vereconda Clitennestra, e retti
Pensier
nutrìa, standole a fianco il vate,
Cui di
casta serbargliela l'Atride
Molto
ingiungea, quando per Troia sciolse.
Ma
sorto il dì che cedere ad Egisto
La
infelice dovea, quegli, menato
A
un'isola deserta il vate in seno,
Colà
de' feri volator pastura
Lasciallo,
e strazio: e ne' suoi tetti addusse,
Non
ripugnante, l'infedel regina.
E molte
cosce del cornuto armento
Su
l'are il folle ardea, sospendea molti
Di
drappi d'oro sfavillanti doni,
Compiuta
un'opra che di trarre a fine
Speranza
ebbe assai men, che non vaghezza.
Già
partiti di Troia, e d'amistade
Congiunti,
battevam lo stesso mare
Menelao
ed io: ma divenimmo al sacro
Promontorio
d'Atene, al Sunio, appena,
Che il
suo nocchier, che del corrente legno
Stava
al governo, un'improvvisa uccise
Di Febo
Apollo mansueta freccia,
L'Onetoride
Fronte, uom senza pari
Co'
marosi a combattere e co' venti.
L'Atride,
benché in lui gran fretta fosse,
Si
fermò al Sunio, ed il compagno pianse,
E
d'esequie onorollo e di sepolcro.
Poi,
rientrato in mare, e al capo eccelso
Giunto
della Malèa, cammin felice
Non gli
donò l'onniveggente Giove.
Venti
stridenti e smisurati flutti,
Che ai
monti non cedean, contro gli mosse,
E ne
disgiunse i legni, e parte a Creta
Ne
spinse, là 've albergano i Cidonî,
Alle
correnti del Giardano in riva.
Liscia
e pendente sovra il fosco mare
Di
Gortina al confin, sorge una rupe,
Contro
alla cui sinistra, e non da Festo
Molto
lontana punta, Austro i gran flutti
Caccia;
li frange un piccoletto sasso.
Là,
percotendo, si fiaccaro i legni
Scampate
l'alme a gran fatica, e sole
Cinque
altre navi dall'azzurra prora,
Portò
sovra l'Egitto il vento e l'onda.
Mentre
con queste Menelao tra genti
D'altra
favella s'aggirava, e forza
Vi
raccogliea di vettovaglia e d'oro,
Tutti
ebbe i suoi desir l'iniquo Egisto:
Agamennòne
a tradimento spense,
Soggettossi
gli Argivi, ed anni sette
Della
ricca Micene il fren ritenne.
Ma
l'ottavo anno ritornò d'Atene
Per sua
sciagura il pari ai numi Oreste,
Che il
perfido assassin del padre illustre
Spogliò
di vita, e la funèbre cena
Agli
Argivi imbandì, per l'odïosa
Madre
non men, che per l'imbelle drudo.
Lo
stesso giorno Menelao comparve,
Tanta
ricchezza riportando seco,
Che del
pondo gemean le stanche navi.
Figlio,
non l'imitar, non vagar troppo,
Lasciando
in preda le sostanze ai proci,
Che ciò
tra lor che non avran consunto,
Partansi,
e il vïaggiar ti torni danno.
Se non
ch'io bramo, anzi t'esorto e stringo,
Che il
re di Sparta trovi. Ei testé giunse,
Donde
altri, che in quel mar furia di crudo
Vento
cacciasse, perderia la speme
Di
rieder più: mar così immenso e orrendo,
Che nel
giro d'un anno augel nol varca.
Hai
nave ed hai compagni. E se mai fosse
Più di
tuo grado la terrestre via,
Cocchio
io darotti e corridori, e i miei
Figli,
che guideranti alla divina
Sparta,
ove il biondo Menelao soggiorna.
Pregalo,
e non temer che le parole
Re sì
prudente di menzogna involva".
Disse;
e tramontò il Sole, e buio venne.
Qui la
gran diva dal ceruleo sguardo
Si
frappose così: Buon vecchio, tutto
Dicesti
rettamente. Or via, le lingue
Taglinsi,
e di licor s'empian le tazze.
Poscia,
fatti a Nettuno e agli altri numi
I
libamenti, si procuri ai corpi
Riposo
e sonno, come il tempo chiede.
Già il
sol s'ascose, e non s'addice al sacro
Troppo
a lungo seder prandio solenne".
Così
Palla, né indarno. Acqua gli araldi
Dier
subito alle man, di vino l'urne
Coronaro
i donzelli, ed il recaro,
Con le
tazze, augurando, a tutti in giro.
I
convitati s'alzano, e le lingue
Gittan
sul fuoco, e libano. Libato
Ch'ebbero,
e a voglia lor tutti bevuto,
Palla e
d'Ulisse il deiforme figlio
Ritirarsi
voleano al cavo legno.
Ma
Nestore fermolli, e con gentile
Corruccio:
"Ah! Giove tolga, e gli altri", disse,
"Non
morituri dèi, ch'ire io vi lasci,
Qual
tapino mortale, a cui la casa
Di
vestimenti non abbonda e coltri,
Ove gli
ospiti suoi, non ch'egli, avvolti
Mollemente
s'addormino. Credete
Che a
me vesti non sieno e coltri belle?
No; su
palco di nave il figlio caro
Di
cotant'uom non giacerà, me vivo,
E vivo
un sol de' figli miei, che quanti
Verranno
alle mie case ospiti accolga".
"O
vecchio amico", replicò la diva
Cui
sfavilla negli occhi azzurra luce,
"Motto
da te non s'ode altro che saggio.
Telemaco,
ubbidire io ti consiglio.
Che
meglio puoi? Te dunque, o Nestor, siegua
E
s'adagi in tua casa. Io vêr la nave
A confortar
rivolgomi, e di tutto
Gli
altri a informar: però ch'io tutti vinco
Que'
giovani d'età, che non maggiori
Di
Telemaco sono, e accompagnarlo
Voller
per amistade. In sul naviglio
Mi
stenderò: ma, ricomparsa l'alba,
Ai
Caucòni magnanimi non lieve
Per ricevere
andrò debito antico.
E tu
questo garzon, che a te drizzossi,
Nel
cocchio manda con un figlio, e al cocchio
De'
corridori, che in tue stalle nutri,
I più
ratti gli accoppia e più gagliardi".
Qui
fine al dir pose la dea, cui ride
Sotto
le ciglia un azzurrino lume,
E si
levò com'aquila, e svanìo.
Stupì
chiunque v'era, ed anco il veglio,
Visto
il portento, s'ammirava; e, preso
Telemaco
per man, nomollo e disse:
"Ben
conosc'ora che dappoco e imbelle,
Figliuol
mio, non sarai, quando compagni
Così
per tempo ti si fanno i numi.
Degli
abitanti dell'Olimpie case
Chi
altri esser porìa che la pugnace
Figlia
di Giove, la Tritonia Palla,
Che
l'egregio tuo padre in fra gli Achivi
Favorì
ognor? Propizia, o gran regina,
Guardami,
e a me co' figli e con la casta
Consorte
gloria non vulgar concedi.
Giovenca
io t'offrirò di larga fronte,
Che
vide un anno solo, e al giogo ancora
Non
sottopose la cervice indoma.
Questa
per te cadrà con le vestite
Di
lucid'oro giovinette corna".
Tal
supplicava, e l'udì Palla. Quindi
Generi e
figli al suo reale ostello
Nestore
precedea. Giunti, posaro
Su gli
scanni per ordine e su i troni.
Il re
canuto un prezïoso vino,
Che
dalla scoverchiata urna la fida
Custode
attinse nell'undecim'anno,
Lor
mescea nella coppa, e alla possente
Figlia
libava dell'Egìoco Giove,
Supplichevole
orando. E gli altri ancora
Libaro,
e a voglia lor bevvero. Al fine
Trasser,
per chiuder gli occhi, ai tetti loro.
Ma
nella sua magione il venerato
Nestore
vuol che del divino Ulisse
La cara
prole, in traforato letto
Sotto il
sonante portico, s'addorma;
E
accanto a lui Pisistrato, di gente
Capo, e
il sol de' figliuoi che sin qui viva
Celibe
vita. Ei del palagio eccelso
Si
corcò nel più interno; e la reale
Consorte
il letto preparògli e il sonno.
Tosto
che del mattin la bella figlia
Con le
dita rosate in cielo apparve,
Surse
il buon vecchio, uscì del tetto, e innanzi
S'assise
all'alte porte, in sui politi
Bianchi
e d'unguento luccicanti marmi,
Su cui
sedea par nel consiglio ai numi
Nelèo,
che, vinto dal destin di morte,
Nelle case
di Pluto era già sceso.
Nestore
allora, guardïan de' Greci,
Lo
scettro in man, sedeavi. I figli, usciti
Di loro
stanza maritale anch'essi,
Frequenti
al vecchio si stringeano intorno,
Echefróne,
Persèo, Strazio ed Areto,
E il
nobil Trasimede, a cui s'aggiunse
Sesto
l'eroe Pisistrato. Menaro
D'Ulisse
il figlio deïforme, e al fianco
Collocârlo
del padre, che le labbra
In
queste voci aprì: "Figli diletti,
Senza
dimora il voler mio fornite.
Prima
tra i numi l'Atenèa Minerva
Non
degg'io venerar, che nel solenne
Banchetto
sacro manifesta io vidi?
Un di
voi dunque ai verdi paschi vada,
Perché
tirata dal bifolco giunga
Ratto
la vaccherella. Un altro mova
Dell'ospite
alla nave e, salvo due,
Tutti i
compagni mi conduca. E un terzo
Laerce
chiami, l'ingegnoso mastro,
Della
giovenca ad inaurar le corna.
Gli
altri tre qui rimangano, e all'ancelle
Faccian
le mense apparecchiar, sedili
Apportar
nel palagio, e tronca selva,
E una
pura dal fonte acqua d'argento".
Non
indarno ei parlò. Venne dal campo
La
giovinetta fera, e dalla nave
Dell'ospite
i compagni; il fabbro venne
Tutti
recando gli strumenti e l'armi,
L'incude,
il buon martello e le tanaglie
Ben
fabbricate, con che l'ôr domava:
Né ai
sacrifici suoi mancò la diva.
Nestore
diè il metallo; e il fabbro, come
Domato
l'ebbe, ne vestì le corna
Della
giovenca, acciocché Palla, visto
Quel
fulgor biondo, ne gioisse in core.
Per le
corna la vittima Echefróne
Guidava,
e Strazio: dalle stanze Arèto
Purissim'onda
in un bacile, a vaghi
Fiori
intagliato, d'una man portava,
Orzo
dell'altra in bel canestro e sale;
Il
bellicoso Trasimede in pugno
Stringea
l'acuta scure, che sul capo
Scenderà
della vittima; ed il vaso,
Che il
sangue raccorrà, Perseo tenea.
Ma de'
cavalli il domator, l'antico
Nestore,
il rito cominciò: le mani
S'asterse,
sparse il salat'orzo, e a Palla
Pregava
molto, nell'ardente fiamma
Le
primizie gittando, i peli svelti
Dalla
vergine fronte. Alla giovenca
S'accostò
il forte Trasimede allora
E con
la scure acuta, onde colpilla,
Del
collo i nervi le recise, e tutto
Svigorì
il corpo: supplicanti grida
Figliuole
alzaro, e nuore e la pudica
Di
Nestor donna Euridice, che prima
Di
Climèn tra le figlie al mondo nacque;
Poi la
buessa, che giacea, di terra
Sollevâr
nella testa, e in quel che lei
Reggean
così, Pisistrato scannolla.
Sgorgato
il sangue nereggiante e scorso,
E
abbandonate dallo spirto l'ossa,
La
divisero in fretta: ne tagliaro
Le
intere cosce, qual comanda il rito,
Di
doppio le covriro adipe, e i crudi
Brani
vi adattâr sopra. Ardeale il veglio
Su gli
scheggiati rami, e le spruzzava
Di
rosso vin, mentre abili donzelli
Spiedi
tenean di cinque punte in mano.
Arse le
cosce e i visceri gustati,
Minuti
pezzi fer dell'altro corpo,
Che
rivolgeano ed arrostìano infissi
Negli
acuti schidoni. Policasta,
La
minor figlia di Nestorre, intanto
Telemaco
lavò, di bionda l'unse
Liquida
oliva, e gli vestì una fina
Tunica
e un ricco manto; ed egli emerse
Fuor
del tepido bagno, agl'Immortali
Simile
in volto, e a Nestorre avviossi,
Pastor
di genti, e gli s'assise al fianco.
Abbrostite
le carni ed imbandite,
Sedeansi
a banchettar: donzelli esperti
Sorgeano,
e pronti di vermiglio vino
Ricolmavan
le ciotole dell'oro.
Ma
poiché spenti i naturali fûro
Della
fame desiri e della sete,
Parlò
in tal guisa il cavalier Nestorre:
"Miei
figli, per Telemaco, su via,
I
corridori dal leggiadro crine
Giungete
sotto il cocchio". Immantinente
Quelli
ubbidiro, e i corridor veloci
Giunser
di fretta sotto il cocchio, in cui
Candido
pane e vin purpureo e dapi,
Quai
costumano i re, di Giove alunni,
La
veneranda dispensiera pose.
Telemaco
salì, salì l'ornata
Biga
con lui Pisistrato, di gente
Capo, e
accanto assettossigli; e, le briglie
Nella
man tolte, con la sferza al corso
I
cavalli eccitò, che alla campagna
Si
gittâr lieti: de' garzoni agli occhi
Di Pilo
s'abbassavano le torri.
Squassavano
i destrier tutto quel giorno
Concordi
il giogo ch'era lor sul collo.
Tramontò
il Sole, ed imbrunìan le strade:
E i due
giovani a Fera, e alla magione
Di
Diocle arrivàr, del prode figlio
Di
Orsìloco d'Alfèo, dove riposi
Ebber
tranquilli ed ospitali doni.
Ma come
del mattin la bella figlia
Comparve
in ciel con le rosate dita,
Aggiogaro
i cavalli, e la fregiata
Biga
salîro, e del vestibol fuori
La
spinsero, e del portico sonante.
Scosse
la sferza il Nestorìde, e quelli
Lietamente
volaro. I pingui campi,
Di
ricca messe biondeggianti, indietro
Fuggìan
l'un dopo l'altro; e sì veloci
Gli
allenati destrier movean le gambe,
Che
l'Itacense e il Pilïese al fine
Del
vïaggio pervennero, che d'ombra,
Il sol
caduto, si coprìa la terra.
LIBRO IV
Giunsero
all'ampia, che tra i monti giace,
Nobile
Sparta, e le regali case
Del
glorïoso Menelao trovaro.
Questi
del figlio e della figlia insieme
Festeggiava
quel dì le doppie nozze,
E molti
amici banchettava. L'una
Spedìa
d'Achille al bellicoso figlio,
Cui promessa
l'avea sott'Ilio un giorno,
Ed or
compieano il maritaggio i numi:
Quindi
cavalli e cocchi alla famosa
Cittade
de' Mirmìdoni condurla
Doveano,
e a Pirro che su lor regnava.
E alla
figlia d'Alettore Spartano
L'altro,
il gagliardo Megapente, unia,
Che
d'una schiava sua tardi gli nacque:
Poiché
ad Elèna gl'immortali dèi
Prole
non concedean dopo la sola
D'amor
degna Ermione, a cui dell'aurea
Venere
la beltà splendea nel volto.
Così
per l'alto spazïoso albergo
Rallegravansi,
assisi a lauta mensa,
Di Menelao
gli amici ed i vicini;
Mentre
vate divin tra lor cantava,
L'argentea
cetra percotendo, e due
Danzatori
agilissimi nel mezzo
Contempravano
al canto i dotti salti.
Nell'atrio
intanto s'arrestaro i figli
Di
Nestore e d'Ulisse. Eteonèo,
Un
vigil servo del secondo Atride,
Primo
adocchiolli, e con l'annunzio corse
De'
popoli al pastore, ed all'orecchio
Gli
sussurrò così: "Due forestieri
Nell'atrio,
o Menelao, di Giove alunno,
Coppia
d'eroi, che del Saturnio prole
Sembrano
in vista. Or di': sciorre i cavalli
Dobbiamo,
o i forestieri a un altro forse
Mandar
de' Greci, che gli accolga e onori?"
D'ira
infiammossi, e in cotal guisa il biondo
Menelao
gli rispose: "O di Boète
Figliuolo,
Eteonèo, tu non sentivi
Già
dello scemo negli andati tempi,
E or
sembri a me bamboleggiar co' detti.
Non ti
sovvien quante ospitali mense
Spogliammo
di vivande, anzi che posa
Qui
trovassimo al fin, se pur vuol Giove
Privilegiar
dopo cotante pene
La
nostra ultima età? Sciogli i cavalli,
E al
mio convito i forestier conduci".
Ratto
fuor della stanza Eteonèo
Lanciossi;
e tutti a sé gli altri chiamava
Fidi
conservi. Distaccaro i forti
Di
sotto il giogo corridor sudanti,
E al
presepe gli avvinsero, spargendo
Vena
soave di bianc'orzo mista,
E alla
parete lucida il vergato
Cocchio
appoggiâro. Indi per l'ampie stanze
Guidaro
i novelli ospiti, che in giro
D'inusitata
maraviglia carche
Le
pupille movean: però che grande
Gettava
luce, qual di Sole o Luna,
Del
glorïoso Menelao la reggia.
Del
piacer sazî, che per gli occhi entrava,
Nelle
terse calâr tepide conche;
E come
fur dalle pudiche ancelle
Lavati,
di biond'olio unti e di molli
Tuniche
cinti e di vellosi manti,
Si
collocaro appo l'Atride. Quivi
Solerte
ancella da bell'auro vaso
Nell'argenteo
bacile un'onda pura
Versava,
e stendea loro un liscio desco,
Su cui
la saggia dispensiera i pani
Venne
ad impor bianchissimi, e di pronte
Dapi
serbate generosa copia;
E
d'ogni sorta carni in larghi piatti
Recò
l'abile scalco, e tazze d'oro.
Il re,
stringendo ad ambidue la mano:
"Pasteggiate",
lor disse, "ed alla gioia
Schiudete
il cor: poscia, chi siete, udremo.
De'
vostri padri non s'estinse il nome,
E da
scettrati re voi discendete.
Piante
cotali di radice vile,
Sia
loco al vero, germogliar non ponno".
Detto
così, l'abbrustolato tergo
Di
pingue bue, che ad onor grande innanzi
Messo
gli avean, d'in su la mensa tolse,
E
innanzi il mise agli ospiti, che pronte
Steser
le mani all'imbandita fera.
Ma de'
cibi il desir pago e de' vini,
Telemaco,
piegando in vêr l'amico,
Sì che
altri udirlo non potesse, il capo,
Tale a
lui favellò: "Mira, o diletto
Dell'alma
mia, figlio di Nestor, come
Di
rame, argento, avorio, elettro ed oro
L'echeggiante
magion risplende intorno!
Sì
fatta, io credo, è dell'Olimpio Giove
L'aula
di dentro. Oh gl'infiniti oggetti!
Io
maraviglio più, quanto più guardo".
L'intese
il re di Sparta, e ad ambo disse:
"Figliuoli
miei, chi gareggiar mai puote
De'
mortali con Giove? Il suo palagio,
Ciò
ch'ei dentro vi serba, eterno è tutto.
Quanto
all'umana stirpe, altri mi vinca
Di
beni, o ceda; io so che, molti affanni
Durati
e molto navigato mare,
Queste
ricchezze l'ottavo anno addussi.
Cipro,
vagando, e la Fenicia io vidi,
E ai
Sidonî, agli Egizî e agli Etïòpi
Giunsi,
e agli Erembi, e
in
Libia, ove le agnelle
Figlian
tre volte nel girar d'un anno,
E
spuntan ratto a gli agnellin le corna;
Né
signore o pastor giammai difetto
Di
carne pate, o di rappreso latte,
Ridondando
di latte ognora i vasi.
Mentr'io
vagava qua e là, tesori
Raccogliendo,
il fratello altri m'uccise
Di
furto, all'improvvista, e per inganno
Della
consorte maladetta: quindi
Non
lieto io vivo a questi beni in grembo.
Voi,
quai sieno, ed ovunque, i padri vostri,
Tanto
dalla lor bocca udir doveste.
Che non
soffersi? Ruinai dal fondo
Casa di
ricchi arredi e d'agi colma;
Onde
piacesse ai dèi che sol rimasta
Mi
fosse in man delle tre parti l'una,
E
spirasser le vive aure que' prodi
Che,
lungi dalla verde Argo ferace,
Ne'
lati campi d'Ilïòn perîro!
Tutti
io li piango, e li sospiro tutti,
Standomi
spesso ne' miei tetti assiso,
E or mi
pasco di cure, or nuovamente
Piglio
conforto; che non puote a lungo
Viver
l'uom di tristezza, e al fin molesto
Torna
quel pianto che fu in pria sì dolce.
Pure io
di tutti in un così non m'ango,
E
m'ango assai, come d'un sol che ingrato
Mi
rende, ove a lui penso, il cibo e il sonno:
Poiché
Greco nessuno in tutta l'oste
O il
bene oprando, o sostenendo il male,
Pareggiò
Ulisse. Ma dispose il fato
Ch'ei
tormentasse d'ogni tempo, e ch'io
Mesti
per sua cagion traessi i giorni,
Io, che
nol veggio da tanti anni, e ignoro
Se
viva, o morto giaccia. Il piange intanto
Laerte
d'età pieno, e la prudente
Penelope
e Telemaco, che il padre
Lasciò
lattante ne' suoi dolci alberghi".
Disse;
e di pianto subitana voglia
Risvegliossi
in Telemaco, che a terra
Mandò
lagrime giù dalle palpèbre,
Del
padre udendo, ed il purpureo manto
Con le
mani s'alzò dinanzi al volto.
Menelao
ben comprese; e se a lui stesso
Lasciar
nomare il padre, o interrogarlo
Dovesse
pria, né serbar nulla in petto,
Sì e no
tenzonavangli nel capo.
Mentre
cosi fra due stava l'Atride,
Elena
dall'eccelsa e profumata
Sua
stanza venne con le fide ancelle,
Che
Diana parea dall'arco d'oro.
Bel
seggio Adrasta avvicinolle, Alcippe
Tappeto
in man di molle lana, e Filo
Panier
recava di forbito argento,
Don già
d'Alcandra, della moglie illustre
Del
fortunato Pòlibo, che i giorni
Nella
ricca menava Egizia Tebe.
A
Menelao due conche argentee, due
Trìpodi
e dieci aurei talenti ei diede.
Ma la
consorte ornar d'eletti doni
Elena
volle a parte: una leggiadra
Conocchia
d'ôr le porse, ed il paniere
Ritondo
sotto, e di forbito argento,
Se non
quanto le labbra oro guernìa.
Questo
ricolmo di sudato stame
L'ancella
Filo le recava, e sopra
Vi
riposava la conocchia, a cui
Fini si
ravvolgean purpurei velli.
Ella
raccolta nel suo seggio, e posti
Sul
polito sgabello i molli piedi,
Con
questi accenti a Menelao si volse:
"Sappiam
noi, Menelao di Giove alunno,
Chi
siano i due che ai nostri tetti entraro?
Parlar
m'è forza, il vero o il falso io dica:
Però
ch'io mai non vidi, e grande tiemmi
Nel
veder maraviglia, uomo né donna
Così
altrui somigliar, come d'Ulisse
somigliar
dee questo garzone al figlio,
Ch'era
bambino ancor, quando per colpa
Ahi! di
me svergognata, o Greci, a Troia
Giste,
accendendo una sì orrenda guerra".
Tosto
l'Atride dalla bionda chioma:
"Ciò
che a te, donna, a me pur sembra. Quelle
Son
d'Ulisse le mani, i piè son quelli,
E il
lanciar degli sguardi, e il capo e il crine.
Io,
l'Itacese rammentando, i molti
Dicea
disagi ch'ei per me sostenne;
E il
giovane piovea lagrime amare
Giù per
le guance, e col purpureo manto,
Che
alzò ad ambe le man, gli occhi celava".
E
Pisistrato allor: "Nato d'Atrèo,
Di
Giove alunno, condottier d'armati,
Eccoti
appunto di quel grande il figlio.
Ma
verecondo per natura, e giunto
Novellamente,
gli parrebbe indegno
Te
delle voci tue fermar nel corso,
Te, di
cui, qual d'un dio, ci beano i detti.
Nestore,
il vecchio genitor, compagno
Mi fece
a lui, che rimirarti in faccia
Bramava
forte, onde poter dell'opra
Giovarsi,
o almen del tuo consiglio. Tutti
Que'
guai che un figliuol soffre, a cui lontano
Dimora
il padre, né d'altronde giunge
Sussidio
alcun, Telemaco li prova.
Il
genitor gli falla, e non gli resta
Chi dal
suo fianco la sciagura scacci".
"Numi!"
riprese il re dai biondi crini,
"Tra
le mie stesse mura il figlio adunque
D'uomo
io veggio amicissimo, che sempre
Per me
s'espose ad ogni rischio? Ulisse
Ricettare
io pensava entro i miei regni,
Io
carezzarlo sovra tutti i Greci,
Se ad
ambo ritornar su i cavi legni
L'Olimpio
dava onniveggente Giove.
Una io
cedere a lui delle vicine
Volea cittade
Argive, ov'io comando,
E lui
chiamar, che dai nativi sassi
D'Itaca
in quella mia, ch'io prima avrei
D'uomini
vôta e di novelli ornata
Muri e
palagi, ad abitar venisse
Col
figlio, le sostanze e il popol tutto.
Così,
vivendo sotto un cielo, e spesso
L'un
l'altro visitando, avremmo i dolci
Frutti
raccolti d'amistà sì fida,
Né l'un
dall'altro si sarìa disgiunto
Che
steso non si fosse il negro velo
Di
morte sovra noi. Ma un tanto bene
Giove
c'invidïò, cui del ritorno
Piacque
fraudar quell'infelice solo".
Sorse
in ciascuno a tai parole un vivo
Di
lagrime desïo. Piangea la figlia
Di
Giove, l'Argiva Elena, piangea
D'Ulisse
il figlio ed il secondo Atride,
Né
asciutte avea Pisistrato le guance,
Che il
fratello incolpabile, cui morte
Diè
dell'Aurora la famosa prole,
Tra sé
membrava, e che tai detti sciolse:
"Atride,
il vecchio Nestore mio padre
Te di
prudenza singolar lodava,
Sempre
che in mezzo al ragionare alterno
Il tuo
nome venìa. Fa', se di tanto
Pregarti
io posso, oggi a mio senno. Poco
Me
dilettan le lagrime tra i nappi.
Ma del
mattin la figlia il nuovo giorno
Ricondurrà;
né mi fia grave allora
Pianger
chïunque al suo destin soggiacque;
Ché
solo un tale onore agl'infelici
Defunti
avanza, che altri il crin si tronchi,
E alle
lagrime giuste allarghi il freno.
Anco a
me tolse la rea Parca un frate,
Che
l'ultimo non fu dell'oste Greca.
Tu il
sai, che il conoscesti. Io né vederlo
Potei,
né a lui parlar: ma udii che Antiloco
Su
tutti si mostrò gli emuli suoi
Veloce
al corso, e di sua man gagliardo.
E
Menelao dai capei biondi: Amico,
L'uom
più assennato e in più matura etade,
Che non
è questa tua, né pensamenti
Diversi
avrìa, né detti; e ben si pare
Agli
uni e agli altri da chi tu nascesti.
Ratto
la prole d'un eroe si scorge,
Cui del
natale al giorno, e delle nozze
Destinò
Giove un fortunato corso,
Come al
Nelìde, che invecchiare ottenne
Nel suo
palagio mollemente, e saggi
Figli
mirar, non che dell'asta dotti.
Dunque,
sbandito dalle ciglia il pianto,
Si
ripensi alla cena, e un'altra volta
La pura
su le mani onda si sparga.
Sermoni
alterni anche al novello sole
Fra
Telemaco e me correr potranno".
Disse;
ed Asfalïone, un servo attento,
Spargea
su le man l'onda, e i convitati
Nuovamente
cibavansi. Ma in altro
Pensiero
allora Elena entrò. Nel dolce
Vino,
di cui bevean, farmaco infuse
Contrario
al pianto e all'ira, e che l'obblìo
Seco
inducea d'ogni travaglio e cura.
Chïunque
misto col vermiglio umore
Nel
seno il ricevé, tutto quel giorno
Lagrime
non gli scorrono dal volto,
Non, se
la madre o il genitor perduto,
Non, se
visto con gli occhi a sé davante
Figlio
avesse o fratel di spada ucciso.
Cotai
la figlia dell'Olimpio Giove
Farmachi
insigni possedea, che in dono
Ebbe da
Polidamna, dalla moglie
Di Tone
nell'Egitto, ove possenti
Succhi
diversi la feconda terra
Produce,
quai salubri e quai mortali;
Ed ove,
più che i medicanti altrove,
Tutti
san del guarir l'arte divina,
Siccome
gente da Peòn discesa.
Il
nepente già infuso, e a' servi imposto
Versar
dall'urne nelle tazze il vino,
Ella
così parlò: "Figlio d'Atrèo,
E voi,
d'eroi progenie, i beni e i mali
Manda
dall'alto alternamente a ognuno
L'onnipossente
Giove. Or pasteggiate
Nella
magione assisi, e de' sermoni
Piacer
prendete in pasteggiando, mentre
Cose io
racconto, che saranno a tempo.
Non già
ch'io tutte le fatiche illustri
Ricordar
sol del pazïente Ulisse
Possa,
non che narrarle: una io ne scelgo,
Che a
Troia, onde gran duol venne agli Argivi,
L'uom
forte imprese e a fin condusse. Il corpo
Di
sconce piaghe afflisse, in rozzi panni
S'avvolse,
e penetrò nella nemica
Cittade,
occulto e di mendìco e schiavo
Le
sembianze portando, ei che de' Greci
Sì
diverso apparìa lungo le navi.
Tal si
gittò nella Troiana terra,
Né
conoscealo alcuno. Io fui la sola
Che il
ravvisai sotto l'estranie forme,
E
tentando l'andava; ed ei pur sempre
Da me
schermìasi con l'usato ingegno.
Ma come
asperso d'onda, unto d'oliva
L'ebbi,
e di veste cinto, ed affidato
Con
giuramento, che ai Troiani primo
Non
manifesterei, che alle veloci
Navi
non fosse, ed alle tende giunto,
Tutta
ei m'aperse degli Achei la mente.
Quindi,
passati con acuta spada
Molti
petti nemici, all'oste Argiva
Col
vanto si rendé d'alta scaltrezza.
Stridi
mettean le donne Iliache ed urli:
Ma io
gioìa tra me; ché gli occhi a Sparta
Già
rivolgeansi e il core, e da me il fallo
Si
piagneva, in cui Venere mi spinse,
Quando
staccommi dalla mia contrada,
Dalla
dolce figliuola, e dal pudìco
Talamo
e da un consorte, a cui, saggezza
Si
domandi o beltà, nulla mancava.
"Tutto",
l'Atride dalla cròcea chioma,
"Dicesti,
o donna, giustamente. Io terra
Molta
trascorsi, e penetrai col guardo
Di
molti eroi nel sen: ma pari a quella
Del
pazïente Ulisse alma io non vidi.
Quel
che oprò, basti, e che sostenne in grembo
Del
cavallo intagliato, ove sedea,
Strage
portando ad Ilio, il fior de' Greci.
Sospinta,
io credo, da un avverso nume,
Cui la
gloria de' Teucri a core stava,
Là tu
giungesti, e uguale a un dio nel volto
Su
l'orme tue Deïfobo venìa.
Ben tre
fiate al cavo agguato intorno
T'aggirasti;
e il palpavi, e a nome i primi
Chiamavi
degli Achei, contraffacendo
Delle
lor donne le diverse voci.
Nel
mezzo assisi io, Diomede e Ulisse
Chiamar
ci udimmo; e il buon Tidìde ed io
Ci
alzammo, e di scoppiar fuor del cavallo,
O dar
risposta dal profondo ventre,
Ambo
presti eravam: ma nol permise,
E,
benché ardenti, ci contenne Ulisse.
Taceasi
ogni altro, fuorché il solo Anticlo,
Che
risponder voleati, e Ulisse tosto
La
bocca gli calcò con le robuste
Mani
inchiodate, né cessò, che altrove
Te
rimenato non avesse Palla.
Sì di
tutta la Grecia ei fu salute".
"E
ciò la doglia, o Menelao, m'accresce",
Ripigliava
il garzone. "A che gli valse
Tanta
virtù se non potea da morte
Difenderlo,
non che altro, un cor di ferro?
Ma deh!
piacciavi omai che ritroviamo
Dove
posarci, acciò su noi del sonno
La
dolcezza ineffabile discenda".
Sì
disse; e l'Argiva Elena all'ancelle
I letti
apparecchiar sotto la loggia,
Belle
gittarvi porporine coltri,
E
tappeti distendervi, e ai tappeti
Manti
vellosi sovrapporre, ingiunse.
Quelle,
tenendo in man lucide faci,
Usciro,
e i letti apparecchiaro: innanzi
Movea
l'araldo, e gli ospiti guidava.
Così
nell'atrio s'adagiaro entrambi:
Nel più
interno corcavasi l'Atride,
E la
divina tra le donne Elèna
Il
sinuoso peplo, ond'era cinta,
Depose,
e giacque del consorte a lato.
Ma come
del mattin la bella figlia
Rabbellì
il ciel con le rosate dita,
Menelao
sorse, rivestissi, appese
Per lo
pendaglio all'omero la spada,
E i bei
calzar sotto i piè molli avvinse:
Poi,
somigliante nell'aspetto a un nume,
Lasciò
la stanza rapido, e s'assise
Di
Telemaco al fianco; e: "Qual", gli disse,
"Cagione
a Sparta, su l'immenso tergo
Del
negro mar, Telemaco, t'addusse?
Pubblico
affare, o tuo? Schietto favella".
E in
risposta il garzon: "Nato d'Atrèo,
Per
risaper del genitore io venni.
In
dileguo ne van tutti i miei beni,
Colpa
una gente nequitosa e audace,
Che gli
armenti divorami e le gregge,
E
ingombra sempre il mio palagio, e anela
Della
madre alle nozze. Io quindi abbraccio
Le tue
ginocchia, e da te udir m'aspetto,
O
visto, o su le labbra inteso l'abbi
D'un
qualche vïandante, il triste fine
Del padre
mio, che sventurato assai
Della
sua genitrice uscì dal grembo.
Né
timore o pietà così t'assalga,
Che del
ver parte ti rimanga in core.
Venne
mai dal mio padre in opra o in detto,
Bene o
comodo a te, là ne' Troiani
Campi
del sangue della Grecia tinti?
Ecco di
rimembrarlo, Atride, il tempo".
Trasse
il Monarca, dai capei di croco,
Un
profondo sospiro, e: "Ohimè", rispose,
"Volean
d'un eroe dunque uomini imbelli
Giacer
nel letto? Qual se incauta cerva
I
cerbiatti suoi teneri e lattanti
Deposti
in tana di leon feroce,
Cerca,
pascendo, i gioghi erti e l'erbose
Valli
profonde; e quel feroce intanto
Riede
alla sua caverna, e morte ai figli
Porta,
e alla madre ancor: non altrimenti
Porterà
morte ai concorrenti Ulisse.
E oh
piacesse a Giove, a Febo e a Palla,
Che
qual si levò un dì contra il superbo
Filomelìde
nella forte Lesbo,
E tra
le lodi degli Achivi a terra
Con
mano invitta, lotteggiando, il pose,
Tal
costoro affrontasse! Amare nozze
Foran
le loro, e la lor vita un punto.
Quanto
a ciò che mi chiedi, io tutte intendo
Schiettamente
narrarti, e senza inganno,
Le
arcane cose ch'io da Proteo appresi,
Dal
marino vecchion, che mai non mente.
Me, che
alla patria ritornar bramava,
Presso
l'Egitto ritenean gli dèi,
Perché
onorati io non gli avea di sacre
Ecatombi
legittime; ché sempre
L'oblio
de' lor precetti i numi offese.
Giace
contra l'Egitto e all'onde in mezzo
Un'isoletta
che s'appella Faro,
Tanto
lontana, quanto correr puote,
Per un
intero dì concavo legno,
Cui
stridulo da poppa il vento spiri.
Porto
acconcio vi s'apre, onde il nocchiero,
Poscia
che l'acqua non salata attinse,
Facilmente
nel mar vara la nave.
Là
venti dì mi ritenean gli dèi:
Né
delle navi i condottieri amici
Comparver
mai su per l'azzurro piano,
Le
immobili acque ad increspar col fiato.
E già
con le vivande anco gli spirti
Per
fermo ci fallìan, se una dea, fatta
Di me
pietosa, non m'aprìa lo scampo.
Idotèa,
del marin vecchio la figlia,
Cui
fieramente in sen l'alma io commossi,
Occorse
a me, che solitario errava,
Mentre
i compagni dalla fame stretti
Giravan
l'isoletta, ed i ricurvi
Ami
gettavan qua e là nell'onde.
"Forestier",
disse, come fu vicina,
"Sei
tu del senno e del giudicio in bando,
O degli
affanni tuoi prendi diletto,
Che
così, a un ozio volontario in preda,
Nell'isola
t'indugi, e via non trovi
D'uscirne
mai? Langue frattanto il core
De'
tuoi compagni, e si consuma indarno".
"O
qual tu sii delle immortali Dive,
Credi",
io le rispondea, "che da me venga
Così
lungo indugiar? Vien dai beati,
Del
vasto cielo abitatori eterni,
Ch'io
temo aver non leggiermente offesi.
Deh,
poiché nulla si nasconde ai numi,
Dimmi,
qual è di lor che qui m'arresta,
E il
mar pescoso mi rinserra intorno".
E
repente la dea: "Forestier, nulla
Celarti
io ti prometto. Il non bugiardo
Soggiorna
in queste parti Egizio veglio,
L'immortal
PrOteo, mio creduto padre,
Che i
fondi tutti del gran mar conosce,
E
obbedisce a Nettuno. Ei del vIaggio
Ti
mostrerà le strade, e del ritorno,
Dove,
stando in agguato, insignorirti
Di lui
tu possa. E quello ancor, se il brami,
Saprai
da lui, che di felice o avverso
Nella
casa t'entrò, finché lontano
Per vie
ne andavi perigliose e lunghe".
"Ma
tu gli agguati", io replicai, "m'insegna,
Ond'io
così improvviso a Proteo arrivi,
Ch'ei
non mi sfugga dalle mani. Un nume
Difficilmente
da un mortal si doma".
"Questo
avrai pur da me", la dea riprese.
Come
salito a mezzo cielo è il sole,
S'alza
il vecchio divin dal cupo fondo,
E
uscito dalla bruna onda, che il vento
Occidentale
increspagli sul capo,
S'adagia
entro i suoi cavi antri, e s'addorme
E
spesse a lui dormon le foche intorno,
Deforme
razza di Alosidna bella,
Già
pria dell'onda uscite, e il grave odore
Lunge
spiranti del profondo mare.
Io te
là guiderò, te acconciamente
Collocherò,
ratto che il dì s'inalbi:
Ma di
quanti compagni appo la nave
Ti
sono, eleggi i tre che più tu lodi.
Ecco le
usanze del vegliardo, e l'arti:
Pria
noverar le foche a cinque a cinque,
Visitandole
tutte; indi nel mezzo
Corcarsi
anch'ei, quasi pastor tra il gregge.
Vistogli
appena nelle ciglia il sonno,
Ricordatevi
allor sol della forza,
E lui,
che molto si dibatte e tenta
Guizzarvi
delle man, fermo tenete.
Ei
d'ogni belva che la terra pasce,
Vestirà
le sembianze, e in acqua e in foco
Si
cangerà di portentoso ardore;
E voi
gli fate delle braccia nodi
Sempre
più indissolubili e tenaci.
Ma
quando interrogarti al fin l'udrai,
Tal
mostrandosi a te, quale sdraiossi,
Tu
cessa, o prode, dalla forza, e il vecchio
Sciogli,
e sappi da lui chi è tra i numi,
Che ti
contende la natìa contrada".
Disse,
e nelle fiottanti onde s'immerse.
Io,
combattuto da pensier diversi,
Colà
n'andai, dove giacean del mare
Su la
sabbia le navi, a cui da presso
La cena
in fretta s'apprestò. Sorvenne
La
prezïosa notte, e noi sul lido
Ci
addormentammo al mormorìo dell'acque.
Ma
poiché del mattin la bella figlia
Consperse
il ciel d'orïentali rose,
Lungo
il lido io movea, molto ai celesti
Pregando,
e i tre, nel cui valor per tutte
Le men
facili imprese io più fidava,
Conducea
meco. La deessa intanto
Dal
seno ampio del mare, in ch'era entrata,
Quattro
pelli recò, del corpo tratte
Novellamente
di altrettante foche;
E
tramava con esse inganno al padre.
Scavò
quattro covili entro l'arena:
Quindi
s'assise e ci attendea. Noi presso
Ci
femmo a lei, che subito levossi,
E noi
dispose ne' scavati letti,
E i
cuoi recenti ne addossò. Moleste
Le
insidie ivi tornavano; ché troppo
Noiava
delle foche in mar nutrite
L'orrendo
puzzo. E chi a marina belva
Può
giacersi vicin? Se non che al nostro
Stato
provvide la cortese diva,
Che
ambrosia, onde spirava alma fragranza,
Venneci
a por sotto le afflitte nari,
Cui del
mar più non giunse il grave odore.
Tutto
il mattino aspettavam con alma
Forte e
costante. Le deformi foche
Dell'onde
usciro in frotta, e a mano a mano
Tutte
si distendevano sul lido.
Uscìo
sul mezzogiorno il gran vegliardo
E trovò
foche corpulente e grasse,
Che
attento annoverò. Contò noi prima,
Né di
frode parea nutrir sospetto.
Ciò
fatto, ei pur nella sua grotta giacque.
Ci
avventammo con grida, e le robuste
Braccia
al vecchio divin gittammo intorno,
Che
l'arti sue non obliò in quel punto.
Leone
apparve di gran giubba, e in drago
Voltossi,
ed in pantera, e in verro enorme,
E corse
in onda liquida, e in sublime
Pianta
chiomata verdeggiò. Ma noi
Il
tenevam fermo più sempre. Allora
L'astuto
veglio, che nel petto stanco
Troppo
sentiasi omai stringer lo spirto,
Con
queste voci interrogommi: "Atride,
Qual fu
de' numi che d'insidiarmi
Ti diè
il consiglio, e di pigliarmi a forza?
Di che
mestieri hai tu? "Proteo", io risposi,
"Tu
il sai. Perché il dimandi, e ancor t'infingi?
Sai che
gran tempo l'isoletta tiemmi,
Che
scampo quinci io non ritrovo, e sento
Distruggermisi
il core. Ah! dimmi, quando
Nulla
celasi ai dèi, chi degli Eterni
M'inceppa
e mi rinchiude il mare intorno".
"Non
dovevi salpar", riprese il dio,
"Che
onorato pria Giove e gli altri numi
Di
sagrifici non avessi opimi,
Se in
breve al natìo suol giungere ardevi.
Or la
tua patria, degli amici il volto,
E la
magion ben fabbricata il fato
Riveder
non ti dà, dove tu prima
Del
fiume Egitto, che da Giove scende,
Non
risaluti la corrente, e porgi
Ecatombe
perfette ai dii beati,
Che il
bramato da te mar t'apriranno".
A tai
parole mi s'infranse il core,
Udendo
che d'Egitto in su le rive
Ricondurmi
io dovea per gli atri flutti,
Lunga e
difficil via. Pur dissi: "Vecchio,
Ciò
tutto io compierò. Ma or rispondi,
Ti
priego, a questo, e schiettamente parla:
Salvi
tornaro co' veloci legni
Tutti
gli Achivi che lasciammo addietro,
Partendo
d'Ilïòn, Nestore ed io?
O perì
alcun d'inopinata morte
Nella
sua nave, o ai cari amici in grembo,
Posate
l'armi, per cui Troia cadde?"
"Atride",
ei replicò, perché tal cosa
Mi
cerchi tu? Quel ch'io nell'alma chiudo,
Saper
non fa per te, cui senza pianto,
Tosto
che a te palese il tutto fia,
Non
rimarrà lunga stagione il ciglio.
Molti
colpì l'inesorabil Parca,
E molti
non toccò. Due soli duci
De'
vestiti di rame Achei guerrieri
Moriro
nel ritorno; e, ritenuto
Del
vasto mar nel seno, un terzo vive;
Aiace
ai legni suoi dai lunghi remi
Perì
vicino. Dilivrato in prima
Dall'onde
grosse, e su gli enormi assiso
Girèi
macigni, a cui Nettun lo spinse,
Potea
scampar, benché a Minerva in ira,
Se non
gli uscìa di bocca un orgoglioso
Motto
che assai gli nocque. Osò vantarsi
Che, in
dispetto agli déi, vincer del mare
Le
tempeste varrìa. Nettuno udillo
Borïante
in tal guisa, e col tridente,
Che in
man di botto si piantò, percosse
La
Girèa pietra, e in due spezzolla: l'una
Colà
restava, e l'altra, ove sedea
Della
percossa travagliato il Duce,
Si
rovesciò nel pelago, e il portava
Pel
burrascoso mare, in cui, bevuta
Molta
salsa onda, egli perdeo la vita.
Il tuo
fratello, col favor di Giuno,
Morte
sfuggì nella cavata nave.
Ma come
avvicinossi all'arduo capo
Della
Malèa, fiera tempesta il colse,
E tra
profondi gemiti portollo
Sino al
confin della campagna, dove
Tieste
un giorno, e allora Egisto, il figlio
Di
Tieste, abitava. E quinci ancora
Parea
sicuro il ritornar; ché i numi
Voltàr
subito il vento, e in porto entraro
Gli
stanchi legni. Agamennòn di gioia
Colmo
gittossi nella patria terra,
E toccò
appena la sua dolce terra,
Che a
baciarla chinossi, e per la guancia
Molte
gli discorrean lagrime calde,
Perché
la terra sua con gioia vide.
Ma il
discoprì da una scoscesa cima
L'esplorator,
che il fraudolento Egisto
Con
promessa di due talenti d'oro
Piantato
aveavi. Ei, che spïando stava
Dall'eccelsa
veletta un anno intero
Non
trapassasse ignoto, e forse a guerra
Intalentato
il tuo fratello, corse
Con
l'annunzio al signor, che un'empia frode
Repente
ordì. Venti, e i più forti, elesse:
E in
agguato li mise, e imbandir feo
Mensa
festiva: indi a invitar con pompa
Di
cavalli e di cocchi andò l'Atride,
Cose
orrende pensando, e il ricondusse;
E,
accolto a mensa, lo scannò qual toro,
Cui
scende su la testa, innanzi al pieno
Presepe
suo, l'inaspettata scure.
Non
visse d'Agamènnone o d'Egisto
Solo un
compagno, ma di tutti corse
Confuso
e misto nel palagio il sangue".
E a me
schiantossi il core a queste voci.
Pianto
io versava, su l'arena steso,
Né più
mirar del sol volea la luce.
Ma come
di plorar, di voltolarmi
Sovra
il nudo terren sazio gli parvi,
Tal
seguitava il non mendace vecchio:
"Resta,
o figlio d'Atrèo, dall'infinite
Lagrime
per un mal che omai compenso
Non
pate alcuno, e t'argomenta in vece,
Più
veloce che puoi, riedere in Argo.
Troverai
vivo ne' suoi tetti Egisto,
O
l'avrà poco dianzi Oreste ucciso,
E tu al
funèbre assisterai banchetto".
Disse,
e di gioia un improvviso raggio
Nel mio
cor balenava. "Io già d'Aiace",
Risposi,
"e del fratello assai compresi.
Chi è
quel terzo che il suo reo destino
Vivo
nel sen del mare, o estinto forse
Ritiene?
Io d'udir temo e bramo a un tempo".
E
nuovamente il non bugiardo veglio:
"D'Itaca
il re, che di Laerte nacque.
Costui
dirotto dalle ciglia il pianto
Spargere
io vidi in solitario scoglio,
Soggiorno
di Calipso, inclita ninfa,
Che
rimandarlo niega: ond'ei, cui solo
Non avanza
un naviglio, e non compagni
Che il
trasportin del mare su l'ampio dorso.
Star
gli convien dalla sua patria in bando.
Ma tu,
tu, Menelao, di Giove alunno,
Chiuder
gli occhi non dèi nella nutrice
Di
cavalli Argo; ché non vuole il fato.
Te
nell'Elisio campo, ed ai confini
Manderan
della terra i numi eterni,
Là 've
risiede Radamanto, e scorre
Senza
cura o pensiero all'uom la vita.
Neve
non mai, non lungo verno o pioggia
Regna
colà; ma di Favonio il dolce
Fiato,
che sempre l'Oceàno invia,
Que'
fortunati abitator rinfresca.
Perché
ad Elena sposo, e a Giove stesso
Genero
sei, tal sortirai ventura.
Tacque,
e saltò nel mare, e il mar l'ascose.
Io, da
vari pensier l'alma turbato,
Movea
co' prodi amici in vêr le navi.
La cena
s'apprestò. Cadde la notte,
Dell'uom
ristoratrice, e noi del mare
Ci
addormentammo sul tranquillo lido.
Ma del
mattin la figlia ebbe consperso
Di rose
orïentali appena il cielo,
Che nel
divino mar varammo i legni,
D'uguali
sponde armati, e con le vele
Gli
alberi alzammo: entrâro, e sovra i banchi
I
compagni sedettero, ed assisi
Co'
remi percotean l'onde spumose
Del
fiume Egitto, che da Giove scende.
Un'altra
volta all'abborrita foce
Io
fermai le mie navi, e giuste ai numi
Vittime
offersi, e ne placai lo sdegno.
Eressi
anco al german tomba, che vivo
In
quelle parti ne serbasse il nome.
Dopo
ciò, rimbarcàimi, e con un vento
Che mi
ferìa dirittamente in poppa,
Pervenni,
folgorando, ai porti miei.
Or,
Telemaco, via, tanto ti piaccia
Rimaner,
che l'undecima riluca
Nell'orïente,
o la duodecim'alba.
Io ti
prometto congedarti allora
Con
doni eletti: tre destrieri e un vago
Cocchio,
ed inoltre una leggiadra tazza
Da
libare ai celesti, acciò non sorga
Giorno
che il tuo pensiero a me non torni".
Il
prudente Telemaco rispose:
"Gran
tempo qui non ritenermi, Atride.
Non che
a me non giovasse un anno intero,
La
patria e i miei quasi obblïando, teco
Queste
case abitar, ché alla tua voce
L'alma
di gioia ricercarmi io sento.
Ma già
muoion di tedio i miei compagni
Nell'alta
Pilo; e tu m'arresti troppo.
Qualsiasi
il don di che mi vuoi far lieto,
Un
picciol sia tuo prezïoso arnese.
Ad
Itaca i destrieri addur non penso;
Penso
lasciarli a te, bello de' tuoi
Regni
ornamento: perocché signore
Tu sei
d'ampie campagne, ove fiorisce
Loto e
cipéro, ove frumenti e spelde,
Ove il
bianc'orzo d'ogni parte alligna.
Ma non
larghe carriere, e non aperti
Prati
in Itaca vedi: è di caprette
Buona
nutrice, e a me di ver più grata,
Che se
cavalli nobili allevasse.
Nulla
del nostro mare isola in verdi
Piani
si stende, onde allevar destrieri;
E men
dell'altre ancora Itaca mia".
Sorrise
il forte ne' conflitti Atride,
E la
mano a Telemaco stringendo:
"Sei",
disse, "o figlio, di buon sangue, e a questa
Tua
favella il dimostri. Ebbene, i doni
Ti
cambierò: farlo poss'io. Di quanto
La mia
reggia contien, ciò darti io voglio,
Che più
mi sembra prezïoso e raro:
Grande
urna effigïata, argento tutta,
Dai
labbri in fuor, sovra cui l'oro splende,
Di
Vulcano fattura. Io dall'egregio
Fèdimo,
re di Sidone, un dì l'ebbi,
Quando
il palagio suo me, che di Troia
Venìa,
raccolse; e tu n'andrai con questa.
Così
tra lor si ragionava. Intanto
Dell'Atride
i ministri al suo palagio
Conducean
pingui pecorelle, e vino
Di
coraggio dator, mentre le loro
Consorti
il capo di bei veli adorne
Candido
pan recavano. In tal guisa
Si
mettea qui l'alto convivio in punto.
Ma in
altra parte, e alla magion davante
Del
magnanimo Ulisse, i proci alteri
Dischi
lanciavan per diletto, e dardi
Sul
pavimento lavorato e terso,
Della
baldanza lor solito campo.
Solo i
due capi, che di forza e ardire
Tutti
vinceano, il pari in volto ai numi
Eurimaco
ed Antìnoo, erano assisi.
S'accostò
loro, ed al secondo volse
Di
Fronio il figlio, Noemòn, tai detti:
"Antinoo,
il dì lice saper, che rieda
Telemaco
da Pilo? Ei dipartissi,
Con la
mia nave che or verrìami ad uopo,
Per
tragittar nell'Elide, ove sei
Pasconmi
e sei cavalle, ed altrettanti
Muli
non domi, che lor dietro vanno,
E di
cui, razza faticante, alcuno
Rimenar
bramo e accostumarlo al giogo".
Stupìano
i prenci che ne' suoi poderi
De'
montoni al custode, o a quel de' verri
Trapassato
il credeano, e non al saggio
Figliuol
di Neleo nell'eccelsa Pilo.
"Quando
si dipartì?" rispose il figlio
D'Eupìte,
Antinoo. "E chi seguillo? Scelti
Giovani
forse d'Itaca, o gli stessi
Suoi
mercenari e schiavi? E osava tanto?
Schietto
favella. Saper voglio ancora,
Se a
mal cuor ti lasciasti il legno tôrre,
O a
lui, che tel chiedea, di grado il desti".
"Il
diedi a lui, che mel chiedea, di grado",
Noemón
ripigliò. "Chi potea mai
Con sì
nobil garzone e sì infelice
Stare
in sul niego? Gioventù seguillo
Della
miglior tra il popolo Itacese,
E
condottier salìa la negra nave
Mentore,
o un dio che ne vestìa l'aspetto.
E
maraviglio io ben ch'ieri sull'alba
Mentore
io scôrsi. Or come allor la negra
Nave
salì, che veleggiava a Pilo?"
Disse,
e del padre alla magion si rese.
Atterriti
rimasero. Cessâro
Gli
altri da' giuochi, e s'adagiaro anch'essi,
E a
tutti favellò d'Eupìte il figlio:
[Se gli
gonfiava della furia il core
Di
caligine cinto, e le pupille
Nella
fronte gli ardean come due fiamme.]
"Grande
per fermo e audace impresa è questo,
Cui già
nessun di noi fede prestava,
Vïaggio
di Telemaco! Un garzone,
Un
fanciullo gittar nave nel mare,
Di
tanti uomini ad onta, e aprire al vento
Con la
più scelta gioventù le vele?
Né il
male qui s'arresta: ma Giove
A
Telemaco pria franga ogni possa,
Che una
tal piaga dilatarsi io veggia.
Su,
via, rapida nave e venti remi
A me,
sì ch'io lo apposti, e al suo ritorno
Nel
golfo, che divide Itaca e Same,
Colgalo;
e il folle con suo danno impari
L'onde
a stancar del genitore in traccia".
Così
Antinoo parlò. Lodi e conforti
Gli
davan tutti: indi sorgeano, e il piede
Nell'alte
stanze riponean d'Ulisse.
Ma de'
consigli che nutrìano in mente,
Penelope
non fu gran tempo ignara.
Ne la
feo dotta il banditor Medonte,
Che
udìa di fuori la consulta iniqua,
E agli
orecchi di lei pronto recolla.
Ella
nol vide oltrepassar la soglia,
Che sì
gli disse: "Araldo, onde tal fretta?
Ed a
che i proci ti mandâro? Forse
Perché
d'Ulisse le solerti ancelle
Dai
lavori si levino, e l'usato
Convito
apprestin loro? O fosse questo
De'
conviti l'estremo, e a me travaglio
Più non
desser, né altrui! Tristi! che, tutto
Del
prudente Telemaco il retaggio
Per
disertar, vi radunate in folla.
E non
udiste voi da' vostri padri,
Mentr'eravate
piccioletti e imberbi,
I modi
che tenea con loro Ulisse,
Nessuno
in opre molestando, o in detti,
Costume
pur degli uomini scettrati,
Che
odio portano agli uni, e agli altri amore?
Non
offese alcun mai: quindi l'indegno
Vostro
adoprar meglio si pare, e il merto
Che di
tanti favor voi gli rendete".
Ed il
saggio Medonte: "Ai dèi piacesse
Che
questo il peggior mal, reina, fosse!
Altro
dai proci se ne cova in petto
Più
grave assai, che Giove sperda: il caro
Figlio,
che a Pilo sacra, e alla divina
Sparta
si volse, per ritrar del padre,
Ucciderti
di spada al suo ritorno".
Penelope
infelice, a tali accenti
Scioglier
sentissi le ginocchia e il core.
Per
lungo spazio la voce mancolle,
Gli
occhi di pianto le s'empièr, distinta
Non
poteale dai labbri uscir parola:
Rispose
al fine: "Araldo, e perché il figlio
Da me
staccossi? Qual cagion, qual forza
Sospingealo
a salir le ratte navi,
Che
destrieri del mar sono, e l'immensa
Varcano
umidità? Brama egli dunque
Che né
resti di sé nel mondo il nome?"
"Qual
de' due spinto", il banditor riprese,
"L'abbia
sul mare, a domandar del padre,
Se la
propria sua voglia, o un qualche nume,
Reina,
ignoro". E sovra l'orme sue
Ritornò,
così detto, il fido araldo.
Fiera
del petto roditrice doglia
Penelope
ingombrò; né, perché molti
Fossero
i seggi, le bastava il core
Di
posare in alcun; sedea sul nudo
Limitar
della stanza, acuti lai
Mettendo;
e quante la servìano ancelle,
Sì da
canuta età, come di bionda,
Ululavano
a lei d'intorno tutte.
Ed
ella, forte lagrimando: "Amiche,
Uditemi",
dicea. "Tra quante donne
Nacquero
e crebber meco, ambasce tali
Chi
giammai tollerò? Prima un egregio
Sposo
io perdei, d'invitto cor, fregiato
D'ogni
virtù tra i Greci, ed il cui nome
Per
l'Ellada risuona, e tutta l' Argo.
Poi le
tempeste m'involaro il dolce
Mio
parto, in fama non ancor salito,
E del
vïaggio suo nulla io conobbi.
Sciaurate!
eravi pur l'istante noto,
Ch'ei
nella cava entrò rapida nave:
Né di
voi fu, cui suggerisse il core
Di
scuotermi dal sonno? Ov'io la fuga
Potuto
avessi presentirne, certo
Da me,
benché a fatica, ei non partìa,
O me
lasciava nel palagio estinta.
Ma dei
serventi alcun tosto mi chiami
L'antico
Dolio, schiavo mio, che dato
Fummi
dal genitor, quand'io qua venni,
Ed or
le piante del giardin m'ha in cura.
Vo' che
a Laerte corra, e il tutto narri,
Sedendosi
appo lui, se mai Laerte,
Di
pianto aspersa la senil sua guancia,
Mostrar
credesse al popolo, e lagnarsi
Di
color che schiantar l'unico ramo
Di lui
vorrìano, e del divino Ulisse".
E la
diletta qui balia Euriclèa:
"Sposa
cara", rispose, "o tu m'uccida,
O nelle
stanze tue viva mi serbi,
Parlerò
aperto. Il tutto io seppi, e al figlio
Le
candide farine e il rosso vino
Consegnai:
ma giurar col giuramento
Più
sacro io gli dovei, che ove agli orecchi
Non ti
giugnesse della sua partenza
Aura
d'altronde, e tu men richiedessi,
Io
tacerei, finché spuntasse in cielo
La
dodicesim'aurora, onde col pianto
Da te
non s'oltraggiasse il tuo bel corpo.
Su via,
ti bagna, e bianca veste prendi,
E, con
le ancelle tue nell'alto ascesa,
Priega
Minerva che il figliuol ti guardi:
Né
affligger più con imbasciate il veglio
Già per
sé afflitto assai. No, tanto ai numi
Non è
d'Arcesio la progenie in ira,
Che un
germe viver non ne debba, a cui
Queste
muraglie sorgano, e i remoti
Si
ricuopran di messe allegri campi".
Con
queste voci le sopì nel petto
La
doglia, e il pianto le arrestò sul ciglio
Ella
bagnossi, bianca veste prese,
E, con
le ancelle sue, nell'alto ascesa,
Pose il
sacr'orzo nel canestro e il sale,
E a
Palla supplicò. "M'ascolta", disse,
"O
dell'Egìoco Giove inclita figlia.
Se il
mio consorte ne' paterni tetti
Pingui
d'agna o di bue cosce mai t'arse,
Oggi
per me ten risovvenga: il figlio
Guardami,
e sgombra dal palagio i proci,
Di cui,
più ciascun dì monta l'orgoglio".
Scoppiò
in un grido dopo tai parole,
E
l'Atenèa Minerva il priego accolse.
Tumulto
fean sotto le oscure volte
Coloro
intanto, e alcun dicea: "La molto
Vagheggiata
Reina omai le nozze
Ci
appresta, e ignora che al suo figlio morte
S'apparecchia
da noi". Tanto dal vero
Quelle
superbe menti ivan lontane.
Ed
Antinoo: "Sciaurati, il dire incauto,
Che
potrìa dentro penetrar, frenate.
Ma che
più badiam noi? Tacitamente
Quel
che tutti approvar mettiamo in opra.
Ciò
detto, venti scelse uomini egregi,
Ed al
mare avvïossi. Il negro legno
Varâro,
alzaro l'albero, assettaro
Gli
abili remi in volgitoi di cuoio,
E le
candide vele ai venti apriro.
Poi,
recate arme dagli arditi servi,
Nell'alta
onda fermâr la negra nave.
Quivi
cenaro; e stavansi aspettando
Che più
crescesse della notte il buio.
Ma la
grama Penelope nell'alto
Giacea digiuna,
non gustando cibo,
Bevanda
non gustando; e a lei nel petto
Sul
destin dubbio di sì cara prole
Fra la
speme e il timor l'alma ondeggiava.
Qual
de' lattanti leoncin la madre,
Cui fan
corona insidïosa intorno
I
cacciatori, che a temere impara,
E in diversi
pensier l'alma divide:
Tal fra
sè rivolvea cose diverse,
Finché
la invase un dolce sonno. Stesa
Sul
letto, e tutte le giunture sciolta,
La
donna inconsolabile dormìa.
Allor
la dea dall'azzurrino sguardo
Nuova
cosa pensò. Compose un lieve
Fantasma,
che sembrava in tutto Iftima,
D'Icario
un'altra figlia, a cui legato
S'era
con nodi maritali Eumelo,
Che in
Fere di Tessaglia avea soggiorno.
Questa
Iftima invïò d'Ulisse al tetto,
Che
alla Reina tranquillasse il core,
E i
sospiri da lei bandisse e il pianto.
Pel
varco angusto del fedel serrame
Entrò
il fantasma, e, standole sul capo:
"Riposi
tu, Penelope", dicea,
"Nel
tuo cordoglio? Gl'immortali dèi
Lagrimosa
non voglionti, nè trista.
Riederà
il figliuol tuo, perché de' numi
L'ira
col suo fallir mai non incorse".
E la
Reina, che dormìa de' sogni
Soavissimamente
in su le porte:
"Sorella,
a che venistu? io mai da prima
Non ti
vedea, così da lunge alberghi;
E or
vuoi ch'io vinca quel martìr che in cento
Guise
mi stringe l'alma, io, che un consorte
Perdei
sì buon, di sì gran core, ornato
D'ogni
virtù tra i Greci, ed il cui nome
Per
l'Ellada risuona e l'Argo tutta!
S'arroge
a questo, che il diletto figlio
Partì
su ratta nave, un giovinetto
Delle
fatiche e dell'usanze ignaro.
Più
ancor per lui, che per Ulisse, io piango
E temo
nol sorprenda o tra le genti
Straniere,
o in mare, alcun sinistro: tanti
Nemici
ha che l'insidiano, e di vita
Prima
il desìan levar, ch'egli a me torni".
Ratto
riprese il simulacro oscuro:
"Scaccia
da te questi ribrezzi, e spera.
Compagna
il segue di cotanta possa,
Che
ognun per sé la bramerìa: Minerva,
Cui
pietà di te punse e di cui fida,
Per tuo
conforto ambasciatrice io venni".
E la
saggia Penelope a rincontro:
"Poiché
una dea sei dunque, o almeno udisti
La voce
d'una dea, parlarmi ancora
Di
quell'altro infelice or non potrai?
Vive?
rimira in qualche parte il Sole?
O ne'
bassi calò regni di Pluto?"
Ratto
riprese il simulacro oscuro:
"S'ei
viva, o no, non t'aspettar ch'io narri.
Spender
non piace a me gli accenti indarno".
Disse;
e pel varco, ond'era entrata, uscendo
Si
mescolò co' venti e dileguossi.
Ma la
reina si destò in quel punto,
Ed il
cor si sentì d'un'improvvisa
Brillar
letizia, che lasciolle il sogno,
Che sì
chiaro le apparve innanzi l'alba.
I proci
l'onde già fendeano, estrema
Macchinando
a Telemaco ruina.
Siede
tra la pietrosa Itaca e Same
Un'isola
in quel mar, che Asteri è detta,
Pur
dirupata, né già troppo grande,
Ma con
sicuri porti, in cui le navi
D'ambo
i lati entrar ponno. Ivi in agguato
Telemaco
attendean gl'iniqui Achei.
LIBRO V
Già
l'Aurora, levandosi a Titone
D'allato,
abbandonava il croceo letto,
E ai
dèi portava ed ai mortali il giorno;
E già
tutti a concilio i dèi beati
Sedean
con Giove altitonante in mezzo,
Cui di
possanza cede ogni altro nume.
Memore
Palla dell'egregio Ulisse,
Che mal
suo grado appo la ninfa scorge,
I molti
ritesseane acerbi casi:
"O
Giove", disse, "e voi tutti d'Olimpo
Concittadini,
che in eterno siete,
Spoglisi
di giustizia e di pietade,
E
iniquitate e crudeltà si vesta
D'ora
innanzi ogni re, quando l'imago
D'Ulisse
più non vive in un sol core
Di
quella gente ch'ei reggea da padre.
Ei
nell'isola intanto, ove Calipso
In cave
grotte ripugnante il tiene,
Giorni
oziosi e travagliosi mena;
E del
tornare alla sua patria è nulla,
Poiché
navi non ha, non ha compagni,
Che il
carreggin del mar su l'ampio tergo.
Che
più? Il figliuol, che all'arenosa Pilo
Mosse
ed a Sparta, onde saver di lui,
Tôr di
vita si brama al suo ritorno.
"Figlia,
qual ti sentii fuggir parola
Dal
recinto de' denti?" a lei rispose
L'adunator
di nubi Olimpio Giove;
"Tu
stessa in te non divisavi, come
Rieda
Ulisse alla patria, e di que' tristi
Vendetta
faccia? In Itaca il figliuolo
Per
opra tua, chi tel contende? salvo
Rïentri,
e l'onde navigate indarno
Rinavighi
de' proci il reo naviglio.
Disse,
e a Mercurio, sua diletta prole,
Così si
rivolgea: "Mercurio, antico
De'
miei comandi apportator fedele,
Vanne,
alla ninfa dalle crespe chiome
Il
fermo annunzia mio voler, che Ulisse
Le
native contrade omai rivegga,
Ma nol
guidi uom, né dio. Parta su travi,
Con
multiplici nodi in un congiunte,
E il
ventesimo dì della feconda
Scheria
le rive, sospirando, attinga;
E i
Feaci l'accolgano, che quasi
Degl'immortali
al par vivon felici.
Essi
qual nume onoreranlo, e al dolce
Nativo
loco il manderan per nave;
Rame in
copia darangli, ed oro e vesti,
Quanto
al fin seco dalla vinta Troia
Condotto
non avrìa, se con la preda,
Che gli
toccò, ne ritornava illeso:
Ché la
patria così, gli amici e l'alto
Riveder
suo palagio, è a lui destino".
Obbedì
il prode messaggiero. Al piede
S'avvinse
i talar belli, aurei, immortali,
Che sul
mare il portavano, e su i campi
Della
terra infiniti, al par col vento.
Poi,
l'aurea verga nelle man recossi,
Onde i
mortali dolcemente assonna,
Quanti
gli piace, e li dissonna ancora,
E con
quella tra man l'aure fendea.
Come
presi ebbe di Pïeria i gioghi,
Si calò
d'alto, e si gettò sul mare:
Indi
l'acque radea velocemente,
Simile
al laro, che pe' vasti golfi
S'aggira
in traccia de' minuti pesci,
E
spesso nel gran sale i vanni bagna.
Non
altrimenti sen venìa radendo
Molte
onde e molte l'Argicìda Ermete.
Ma
tosto che fu all'isola remota,
Salendo
allor dagli azzurrini flutti,
Lungo
il lido ei sen gìa, finché vicina
S'offerse
a lui la spazïosa grotta,
Soggiorno
della ninfa il crin ricciuta,
Cui
trovò il nume alla sua grotta in seno.
Grande
vi splendea foco, e la fragranza
Del
cedro ardente e dell'ardente tio
Per
tutta si spargea l'isola intorno.
Ella,
cantando con leggiadra voce,
Fra i
tesi fili dell'ordìta tela
Lucida
spola d'ôr lanciando andava.
Selva ognor
verde l'incavato speco
Cingeva:
i pioppi vi cresceano e gli alni
E gli
spiranti odor bruni cipressi:
E tra i
lor rami fabbricato il nido
S'aveano
augelli dalle lunghe penne,
Il
gufo, lo sparviere e la loquace
Delle
rive del mar cornacchia amica.
Giovane
vite di purpurei grappi
S'ornava
e tutto rivestìa lo speco.
Volvean
quattro bei fonti acque d'argento,
Tra sé
vicini prima, e poi divisi
L'un
dall'altro e fuggenti; e di vïole
Ricca
si dispiegava in ogni dove
De'
molli prati l'immortal verzura.
Questa scena
era tal, che sino a un nume
Non
potea farsi ad essa, e non sentirsi
Di
maraviglia colmo e di dolcezza.
Mercurio,
immoto, s'ammirava; e, molto
Lodatola
in suo core, all'antro cavo,
Non
indugiando più, dentro si mise.
Calipso,
inclita dea, non ebbe in lui
Gli
occhi affissati, che il conobbe: quando,
Per
distante che l'un dall'altro alberghi,
Celarsi
l'uno all'altro i dèi non ponno.
Ma
nella grotta il generoso Ulisse
Non
era: mesto sul deserto lido,
Cui
spesso si rendea, sedeasi; ed ivi
Con
dolori, con gemiti, con pianti
Struggeasi
l'alma, e l'infecondo mare
Sempre
agguardava, lagrime stillando.
La diva
il nume interrogò, cui posto
Su
mirabile avea seggio lucente:
"Mercurio,
nume venerato e caro,
Che
della verga d'ôr la man guernisci,
Qual
mai cagione a me, che per l'addietro
Non
visitavi, oggi t'addusse? Parla.
Cosa
ch'io valga oprar, né si sconvegna,
Disdirti
io non saprei, se il pur volessi.
Su via,
ricevi l'ospital convito:
Poscia
favellerai". Detto, la mensa,
Che
ambrosia ricoprìa, gli pose avanti,
Ed il
purpureo néttare versògli.
Questo
il celere messaggiero e quella
Prendea;
né prima nelle forze usate
Tornò,
che aprìa le labbra in tali accenti:
"Tu
dea me dio dunque richiedi? Il vero,
Poiché
udirlo tu vuoi, schietto io ti narro.
Questo
viaggio di Saturno il figlio
Mal mio
grado mi diè. Chi vorrìa mai
Varcar
tante onde salse, infinite onde,
Dove
città non sorge, e sagrificî
Non
v'ha chi ci offra, ed ecatombe illustri?
Ma il
precetto di Giove a un altro nume
Né vïolar, né oblïar lice. Teco,"
Disse
l'Egidarmato, "i giorni mena
L'uom
più gramo tra quanti alla cittade
Di
Priamo innanzi combattean nove anni,
Finché
il decimo alfin, Troia combusta,
Spiegâro
in mar le ritornanti vele.
Ma nel
cammino ingiurïar Minerva,
Che
destò le bufere, e immensi flutti
Contra
lor sollevò. Tutti perîro
Di
quest'uomo i compagni; ed ei dal vento
Venne,
e dal fiotto ai lidi tuoi portato.
Or tu
costui congederai di botto;
Ché non
morir dalla sua terra lunge,
Ma la
patria bensì, gli amici e l'alto
Riveder
suo palagio, è a lui destino".
Inorridì
Calipso, e con alate
Parole
rispondendo: "Ah, numi ingiusti,"
Sclamò,
"che invidia non più intesa è questa,
Che se
una dea con maritale amplesso
Si
congiunge a un mortal, voi non soffrite?
Quando
la tinta di rosato Aurora
Orïone
rapì, voi, dèi, cui vita
Facile
scorre, acre livor mordea,
Finché
in Ortigia il rintracciò la casta
Dal
seggio aureo Dïana, e d'improvvisa
Morte
il colpì con invisibil dardo.
E allor
che venne, inanellata il crine,
Cerere
a Giasïon tutta amorosa,
E nel
maggese, che il pesante aratro
Tre
volte aperto avea, se gli concesse,
Giove,
cui l'opra non fu ignota, uccise
Giasïon
con la folgore affocata.
Così
voi, dèi, con invid'occhio al fianco
Mi
vedete un eroe da me serbato,
Che
solo stava in su i meschini avanzi
Della
nave, che il telo igneo di Giove
Nel
mare oscuro gli percosse e sciolse.
Io
raccogliealo amica, io lo nutria
Gelosamente,
io prometteagli eterni
Giorni,
e dal gel della vecchiezza immuni.
Ma
quando troppo è ver che alcun di Giove
Precetto
vïolare a un altro nume
Non
lice, od obblïar, parta egli e solchi,
Se il
comandò l'Egidarmato, i campi
Non
seminati. Io nol rimando certo;
Ché
navi a me non sono e non compagni,
Che del
mare il carreggino sul tergo.
Ben
sovverrógli di consiglio, e il modo
Gli
additerò, che alla sua dolce terra
Su i
perigliosi flutti ei giunga illeso".
"Ogni
modo il rimanda," l'Argicida
Soggiunse,
"e pensa che infiammarsi d'ira
Potrebbe
contra te l'Olimpio un giorno".
E sul
fin di tai detti a lei si tolse.
L'augusta
ninfa, del Saturnio udita
la severa
imbasciata, il prode Ulisse
Per
cercar s'avvïò. Trovollo assiso
Del mar
in su la sponda, ove le guance
Di
lagrime rigava, e consumava
Col
pensier del ritorno i suoi dolci anni;
Ché
della ninfa non pungealo amore:
E se le
notti nella cava grotta
Con lei
vogliosa non voglioso passa,
Che
altro l'eroe può? Ma quanto è il giorno,
Su i
lidi assiso e su i romiti scogli,
Con
dolori, con gemiti con pianti
Struggesi
l'alma, e l'infecondo mare,
Lagrime
spesse lagrimando, agguarda.
Calipso,
illustre dea, standogli appresso:
"Sciagurato",
gli disse, in questi pianti
"Più
non mi dar, né consumare i dolci
Tuoi
begli anni così: la dipartita,
Non che
vietarti, agevolarti io penso.
Su via,
le travi nella selva tronche,
Larga e
con alti palchi a te congegna
Zattera,
che sul mar fosco ti porti.
Io di
candido pan, che l'importuna
Fame
rintuzzi, io di purissim'onda,
E di
rosso licor, gioia dell'alma,
La
carcherò: ti vestirò non vili
Panni,
e ti manderò da tergo un vento,
Che
alle contrade tue ti spinga illeso,
Sol che
d'Olimpo agli abitanti piaccia,
Con cui
di senno in prova io già non vegno".
Raccapricciossi
a questo il non mai vinto
Dalle
sventure Ulisse, e: "O dea", rispose
Con
alate parole, "altro di fermo,
Non il
congedo mio, tu volgi in mente,
Che
vuoi ch'io varchi su tal barca i grossi
Del
difficile mar flutti tremendi,
Che le
navi più ratte, e d'uguai fianchi
Munite,
e liete di quel vento amico
Che da
Giove partì, varcano appena.
No: su
barca sì fatta, e a tuo dispetto,
Non
salirò, dove tu pria non degni
Giurare
a me con giuramento grande,
Che
nessuno il tuo cor danno m'ordisce".
Sorrise
l'Atlantìde, e, della mano
Divina
carezzandolo, la lingua
Sciolse
in tai voci: "Un cattivello sei,
Né ciò
che per te fa, scordi giammai.
Quali
parole mi parlasti! Or sappia
Dunque
la Terra e il Ciel superno, e l'atra,
Che
sotterra si volve, acqua di Stige,
Di cui
né più solenne han, né più sacro
Gl'Iddii
beati giuramento; sappia,
Che
nessuno il mio cor danno t'ordisce.
Quello
anzi io penso, e ti propongo, ch'io
Torrei
per me, se in cotant'uopo io fossi.
Giustizia
regge la mia mente, e un'alma
Pietosa,
non di ferro, in me s'annida".
Ciò
detto, abbandonava il lido in fretta
E
Ulisse la seguìa. Giunti alla grotta,
Colà,
ond'era l'Argicida sorto,
S'adagiò
il Laerziade; e la dea molti
Davante
gli mettea cibi e licori,
Quali
ricever può petto mortale.
Poi gli
s'assise in fronte; e a lei le ancelle
L'ambrosia
e il roseo néttare imbandiro.
Come
ambo paghi per la mensa furo,
Con
tali accenti cominciava l'alta
Di
Calipso beltade: "O di Laerte
Figlio
divin, molto ingegnoso Ulisse,
Così tu
parti adunque, e alla nativa
Terra e
alle case de' tuoi padri vai?
Va,
poiché sì t'aggrada, e va felice.
Ma se
tu scorger col pensier potessi
Per
quanti affanni ti comanda il fato
Prima
passar, che al patrio suolo arrivi
Questa
casa con me sempre vorresti
Custodir,
ne son certa, e immortal vita
Da
Calipso accettar: benché sì viva
Brama
t'accenda della tua consorte,
A cui
giorno non è che non sospiri.
Pur non
cedere a lei né di statura
Mi
vanto, né di volto; umana donna
Mal può
con una dea, né le s'addice,
Di
persona giostrare, o di sembianza".
"Venerabile
iddia", riprese il ricco
D'ingegni
Ulisse, "non voler di questo
Meco
sdegnarti; appien conosco io stesso,
Che la
saggia Penelope tu vinci
Di
persona non men che di sembianza,
Giudice
il guardo che ti stia di contra.
Ella
nacque mortale; e in te né morte
Può, né
vecchiezza. Ma il pensiero è questo;
Questo
il desìo che mi tormenta sempre:
Veder
quel giorno al fin, che alle dilette
Piagge
del mio natal mi riconduca.
Che se alcun
me percoterà de' numi
Per le
fosche onde, io soffrirò, chiudendo
Forte
contra i disastri anima in petto.
Molti
sovr'esso il mar, molti fra l'armi,
Già ne
sostenni; e sosterronne ancora".
Disse;
e il Sol cadde, ed annottò. Nel seno
Si
ritira<ro della cava grotta,
Più
interno e oscuro, e in dolce sonno avvolti,
Tutte
le cure lor mandaro in bando.
Ma come
del mattin la figlia, l'alma
Dalle
dita di rose Aurora apparve,
Tunica
e manto alle sue membra Ulisse,
E
Calipso alle sue larga ravvolse
Bella
gonna, sottil, bianca di neve;
Si
strinse al fianco un'aurea fascia, e un velo
Sovra
l'ôr crespo della chioma impose.
Né
d'Ulisse a ordinar la dipartita
Tardava.
Scure di temprato rame,
Grande,
manesca e d'ambo i lati aguzza,
Con
leggiadro, d'oliva, e bene attato
Manubrio,
presentògli, e una polita
Vi
aggiunse ascia lucente; indi all'estremo
Dell'isola
il guidò, dove alte piante
Crescean;
pioppi, alni, e sino al cielo abeti,
Ciascun
risecco di gran tempo e arsiccio,
Che gli
sdruccioli agevole sull'onda.
Le
altere piante gli additò col dito,
E alla
sua grotta il pié torse la diva.
Egli a
troncar cominciò il bosco: l'opra
Nelle
man dell'eroe correa veloce;
Venti
distese al suolo arbori interi,
Gli
adeguò, li polì, l'un destramente
Con
l'altro pareggiò. Calipso intanto
Recava
seco gli appuntati succhi,
Ed ei
forò le travi e insieme unille,
E con
incastri assicurolle e chiovi.
Larghezza
il tutto avea, quanta ne dánno
Di lata
nave trafficante al fondo
Periti
fabbri. Su le spesse travi
Combacianti
tra sé lunghe stendea
Noderose
assi, e il tavolato alzava.
L'albero
con l'antenna ersevi ancora,
E
costrusse il timon, che in ambo i lati
Armar
gli piacque d'intrecciati salci
Contra
il marino assalto, e molta selva
Gittò
nel fondo per zavorra o stiva.
Le tue
tele, o Calipso, in man gli andâro
E buona
gli uscì pur di man la vela,
Cui le
funi legò, legò le sarte,
La
poggia e l'orza: al fin, possenti leve
Supposte,
spinse il suo naviglio in mare,
Che il
dì quarto splendea. La dea nel quinto
Congedollo
dall'isola: odorate
Vesti
gli cinse dopo un caldo bagno;
Due
otri, l'un di rosseggiante vino,
Di
limpid'acqua l'altro, e un zaino, in cui
Molte
chiudeansi dilettose dapi,
Collocò
nella barca; e fu suo dono
Un
lenissimo ancor vento innocente,
Che
mandò innanzi ad increspargli il mare.
Lieto
l'eroe dell'innocente vento,
La vela
dispiegò. Quindi al timone
Sedendo,
il corso dirigea con arte,
Né gli
cadea su le palpèbre il sonno
Mentre
attento le Pleiadi mirava,
E il
tardo a tramontar Boòte e l'Orsa
Che
detta è pure il Carro, e là si gira,
Guardando
sempre in Orïone, e sola
Nel
liquido Oceàn sdegna lavarsi
L'Orsa,
che Ulisse, navigando, a manca
Lasciar
dovea, come la diva ingiunse.
Dieci
pellegrinava e sette giorni
Su i
campi d'Anfitrite. Il dì novello
Gli
sorse incontro co' suoi monti ombrosi
L'isola
de' Feaci, a cui la strada
Conducealo
più corta, e che apparìa
Quasi
uno scudo alle fosche onde sopra.
Sin dai
monti di Solima lo scôrse
Veleggiar
per le salse onde tranquille
Il
possente Nettun, che ritornava
Dall'Etïopia,
e nel profondo core
Più crucciato
che mai squassando il capo:
"Poh!"
disse dentro a sé, "nuovo decreto,
Mentr'io
fui tra gli Etiopi, intorno a Ulisse
Fêr
dunque i numi? Ei già la terra vede
De'
Feáci, che il fato a lui per meta
Delle
sue lunghe disventure assegna.
Pur
molto, io credo, a tollerar gli resta".
Tacque;
e, dato di piglio al gran tridente,
Le nubi
radunò, sconvolse l'acque,
Tutte
incitò di tutti i venti l'ire,
E la
terra di nuvoli coverse;
Coverse
il mar: notte di ciel giù scese.
S'avventaro
sul mar, quasi in un groppo,
Ed Euro
e Noto e il celebre Ponente
E
Aquilon, che pruine aspre su l'ali
Reca,
ed immensi flutti innalza e volve.
Discior
sentissi le ginocchia e il core
Di
Laerte il figliuol, che tal si dolse
Nel
secreto dell'alma: "Ahi, me infelice!
Che di
me sarà omai? Temo, non torni
Verace
troppo della ninfa il detto,
Che al
patrio nido io giungerei per mezzo
Delle
fatiche solo e dell'angosce.
Di quai
nuvole il ciel ampio inghirlanda
Giove,
e il mar conturba? E come tutti
Fremono
i venti? A certa morte io corro.
Oh tre
fïate fortunati e quattro,
Cui
perir fu concesso innanzi a Troia,
Per gli
Atridi pugnando! E perché allora
Non
caddi anch'io, che al morto Achille intorno
Tante i
Troiani in me lance scagliaro?
Sepolto
i Greci co' funèbri onori
M'avriano,
e alzato ne' lor canti al cielo.
Or per
via così infausta ir deggio a Dite".
Mentre
così doleasi, un'onda grande
Venne
d'alto con furia e urtò la barca,
E
rigirolla; e lui, che andar lasciossi
Dalle
mani il timon, fuori ne spinse.
Turbine
orrendo d'aggruppati venti
L'albero
al mezzo gli fiaccò; lontane
Vela ed
antenne caddero. Ei gran tempo
Stette
di sotto, mal potendo il capo
Levar
dall'onde impetuose e grosse;
Ché le
vesti gravavanlo, che in dono
Da
Calipso ebbe. Spuntò tardi, e molta
Dalla
bocca gli uscìa, gli piovea molta
Dalla
testa e dal crine onda salata.
Non
però della zatta il prese obblìo:
Ma, da
sé i flutti respingendo, ratto
L'apprese,
e già di sopra, il fin di morte
Schivando,
vi sedea. Rapìala il fiotto
Qua e
là per lo golfo. A quella guisa
Che
sovra i campi il tramontan d'autunno
Fascio
trabalza d'annodate spine,
I venti
trabalzavanla sul mare.
Or Noto
da portare a Borea l'offre,
Ed or,
perché davanti a sé la cacci,
Euro la
cede d'occidente al vento.
La
bella il vide dal tallon di perla
Figlia
di Cadmo, Ino chiamata, al tempo
Che
vivea tra i mortali: or nel mar gode
Divini
onori, e Leucotèa si noma.
Compunta
il cor per lui d'alta pietade,
S'alzò
dell'onda fuor, qual mergo a volo,
E su le
travi bene avvinte assisa,
Così
gli favellò: "Perché, meschino,
S'accese
mai con te d'ira sì acerba
Lo
Scotitor della terrena mole,
Che ti
semina i mali? Ah! non fia certo,
Ch'ei,
per quanto il desìi, spenga i tuoi giorni.
Fa,
poiché vista m'hai d'uomo non folle,
Ciò
ch'io t'insegno. I panni tuoi svestiti,
Lascia
il naviglio da portarsi ai venti,
E a
nuoto cerca il Feacese lido,
Che per
mèta de' guai t'assegna il fato.
Ma
questa prendi; e la t'avvolgi al petto,
Fascia
immortal, né temer morte o danno.
Tocco
della Feacia il lido appena,
Spogliala,
e in mar dal continente lungi
La
gitta, e torci nel gittarla il volto".
Ciò
detto, e a lui l'immortal fascia data,
Rïentrò,
pur qual mergo in seno al fosco
Mare
ondeggiante, che su lei si chiuse.
Pensoso
resta e in forse il pazïente
Laerziade
divino, e con se stesso,
Raddoppiando
i sospir, tal si consiglia:
"Ohimé!
che nuovo non mi tessa inganno
De'
Sempiterni alcun, che dal mio legno
Partir
m'ingiunge. Io così tosto penso
Non
ubbidirgli; ché la terra, dove
Di
scampo ei m'affidò, troppo è lontana.
Ma ecco
quel che ottimo parmi: quanto
Congiunte
rimarran tra lor le travi,
Non
abbandonerolle, e co' disastri
Fermo
io combatterò. Sciorralle il flutto?
Porrommi
a nuoto, né veder so meglio".
Tai
cose in sé volgea, quando Nettuno
Sollevò
un'onda immensa, orrenda, grave,
Di
monte in guisa, e la sospinse. Come
Disperse
qua e là vanno le secche
Paglie,
di cui sorgea gran mucchio in prima,
Se mai
le investe un furïoso turbo,
le
tavole per mar disperse andaro.
Sovra
un sol trave a cavalcioni Ulisse
Montava:
i panni che la dea Calipso
Dati
gli avea, svestì, s'avvolse al petto
l'immortal
benda, e si gittò ne' gorghi
Boccon,
le braccia per nôtare aprendo.
Né già
s'ascose dal ceruleo iddio,
Che, la
testa crollando: "A questo modo
Erra",
dicea tra sé "di flutto in flutto
Dopo
tante sciagure, e a genti arriva
Da
Giove amate: benché speme io porti
Che né
tra quelle brillerài di gioia".
Così
Nettuno; e della verde sferza
Toccò i
cavalli alle leggiadre chiome,
Che il
condussero ad Ega, ove gli splende
Nobile
altezza di real palagio.
Pallade
intanto, la prudente figlia
Di
Giove, altro pensò. Fermò gli alati
Venti,
e silenzio impose loro, e tutti
Gli
avvinse di sopor, fuorché il veloce
Borea,
che, da lei spinto, i vasti flutti
Dinanzi
a Ulisse infranse ond'ei le rive
Del
vago di remar popol Feace,
Pigliar
potesse, ed ingannar la Parca.
Due
giorni in cotal foggia, e tante notti
Per
l'ampio golfo errava, e spesso il core
Morte
gli presagìa. Ma quando l'Alba
Cinta
la fronte di purpuree rose
Il dì
terzo recò, tacquesi il vento,
E un
tranquillo seren regnava intorno.
Ulisse
allor, cui levò in alto un grosso
Flutto,
la terra non lontana scôrse,
Forte
aguzzando le bramose ciglia.
Quale
appar dolce a un figliuol pio la vista
Del
genitor, che su dolente letto
Scarno,
smunto, distrutto, e da un maligno
Demone
giacque lunghi dì percosso,
E poi
del micidial morbo cortesi
Il
disciolser gli dèi: tale ad Ulisse
La
terra e il verde della selva apparve.
Quinci
ei, nôtando, ambi movea di tutta
Sua
forza i piedi a quella volta. Come
Presso
ne fu, quanto d'uom corre un grido,
Fiero
il colpì romor: poiché i ruttati
Sin dal
fondo del mar flutti tremendi,
Che
agli aspri si rompean lidi ronchiosi,
Strepitavan,
mugghiavano, e di bianca
Spuma
coprìan tutta la sponda, mentre
Porto
capace di navigli, o seno
Non vi
s'aprìa, ma littorali punte
Risaltavano
in fuori, e scogli e sassi.
Le
forze a tanto ed il coraggio Ulisse
Fallir
si sente, e dice a sé, gemendo:
"Qual
pro che Giove il disperato suolo
Mostri,
e io m'abbia la via per l'onde aperta,
Se
dell'uscirne fuor non veggio come?
Sporgon
su l'onde acuti sassi, a cui
L'impetuoso
flutto intorno freme,
E una
rupe va su liscia e lucente:
Né così
basso è il mar, che nell'arena
Fermare
il pie' securamente io valga.
Quindi,
s'io trar men voglio, un gran maroso
Sovra
di sé può tormi, e in dura pietra
Cacciarmi;
o s'io lungo le rupi cerco
Nôtando
un porto, o una declìve schiena,
Temo,
non procellosa onda m'avvolga,
E,
sospirando gravemente, in grembo
Mi
risospinga del pescoso mare.
Forse
un de' mostri ancor, che molti nutre
Ne'
gorghi suoi la nobile Anfitrite,
M'assalirà:
ché l'odio io ben conobbi
Che
m'ha quel dio, per cui la terra trema".
Stando
egli in tai pensieri, una sconcia onda
Trasportollo
con sé ver l'ineguale
Spiaggia,
che lacerata in un sol punto
La
pelle avrìagli, e sgretolate l'ossa,
Senza
un consiglio che nel cor gli pose
L'occhicerulea
diva. Afferrò ad ambe
Mani la
rupe, in ch'ei già dava, e ad essa
Gemendo
s'attenea. Deluso intanto
Gli
passò su la testa il vïolento
Flutto:
se non che poi, tornando indietro,
Con
nuova furia il ripercosse, e lunge
Lo
sbalzò della spiaggia al mare in grembo.
Polpo
così dalla pietrosa tana
Strappato
vien, salvo che a lui non pochi
Restan
lapilli nelle branche infitti:
E
Ulisse in vece la squarciata pelle
Delle
nervose man lasciò alla rupe.
L'onde
allora il copriro, e l'infelice
Contro
il fato perìa: ma infuse a lui
Nuovo
pensier l'Occhiazzurrina. Sorto
Dall'onde,
il lido costeggiava, ai flutti
Che vel
portavan contrastando, e attento
Mirando
sempre, se da qualche parte
Scendesse
una pendice, o un seno entrasse:
Né dall'opra
cessò, che d'un bel fiume
Giunto
si vide all'argentina foce.
Ottimo
qui gli sembrò il loco al fine,
Siccome
quel che né di sassi aspro era,
Né
discoperto ai venti. Avvisò ratto
Il puro
umor che devolveasi al mare,
E tal
dentro di sé preghiera feo:
"O
chiunque tu sii, re di quest'acque,
Odimi:
a te, cui sospirai cotanto,
Gli
sdegni di Nettuno e le minacce
Fuggendo,
io m'appresento. È sacra cosa
Per
gl'Immortali ancor l'uom, che d'altronde
Venga
errando, com'io, che dopo molti
Durati
affanni, ecco alla tua corrente
Giungo,
e ai ginocchi tuoi. Pietà d'Ulisse,
Che tuo
supplice vedi, o re, ti prenda".
Disse,
ed il nume acchetò il corso, e l'onda
Ritenne,
sparsa una perfetta calma
E alla
foce il salvò del suo bel fiume.
L'eroe,
tocca la terra, ambo i ginocchi
Piegò,
piegò le nerborute braccia:
Tanto
il gran sale l'affliggeva. Gonfiava
Tutto
quanto il suo corpo, e per la bocca
Molto
mar gli sgorgava, e per le nari;
Ed ei
senza respiro e senza voce
Giaceasi,
e spento di vigore affatto:
Che
troppa nel suo corpo entrò stanchezza.
Ma come
il fiato ed il pensier rïebbe,
Tosto
dal petto la divina benda
Sciolse,
e gittolla ove amareggia il fiume.
La
corrente rapivala, né tarda
A
riprenderla fu con man la dea.
Ei
dall'onda ritráttosi, chinossi
Su i
molli giunchi, e baciò l'alma terra.
Poi nel
secreto della sua grand'alma
Così
parlava e sospirava insieme:
"Eterni
dèi, che mi rimase ancora
Di
periglioso a tollerar? Dov'io
Questa
gravosa notte al fiume in riva
Vegghiassi,
l'aer freddo e il molle guazzo
Potrian
me di persona e d'alma infermo
Struggere
al tutto, ché sui primi albori
Nemica
brezza spirerà dal fiume.
Salirò
al colle in vece, ed all'ombrosa
Selva,
e m'addormirò tra i folti arbusti,
Sol che
non vieti la fiacchezza o il ghiado,
Che il
sonno in me passi furtivo? Preda
Diventar
delle fere e pasto io temo".
Dopo
molto dubbiar questo gli parve
Men reo
partito. Si rivolse al bosco,
Che non
lunge dall'acque a un poggio in cima
Fea di
sé mostra, e s'internò tra due
Sì
vicini arboscei, che dalla stessa
Radice
uscir pareano, ambi d'ulivo,
Ma
domestico l'un, l'altro selvaggio.
La
forza non crollavali de' venti,
Né
l'igneo Sole co' suoi raggi addentro
Li
saettava, né le dense piogge
Penetravan
tra lor; sì uniti insieme
Crebbero,
e tanto s'intrecciaro i rami.
Ulisse
sottentrovvi, e ammontichiossi
Di
propria man comodo letto, quando
Tal
ricchezza era qui di foglie sparse,
Che
ripararvi uomini tre, non che uno,
Potuto
avrìano ai più crudeli verni.
Gioì
alla vista delle molte foglie
L'uom
divino, e corcossi entro alle foglie,
E a sé
di foglie sovrappose un monte.
Come se
alcun, che solitaria suole
Condur
la vita in sul confin d'un campo,
Tizzo
nasconde fumeggiante ancora
Sotto
la bruna cenere, e del foco,
Perché
cercar da sé lungi nol debba,
Serba
in tal modo il prezïoso seme:
Così
celossi tra le foglie Ulisse.
Pallade
allor che di sì rea fatica
Bramava
torgli l'importuno senso,
Un
sonno gli versò dolce negli occhi,
Le
dilette palpèbre a lui velando.
LIBRO VI
Mentre
sepolto in un profondo sonno
Colà
posava il travagliato Ulisse,
Minerva
al popol de' Feaci e all'alta
Lor
città s'avvïò. Questi da prima
Ne'
vasti d'Iperèa fecondi piani
Far
dimora solean, presso i Ciclopi,
Gente
di cuor superbo, e a' suoi vicini
Tanto
molesta più quanto più forte.
Quindi
Nausitoo, somigliante a un dio,
Di tal
sede levolli, e in una terra,
Che
dagli uomini industri il mar divide,
Gli
allogò, nella Scheria; e qui condusse
Alla
cittade una muraglia intorno.
Le case
fabbricò, divise i campi,
E
agl'Immortali i sacri templi eresse.
Colpito
dalla Parca, ai foschi regni
Era già
sceso, e Alcinoo, che i beati
Numi
assennato avean, reggea lo scettro.
L'occhicilestra
dea, che sempre fissa
Nel
ritorno d'Ulisse avea la mente,
Tenne
verso la reggia, e alla secreta
Dedalea
stanza si rivolse, dove
Giovinetta
dormìa, che le immortali
D'indole
somigliava e di fattezze,
Nausica,
del re figlia; ed alla porta,
Che
rinchiusa era, e risplendea nel buio.
Giacean
due, l'una quinci e l'altra quindi,
Pudìche
ancelle, cui le Grazie istesse
Di non
vulgar beltà la faccia ornâro.
La dea,
che gli occhi in azzurrino tinge,
Quasi
fiato leggier di picciol vento,
S'avvicinò
della fanciulla al letto,
E sul
capo le stette, e, preso il volto
Della
figlia del prode in mar Dimante
Molto a
lei cara, e ugual d'etade a lei,
Cotali
le drizzò voci nel sonno:
"Deh,
Nausica, perché te così lenta
La
genitrice partorì? Neglette
Lasci
giacerti le leggiadre vesti.
Benché
delle tue nozze il dì s'appressi,
Quando
le membra tue cinger dovrai
Delle
vesti leggiadre, e a quelli offrirne,
Che
scorgeranti dello sposo ai tetti.
Così
fama s'acquista, e ne gioisce
Col
genitor la veneranda madre.
Dunque
i bei panni, come il cielo imbianchi,
Vadasi
a por nell'onda: io nell'impresa,
Onde
trarla più ratto a fin tu possa,
Compagna
ti sarò. Vergine, io credo
Non
rimarrai gran pezza; e già di questo,
Tra cui
nascesti tu, popol Feace
I
migliori ti ambiscono. Su via,
Spuntato
appena in orïente il Sole,
Trova
l'inclito padre e de' gagliardi
Muli il
richiedi, e del polito carro,
Che i
pepli, gli scheggiali e i prezïosi
Manti
conduca: poiché sì distanno
Dalla
città i lavacri, che del cocchio
Valerti
e non del piede, a te s'addice".
Finiti
ch'ebbe tali accenti, e messo
Consiglio
tal della fanciulla in petto,
La dea,
che guarda con azzurre luci,
All'Olimpo
tornò, tornò alla ferma
De' sempiterni
dèi sede tranquilla,
Che né
i venti commuovono, né bagna
La
pioggia mai, né mai la neve ingombra;
Ma un
seren puro vi si spande sopra
Da nube
alcuna non offeso, e un vivo
Candido
lume la circonda, in cui
Si
giocondan mai sempre i dii beati.
L'Aurora
intanto d'in su l'aureo trono
Comparve
in orïente, e alla sopita
Vergine
dal bel peplo i lumi aperse.
La
giovinetta s'ammirò del sogno,
E al
padre per narrarlo, ed alla madre
Corse,
e trovolli nel palagio entrambi.
La
madre assisa al focolare, e cinta
Dalle
sue fanti, e con la destra al fuso
Lane di
fina porpora torcea.
Ma nel
caro suo padre, in quel che al grande
Concilio
andava, ove attendeanlo i capi
De'
Feacesi, s'abbatte Nausica,
E
stringendosi a lui: "Babbo mio dolce,
Non
vuoi tu farmi apparecchiar", gli disse,
"L'eccelso
carro dalle lievi ruote,
Acciocché
le neglette io rechi al fiume
Vesti
oscurate, e nitide le torni?
Troppo
a te si convien, che tra i soprani
Nelle
consulte ragionando siedi,
Seder
con monde vestimenta in dosso.
Cinque
in casa ti vedi amati figli,
Due già
nel maritaggio, e tre cui ride
Celibe
fior di giovinezza in volto.
Questi
al ballo ir vorrìan con panni sempre
Giunti
dalle lavande allora allora.
E tai
cose a me son pur tutte in cura".
Tacquesi
a tanto; ché toccar le nozze
Sue giovanili
non s'ardìa col padre.
Ma ei
comprese il tutto, e sì rispose:
"Né
di questo io potrei, né d'altro, o figlia,
Non
soddisfarti. Va: l'alto, impalcato
Carro
veloce appresteranti i servi.
Disse;
e gli ordini diede, e pronti i servi".
La
mular biga dalle lievi ruote
Trasser
fuori, e allestîro, e i forti muli
Vi
miser sotto, e gli accoppiâro. Intanto
Venìa
Nausica con le belle vesti,
Che
sulla biga lucida depose.
Cibi
graditi e di sapor diversi
La
madre collocava in gran paniere
E nel
capace sen d'otre caprigno
Vino
infondea soave: indi alla figlia,
Ch'era
sul cocchio, perché dopo il bagno
Sé con
le ancelle, che seguìanla, ungesse,
Porse
in ampolla d'or liquida oliva.
Nausica
in man le rilucenti briglie
Prese,
prese la sferza, e diè di questa
Sovra
il tergo ai quadrupedi robusti,
Che si
moveano strepitando, e i passi
Senza
posa allungavano, portando
Le
vesti, e la fanciulla, e non lei sola,
Quando
ai fianchi di lei sedean le ancelle.
Tosto
che fur dell'argentino fiume
Alla
pura corrente, ed ai lavacri
Di viva
ridondanti acqua perenne,
Da cui
macchia non è che non si terga,
Sciolsero
i muli, e al vorticoso fiume
Il
verde a morsecchiar cibo soave
Del
mele al pari, li mandaro in riva.
Poscia
dal cocchio su le braccia i drappi
Recavanli,
e gittavanli nell'onda,
Che
nereggiava tutta; e in larghe fosse
Gìanli
con presto piè pestando a prova.
Purgati
e netti d'ogni lor bruttura,
L'uno
appo l'altro gli stendean sul lido,
Là dove
le pietruzze il mar poliva.
Ciò
fatto, si bagnò ciascuna, e s'unse,
E poi
del fiume pasteggiâr sul margo:
Mentre
d'alto co' raggi aureolucenti
Gli
stesi drappi rasciugava il Sole.
Ma,
spento della mensa ogni desìo,
Una
palla godean trattar per gioco,
Deposti
prima dalla testa i veli;
Ed il
canto intonava alle compagne
Nausica
bella dalle bianche braccia.
Come
Dïana per gli eccelsi monti
O del
Taigeto muove, o d'Erimanto,
Con la
faretra agli omeri, prendendo
De'
ratti cervi e de' cinghiai diletto:
Scherzan,
prole di Giove, a lei d'intorno
Le
boscherecce Ninfe onde a Latona
Serpe
nel cor tacita gioia; ed ella
Va del
capo sovrana, e della fronte
Visibilmente
a tutte l'altre, e vaga
Tra
loro è più qual da lei meno è vinta:
Così
spiccava tra le ancelle questa
Da
giogo marital vergine intatta.
Nella
stagion che al suo paterno tetto
I muli
aggiunti e ripiegati i manti
Ritornar
disponea, nacque un novello
Consiglio
in mente all'occhiglauca diva,
Perché
Ulisse dissonnisi, e gli appaia
La
giovinetta dalle nere ciglia
Che de'
Feaci alla cittade il guidi.
Nausica
in man tolse la palla, e ad una
Delle
compagne la scagliò: la palla
Desvïossi
dal segno a cui volava,
E nel
profondo vortice cadé.
Tutte
misero allora un alto grido,
Per cui
si ruppe incontanente il sonno
Nel
capo a Ulisse; che a seder drizzossi
Tai
cose in sé volgendo: Ahi fra qual gente
Mi
ritrovo io? Cruda, villana, ingiusta,
O amica
degli estrani, e ai dii sommessa?
Quel,
che l'orecchio mi percosse, un grido
Femminil
parmi di fanciulle ninfe,
Che de'
monti su i gioghi erti, e de' fiumi
Nelle
sorgenti, e per l'erbose valli
Albergano.
O son forse umane voci,
Che
testé mi ferîro? Io senza indugio
Dagli
stessi occhi miei sapronne il vero.
Ciò
detto, uscìa l'eroe fuor degli arbusti,
E con
la man gagliarda, in quel che uscìa,
Scemò
la selva d'un foglioso ramo,
Che
velame gli valse ai fianchi intorno.
Quale
dal natìo monte, ove la pioggia
Sostenne
e i venti impetuosi, cala
Leon,
che nelle sue forze confida;
Foco
son gli occhi suoi; greggia ed armento
O le
cerve selvatiche, al digiuno
Ventre
ubbidendo, parimente assalta,
Né,
perché senta ogni pastore in guardia,
Tutto
teme investìr l'ovile ancora:
Tal,
benché nudo, sen veniva Ulisse,
Necessità
stringendolo, alla volta
Delle
fanciulle dal ricciuto crine
Cui,
lordo di salsuggine com'era,
Sì
fiera cosa rassembrò, che tutte
Fuggîro
qua e là per l'alte rive.
Sola
d'Alcinoo la diletta figlia,
Cui
Pallade nell'alma infuse ardire,
E
francò d'ogni tremito le membra,
Piantossegli
di contra e immota stette.
In due
pensieri ei dividea la mente:
O le
ginocchia strignere a Nausica,
Di
supplicante in atto; o di lontano
Pregarla
molto con blande parole
Che la
città mostrargli, e d'una vesta
Rifornirlo,
volesse. A ciò s'attenne;
Ché
dello strigner de' ginocchi sdegno
Temea
che in lei si risvegliasse. Accenti
Dunque
le inviò blandi e accorti a un tempo.
"Regina,
odi i miei voti. Ah degg'io dea
Chiamarti,
o umana donna? Se tu alcuna
Sei
delle dive che in Olimpo han seggio,
Alla
beltade, agli atti, al maestoso
Nobile
aspetto, io l'immortal Dïana,
Del
gran Giove la figlia, in te ravviso.
E se
tra quelli, che la terra nutre,
Le luci
apristi al dì, tre volte il padre
Beato,
e tre la madre veneranda,
E beati
tre volte i tuoi germani,
Cui di
conforto almo s'allarga e brilla
Di
schietta gioia il cor, sempre che in danza
Veggiono
entrar sì grazïoso germe.
Ma
felice su tutti oltra ogni detto,
Chi
potrà un dì nelle sue case addurti
D'illustri
carca nuzïali doni.
Nulla
di tal s'offerse unqua nel volto
O di
femmina, o d'uomo, alle mie ciglia:
Stupor,
mirando, e riverenza tiemmi.
Tal
quello era bensì che un giorno in Delo,
Presso
l'ara d'Apollo, ergersi io vidi
Nuovo
rampollo di mirabil palma:
Ché a
Delo ancora io mi condussi, e molta
Mi
seguìa gente armata in quel viaggio
Che in
danno rïuscir doveami al fine.
E
com'io, fìssi nella palma gli occhi
Colmo
restai di meraviglia, quando
Di
terra mai non surse arbor sì bello;
Così
te, donna, stupefatto ammiro,
E le
ginocchia tue, benché m'opprima
Dolore
immenso, io pur toccar non oso.
Me
uscito dell'Ogigia isola dieci
Portava
giorni e dieci il vento e il fiotto.
Scampai
dall'onda ier soltanto, e un nume
Su
queste piagge, a trovar forse nuovi
Disastri,
mi gittò: poscia che stanchi
Di
travagliarmi non cred'io gli eterni.
Pietà
di me, Regina, a cui la prima
Dopo
tante sventure innanzi io vegno,
Io, che
degli abitanti, o la campagna
Tengali,
o la città, nessun conobbi.
La
cittade m'addita; e un panno dammi,
Che mi
ricopra; dammi un sol, se panni
Qua
recasti con te, di panni invoglio.
E a te
gli dèi, quanto il tuo cor desìa,
Si
compiaccian largir: consorte e figli,
E un
sol volere in due, però ch'io vita,
Non so
più invidïabile, che dove
La
propria casa con un'alma sola
Veggonsi
governar marito e donna.
Duol
grande i tristi m'hanno, e gioia i buoni:
Ma quei
ch'esultan più, sono i due sposi".
"O
forestier, tu non mi sembri punto
Dissennato
e dappoco", allor rispose
La
verginetta dalle bianche braccia.
"L'Olimpio
Giove, che sovente al tristo
Non men
che al buon felicità dispensa,
Mandò a
te la sciagura, e tu da forte
La
sosterrai. Ma, poiché ai nostri lidi
Ti
convenne approdar, di veste o d'altro,
Che ai
supplici si debba ed ai meschini,
Non
patirai disagio. Io la cittade
Mostrarti
non ricuso, e il nome dirti
Degli
abitanti. È de' Feaci albergo
Questa
fortunata isola; ed io nacqui
Dal
magnanimo Alcinoo, in cui la somma
Del
poter si restringe, e dell'impero".
Tal favellò
Nausica, e alle compagne:
"Olà",
disse, "fermatevi. In qual parte
Fuggite
voi, perché v'apparse un uomo?
Mirar
credeste d'un nemico il volto?
Non fu,
non è: e non fia chi a noi s'attenti
Guerra
portar: tanto agli dèi siam cari.
Oltre
che in sen dell'ondeggiante mare
Solitari
viviam, viviam divisi
Da
tutto l'altro della stirpe umana.
Un
misero è costui, che a queste piagge
Capitò
errando, e a cui pensare or vuolsi.
Gli
stranieri, vedete, ed i mendichi
Vengon
da Giove tutti, e non v'ha dono
Picciolo
sì, che lor non torni caro.
Su via,
di cibo e di bevanda il nuovo
Ospite
soccorrete, e pria d'un bagno
Colà
nel fiume, ove non puote il vento".
Le
compagne ristêro, ed a vicenda
Si
rincorâro, e, come avea d'Alcinoo
La
figlia ingiunto, sotto un bel frascato
Menâro
Ulisse, e accanto a lui le vesti
Poser,
tunica e manto, e la rinchiusa
Nell'ampolla
dell'ôr liquida oliva:
Quindi
ad entrar col piè nella corrente
Lo
inanimîro. Ma l'eroe: "Fanciulle,
Appartarvi
da me non vi sia grave,
Finché
io questa salsuggine marina
Mi
terga io stesso, e del salubre m'unga
Dell'oliva
licor, conforto ignoto
Da
lungo tempo alle mie membra. Io certo
Non
laverommi nel cospetto vostro;
Ché tra
voi starmi non ardisco ignudo".
Trasser
le ancelle indietro, ed a Nausica
Ciò
riportaro. Ei dalle membra il sozzo
Nettunio
sal, che gl'incrostò le larghe
Spalle
ed il tergo, si togliea col fiume,
E la
bruttura del feroce mare
Dal
capo s'astergea. Ma come tutto
Si fu
lavato ed unto, e di que' panni
Vestito,
ch'ebbe da Nausica in dono,
Lui
Minerva, la prole alma di Giove,
Maggior
d'aspetto, e più ricolmo in faccia
Rese, e
più fresco, e de' capei lucenti,
Che di
giacinto a fior parean sembianti,
Su gli
omeri cader gli feo le anella.
E qual
se dotto mastro, a cui dell'arte
Nulla
celaro Pallade o Vulcano,
Sparge
all'argento il liquid'oro intorno,
Sì che
all'ultimo suo giunge con l'opra:
Tale ad
Ulisse l'Atenèa Minerva
Gli
omeri e il capo di decoro asperse;
Ad
Ulisse, che poscia, ito in disparte,
Su la
riva sedea del mar canuto,
Di
grazia irradïato e di beltade.
La
donzella stordiva; ed all'ancelle
Dal
crin ricciuto disse: "Un mio pensiero
Nascondervi
io non posso. Avversi, il giorno
Che le
nostre afferrò sponde beate,
Non
erano a costui tutti del cielo
Gli
abitatori: egli, d'uom vile e abbietto
Vista
m'avea da prima, ed or simìle
Sembrami
a un dio che su l'Olimpo siede.
Oh
colui fosse tal, che i numi a sposo
Mi
destinâro! Ed oh piacesse a lui
Fermar
qui la sua stanza! Orsù, di cibo
Sovvenitelo,
amiche, e di bevanda".
Quelle
ascoltaro con orecchio teso,
E il
comando seguîr: cibo e bevanda
All'ospite
imbandîro, e il paziente
Divino
Ulisse con bramose fauci
L'uno e
l'altra prendea, qual chi gran tempo
Bramò i
ristori della mensa indarno.
Qui
l'occhinera vergine novello
Partito
immaginò. Sul vago carro
Le ripiegate
vestimenta pose,
Aggiunse
i muli di forte unghia, e salse.
Poi
così Ulisse confortava: "Sorgi
Stranier,
se alla cittade ir ti talenta
E il
mio padre veder, nel cui palagio
S'accoglieran
della Feacia i capi.
Ma,
quando folle non mi sembri punto,
Cotal
modo terrai. Finché moviamo
De'
buoi tra le fatiche e de' coloni,
Tu con
le ancelle dopo il carro vieni
Non
lentamente: io ti sarò per guida.
Come da
presso la cittade avremo,
Divideremci.
È la città da un alto
Muro
cerchiata, e due bei porti vanta
D'angusta
foce, un quinci e l'altro quindi,
Su le
cui rive tutti in lunga fila
Posan
dal mare i naviganti legni.
Tra un
porto e l'altro si distende il foro
Di
pietre quadre, e da vicina cava
Condotte,
lastricato; e al fôro in mezzo
L'antico
tempio di Nettun si leva.
Colà
gli arnesi delle negre navi,
Gomene
e vele, a racconciar s'intende,
E i
remi a ripulir: ché de' Feaci
Non
lusingano il core archi e faretre,
Ma
veleggianti e remiganti navi,
Su cui
passano allegri il mar spumante.
Di
cotestoro a mio potere io sfuggo
Le voci
amare, non alcun da tergo
Mi
morda, e tal, che s'abbattesse a noi
Della
feccia più vil: "Chi è", non dica,
"Quel
forestiero che Nausica siegue,
Bello
d'aspetto e grande? Ove trovollo?
Certo è
lo sposo. Forse alcun di quelli,
Che da
noi parte il mar, ramingo giunse,
Ed ella
il ricevé, che uscìa di nave:
O da
lunghi chiamato ardenti voti
Scese
di cielo, e le comparve un nume,
Che
seco riterrà tutti i suoi giorni.
Più
bello ancor, se andò ella stessa in traccia
D'uom
d'altronde venuto, e a lui donossi,
Dappoi
che i molti, che l'ambìano, illustri
Feaci
tanto avanti ebbe in dispetto".
Così
dirìano; e crudelmente offesa
Ne
sarìa la mia fama. Io stessa sdegno
Concepirei
contra chïunque osasse,
De'
genitori non contenti in faccia,
Pria
meschiarsi con gli uomini, che sorto
Fosse
delle sue nozze il dì festivo.
Dunque
a' miei detti bada; e leggermente
Ritorno
e scorta impetrerai dal padre.
Folto
di pioppi ed a Minerva sacro
Ci
s'offrirà per via bosco fronzuto,
Cui
viva fonte bagna, e molli prati
Cingono:
ivi non più dalla cittade
Lontan,
che un gridar d'uomo, il bel podere
Giace
del padre, e l'orto suo verdeggia.
Ivi,
tanto che a quella ed al paterno
Tetto
io giunga, sostieni; e allor che giunta
Mi
crederai, tu pur t'inurba, e cerca
Il
palagio del re. Del re il palagio
Gli
occhi tosto a sé chiama, e un fanciullino
Vi ti
potrìa condur; che de' Feaci
Non
sorge ostello che il paterno adegui.
Entrato
nel cortil, rapidamente
Sino
alla madre mia per le superbe
Camere
varca. Ella davanti al foco,
Che del
suo lume le colora il volto,
Siede,
e, poggiata a una colonna, torce,
Degli
sguardi stupor, purpuree lane.
Siedonle
a tergo le fantesche; e presso
S'alza
del padre il trono, in ch'ei, qual dio,
S'adagia,
e della vite il nèttar bee.
Declina
il trono, e stendi alle ginocchia
De la
madre le braccia; onde tra poco
Del tuo
ritorno alle natìe contrade,
Per
remote che sien, ti spunti il giorno.
Stùdiati
entrarle tanto e quanto in core;
E di
non riveder le patrie sponde,
Gli
alberghi avìti, e degli amici il volto,
Bandisci
dalla mente ogni sospetto".
Detto
così, della lucente sferza
Diè
sulle groppe ai vigorosi muli,
Che
pronti si lasciâro il fiume addietro.
Venìan
correndo ed alternando a gara,
Bello a
vedersi, le nervose gambe;
E la
donzella, perché Ulisse a piede
Lei con
le ancelle seguitar potesse,
Attenta
carreggiava e fea con arte
Scoppiare
in alto della sferza il suono.
Cadea
nell'acque occidentali il sole,
Che al
sacro di Minerva illustre bosco
Fûro;
ed Ulisse ivi s'assise. Quindi
A
Minerva pregava in tali accenti:
"Odimi,
invitta dell'Egìoco figlia,
Ed oggi
almen fa' pieni i voti miei
Tu, che
pieni i miei voti unqua non festi,
Finché
su l'onde mi sbalzò Nettuno.
Tu
dammi che, gradito e non indegno
Di
pietade, ai Feaci io m'appresenti".
Disse,
e Palla l'udì; ma non ancora
Visibilmente
gli assistea, per tema
Del zio
possente, al cui tremendo cruccio
Era,
pria che i natìi lidi toccasse,
Bersaglio
eterno il pari ai numi Ulisse.
LIBRO
VII
Mentre
così pregava il pazïente
Divino
Ulisse, dal vigor de' muli
Portata
era Nausica alla cittade.
Giunta
d'Alcinoo alla magion sublime,
S'arrestò
nel vestibolo; e i germani,
Belli
al par degli Eterni, intorno a lei
D'ogni
parte venìan: sciolsero i muli,
E le
vesti recaro entro la reggia.
Ma la
fanciulla il piede alla secreta
Movea
sua stanza: e raccendeale il foco
Eurimedusa,
una sua vecchia fante,
Nata in
Epiro, e su le negre navi
Condotta,
e al prode Alcinoo offerta in dono
Perché
ai Feaci ei comandava, e lui,
Qual se
un dio favellasse, udìan le genti.
Costei
Nausica dal braccio di neve
Rallevò
nel palagio, ed ora il foco
Raccendeale,
e mettea la cena in punto.
Ulisse
intanto sorse, e il cammin prese
Della
città. Ma l'Atenéa Minerva,
Che da
lui non torcea l'occhio giammai,
Di
molta il cinse impenetrabil nebbia,
Onde
nessun Feace o di parole,
Scontrandolo,
il mordesse, o il domandasse
Del
nome e della patria. Ei già già entrava
Nell'amena
città, quando la diva
Gli
occhi cerulea, se gli fece incontro,
Non
dissimile a vergine, che piena
Sul
giovinetto capo urna sostenti.
Stettegli
a fronte in tal sembianza, e Ulisse
Così la
interrogava: "O figlia, al tetto
D'Alcinoo,
che tra questi uomini impera,
Vuoi tu
condurmi? Io forestier di lunge,
E dopo
molti guai venni, né alcuno
Della
città conobbi, o del contorno".
"Ospite
padre", rispondea la diva
Dai
glauchi lumi, "il tetto desïato
Mostrar
ti posso di leggier; ché quello
Del mio
buon genitor per poco il tocca.
Ma in
silenzio tu seguimi e lo sguardo
Non
drizzare ad alcun, non che la voce.
Render
costoro agli stranieri onore
Non
sanno punto, né accoglienze amiche
Trova,
o carezze qui, chi altronde giunga.
Essi,
fidando nelle ratte navi,
Per
favor di Nettuno il vasto mare
In un
istante varcano: veloci
Come
l'ale o il pensier sono i lor legni".
Dette
tai cose, frettolosa Palla
Gli
entrava innanzi, e l'orme ei ne calcava.
Né i
Feaci scorgeanlo andar tra loro:
Così
volendo la possente diva,
Pallade,
che al suo ben sempre intendea,
E di
sacra l'avvolse oscura nube.
Ulisse
i porti e i bei costrutti legni
Maravigliava,
e le superbe piazze,
Ove i
prenci s'assembrano, e le lunghe,
Spettacolo
ammirando, eccelse mura
Di
steccati munite e di ripari.
Ma non
prima d'Alcinoo alle regali
Case
appressaro, che Minerva disse:
"Eccoti,
ospite padre, in faccia il tetto
Che mi
richiedi: là vedrai gli alunni
Di
Giove, i prenci, a lauta mensa assisi.
Cacciati
dentro, e non temer: l'uom franco
D'ogni
difficoltate, a cui s'incontri,
Meglio
si trae, benché di lunge arrivi.
Pria la
Regina, che si noma Arete,
E comun
con Alcinoo il sangue vanta,
Ti
s'offrirà alla vista. Il dio che scuote
Del suo
tridente la terrena mole,
Un
bambin ricevé dalla più bella
Donna
di quell'età, da Peribèa,
Figlia
minor d'Eurimedonte, a cui
De'
Giganti obbedìa l'oltracotata
Progenie
rea, che per le lunghe guerre
Tutta
col suo re stesso al fin s'estinse.
Nettun
di lei s'accese, e n'ebbe un figlio,
Nausìtoo
generoso, il qual fu padre
Di
Ressènore e Alcinoo; e sul Feace
Popol
regnava. Il primo, a cui fallìa
Prole
del miglior sesso, avea di poco
Nella
sua reggia la consorte addotta
Che
Apollo dall'argenteo arco il trafisse;
Né
rimase di lui che una figliuola,
Arete,
e questa in moglie Alcinoo tolse,
E
venerolla fieramente: donna
Non
vive in nodi maritali stretta,
Che sì
alto al suo sposo in mente sieda.
E in
gran pregio non men l'hanno, ed amore
Portanle
i figli, e i cittadini ancora,
Che a
lei, quandunque va per la cittade,
Gli
occhi alzan, come a diva, e con accenti
Festivi
la ricevono; ché senno
Né a
lei pur manca vêr chi più tien caro,
E le
liti non rado ella compone.
Se un
loco prender nel suo cor tu sai,
La terra,
dove i lumi apristi al giorno,
La
magion de' tuoi padri, e degli amici
I noti
volti riveder confida".
Detto,
la dea, ch'è nelle luci azzurra,
Su pel
mare infruttifero lanciossi.
Lasciò
la bella Scheria, e Maratona
Trovò,
ed Atene dalle larghe vie,
E nel
suo tempio entrò, che d'Erettèo
Fu
ròcca inespugnabile. Ma Ulisse
All'ostello
reale il piè movea,
E molte
cose rivolgea per l'alma,
Pria
ch'ei toccasse della soglia il bronzo:
Ché
d'Alcinoo magnanimo l'augusto
Palagio
chiara, qual di sole o luna,
Mandava
luce. Dalla prima soglia
Sino al
fondo correan due di massiccio
Rame
pareti risplendenti, e un fregio
Di
ceruleo metal girava intorno.
Porte
d'ôr tutte la inconcussa casa
Chiudean:
s'ergean dal limitar di bronzo
Saldi
stìpiti argentei, ed un argenteo
Sosteneano
architrave, e anello d'oro
Le
porte ornava; d'ambo i lati a cui,
Stavan
d'argento e d'ôr vigili cani:
Fattura
di Vulcan, che in lor ripose
Viscere
dotte, e da vecchiezza immuni
Temperolli,
e da morte, onde guardato
Fosse
d'Alcinoo il glorïoso albergo.
E
quanto si stendean le due pareti,
Eranvi
sedie quinci e quindi affisse,
Con
fini pepli sovrapposti, lunga
Delle
donne di Scheria opra solerte.
Qui de'
Feaci s'assideano i primi,
La mano
ai cibi ed ai licor porgendo,
Che lor
metteansi ciascun giorno avante:
E la
notte garzoni in oro sculti
Su
piedistalli a grande arte construtti,
Spargean
lume con faci in su le mense.
Cinquanta
il re servono ancelle: l'une
Sotto
pietra rotonda il biondo grano
Frangono;
e l'altre o tesson panni, o fusi
Con la
rapida man rotano assise,
Movendosi
ad ognor, quali agitate
Dal
vento foglie di sublime pioppo.
Splendono
i drappi a maraviglia intesti,
Come se
un olio d'ôr su vi scorresse.
Poiché
quanto i Feaci a regger navi
Gente
non han che li pareggi, tanto
Valgon
tele in oprar le Feacesi,
Cui
mano industre più che all'altre donne
Diede
Minerva, e più sottile ingegno.
Ma di
fianco alla reggia un orto grande,
Quanto
ponno in dì quattro arar due tori
Stendesi,
e viva siepe il cinge tutto.
Alte vi
crescon verdeggianti piante,
Il pero
e il melagrano, e di vermigli
Pomi
carico il melo, e col soave
Fico
nettáreo la canuta oliva.
Né il
frutto qui, regni la state, o il verno,
Pêre, o
non esce fuor: quando sì dolce
D'ogni
stagione un zeffiretto spira,
Che
mentre spunta l'un, l'altro matura.
Sovra
la pera giovane, e su l'uva
L'uva,
e la pera invecchia, e i pomi e i fichi
Presso
ai fichi ed ai pomi. Abbarbicata
Vi
lussureggia una feconda vigna,
De' cui
grappoli il sol parte dissecca
Nel più
aereo ed aprìco, e parte altrove
La man
dispicca dai fogliosi tralci,
O calca
il piè ne' larghi tini: acerbe
Qua
buttan l'uve i redolenti fiori,
E di
porpora là tingonsi e d'oro.
Ma del
giardino in sul confin tu vedi
D'ogni
erba e d'ogni fior sempre vestirsi
Ben
culte aiuole, e scaturir due fonti
Che non
taccion giammai: l'una per tutto
Si
dirama il giardino, e l'altra corre,
Passando
del cortil sotto alla soglia,
Sin
davanti al palagio; e a questa vanno
Gli
abitanti ad attingere. Sì bella
Sede ad
Alcinoo destinaro i numi.
Di
maraviglia tacito e sospeso
Ulisse
colà stava; e visto ch'ebbe
Tutto,
e rivisto con secreta lode,
Nell'eccelsa
magion ratto si mise.
Trovò i
Feaci condottieri e prenci,
Che
libavan co' nappi all'Argicida
Mercurio,
a cui libar solean da sezzo,
Come
del letto gli assalìa la brama;
E innanzi
trapassò, dentro alla folta
Nube
che Palla gli avea sparsa intorno,
Finché
ad Arete e al suo marito giunse.
Circondò
con le braccia alla Reina
Le
ginocchia; ed in quel da lui staccossi
La nube
sacra, e in vento si disciolse.
Tutti
repente ammutolîro, e forte
Stupìan,
guardando l'uom che alla Reina
Supplicava
in tal forma: "O del divino
Ressènore
figliuola, illustre Arete,
Alle
ginocchia tue, dopo infiniti
Disastri,
io vegno, vegno al tuo consorte,
E a
questi grandi ancor, cui dì felici
Menar
gli dèi concedano, e ne' figli
Le
ricchezze domestiche e gli onori
Che
s'acquistaro, tramandare. Or voi
Scorta
m'apparecchiate, acciocché in breve
Alla
patria io mi renda ed agli amici,
Da cui
vivo lontan tra i guai gran tempo".
Disse,
e andò al focolare, e innanzi al foco
Sovra
l'immonda cenere sedette:
Né
alcun fra tanti aprìa le labbra. Al fine
Parlò
l'eroe vecchio Etenèo, che in pronto
Molte
avea cose trapassate, e tutti
Di
facondia vincea, non men che d'anni:
"Alcinoo",
disse con amico petto,
"Poco
ti torna onor, che su l'immonda
Cenere
il forestier sieda; e se nullo
Muovesi,
egli è perché un tuo cenno aspetta.
Su via,
leval di terra, e in sedia il poni
Borchiettata
d'argento; e ai banditori
Mescer
comanda, onde al gran Giove ancora
Che del
fulmine gode, e s'accompagna
Co'
venerandi supplici, libiamo.
La
dispensiera poi di quel che in serbo
Tiene,
presenti al forestier per cena".
Alcinoo,
udito ciò, lo scaltro Ulisse
Prese
per man, dal focolare alzollo
E
l'adagiò sovra un lucente seggio,
Fatto
sorgerne prima il più diletto
De'
suoi figliuoli che sedeangli accanto,
L'amico
di virtù Laodamante.
Tosto
l'ancella da bel vaso d'oro
Purissim'acqua
nel bacil d'argento
Gli
versava, e stendea desco polìto,
Su cui
l'onesta dispensiera bianchi
Pani
venne ad imporre, e di serbate
Dapi
gran copia. Ma la sacra possa
Di
Alcinoo al banditor: "Pontònoo, il rosso
Licore
infondi nelle tazze, e in giro
Recalo
a tutti, onde al gran Giove ancora,
Che del
fulmine gode, e s'accompagna
Co'
venerandi supplici, libiamo".
Disse;
e Pontònoo il buon licore infuse,
E il
recò, propinando, a tutti in giro.
Ma il
re, come libato ebbero, e a piena
Voglia
bevuto, in tai parole uscìo:
"O
condottieri de' Feaci, o capi,
Ciò che
il cor dirvi mi consiglia, udite.
Già
banchettati foste: i vostri alberghi
Cercate
adunque e riposate. Al primo
Raggio
di Sole in numero più spessi
Ci
adunerem, perché da noi s'onori
L'ospite
nel palagio, e più superbe
Vittime
immoleransi: indi con quale
Scorta
al suol patrio, per lontan che giaccia,
Possa,
non pur senza fatica o noia,
Ma
lieto e rapidissimo condursi,
Diviseremo.
Esser dee nostra cura
Che
danno non l'incolga, in sin ch'ei tocco
Non
abbia il suol natìo. Colà poi giunto,
Quel
soffrirà, che le severe Parche
Nel dì
del suo natale a lui filâro.
E se un
dio fosse dall'Olimpo sceso?
Altro
s'avvolgerìa disegno in mente
De'
numi allora. Spesso a noi mostrarsi
Nell'ecatombe
più solenni, e nosco
Starsi
degnaro ad una mensa. Dove
Un
qualche vïandante in lor s'avvenga,
Non
l'occultano a noi, che per vetusta
Origine
lor siam molto vicini,
Non
altrimenti che i Ciclopi antichi,
E de'
Giganti la selvaggia stirpe".
"Alcinoo",
gli rispose il saggio Ulisse,
"Muta
questo pensiero. Io dell'immenso
Cielo
ai felici abitatori eterni
Né
d'indole somiglio, né d'aspetto.
Somiglio
ai figli de' mortali, e a quanti
Voi
conoscete in più angoscioso stato.
Né ad
alcuno di lor cedo ne' mali:
Tanti e
sì gravi men crearo i numi.
Or
cenar mi lasciate, ancor che afflitto;
Però
che nulla io so di più molesto
Che il
digiun ventre, di cui l'uom mal puote
Dimenticarsi
per gravezze o doglie.
Nel
fondo io son de' guai: pur questo interno
Signor,
che mai di domandar non resta,
Vuol
ch'io più non rammenti i danni miei,
E ai
cibi stenda ed ai licor la mano.
Ma voi,
comparso in Orïente il giorno,
Rimandarmi
vi piaccia. Io non ricuso,
Visti i
miei servi, l'alte case e i campi,
Gli
occhi al lume del Sol chiuder per sempre".
Disse;
e tutti assentìano, e fean gran ressa,
Che lo
stranier, che ragionò sì bene,
Buona
scorta impetrasse. Al fin, libato
Ch'ebbero
e a pien bevuto, il proprio albergo
Ciascun
cercava, per entrar nel sonno.
Sol
nella reggia rimaneasi Ulisse,
E
presso gli sedeano Alcinoo e Arete,
Mentre
le ancelle del convito i vasi
Dalla
mensa toglieano. Arete prima
Gli
favellò, come colei che il manto
Riconobbe,
e la tunica, leggiadre
Vesti,
che di sua man tessute avea
Con le
sue fanti, e che or vedeagli in dosso:
"Stranier",
gli disse con alate voci,
Di
questo io te cercar voglio la prima:
Chi sei
tu? Donde sei? Da chi tai panni?
Non ci
fai creder tu che ai nostri lidi
Misero,
errante e naufrago approdasti?"
E il
saggio Ulisse replicògli: "Forte,
Regina,
i mali raccontar, che molti
M'invïaro
gli dèi. Quel che più brami
Sapere,
io toccherò. Lontana giace
Un'isola
nel mar che Ogigia è detta.
Quivi
d'Atlante la fallace figlia
Dai ben
torti capei, Calipso, alberga,
Terribil
dea, con cui nessun de' numi
Conversa,
o de' mortali. Un genio iniquo
Con lei
me solo a dimorar costrinse,
Dappoi
che Giove a me per l'onde scure
La
ratta nave folgorando sciolse.
Tutti
morti ne fûro i miei compagni:
Ma io,
con ambe mani alla carena
Della
nave abbracciatomi, per nove
Giorni
fui trasportato, e nella fosca
Decima
notte all'isoletta spinto
Della
dea, che m'accolse, e amicamente
Mi
trattava e nodriva, e promettea
Da
morte assicurarmi e da vecchiezza;
Né però
il cor mi piegò mai nel petto.
Sette
anni interi io mi vedea con lei,
E di
perenni lagrime i divini
Panni
bagnava, che mi porse in dono.
Ma
tosto che l'ottavo anno si volse,
La
diva, o fosse imperïal messaggio
Del
figliuol di Saturno, o di lei stessa
Mutamento
improvviso, alle mie case
Ritornar
confortavami. Su travi,
Da
moltiplici nodi in un congiunte,
Con
molti doni accommiatommi: pane
Candido
e dolce vin diemmi, e odorate
Vesti
vestimmi, e, ad incresparmi il mare,
Un
placido mandò vento innocente.
Io
dieci viaggiava e sette giorni
Su le liquide strade. Al
nuovo albore
Mi
sorse incontro co' suoi monti ombrosi
L'isola
vostra, e a me infelice il core
Ridea,
benché altri guai m'apparecchiasse
Nettun,
che incitò i venti, il mar commosse,
Mi precise
la via; né più speranza
Già
m'avanzava, che il naviglio frale
Me
gemente portasse all'onde sopra.
Ruppelo
al fine il turbo. A nuoto allora
Misurai
questo mar, finché alla vostra
Contrada
il vento mi sospinse e il flutto.
Quivi
alla terra, nell'uscir dell'acque,
Franto
un'onda m'avrìa, che me in acute
Punte
cacciava, e in disamabil riva:
Se non
ch'io, ritirandomi dal lido,
Tanto
nôtava, che a un bel fiume sceso
Da
Giove io giunsi, ove opportuno il loco
Parvemi
e liscio; né in balìa de' venti.
Scampai,
le forze raccogliendo. Intanto
Spiegò
i suoi veli la divina Notte,
Ed io,
lasciato da una parte il fiume,
Sovra
un letto di foglie e tra gli arbusti
Giacqui,
e m'infuse lungo sonno un dio.
Dormìi
l'intera notte insino all'alba,
Dormìi
sino al meriggio; e già calava
Verso
Occidente il Sole, allor che il dolce
Sonno
m'abbandonò. Vidi le ancelle
Della
tua figlia trastullar su l'erba,
E lei
tra quelle, che una dea mi parve,
E a cui
preghiere io porsi; ed ella senno
Mostrava
tal, qual non s'attende mai
L'uom
da una età sì fresca, in cui s'abbatta,
Perché
la fresca età sempre folleggia.
Ella
recente pan, vino possente,
Ella
comodo bagno a me nel fiume,
Ed ella
vesti. Me infelice il fato
Render
potrà, ma non potrà bugiardo".
Ed
Alcinoo repente: "Ospite, in questo
La mia
figlia sfallì, che non condusse
Te con
le ancelle alla magion, quantunque
Tu a
lei primiera supplicato avessi".
"Eccelso
eroe, non mi biasmar", rispose
Lo
scaltro Ulisse, "per cagion sì lieve
La
incolpabil fanciulla. Ella m'ingiunse
Di
seguitarla con le ancelle; ed io
Men
guardai, per timor che il tuo vedermi
T'infiammasse
di sdegno. Umana, il sai,
Razza
noi siamo al sospettare inchina".
Ed
Alcinoo di nuovo: "Ospite, un'alma
Già non
s'annida in me, che fuoco prenda
Sì
prontamente. Alla ragione io cedo,
E quel
che onesto è più, sempre io trascelgo.
Ed oh
piacesse a Giove, a Palla e a Febo,
Che,
qual ti scorgo, e d'un parer con meco
Sposa
volessi a te far la mia figlia,
Genero
mio chiamarti, e la tua stanza
Fermar
tra noi! Case otterresti e beni
Da me, dove
il restar non ti sgradisse:
Ché
ritenerti a forza, e l'ospitale
Giove
oltraggiar, nullo qui fia che ardisca.
Però
così su l'alba il tuo vïaggio
Noi
disporrem, che abbandonarti al sonno
Nella
nave potrai, mentre i Feaci
L'azzurra
calma romperan co' remi,
Né
cesseran, che nella patria messo
T'abbiano,
e ovunque ti verrà desìo,
Foss'anco
oltre l'Eubèa, cui più lontana
D'ogni
altra regïon che alzi dal mare,
Dicon
que' nostri che la vider, quando
A
Tizio, figlio della terra, il biondo
Radamanto
condussero. All'Eubèa
S'indrizzar,
l'afferrar, ne ritornaro
Tutto
in un giorno; e non fu grave impresa.
Conoscerai
quanto sien bene inteste
Le
nostre navi, e i giovani gagliardi
Nel
voltar sottosopra il mar co' remi".
Gioì a
tai detti il pazïente Ulisse,
E, le
braccia levando: "O Giove padre",
Sclamò,
"tutte adempir le sue promesse
Possami
Alcinoo! Ei gloria eterna avranne,
Ed io
porrò nelle mie case il piede".
Queste
correan tra lor parole alterne.
Ma la
Reina, candida le braccia,
Arete,
intanto alle fantesche impose
Il
letto collocar sotto la loggia,
Belle
gittarvi porporine coltri,
E
tappeti distendervi, e ai tappeti
Manti
vellosi sovrapporre. Uscîro
Quelle,
tenendo in man lucide faci,
Il
denso letto sprimacciaro in fretta,
E
rïentrate: "Sorgi, ospite; or puoi",
Dissero
a Ulisse, "chiuder gli occhi al sonno".
Né
punto al forestier l'invito spiacque.
Così ei
sotto il portico sonante
Là
s'addormìa ne' traforati letti.
Alcinoo
si corcò del tetto eccelso
Ne'
penetrali; e a lui da presso Arete,
La
consorte real, che a sé ed a lui
Preparò
di sua mano il letto e i sonni.
LIBRO
VIII
Ma
tosto che rosata ambo le palme,
Comparve
in ciel l'aggiornatrice Aurora,
Surse
di letto la sacrata possa
Del
magnanimo Alcinoo, e il divin surse
Rovesciator
delle cittadi Ulisse.
La
possanza d'Alcinoo al parlamento,
Che i
Feaci tenean presso le navi,
Prima
d'ogni altro mosse. A mano a mano
Venìano
i Feacesi, e su polite
Pietre
sedeansi. L'occhiglauca diva,
Cui
d'Ulisse il ritorno in mente stava,
Tolte
del regio banditor le forme,
Qua e
là s'avvolgea per la cittade,
E
appressava ciascuno, e: "Su", dicea,
"Su,
prenci e condottieri, al foro, al foro,
Se udir
vi cal dello stranier che giunse
Ad
Alcinoo testé per molto mare,
E assai
più, che dell'uom, del nume ha in viso".
Disse,
e tutti eccitò. Della raccolta
Gente
fûro in brev'ora i seggi pieni.
Ciascun
guardava con le ciglìa in arco
Di
Laerte il figliuol: ché a lui Minerva
Sovra
il capo diffuse e su le spalle
Divina
grazia, ed in grandezza e in fiore
Crebbelo,
e in gagliardìa, perch'ei ne' petti
Destar
potesse riverenza e affetto,
E de'
nobili giuochi, ove chiamato
Fosse a
dar di sé prova, uscir con vanto.
Concorsi
tutti, e in una massa uniti,
Tra
loro arringò Alcinoo in questa guisa:
"O
condottieri de' Feaci, e prenci,
Ciò che
il cor dirvi mi comanda, udite.
Questo
a me ignoto forestier, che venne
Ramingo,
e ignoro ancor se donde il Sole
Nasce,
o donde tramonta, ai tetti miei
Scorta
dimanda pel viaggio, e prega
Gli sia
ratto concessa. Or noi l'usanza
Non
seguirem con lui? Uomo, il sapete,
Ai tetti
miei non capitò, che mesto
Languir
dovesse sovra queste piagge,
Per
difetto di scorta, i giorni e i mesi.
Traggasi
adunque nel profondo mare
Legno
dall'onde non battuto ancora,
E
s'eleggan cinquanta e due garzoni
Tra il
popol tutto, gli ottimi. Costoro,
Varato
il legno, e avvinti ai banchi i remi,
Subite
e laute ad apprestar m'andranno
Mense,
che a tutti oggi imbandite io voglio.
Ma quei
che di bastone ornan la mano,
L'ospite
nuovo ad onorar con meco
Vengano
ad una; e il banditor mi chiami
L'immortale
Demodoco, a cui Giove
Spira
sempre de' canti il più soave,
Dovunque
l'estro, che l'infiamma, il porti".
Detto,
si mise in via. Tutti i scettrati
Seguìanlo
ad una, e all'immortal cantore
L'araldo
indirizzavasi. I cinquanta
Garzoni
e due, come il re imposto avea,
Fûro
del mar non seminato al lido;
La nave
negra nel profondo mare
Trassero,
alzâro l'albero e la vela.
I
lunghi remi assicurâr con forti
Lacci
di pelle, a maraviglia il tutto,
E, le
candide vele al vento aperte,
Arrestaro
nell'alta onda la nave:
Poscia
d'Alcinoo ritrovar l'albergo.
Già i
portici s'empiean, s'empieano i chiostri,
Non che
ogni stanza, della varia gente,
Che
s'accogliea, bionde e canute teste,
Una
turba infinita. Il re quel giorno
Diede
al sacro coltel dodici agnelle,
Otto
corpi di verri ai bianchi denti,
E due
di tori dalle torte corna.
Gli
scoiâr, gli acconciâr, ne apparecchiaro
Convito
invidïabile. L'araldo
Ritorno
feo, per man guidando il vate,
Cui la
Musa portava immenso amore,
Benché
il ben gli temprasse e il male insieme.
Degli
occhi il vedovò, ma del più dolce
Canto
arricchillo. Il banditor nel mezzo
Sedia
d'argento borchiettata a lui
Pose, e
l'affisse ad una gran colonna:
Poi la
cetra vocale a un aureo chiodo
Gli
appese sovra il capo, ed insegnògli,
Come a
staccar con mano indi l'avesse.
Ciò
fatto, un desco gli distese avanti
Con
panier sopra, e una capace tazza,
Ond'ei,
qual volta nel pungea desìo,
Del
vermiglio licor scaldasse il petto.
Come la
fame rintuzzata, e spenta
Fu la
sete in ciascun, l'egregio vate,
Che già
tutta sentìasi in cor la Musa,
De'
forti il pregio a risonar si volse,
Sciogliendo
un canto, di cui sino al cielo
Salse
in que' dì la fama. Era l'antica
Tenzon
d'Ulisse e del Pelìade Achille,
Quando
di acerbi detti ad un solenne
Convito
sacro si ferîro entrambi.
Il re
de' prodi Agamennòn gioìa
Tacitamente
in sé, visti a contesa
Venire
i primi degli Achei: ché questo
Della
caduta d'Ilio era il segnale.
Tanto
da Febo nella sacra Pito,
Varcato
appena della soglia il marmo,
Predirsi
allora udì, che di que' mali,
Che
sovra i Teucri, per voler di Giove,
Rovesciarsi
doveano, e su gli Achivi,
Si
cominciava a dispiegar la tela.
A tai
memorie il Laerziade, preso
L'ampio
ad ambe le man purpureo manto,
Sel
trasse in testa, e il nobil volto ascose,
Vergognando
che lagrime i Feaci
Vedesserlo
stillar sotto le ciglia.
Tacque
il cantor divino; ed ei, rasciutte
Le
guancie in fretta, dalla testa il manto
Si
tolse, e, dato a una ritonda coppa
Di
piglio, libò ai numi. I Feacesi
Cui
gioia erano i carmi, a ripigliarli
Il
poeta eccitavano, che aprìa
Novamente
le labbra; e novamente
Coprirsi
il volto e lagrimare Ulisse.
Così,
gocciando lagrime, da tutti
Celossi.
Alcinoo sol di lui s'avvide,
E
l'adocchiò, sedendogli da presso,
Oltre
che forte sospirare udillo;
E più
non aspettando: "Udite", disse,
"Della
Feacia condottieri e prenci.
Già del
comun convito, e dell'amica
De'
conviti solenni arguta cetra
Godemmo.
Usciamo, e ne' diversi giuochi
Proviamci,
perché l'ospite, com'aggia
Rimesso
il piè nelle paterne case,
Narri
agli amici, che l'udranno attenti,
Quanto
al cesto e alla lotta, e al salto e al corso,
Cede a
noi, vaglia il vero, ogni altra gente".
Disse,
ed entrò in cammino; e i prenci insieme
Seguìanlo.
Ma l'araldo, alla caviglia
Rïappiccata
la sonante cetra,
Prese
il cantor per mano, e fuor del tetto
Menollo:
indi guidavalo per quella
Strada,
in cui posto erasi Alcinoo e i capi.
Movean
questi veloce al Foro il piede,
E gente
innumerabile ad un corpo
Lor
tenea dietro. Ed ecco sorger molta,
Per
cimentarsi, gioventù forzuta.
Sorse
Acroneo ed Ocìalo. Eleatrèo sorse,
E
Nauteo e Prìmneo e Anchìalo: levossi
Eretméo
ancor, Pontèo, Proto, Toòne,
Non che
Anabesinèo, non che Anfiàlo,
Di
Polinèo Tectonide la prole,
E non
ch'Eurìalo all'omicida Marte
Somigliante,
e Naubòlide, che tutti,
Ma dopo
il senza neo Laodamante,
Vincea
di corpo e di beltà. Né assisi
I tre
restâr figli d'Alcinoo: desso
Laodamante,
Alio, che al Rege nacque
Secondo,
e Clitonèo pari ad un nume.
Del
corso fu la prima gara. Un lungo
Spazio
stendeasi alla carriera; e tutti
Dalle
mosse volavano in un groppo
Densi
globi di polvere levando.
Avanzò
gli altri Clitonèo, che, giunto
Della
carriera al fin, lasciolli indietro
Quell'intervallo
che i gagliardi muli
I tardi
lascian corpulenti buoi,
Se lo
stesso noval fendono a un'ora.
Succedé
al corso l'ostinata lotta,
Ed
Eurìalo prevalse. Il maggior salto
Anfiàlo
spiccollo, e il disco lunge
Non
iscagliò nessun, com'Elatrèo.
Laodamante,
il real figlio egregio,
Nel
pùgile severo ebbe la palma.
Fine al
diletto de' certami posto,
Parlò
tra lor Laodamante: "Amici,
Su via,
l'estraneo domandiam di queste
Prove,
se alcuna in gioventù ne apprese.
Di buon
taglio e' mi sembra; e, dove ai fianchi,
Dove
alle gambe, e delle mani ai dossi
Guárdisi,
e al fermo collo, una robusta
Natura
io veggio, e non mi par che ancora
Degli anni
verdi l'abbandoni il nerbo.
Ma il
fransero i disagi all'onde in grembo:
Ché non
è, quanto il mar, siccome io credo,
Per
isconfigger l'uom, benché assai forte".
"Laodamante,
il tuo parlar fu bello",
Eurìalo
rispondea. "Però l'abborda
Tu
stesso, e il tenta; e a fuori uscir l'invita".
Come
d'Alcinoo l'incolpabil figlio
Questo
ebbe udito, si fe' innanzi, e stando
Nel
mezzo: "Orsù, gli disse, ospite padre,
Tu
ancor ne' giochi le tue forze assaggia,
Se
alcun mai ne apparasti a' giorni tuoi,
E degno
è ben che non ten mostri ignaro:
Quando
io non so per l'uom gloria maggiore
Che del
piè con prodezza e della mano,
Mentre
in vita riman, poter valersi.
T'arrischia
dunque, e la tristezza sgombra
Dall'alma.
Poco il desïato istante
Del tuo
vïaggio tarderà: varata
Fu già
la nave, e i rèmigi son pronti".
Ma così
gli rispose il saggio Ulisse:
"Laodamante,
a che cotesto invito,
Deridendomi
quasi? Io, più che giochi,
Disastri
volgo per l'afflitta mente,
Io, che
tanto patìi, sostenni tanto,
E or
qui, mendico di ritorno e scorta,
Siedomi,
al re pregando, e al popol tutto".
Il
bravo Eurìalo a viso aperto allora:
"Uom
non mi sembri tu, che si conosca
Di
quelle pugne che la stirpe umana
Per suo
diletto esercitar costuma.
Tu
m'hai vista di tal che presso nave
Di
molti banchi s'affaccendi, capo
Di
marinari al trafficare intesi,
Che in
mente serba il carico, ed al vitto
Pensa;
e ai guadagni con rapina fatti:
Ma
nulla certo dell'atleta tieni".
Mirollo
bieco, e replicògli Ulisse:
"Male
assai favellasti, e ad uom protervo
Somigli
in tutto. Così è ver che i numi
Le più
care non dan doti ad un solo:
Sembiante,
ingegno e ragionar che piace.
L'un
bellezza non ha, ma della mente
Gl'interni
sensi in cotal guisa esprime,
Che par
delle parole ornarsi il volto.
Gode
chiunque il mira. Ei, favellando
Con
soave modestia, e franco a un tempo,
Spicca
in ogni consesso; e allor che passa
Per la
città, gli occhi a sé attrae, qual nume.
L'altro
nel viso e nelle membra un mostra
Degl'immortali
dèi: pur non si vede
Grazia
che ai detti suoi s'avvolga intorno.
Così te
fregia la beltà, né meglio
Formar
saprìan gli stessi eterni un volto:
Se non
che poco della mente vali.
Mi
trafiggesti l'anima nel petto,
Villane
voci articolando; io nuovo
Non son
de' giochi qual tu cianci e credo
Anzi,
ch'io degli atleti andai tra i primi,
Finché
potei de' verdi anni e di queste
Braccia
fidarmi. Or me, che aspre fatiche
Durai,
tra l'armi penetrando e l'onde,
Gl'infortunï
domaro. E non pertanto
Cimenterommi:
ché mordace troppo
Fu il
tuo sermon, ne più tenermi io valgo".
Disse;
e co' panni stessi, in ch'era involto,
Lanciossi,
ed afferrò massiccio disco,
Che
quelli, onde giocar solean tra loro,
Molto
di mole soverchiava e pondo.
Rotollo
in aria, e con la man robusta
Lo
spinse: sonò il sasso, ed i Feaci,
Que'
naviganti celebri, que' forti
Remigatori,
s'abbattero in terra
Per la
foga del sasso il qual, partito
Da sì
valida destra, i segni tutti
Rapidamente
sorvolò. Minerva,
Vestite
umane forme, il segno pose,
E
all'ospite conversa: "Un cieco", disse,
"Trovar,
palpando, tel potrìa: ché primo,
Né già
di poco, e solitario sorge.
Per
questa prova dunque alcun timore
Non
t'anga: lunge dal passarti, alcuno
Tra i
Feaci non fia che ti raggiunga".
Rallegrossi
a tai voci, e si compiacque
Il
Laerzìade, che nel circo uom fosse
Che
tanto il favorìa. Quindi ai Feaci
Più
mollemente le parole volse:
"Quello
arrivate, o damigelli, e un altro
Pari, o
più grande, fulminarne in breve
Voi mi
vedrete, io penso. Ed anco in altri
Certami,
o cesto, o lotta, o corso ancora,
Chi far
periglio di se stesso agogna,
Venga
in campo con me: poiché di vero
Mi
provocaste oltre misura. Uom vivo
Tra i
Feacesi io non ricuso, salvo
Laodamante,
che ricetto dammi.
Chi
entrar vorrebbe con l'amico in giostra?
Stolto
e da nulla è senza dubbio, e tutto
Storpia
le imprese sue, chïunque, in mezzo
D'un
popol stranier, con chi l'alberga
Si
presenta a contendere. Degli altri
Nessun
temo, o dispregio, e son con tutti
Nel dì
più chiaro a misurarmi pronto,
Come
colui che non mi credo imbelle,
Quale
il cimento sia. L'arco lucente
Trattare
appresi: imbroccherei primaio,
Saettando
un guerrier dell'oste avversa,
Benché
turba d'amici a me d'intorno
Contra
quell'oste disfrenasse i dardi.
Sol
Filottete mi vincea dell'arco,
Mentre
a gara il tendean sotto Ilio i Greci:
Ma
quanti sulla terra or v'ha mortali,
Cui la
forza del pane il cor sostenta,
Io di
gran lunga superar mi vanto:
Ché non
vo' pormi io già co' prischi eroi,
Con
Eurìto d'Ecalia, o con Alcìde,
Che
agli dèi stessi di scoccar nell'arte
Si
pareggiâro. Che ne avvenne? Giorni
Sorser
pochi ad Eurìto, e le sue case
Nol
videro invecchiar, poscia che Apollo
Forte
si corrucciò che disfidato
L'avesse
all'arco, e di sua man l'uccise.
Dell'asta
poi, quanto nessun di freccia
Saprebbe,
io traggo. Sol nel corso io temo
Non mi
vantaggi alcun: ché, tra che molto
M'afflisse
il mare, e che non fu il mio legno
Sempre
vettovagliato, a me, qual prima,
Non
ubbidisce l'infedel ginocchio".
Ammutolì
ciascuno, e Alcinoo solo
Rispose:
"Forestier, la tua favella
Sgradir
non ci potea. Sdegnato a dritto
De'
motti audaci, onde colui ti morse,
La
virtù mostrar vuoi che t'accompagna,
Virtù,
che or da chi tanto o quanto scorga,
Più
biasmata non fia. Ma tu m'ascolta,
Acciocché
un dì, quando nel tuo palagio
Sederai
con la sposa e i figli a mensa,
E quel
che di gentile in noi s'annida,
Rimembrerai,
possa un illustre amico
Favellando
narrar, quali redammo
Studi
dagli avi, per voler di Giove.
Non
siam né al cesto, né alla lotta egregi;
Ma
rapidi moviam, correndo, i passi,
E a
maraviglia navighiamo. In oltre
Giocondo
sempre il banchettar ci torna,
Musica
e danza, ed il cangiar di veste,
I
tepidi lavacri e i letti molli.
Su
dunque voi, che tra i Feaci il sommo
Pregio
dell'arte della danza avete,
Fate
che lo straniero a' suoi più cari,
Risalutate
le paterne mura,
Piacciasi
raccontar, quanto anche al ballo,
Non che
al nautico studio ed alla corsa,
Noi da
tutte le genti abbiam vantaggio.
E tu,
Pontonoo, per l'arguta cetra,
Che nel
palagio alla colonna pende,
Vanne e
al divin Demodoco la reca".
Sorse,
e partì l'araldo; e al tempo stesso
Sorsero
i nove a presedere ai giuochi
Giudici
eletti dai comuni voti:
Ed il
campo agguagliâro, e dilataro,
Rimosse
alquanto le persone, il circo.
Tornò
l'araldo con la cetra, e in mano
La pose
di Demodoco, che al circo
S'adagiò
in mezzo. Danzatori allora
D'alta
eccellenza, e in sul fiorir degli anni
Feano
al vate corona, ed il bel circo
Co'
presti piedi percoteano. Ulisse
De'
frettolosi piè gli sfolgorìi
Molto
lodava; e non si rïavea
Dallo
stupor che gl'ingombrava il petto.
Ma il
poeta divin, citareggiando,
Del
bellicoso Marte, e della cinta
Di vago
serto il crin Vener Ciprigna,
Prese a
cantar gli amori, ed il furtivo
Lor
conversar nella superba casa
Del re
del fuoco, di cui Marte il casto
Letto
macchiò nefandemente, molti
Doni
offerti alla dea, con cui la vinse.
Repente
il Sole, che la colpa vide,
A
Vulcan nunzïolla; e questi, udito
L'annunzio
doloroso, alla sua negra
Fucina
corse, un'immortal vendetta
Macchinando
nell'anima. Sul ceppo
Piantò
una magna incude; e col martello
Nodi,
per ambo imprigionarli, ordìa
A
frangersi impossibili, o a disciorsi.
Fabbricate
le insidie, ei, contra Marte
D'ira
bollendo, alla secreta stanza,
Ove
steso giaceagli il caro letto,
S'avvïò
in fretta, e alla lettiera bella
Sparse
per tutto i fini lacci intorno,
E molti
sospendeane all'alte travi,
Quai
fila sottilissime d'aragna,
Con
tanta orditi e sì ingegnosa fraude,
Che né
d'un dio li potea l'occhio tôrre.
Poscia
che tutto degl'industri inganni
Circondato
ebbe il letto, ir finse in Lenno.
Terra
ben fabbricata, e, più che ogni altra
Cittade,
a lui diletta. In questo mezzo
Marte,
che d'oro i corridori imbriglia,
Alle
vedette non istava indarno.
Vide
partir l'egregio fabbro, e, sempre
Nel cor
portando la di vago serto
Cinta
il capo Ciprigna, alla magione
Del
gran mastro de' fuochi in fretta mosse.
Ritornata
di poco era la diva
Dal
Saturnìde onnipossente padre
Nel
coniugale albergo; e Marte, entrando,
La
trovò che posava, e lei per mano
Prese,
e a nome chiamò: "Venere", disse,
"Ambo
ci aspetta il solitario letto.
Di casa
uscì Vulcano; altrove, a Lenno
Vassene,
e ai Sinti di selvaggia voce".
Piacque
l'invito a Venere, e su quello
Salì
con Marte, e si corcò: ma i lacci
Lor
s'avvolgean per cotal guisa intorno,
Che
stendere una man, levare un piede,
Tutto
era indarno; e s'accorgeano al fine
Non aprirsi
di scampo alcuna via.
S'avvicinava
intanto il fabbro illustre,
Che
volta diè dal suo viaggio a Lenno:
Perocché
il Sole spïator la trista
Storia
gli raccontò. Tutto dolente
Giunse
al suo ricco tetto ed arrestossi
Nell'atrio:
immensa ira l'invase, e tale
Dal
petto un grido gli scoppiò, che tutti
Dell'Olimpo
l'udir gli abitatori:
"O
Giove padre, e voi", disse, beati
Numi,
che d'immortal vita godete,
Cose
venite a rimirar da riso,
Ma pure
insopportabili. Ciprigna,
Di
Giove figlia, me, perché impedito
De'
piedi son, copre d'infamia ognora,
Ed il
suo cor nell'omicida Marte
Pone,
come in colui che bello e sano
Nacque
di gambe, dove io mal mi reggo.
Chi sen
vuole incolpar? Non forse i soli,
Che tal
non mi dovean mettere in luce,
Parenti
miei? testimon siate, o numi,
Del lor
giacersi uniti, e dell'ingrato
Spettacol
che oggi sostener m'è forza.
Ma
infredderan nelle lor voglie, io credo,
Benché
sì accesi, e a cotai sonni in preda
Più non
vorranno abbandonarsi. Certo
Non si
svilupperan d'este catene,
Se
tutti prima non mi torna il padre
Quei
ch'io posi in sua man, doni dotali
Per la
fanciulla svergognata: quando
Bella,
sia loco al ver, figlia ei possiede,
Ma del
proprio suo cor non donna punto".
Disse;
e i dèi s'adunâro alla fondata
Sul
rame casa di Vulcano. Venne
Nettuno,
il dio per cui la terra trema,
Mercurio
venne de' mortali amico,
Venne
Apollo dal grande arco d'argento.
Le dee
non già; ché nelle stanze loro
Ritenevale
vergogna. Ma i datori
D'ogni
bramato ben dèi sempiterni
Nell'atrio
s'adunâr: sorse tra loro
Un riso
inestinguibile, mirando
Di
Vulcan gli artifici; e alcun, volgendo
Gli
occhi al vicino, in tai parole uscìa:
"Fortunati
non sono i nequitosi
Fatti,
e il tardo talor l'agile arriva.
Ecco
Vulcan, benché sì tardo, Marte,
Che di
velocità tutti d'Olimpo
Vince
gli abitator, cogliere: il colse,
Zoppo
essendo, con l'arte; onde la multa
Dell'adulterio
gli può tôrre a dritto".
Allor
così a Mercurio il gaio Apollo:
"Figlio
di Giove, messaggiero accorto,
Di
grate cose dispensier cortese,
Vorrestu
avvinto in sì tenaci nodi
Dormire
all'aurea Venere da presso?"
"Oh
questo fosse", gli rispose il nume
Licenzïoso,
e ad opre turpi avvezzo;
"Fosse,
o sir dall'argenteo arco, e in legami
Tre
volte tanti io mi trovassi avvinto,
E
intendessero i numi in me lo sguardo
Tutti, e
tutte le dee! Non mi dorrìa
Dormire
all'aurea Venere da presso".
Tacque;
e in gran riso i Sempiterni diero.
Ma non
ridea Nettuno; anzi Vulcano,
L'inclito
mastro, senza fin pregava,
Liberasse
Gradivo, e con alate
Parole
gli dicea: "Scioglilo. Io t'entro
Mallevador,
che agl'Immortali in faccia
Tutto
ei compenserà, com'è ragione".
"Questo",
rispose il dio dai piè distorti
Al
Tridentier dalle cerulee chiome,
"Non
ricercar da me. Triste son quelle
Malleverìe
che dànnosi pe' tristi.
Come
legarti agl'Immortali in faccia
Potrei,
se Marte, de' suoi lacci sciolto,
Del
debito, fuggendo, anco s'affranca?"
"Io
ti satisfarò", riprese il nume
Che la
terra circonda, e fa tremarla.
E il
divin d'ambo i piè zoppo ingegnoso:
"Bello
non fôra il ricusar, né lice".
Disse,
e d'un sol suo tocco i lacci infranse.
Come
liberi fûr, saltaro in piede,
E Marte
in Tracia corse, ma la diva
Del
riso amica, riparando a Cipri
In Pafo
si fermò, dove a lei sacro
Frondeggia
un bosco, ed un altar vapora.
Qui le
Grazie lavaro, e del fragrante
Olio,
che la beltà cresce de' numi,
Unsero
a lei le delicate membra:
Poi
così la vestir, che meraviglia
Non men
che la dea stessa, era il suo manto.
Tal
cantava Demodoco; ed Ulisse
E que'
remigator forti, que' chiari
Navigatori,
di piacere, udendo,
Le vene
ricercar sentìansi, e l'ossa.
Ma di
Laodamante e d'Alio soli,
Ché
gareggiar con loro altri non osa,
Ad
Alcinoo mirar la danza piacque.
Nelle
man tosto la leggiadra palla
Si
recaro, che ad essi avea l'industre
Polibo
fatta, e colorata in rosso.
L'un la
palla gittava in vêr le fosche
Nubi,
curvato indietro; e l'altro, un salto
Spiccando,
riceveala, ed al compagno
La
rispingea senza fatica o sforzo,
Pria
che di nuovo il suol col piè toccasse.
Gittata
in alto la vermiglia palla,
La
nutrice di molti amica terra
Co'
dotti piedi cominciaro a battere,
A far
volte e rivolte alterne e rapide,
Mentre
lor s'applaudìa dagli altri giovani
Nel
circo, e acute al ciel grida s'alzavano.
Così ad
Alcinoo l'Itacese allora:
"O
de' mortali il più famoso e grande,
Mi
promettesti danzatori egregi,
E
ingannato non m'hai. Chi può mirarli
Senza
inarcar dello stupor le ciglia?"
Gioì
d'Alcinoo la sacrata possa,
E ai
Feaci rivolto: "Udite", disse,
"Voi
che per sangue e merto i primi siete.
Saggio
assai parmi il forestiero, e degno
Che di
ricchi l'orniam doni ospitali.
Dodici
reggon questa gente illustri
Capi, e
tra loro io tredicesmo siedo.
Tunica,
e manto, ed un talento d'oro
Presentiamgli
ciascuno, e tosto, e a un tempo,
Ond'ei,
così donato, alla mia cena,
Con più
gioia nel cor vegna e s'assida.
Eurìalo,
che il ferì d'acerbi motti
Co'
doni, e in un con le parole, il plachi".
Assenso
diè ciascuno, e un banditore
Mandò
pe' doni, e così Eurìalo: "Alcinoo,
Il più
famoso de' mortali e grande,
L'ospite
io placherò, come tu imponi.
Gli
offrirò questa di temprato rame
Fedele
spada che d'argento ha l'elsa,
La
vagina d'avorio: e fu l'avorio
Tagliato
dall'artefice di fresco.
Non
l'avrà, io penso, il forestier a sdegno".
Ciò
detto, a Ulisse in man la spada pose
Con
tali accenti: "Ospite padre, salve.
Se dura
fu profferta e incauta voce,
Prendala,
e seco il turbine la porti.
E a te
della tua donna e degli amici,
Donde
lungi, e tra i guai, gran tempo vivi,
Giove
conceda i desïati aspetti".
"Salve",
gli replicò subito Ulisse,
"Amico,
e tu. Gli abitator d'Olimpo
Dìanti
felici dì: né mai nel petto
Per
volger d'anni uopo o desir ti nasca
Di
questa spada ch'io da te ricevo,
Benché
placato già sol da' tuoi detti".
Tacque;
e il buon brando agli omeri sospese.
Già
declinava il Sole, e innanzi a Ulisse
Stavano
i doni. Gli onorati araldi
Nella
reggia portâro i doni eletti,
Che dai
figli del re tolti, e all'augusta
Madre
davante collocati fûro.
Alcinoo
entrò alla reggia, e seco i prenci,
Che
altamente sedero; e del re il sacro
Valore
in forma tal parlò ad Arete:
"Donna,
su via, la più sald'arca e bella
Fuor
traggi, ed una tunica vi stendi,
E un
manto di cui nulla offenda il lustro.
Scaldisi
in oltre allo stranier nel cavo
Rame
sul foco una purissim'onda,
Perché,
le membra asterse, e visti in bello
Ordin
riposti de' Feaci i doni,
Meglio
il cibo gli sappia, e più gradito
Scendagli
al core per l'orecchio il canto.
Io
questa gli darò di pregio eccelso
Mia
coppa d'oro, acciò non sorga giorno,
Ch'ei
d'Alcinoo non pensi, al Saturnide
Libando
nel suo tetto, e agli altri numi".
Disse;
ed Arete alle sue fanti ingiunse
Porre
il treppiede in su le brace ardenti.
Quelle
il treppiede in su le ardenti brace
Posero,
e versâr l'onda, e le raccolte
Legne
accendeanvi sotto: il cavo rame
Cingean
le fiamme, e si scaldava il fonte.
Arete
fuor della secreta stanza
Trasse
dell'arche la più salda e bella,
E tutti
con la tunica e col manto
Vi
allogò i doni in vestimenta e in oro,
Indi
assennava l'ospite: "Il coverchio
Metti
tu stesso, e bene avvolgi il nodo,
Non
fosse alcun ti nuoccia, ove te il dolce
Sonno
cogliesse nella negra nave".
L'accorto
eroe, che non udilla indarno,
Mise il
coverchio, e l'intricato nodo
Prestamente
formò, di cui mostrato
Gli
ebbe il secreto la dedalea Circe.
E qui
ad entrar la dispensiera onesta
L'invitava
nel bagno. Ulisse vide
I
lavacri fumar tanto più lieto,
Ché tai
conforti s'accostâr di rado
Al suo
corpo, dal dì che della ninfa
Le
grotte più nol ritenean, dov'era
D'ogni
cosa adagiato al par d'un nume.
Lavato
ed unto per le scorte ancelle,
E di
manto leggiadro e di leggiadra
Tunica
cinto, alla gioconda mensa
Da'
tepidi lavacri Ulisse giva.
Nausica,
cui splendea tutta nel volto
La
beltà degli dèi, della superba
Sala
fermossi alle lucenti porte.
Sguardava
Ulisse, e l'ammirava, e queste
Mandavagli
dal sen parole alate:
"Felice,
ospite, vivi e ti ricorda,
Come
sarai nella natìa terra,
Di
quella, onde pria venne a te salute".
"Nausica,
del pro' Alcinoo inclita figlia",
Ulisse
rispondeale; "oh! così Giove,
L'altitonante
di Giunon marito,
Voglia
che il dì del mio ritorno spunti,
Com'io
nel dolce ancor nido nativo
Sempre,
qual dea, t'onorerò: ché fosti
La mia
salvezza tu, fanciulla illustre".
Già le
carni partìansi, e nelle coppe
Gli
umidi vini si mesceano. Ed ecco
Il
banditor venir, guidar per mano
L'onorato
da tutti amabil vate,
E adagiarlo,
facendogli d'un'alta
Colonna
appoggio, ai convitati in mezzo.
Ulisse
allor dall'abbrostita e ghiotta
Schiena
di pingue, dentibianco verro
Tagliò
un florido brano, ed all'araldo:
"Te'",
disse, "questo, e al vate il porta, ond'io
Rendagli,
benché afflitto, un qualche onore.
Chi è
che in pregio e in riverenza i vati
Non
tenga? i vati, che ama tanto, e a cui
Sì
dolci melodie la Musa impara".
Portò
l'araldo il dono, e il vate il prese,
E per
l'alma gli andò tacita gioia.
Alle
vivande intanto e alle bevande
Porgean
la mano; e fûro spenti appena
Della
fame i desìri e della sete,
Che il
saggio Ulisse tali accenti sciolse:
"Demodoco,
io te sopra ogni vivente
Sollevo,
te, che la canora figlia
Del
sommo Giove, o Apollo stesso inspira.
Tu i
casi degli Achivi, e ciò che oprâro,
Ciò che
soffrìro, con estrema cura,
Quasi
visto l'avessi, o da' que' prodi
Guerrieri
udito, su la cetra poni.
Via,
dunque, siegui e l'edifizio canta
Del
gran cavallo, che d'inteste travi,
Con
Pallade al suo fianco, Epèo construsse,
E Ulisse
penetrar feo nella rocca
Dardania,
pregno (stratagemma insigne!)
Degli
eroi, per cui Troia andò in faville.
Ciò
fedelmente mi racconta, e tutti
Sclamar
m'udranno, ed attestar che il petto
Di
tutta la sua fiamma il dio t'accende".
Demodoco,
che pieno era del nume,
D'alto
a narrar prendea, come gli Achivi,
Gittato
il foco nelle tende, i legni
Parte
saliro, e aprir le vele ai venti.
Parte
sedean col valoroso Ulisse
Ne'
fianchi del cavallo entro la rocca.
I Troi,
standogli sotto in cerchio assisi,
Molte
cose dicean; ma incerte tutte.
E in
tre sentenze divideansi: o il cavo
Legno
intagliato lacerar con l'armi,
O
addurlo in cima d'una rupe, e quindi
Precipitarlo;
o il simulacro enorme
Agli
adirati numi offrire in voto.
Questo
prevalse alfin: poiché destino
Era che
allor perisse Ilio superbo,
Che
ricettata nel suo grembo avesse
L'immensa
mole intesta, ove de' Greci,
Morte
ai Troi per recar, sedeano i capi.
Narrava
pur, come de' Greci i figli,
Fuor di
quella versatisi, e lasciate
Le cave
insidie, la cittade a terra
Gittaro;
e come, mentre i lor compagni
Guastavan
qua e là palagi e templi,
Ulisse
di Deïfobo alla casa
Col
divin Menelao corse, qual Marte,
E un
duro v'ebbe a sostener conflitto,
Donde
uscì vincitore, auspice Palla.
A tali
voci, a tai ricordi Ulisse
Struggeasi
dentro, e per le smorte guance
Piovea
lagrime giù dalle palpèbre.
Qual
donna piange il molto amato sposo,
Che
alla sua terra innanzi, e ai cittadini
Cadde e
ai pargoli suoi, da cui lontano
Volea
tener l'ultimo giorno; ed ella,
Che
moribondo il vede e palpitante,
Sovra
lui s'abbandona, ed urla e stride,
Mentre
ha di dietro chi dell'asta il tergo
Le va
battendo e gli omeri, e le intima
Schiavitù
dura, e gran fatica e strazio,
Sì che
già del dolor la miserella
Smunto
ne porta e disfiorato il volto:
Così
Ulisse di sotto alle palpèbre
Consumatrici
lagrime piovea.
Pur del
suo pianto non s'accorse alcuno,
Salvo
re Alcinoo, che sedeagli appresso,
E
gemere il sentìa: però ai Feaci:
"Udite",
disse, "o condottieri e prenci;
Deponga
il vate la sonante cetra;
Ché a
tutti il canto suo grato non giunge.
Dal
primo istante ch'ei toccolla, in pianto
Cominciò
a romper l'ospite, a cui siede
Certo
un'antica in sen cura mordace.
La mano
adunque dalle corde astenga;
E lieto
allo stranier del par che a noi
Che il
ricettammo, questo giorno cada.
Consiglio
altro non v'ha. Per chi tal festa?
Per chi
la scorta preparata e i doni,
D'amistà
pegni, e le accoglienze oneste?
Un
supplice straniero ad uom, che punto
Scorga
diritto, è di fratello in vece.
Ma tu
di quel ch'io domandarti intendo,
Nulla
celarmi astutamente: meglio
Torneranne
a te stesso. Il nome dimmi,
Con che
il padre solea, solea la madre,
E i
cittadin chiamarti, ed i vicini:
Ché
senza nome uom non ci vive in terra,
Sia
buono o reo; ma, come aperse gli occhi,
Da'
genitori suoi l'acquista in fronte.
Dimmi
il tuo suol, le genti e la cittade,
Sì che
la nave d'intelletto piena
Prenda
la mira, e vi ti porti. I legni
Della
Feacia di nocchier mestieri
Non
han, né di timon: mente hanno, e tutti
Sanno i
disegni di chi stavvi sopra.
Conoscon
le cittadi e i pingui campi,
E senza
tema di ruina o storpio,
Rapidissimi
varcano, e di folta
Nebbia
coverti, le marine spume.
Bensì
al padre Nausitoo io dire intesi
Che
Nettun contra noi forte s'adira,
Perché
illeso alla patria ogni mortale
Riconduciamo;
e che un de' nostri legni
Ben
fabbricati, al suo ritorno, il dio
Struggerà
nelle fosche onde, e la nostra
Cittade
coprirà d'alta montagna.
Ma
effetto abbiano, o no, queste minacce,
Tu mi
racconta, né fraudarmi il vero,
I mari
scorsi e i visitati lidi.
Parlami
delle genti, e delle terre
Che di
popol ridondano, e di quante
Veder
t'avvenne nazioni agresti,
Crudeli,
ingiuste, o agli stranieri amiche,
A cui
timor de' numi alberga in petto.
Né mi
tacer, perché secreto piangi,
Quando
il fato di Grecia e d'Ilio ascolti.
Se
venne dagli dèi strage cotanta,
Lor
piacque ancor che degli eroi le morti
Fossero
il canto dell'età future.
Ti perì
forse un del tuo sangue a Troia,
Genero
prode, o suocero, i più dolci
Nomi al
cor nostro dopo i figli e i padri?
O forse
un fido, che nell'alma entrarti
Sapea,
compagno egregio? È qual fratello
L'uom
che sempre usa teco, e a cui fornìro
D'alta
prudenza l'intelletto i numi".
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