Libro XVII
Visto
in campo cader dai Teucri ucciso
Patròclo, s'avanzò d'armi splendente
il
bellicoso Menelao. Si pose
del morto alla difesa, e il circuiva
qual suole
mugolando errar dintorno
alla tenera prole una giovenca
cui di madre
sentir fe' il dolce affetto
del primo parto la fatica. Il forte
davanti
gli sporgea l'asta e lo scudo,
pronto a ferir qual osi avvicinarsi.
Ma sul
caduto eroe di Panto il figlio
rivolò, si fe' presso, e
baldanzoso
all'Atride gridò: Duce di genti,
di Giove alunno Menelao,
recedi;
quell'estinto abbandona, e a me le spoglie
sanguinose ne lascia, a
me che primo
tra tutti e Teucri ed alleati in aspra
pugna il percossi. Non
vietarmi adunque
quest'alta gloria fra' Troiani; o ch'io
col ferro ti
trarrò l'alma dal petto.
Eterno Giove, gli rispose irato
il biondo
Menelao, dove s'intese
più sconcio millantar? Né di pantera
né di lïon fu
mai né di robusto
truculento cinghial tanto l'ardire
quanta spiran ferocia
i Pantoìdi.
E pur che valse il fior di gioventude
a quel tuo di cavalli
agitatore
fratello Iperenòr, quando chiamarmi
il più codardo de' guerrieri
achei,
e aspettarmi s'ardì? Ma nol tornaro
i propri piedi alla magion, mi
credo,
di molta festa obbietto ai venerandi
suoi genitori e alla diletta
sposa.
Farò di te, se innoltri, ora lo stesso.
Ma t'esorto a ritrarti, e
pria che qualche
danno ti colga, dilungarti. Il fatto
rende accorto, ma
tardi, anche lo stolto.
Disse; e fermo in suo cor l'altro riprese.
Pagami
or dunque, o Menelao, del morto
mio fratello la pena e del tuo
vanto.
D'una giovine sposa, è ver, tu festi
vedovo il letto, e d'ineffabil
lutto
fosti cagione ai genitor; ma dolce
farò ben io di quei meschini il
pianto,
se carco del tuo capo e di tue spoglie
in man di Panto e della dìa
Frontìde
le deporrò. Non più parole. Il ferro
provi qui tosto chi sia
prode o vile.
Ferì, ciò detto, nel rotondo scudo,
ma nol passò, ché nella
salda targa
si ritorse la punta. Impeto fece,
Giove invocando, dopo lui
l'Atride,
e al nemico, che in guardia si traea,
nell'imo gorgozzul spinta
la picca,
ve l'immerge di forza, e gli trafora
il delicato collo. Ei
cadde, e sopra
gli tonâr l'armi; e della chioma, a quella
delle Grazie
simìl, le vaghe anella
d'auro avvinte e d'argento insanguinârsi.
Qual
d'olivo gentil pianta nudrita
in lieto d'acque solitario loco
bella sorge
e frondosa: il molle fiato
l'accarezza dell'aure, e mentre tutta
del suo
candido fiore si riveste,
un improvviso turbine la schianta
dall'ime
barbe, e la distende a terra;
tal l'Atride prostese il valoroso
figliuol
di Panto Euforbo, e a dispogliarlo
corse dell'armi. Come quando un
forte
lïon montano una giovenca afferra
fior dell'armento, co' robusti
denti
prima il collo le frange, indi sbranata
le sanguinose viscere
n'ingozza:
alto di cani intorno e di pastori
romor si leva, ma nïun
s'accosta,
ché affrontarlo non osano compresi
di pallido timor: così
nessuno
ardìa de' Teucri al baldanzoso Atride
farsi addosso; e all'ucciso
ei tolte l'armi
agevolmente avrìa, se questa lode
gl'invidiando Apollo,
incontro a lui
non incitava il marzïale Ettorre.
Di Menta, duce de'
Ciconi, ei prese
le sembianze e gridò queste parole:
Ettore, a che del
bellicoso Achille,
senza speranza d'arrivarli, insegui
gl'immortali
corsieri? Umana destra
mal li doma, e guidarli altri non puote
che
Achille, germe d'una Diva. Intanto
il forte Atride Menelao la salma
di
Patroclo salvando, a morte ha messo
un illustre Troian, di Panto il
figlio,
e ne spense il valor. - Ciò detto, il Dio
ritornò nella mischia.
Alto dolore
l'ettòreo petto circondò: rivolse
l'eroe lo sguardo per le
file in giro,
e tosto dell'esimie armi veduto
il rapitore, e l'altro al
suol giacente
in un lago di sangue, oltre si spinse
scintillante nel ferro
come lingua
del vivo fuoco di Vulcano, e mise
acuto un grido. Udillo, e
sospirando
nel segreto suo cor disse l'Atride:
Misero che farò? Se queste
belle
armi abbandono e di Menèzio il figlio
per onor mio qui steso, alla
mia fuga
gli Achei per certo insulteran; se solo,
da pudor vinto, con
Ettòr mi provo
e co' suoi forti, io sol da molti oppresso
cadrò, ché tutti
il condottier troiano
seco i Teucri ne mena a questa volta.
Ma che dubbia
il mio cor? Chi con avversi
numi un guerrier, che sia lor caro,
affronta,
corre alla sua ruina. Alcun non fia
dunque de' Greci che con me
s'adiri
se davanti ad Ettorre, a lui che pugna
per comando d'un nume, io
mi ritraggo.
Pur se avverrà che in qualche parte io trovi
il magnanimo
Aiace, entrambi all'armi
ritorneremo allor, pur contra un Dio,
e a
sollievo de' mali opra faremo
di trar salvo ad Achille il morto
amico.
Mentre tai cose gli ragiona il core,
da Ettore precorse ecco de'
Teucri
sopravvenir le schiere. Allora ei cesse,
e il morto abbandonò, gli
occhi volgendo
tratto tratto all'indietro, a simiglianza
di giubbato lïon
cui da' presepi
caccian cani e pastor con dardi ed urli.
Freme la belva in
suo gran core, e parte
mal suo grado dal chiuso: a tal sembianza
da
Patroclo partissi il biondo Atride.
Giunto ai compagni, s'arrestò, si
volse
cercando in giro collo sguardo il grande
figliuol di Telamone, e
alla sinistra
della pugna il mirò, che alla battaglia
animava i suoi prodi
a cui poc'anzi
Febo avea messo nelle vene il gelo
d'un divino terror.
Corse, e veloce
raggiuntolo gridò: Qua tosto, Aiace,
vola, amico,
affrettiamci alla difesa
di Patroclo; serbiamne al divo Achille
il nudo
corpo almen, poiché dell'armi
già si fece signor l'altero Ettorre.
Turbâr
la generosa alma d'Aiace
queste parole: s'avvïò, si spinse
tra i guerrieri
davanti, in compagnia
di Menelao. Per l'atra polve intanto
strascinava di
Pàtroclo la nuda
salma il duce troiano, onde troncarne
dagli omeri la
testa, e far del rotto
corpo ai cani di Troia orrido pasto.
Ma gli fu
sopra col turrito scudo
il Telamònio: retrocesse Ettorre
nella torma de'
suoi, d'un salto ascese
il cocchio, e le rapite armi famose
dielle ai
Teucri a portar nella cittade,
d'alta sua gloria monumento.
Allora
coll'ampio scudo ricoprendo il figlio
di Menèzio, fermossi il
grande Aiace,
come lïon, cui, mentre al bosco mena
i leoncini, sopravvien
la turba
de' cacciatori: si raggira il fiero,
che sente la sua forza,
intorno ai figli,
e i truci occhi rivolve, e tutto abbassa
il sopracciglio
che gli copre il lampo
delle pupille: a questo modo Aiace
circuisce e
protegge il morto eroe.
Dall'altro lato è Menelao cui l'alta
doglia del
petto tuttavia ricresce.
De' Licii il condottier Glauco, buon
figlio
d'Ippòloco, ad Ettòr volgendo allora
bieco il guardo, con detti
aspri il garrisce:
O di viso sol prode, e non di fatto,
Ettore! a torto te
la fama estolle,
te sì pronto al fuggir. Pensa alla guisa
di salvar la
cittade e le sue rocche
quindi innanzi tu sol colla tua gente,
ché nessuno
de' Licii alla salvezza
d'Ilio co' Greci pugnerà, nessuno,
da che teco
nessun merto s'acquista
col sempre battagliar contro il nemico.
Sciaurato!
e qual dunque avrai tu cura
de' minori guerrier, tu che lasciasti
preda
agli Argivi Sarpedon, che mentre
visse, a Troia fu scudo ed a te stesso?
E
ti sofferse il cor d'abbandonarlo
allo strazio de' cani? Or se a mio
senno
faranno i Licii, partiremci, e tosto;
e d'Ilio apparirà l'alta
ruina.
Oh! s'or fosse ne' Troi quella fort'alma,
quell'intrepido ardir che
ne' conflitti
scalda gli amici della patria veri,
noi dentr'Ilio trarremmo
immantinente
di Patroclo la salma. Ove un cotanto
morto, sottratto dalla
calda pugna,
strascinato di Prïamo ne fosse
dentro le mura, renderìan gli
Achei
di Sarpedonte le bell'armi e il corpo
pronti a tal prezzo. Perocché
l'ucciso
di quel forte è l'amico che di possa
tutti avanza gli Argivi, e
schiera il segue
di bellicosi. Ma del fiero Aiace
tu non osasti sostener
lo scontro
né lo sguardo fra l'armi, e via fuggisti,
perché minore di
valor ti senti.
Con bieco piglio fe' risposta Ettorre:
Perché tale qual
sei, Glauco, favelli
così superbo? Io ti credea per senno
miglior di
quanti la feconda gleba
della Licia nudrisce. Or veggo a prova
che tu se'
stolto, se affermar t'attenti
che d'Aiace lo scontro io non sostenni.
Né
la pugna io, no mai, né il calpestìo
de' cavalli pavento, ma di
Giove
l'alto consiglio che ogni forza eccede.
Egli in fuga ne mette a suo
talento
anche i più prodi, e ne' conflitti or toglie
or dona la vittoria.
Orsù, vien meco,
statti, amico, al mio fianco, e vedi al fatto
se quel
vile sarò tutto quest'oggi
che tu dicesti, o se saprò l'ardire
di
qualunque domar gagliardo Acheo
che del morto s'innoltri alla
difesa.
Quindi le schiere inanimando grida:
Teucri, Dardani, Licii, or vi
mostrate
uomini, e il petto vi conforti, amici,
dell'antico valor la
rimembranza,
mentre l'armi d'Achille, da me tolte
all'ucciso Patroclo, io
mi rivesto.
Disse, e corse e raggiunse in un baleno
delle bell'arme i
portatori, e date
a recarsi nel sacro Ilio le sue,
fuor del conflitto ed
a' suoi prodi in mezzo
le immortali si cinse armi d'Achille,
dono de' numi
al genitor Pelèo,
che poi vecchio le cesse al suo gran figlio:
ma il
figlio in quelle ad invecchiar non venne.
Come il sommo de' nembi
adunatore
del Pelìde indossarsi le divine
armi lo vide, crollò il capo, e
seco
nel suo cor favellò: Misero! al fianco
ti sta la morte, e tu nol
pensi, e l'armi
ti vesti dell'eroe che de' guerrieri
tutti è il terrore, a
cui tu il forte hai spento
mansueto compagno, armi d'eterna
tempra a lui
tolte con oltraggio. Or io
d'alta vittoria ti farò superbo,
e compenso
sarà del non doverti
Andromaca, al tornar dalla battaglia,
scioglier
l'usbergo del Pelìde Achille.
Disse; e l'arco de' negri
sopraccigli
abbassando, d'Ettorre alla persona
adattò l'armatura. Al suo
contatto
infiammossi l'eroe d'un bellicoso
orribile furor, tutte di
forza
sentì inondarsi e di valor le vene.
Degl'incliti alleati, alto
gridando,
quindi avvïossi alle caterve, e a tutti
veder sembrava folgorar
nell'armi
del magnanimo Achille Achille istesso.
E d'ogni parte ognun
riconfortando,
Mestle, Glauco, Tersìloco, Medonte,
Asteropèo, Disènore,
Ippotòo,
e Cròmio, e Forci, e l'indovino Ennòmo,
con questi accenti li
raccese: Udite,
collegati: non io dalle vicine
cittadi ad Ilio ragunai le
vostre
numerose coorti onde di gente
far molta mano, ché mestier non
m'era;
ma perché meco da' feroci Achei
le teucre spose ne servaste e i
figli
con pronti petti. Di tributi io gravo
in questo intendimento il
popol mio
per satollarvi. Dover vostro è dunque
voltar dritta la fronte
all'inimico,
e o salvarsi o perir, ché della guerra
questo è il commercio.
A chi di voi costringa
Aiace in fuga, e de' Troiani al campo
tragga il
morto Patròclo, a questi io cedo
la metà delle spoglie, e andrà
divisa
egual con esso la mia gloria ancora.
Al fin delle parole alzâr le
lance
tutti, e al nemico s'addrizzâr di punta
con grande in core di
strappar speranza
dalle mani del gran Telamonìde
il morto: folli! ché sul
morto istesso
quell'invitto dovea farne macello.
Allor rivolto Aice al
battagliero
Menelao, così disse: Illustre Atride,
caro alunno di Giove,
assai pavento
ch'or salvi usciamo dell'acerba pugna.
Né sì tem'io per
Patroclo, che parmi
del suo corpo farà tosto di Troia
sazi i cani e gli
augei, quanto pel mio
e pel tuo capo un qualche sconcio: vedi
quella nube
di guerra che già tutto
ricopre il campo? D'Ettore son quelle
le falangi,
e su noi pende una grave
manifesta rovina. Orsù de' Greci,
se udir ti
ponno, i più valenti appella.
Non fe' niego il guerriero, e a tutta
gola
gridava: Amici, capitani achei,
quanti alle mense degli Atridi in
giro
propinate le tazze, ed onorati
dal sommo Giove i popoli
reggete;
nell'ardor della zuffa il guardo mio
non vi distingue, ma
chiunque ascolta
deh corra, e sdegno il prenda che Patròclo
ludibrio resti
delle frigie belve.
Aiace, d'Oilèo veloce figlio,
udillo, e primo per la
mischia accorse;
Idomenèo dop'esso e Merïone
in sembianza di Marte. E chi
di tutti,
che poi la pugna rintegrâr, potrìa
dire i nomi al pensier?
Primieri i Teucri
stretti insieme fêr impeto, precorsi
dal grande Ettorre.
Come quando all'alta
foce d'un fiume che da Giove è sceso,
freme ritroso
alla corrente il flutto
eruttato dal mar: mugghian con vasto
rimbombo i
lidi: simigliante a questo
fu de' Teucri il clamor. Dall'altro lato
tutti
d'un cor con assiepati scudi
gli Achei fêr cerchio di Menèzio al figlio,
e
il Saturnio dintorno ai rilucenti
elmi un'atra caligine spandea,
ché
d'Achille l'amico il Dio dilesse,
mentre fu vivo, e ch'egli or sia di
fiere
orrido cibo sofferir non puote.
A pugnar quindi per la sua
difesa
i compagni eccitò. Nel primo cozzo
i Troiani respinsero gli
Achivi
che sbigottiti abbandonâr l'estinto;
né i Troiani però, benché
bramosi,
dieder morte a verun, solo badando
a predar il cadavere; ma
presto
si raccostâr gli Achei, ché il grande Aiace,
e d'aspetto e di forze
il più prestante
sovra tutti gli Achei dopo il Pelìde,
tostamente voltar
fronte li fece.
Tra gl'innanzi l'eroe quindi si spinse,
pari ad ispido
verro alla montagna,
che con sùbita furia si converte
fra le roste, e
sbaraglia de' gagliardi
cacciatori la turba e de' molossi:
così di Telamon
l'esimio figlio
de' Troiani disperde le falangi
che a Patroclo fan calca,
e strascinarlo
si studiano in trïonfo entro le mura.
Illustre germe del
Pelasgo Leto,
Ippòtoo gli avea d'un saldo cuoio
ai nervi del tallon l'un
piede avvinto,
e di mezzo al ferir de' combattenti
per la sabbia il traea,
grato sperando
farsi ad Ettorre ed ai Troiani; ed ecco
giungergli un danno
che nessun, quantunque
desideroso, allontanar gli seppe.
Fra la turba
avventossi, e su le guance
dell'elmo Aiace disserrògli un colpo
che tutto
lo spezzò: tanto dell'asta
fu il picchio e tanto della mano il
pondo.
Schizzâr per l'aria le cervella e il sangue
dall'aperta ferita, e
tosto a lui
quetârsi i polsi; dalle man gli cadde
del morto il piede, e
sovra il morto ei pure
boccon cadde e spirò lungi dai campi
di Larissa
fecondi: né poteo
dell'averlo educato ai genitori
rendere il premio,
perocché d'Aiace
la gran lancia fe' brevi i giorni suoi.
Contro Aiace
l'acuta asta allor trasse
Ettore; e l'altro, visto l'atto,
alquanto
dechinossi, e schivolla. Era di costa
Schedio, d'Ifito generoso
figlio,
fortissimo Focense che sua stanza,
di molta gente correttor,
tenea
nell'inclita Panòpe. A mezza gola
colpillo, e tutta al sommo della
spalla
la ferrea punta gli passò la strozza.
Cadde il trafitto con
fragore, e cupo
s'udì dell'armi il tuon sopra il suo petto.
Aiace di
rincontro in mezzo all'epa
di Fenòpo il figliuol Forci percosse,
forte
guerrier che messo alla difesa
d'Ippòtoo s'era. Il furioso ferro
ruppe
l'incavo del torace, ed alto
ne squarciò gl'intestini. Ei cadde, e
strinse
colla palma il terren. Dier piega allora
i primi in zuffa,
ripiegossi ei pure
l'illustre Ettorre, e con orrende grida
d'Ippòtoo e
Forci strascinâr gli Argivi
le morte salme, e le spogliâr. Compresi
di
viltade i Troiani, e dalle greche
lance incalzati allor verso le
rocche
sarìan d'Ilio fuggiti, e avrìan gli Argivi
contro il decreto del
tonante Iddio
in lor solo valor vinta la pugna,
se Apollo a tempo la virtù
d'Enea
non ridestava. Le sembianze ei prese
dell'Epitide araldo
Perifante,
che in tale officio a molta età venuto
del vecchio Anchise
nelle case, istrutta
di fedeli consigli avea la mente.
Così cangiato, a
lui disse il divino
figlio di Giove: Enea, l'eccelsa Troia
contro il
volere degli Dei periglia.
Ché non la cerchi di salvar? l'esemplo
ché non
imiti degli eroi ch'io vidi
d'ogni cimento trïonfar, fidàti
nel valor,
nell'ardir, nella fortezza
del proprio petto e delle molte schiere
che li
seguìano, invitte alla paura?
Più che agli Achivi, a noi Giove per
certo
consente la vittoria; ma chi fugge
trepido e schiva di pugnar, la
perde.
Fisse a tai detti Enea lo sguardo in viso
al saettante nume, e lo
conobbe;
e d'Ettore alla volta alzando il grido,
Ettore, ei disse, e voi
degli alleati
capitani e de' Teucri, oh qual vergogna
s'or per nostra
viltà domi dal ferro
de' bellicosi Achei risaliremo
d'Ilio le mura! Un Dio
m'apparve, e disse
che l'arbitro dell'armi eterno Giove
ne difende.
Corriam dunque diritto
all'inimico, e almen non sia che il morto
Patroclo
ei seco ne trasporti in pace.
Al fin delle parole innanzi a tutta
la prima
fronte si sospinse, e stette.
Si conversero i Teucri, ed agli
Achei
mostrâr la faccia arditamente. Allora
coll'asta Enea Leòcrito
figliuolo
d'Arisbante ferì, forte compagno
di Licomede che al caduto
amico
pietoso accorse, e fattosi vicino
fermossi, e la fulgente asta
vibrando
d'Ippaso il figlio Apisaon percosse
nell'èpate di sotto alla
corata,
e l'atterrò. Venuto era costui
dalla fertil Peònia; ed era in
guerra
il più valente dopo Asteropèo.
Sentì pietade del caduto il
forte
Asteròpeo; e di zuffa desïoso
si scagliò tra gli Achei. Ma degli
scudi
e dell'aste protese ei non potea
rompere il cerchio che Patròclo
serra.
E Aiace intorno s'avvolgendo, a tutti
molti dava comandi, e non
patìa
che alcun dal morto allontanasse il piede,
o fuor di fila ad
azzuffarsi uscisse;
ma fea precetto a ciaschedun di starsi
saldi al suo
fianco, e battagliar dappresso.
Tal dell'enorme Aiace era il volere,
e
tutta in rosso si tingea la terra.
Teucri, Argivi, alleati alla
rinfusa
cadon trafitti: ché neppur gli Argivi
senza sangue combattono, ma
n'esce
minor la strage, perocché l'un l'altro
nel travaglio fatal si porge
aita.
Così qual vasto incendio arde il conflitto;
e del Sol detto avresti
e della Luna
spento il chiaror; cotanta era sul campo
l'atra caligo che
dintorno al morto
Patroclo il fiore de' guerrier coprìa,
mentre l'un'oste
e l'altra a ciel sereno
libera altrove combattea. Su questi
puro si spande
della luce il fiume:
nessuna nube al pian, nessuna al monte.
Così la pugna
ha i suoi riposi, e molto
spazio correndo tra i pugnanti, ognuno
dalle
mutue si scherma aspre saette.
Ma cotesti di mezzo hanno
travaglio
dall'armi a un tempo e dalla nebbia, e il ferro
i più prestanti
crudelmente offende.
Sol due guerrieri non avean per anco
del buon
Patròclo la ria morte udita,
due guerrier glorïosi, Trasimède
e Antìloco:
ma vivo e tuttavolta
alle mani il credean co' Teucri al centro
della
battaglia. E intanto essi la strage
de' compagni veduta e la
paura,
pugnavano in disparte, e come imposto
fu lor dal padre, dalle negre
navi
tenean lontano le nemiche offese.
Ma il conflitto maggior ferve
dintorno
al valoroso del Pelìde amico,
terribile conflitto, e senza
posa
fino al tramonto della luce. A tutti
dissolve la stanchezza e gambe e
piedi
e ginocchia; il sudore a tutti insozza
e le mani e la faccia; e
quale, allora
che a robusti garzoni il coreggiaio
la pingue pelle a
rammollir commette
di gran tauro; disposti essi in corona
la stirano di
forza; immantinente
l'umidor ne distilla, e l'adiposo
succo le fibre ne
penètra, e tutto
a quel molto tirar si stende il cuoio:
tale in piccolo
spazio i combattenti
gareggiando traean da opposti lati
il cadavere,
questi nella speme
di strascinarlo entro le mura, e quelli
alle concave
navi. Ognor più fiera
sull'estinto sorgea quindi la zuffa,
tal che Marte
dell'armi eccitatore
nel vederla e Minerva anche nell'ira
commendata
l'avrìa. Tanta in quel giorno
di cavalli e d'eroi Giove diffuse
sul corpo
di Patròclo aspra contesa.
Né ancor del morto amico al divo
Achille
giunt'era il grido: perocché di molto
dalle navi lontana ardea la
pugna
sotto il muro troian; né in suo pensiero
di tal danno cadea pure il
sospetto.
Spera egli anzi che dopo aver trascorso
fino alle porte, ei
torni illeso indietro:
né ch'ei possa atterrar d'Ilio le mura
senza sé né
con sé punto s'avvisa,
ché del contrario l'alma genitrice
fatto certo
l'avea quando in segreto
a lui di Giove riferìa la mente;
e il fiero caso
occorso, la caduta
del suo diletto amico ora gli tacque.
In questo
d'abbassate aste lucenti
e di cozzi e di stragi alto trambusto
su
quell'esangue, dalla parte achea
gridar s'udìa: Compagni, è perso il
nostro
onor se indietro si ritorna. A tutti
s'apra piuttosto qui la terra;
è meglio
ir nell'abisso, che ai Troiani il vanto
lasciar di trarre in Ilio
una tal preda.
E di rincontro i Troi: Saldi, o fratelli,
niun s'arretri,
per dio! dovesse il fato
qui su l'estinto sterminarci tutti.
Così d'ambe
le parti ognuno infiamma
il vicino, e combatte. Il suon de' ferri
pe'
deserti dell'aria iva alle stelle.
D'Achille intanto i corridor, veduto
il
loro auriga dall'ettòrea lancia
nella polve disteso, allontanati
dalla
pugna piangean. Di Dïorèo
il forte figlio Automedonte invano
or con presto
flagello, ora con blande
parole, ed ora con minacce al corso
gli stimola.
Ostinati essi né vonno
alla riva piegar dell'Ellesponto,
né rïentrar nella
battaglia. Immoti
come colonna sul sepolcro ritta
di matrona o d'eroe,
starsi li vedi
giunti al bel carro colle teste inchine,
e dolorosi del
perduto auriga
calde stille versar dalle palpebre.
Per lo giogo diffusa al
suol cadea
la bella chioma, e s'imbrattava. Il pianto
ne vide il figlio di
Saturno, e tocco
di pietà scosse il capo, e così disse:
O sventurati!
perché mai vi demmo
ad un mortale, al re Pelèo, non sendo
voi né a morte
soggetti né a vecchiezza?
Forse perché partecipi de' mali
foste dell'uomo
di cui nulla al mondo,
di quanto in terra ha spiro e moto, eguaglia
l'alta
miseria? Ma non fia per certo
che da voi sia portato e da quel cocchio
il
Prïâmide Ettorre: io nol consento.
E non basta che l'armi ei ne
possegga,
e gran vampo ne meni? Or io nel petto
metterovvi e ne' piè forza
novella,
onde fuor della mischia a salvamento
adduciate alle navi
Automedonte.
Ch'io son fermo di far vittorïosi
per anco i Teucri insin che
fino ai legni
spingan la strage, e il Sol tramonti, e il sacro
velo
dell'ombre le sembianze asconda.
Così detto, spirò tale un vigore
ne'
divini corsier, che dalle chiome
scossa la polve, in un balen portaro
fra
i Teucri il cocchio e fra gli Achei. Sublime
combatteva su questo
Automedonte,
benché dolente del compagno; e a guisa
d'avoltoio fra timidi
volanti
stimolava i cavalli. Ed or lo vedi
ratto involarsi dai nemici, ed
ora
impetuoso ricacciarsi in mezzo,
e le turbe inseguir: ma di lor
nullo
nel suo corso uccidea, ché solo in cocchio
assalir colla lancia e
de' cavalli
reggere a un tempo non potea le briglie.
Videlo alfine un suo
compagno, il figlio
dell'Emònio Laerce Alcimedonte,
che dietro al cocchio
si lanciò gridando:
Automedonte, e qual de' numi il senno
ti tolse, e il
vano t'ispirò consiglio
d'assalir solo de' Troian la fronte?
Il tuo
compagno è spento, e l'esultante
Ettore l'armi del Pelìde indossa.
E a lui
di Dïorèo l'inclita prole:
Alcimedonte, l'indole di questi
sempiterni
corsieri, e di domarli
l'arte, chi meglio tra gli Achei l'intende
di te
dopo Patròclo in sin che visse?
Or che questo de' numi emulo giace,
tu
prenditi la sferza e le lucenti
briglie, ch'io scendo a guerreggiar
pedone.
Spiccò sul cocchio un salto a questo invito
Alcimedonte, ed alla
man diè tosto
il flagello e le guide, e l'altro scese.
Avvisossene
Ettorre, ed al propinquo
Enea rivolto, I destrier scorgo, ei disse,
del
Pelìde tornar nella battaglia
con fiacchi aurighi. Enea, se mi secondi
col
tuo coraggio, que' destrier son presi.
Non sosterran costoro il nostro
assalto,
né di far fronte s'ardiran. - Sì disse,
né all'invito fu lento il
valoroso
germe d'Anchise. S'avvïâr diretti
e rinchiusi ambiduo nelle
taurine
aride targhe che di molto ferro
splendean coperte. Mossero con
essi
Cròmio ed Arèto di beltà divina,
con grande entrambi di predar
speranza
que' superbi corsieri, e al suol trafitti
lasciarne i reggitor.
Stolti! ché l'asta
d'Automedonte sanguinosa avrìa
lor preciso il ritorno.
Egli, invocato
Giove, nell'imo si sentì del petto
correr la forza e
l'ardimento. Quindi
all'amico drizzò queste parole:
Alcimedonte, non tener
lontani
dal mio fianco i destrier: fa ch'io ne senta
l'anelito alle
spalle. Al suo furore
Ettore modo non porrà, mi penso,
se pria d'Achille
in suo poter non mette
i chiomati destrier, noi due trafitti,
e
sbaragliate degli Achei le file;
o se tra' primi ei pur freddo non
cade.
Agli Aiaci, ciò detto, e a Menelao
ei grida: Aiaci, Menelao,
lasciate
ai più prodi del morto la difesa,
e il rintuzzar gli ostili
assalti; e voi
qua correte a salvar noi vivi ancora.
I due più forti eroi
troiani, Ettorre
ed Enea, furibondi a lagrimosa
pugna vêr noi discendono.
L'evento
su le ginocchia degli Dei s'asside.
Sia qual vuolsi, farò di
lancia un colpo
io pur: del resto avrà Giove il pensiero.
Sì dicendo, e la
lunga asta vibrando,
ferì d'Arèto nel rotondo scudo,
cui tutto trapassò
speditamente
le ferrea punta, e traforato il cinto,
l'imo ventre gli
aperse. A quella guisa
che robusto garzon, levata in alto
la tagliente
bipenne, fra le corna
di bue selvaggio la dechina, e tutto
tronco il
nervo, la belva morta cade:
tal, dato un salto, supin cadde Arèto,
e tra
le rotte viscere l'acuta
asta tremando gli rapì la vita.
Fe' contra
Automedonte Ettore allora
la sua lancia volar; ma visto il colpo,
quegli
curvossi, e la schivò. Gli rase
le terga il telo, e al suol piantossi; il
fusto
tremonne, e quivi ogn'impeto consunto,
la valid'asta s'acchetò. Qui
tratte
le fiere spade a più serrato assalto
i due prodi venìan, se quegli
ardenti
spirti repente non spartìan gli Aiaci
d'Automedonte accorsi alla
chiamata.
Venir li vide fra la turba Ettorre,
e con Cròmio di nuovo e con
Enea
paventoso arretrossi, il lacerato
giacente Arèto abbandonando.
Corse
sull'esangue il veloce Automedonte,
dispogliollo dell'armi, e
glorïando
gridò: Non vale costui certo il figlio
di Menèzio; ma pur del
morto eroe
questo ucciso mi tempra alquanto il lutto.
Sì dicendo, gittò le
sanguinose
spoglie sul carro, e tutto sangue ei pure
mani e piè, vi salìa
pari a lïone
che, divorato un toro, si rinselva.
Affannosa, arrabbiata e
lagrimosa
sovra la salma di Patròclo intanto
si rinforza la pugna, e la
raccende
Palla Minerva, ad animar gli Achivi
dall'Olimpo discesa; e la
spedìa
cangiato di pensiero il suo gran padre.
Come quando dal ciel Giove
ai mortali
dell'Iride dispiega il porporino
arco, di guerra indizio o di
tempesta,
che tosto de' villani alla campagna
rompe i lavori, e gli animai
contrista:
tal di purpureo nembo avviluppata
insinuossi fra gli Achei la
Diva
eccitando ogni cor. Prima il vicino
minore Atride a confortar si
diede,
e la voce sonora e la sembianza
di Fenice prendendo, così
disse:
Se sotto Troia sbraneranno i cani
dell'illustre Pelìde il fido
amico,
tua per certo fia l'onta, o Menelao,
e tuo lo scorno. Orsù tien
forte, e tutti
a ben le mani oprar sprona gli Achei.
Veglio padre Fenice,
gli rispose
l'egregio Atride, a Pallade piacesse
darmi forza novella, e
dagli strali
preservarmi; e farei per la tutela
di Patroclo ogni prova. Il
cor mi tocca
la sua caduta: ma l'ardente orrenda
forza d'Ettor n'è contra;
ei dalla strage
mai non rimansi, e d'onor Giove il copre.
Gioì Minerva
dell'udirsi, pria
d'ogni altro iddio, pregata; ed alla destra
polso gli
aggiunse e al piede, e dentro il petto
l'ardir gli mise dell'impronta
mosca
che, ognor cacciata, ognor ritorna e morde
ghiotta di sangue. Di
cotal baldanza
pieno il torbido cor, ratto a Patròclo
appressossi, e
scagliò la fulgid'asta.
Era fra' Teucri un certo Pode, un ricco
d'Eezïone
valoroso figlio
in alto onor per Ettore tenuto,
e suo diletto commensal.
Lo colse
il biondo Atride nella cinta in quella
ch'ei la fuga prendea.
Passollo il ferro
da parte a parte, e con fragor lo stese.
Mentre vola sul
morto, e a' suoi lo tragge
l'altero vincitor, calossi Apollo
d'Ettore al
fianco, ed il sembiante assunto
dell'Asìade Fenòpo a lui diletto
ospite un
tempo, e abitator d'Abido,
questa rampogna gli drizzò: Chi fia
che tra gli
Achivi in avvenir ti tema,
se un Menelao ti fuga e ti spaventa,
un Menelao
finor tenuto in conto
di debile guerriero, e ch'or da solo
di mezzo ai
Teucri via si porta il fido
tuo compagno da lui tra i primi ucciso,
Pode
io dico figliuol d'Eezïone?
Un negro di dolor velo coperse
a
quell'annunzio dell'eroe la fronte.
Corse ei tosto a cacciossi innanzi a
tutti
folgorante nell'armi. Allor di nubi
tutta fasciando la montagna
idèa,
Giove in man la fiammante egida prese,
la scosse, e fra baleni
orrendamente
tonando, ai Teucri di vittoria il segno
diè tosto, e sparse
fra gli Achei la fuga.
Primo a fuggir fu de' Beoti il duce
Penelèo, di
leggier colpo di lancia
ferito al sommo della spalla, mentre
tenea volta
la fronte; il ferro acuto
lo graffiò fino all'osso, e il colpo venne
dalla
man di Polìdama che sotto
gli si fece improvviso. Ettore poscia
al carpo
della man colse Leìto
germe del prode Alettrïone, e il fece
dalla pugna
cessar. Si volse in fuga
guatandosi dintorno sbigottito
il piagato
guerrier, né più sperava
poter col telo nella destra infisso
combattere
co' Troi. Mentre si scaglia
contra Leìto il feritor, gli spinge
Idomenèo
dappresso alla mammella
nell'usbergo la picca: ma si franse
alla giuntura
della ferrea punta
il frassino, e n'urlâr di gioia i Teucri.
Rispose al
colpo Ettorre, e il Deucalìde
stante sul carro saettò. D'un pelo
lo fallì;
ma Ceran, scudiero e auriga
di Merïon, colpìo. Venuto egli era
dalla
splendida Litto in compagnia
di Merïone che di questa guerra
al cominciar,
sue navi abbandonando,
venne ad Ilio pedone, e di sua morte
avrìa qui
fatto glorïosi i Teucri,
se co' pronti destrieri in suo soccorso
non
accorrea Cerano. Ei del suo duce
campò la vita, ma la propria perse
per le
mani d'Ettòr. L'asta al confine
della gota lo giunse e dell'orecchia,
e
conquassògli le mascelle, e mezza
la lingua gli tagliò. Cadde dal
carro
quell'infelice: abbandonate al suolo
si diffuser le briglie, che
veloce
curvo da terra Merïon raccolse,
e volto a Idomenèo: Sferza, gli
grida,
sferza, amico, i cavalli, e al mar ti salva,
ché per noi persa, il
vedi, è la battaglia.
Sì disse, e l'altro costernato ei pure
verso le navi
flagellò le groppe
de' chiomati destrier. Scorsero anch'essi
il magnanimo
Aiace e Menelao,
che Giove ai Teucri concedea l'onore
dell'alterna
vittoria; onde proruppe
in questi accenti il gran Telamonìde:
Anche uno
stolto, per mia fé, vedrìa
che pe' Teucri sta Giove: ogni lor strale,
sia
vil, sia forte il braccio che lo spinge,
porta ferite, e il Dio li drizza. I
nostri
van tutti a vôto. Nondimen si pensi
qualche sano partito, un
qualche modo
di salvar quell'estinto, e di tornarci
salvi noi stessi a
rallegrar gli amici,
che con gli sguardi qua rivolti e mesti
stiman che
lungi dal poter le invitte
mani d'Ettorre sostener, noi tutti
cadrem morti
alle navi. Oh fosse alcuno
qui che ratto portasse al grande Achille
del
periglio l'avviso! A lui, cred'io,
ancor non giunse dell'ucciso amico
la
funesta novella; e tra gli Achei
ancor non veggo al doloroso
officio
acconcio ambasciator, tanta nasconde
caligine i cavalli e i
combattenti.
Giove padre, deh togli a questo buio
i figli degli Achei,
spandi il sereno,
rendi agli occhi il vedere, e poiché spenti
ne vuoi, ci
spegni nella luce almeno.
Così pregava. Udillo il padre, e visto
il pianto
dell'eroe, si fe' pietoso,
e, rimossa la nebbia, in un baleno
il buio
dissipò. Rifulse il Sole,
e tutta apparve la battaglia. Aiace
disse allora
all'Atride: Or guarda intorno,
diletto Menelao, vedi se trovi
di Nestore
ancor vivo il forte figlio
Antìloco, e di volo al grande Achille
nunzio
del fato del suo caro il manda.
Mosse pronto a quei detti il
generoso
Atride, e s'avvïò come lïone
che il bovile abbandona lasso e
stanco
d'azzuffarsi co' veltri e co' pastori
tutta la notte vigilanti, e
il pingue
lombo de' tori a contrastargli intesi.
Avido delle carni egli di
fronte
tuttavolta si slancia, e nulla acquista;
ché dalle ardite mani una
ruina
gli vien di strali addosso e di facelle,
dal cui lustro atterrito
egli rifugge,
benché furente, finché mesto alfine
sul mattin si rimbosca.
A questa guisa
di mal cuore da Pàtroclo si parte
il bellicoso Menelao, la
tema
seco portando che gli Achei, compresi
di soverchio terror, preda al
nemico
nol lascino fuggendo. Onde con molti
preghi agli Aiaci e a Merïon
rivolto:
Duci argivi, dicea, deh vi sovvenga
quanto fu bello il cor
dell'infelice
Pàtroclo, e come mansueto ei visse:
ahi! visse; e in braccio
alla ria Parca or giace.
Partì, ciò detto, riguardando intorno
com'aquila
che sopra ogni volante
aver acuta la pupilla è grido,
e che dall'alte nubi
infra le spesse
chiome de' cespi discoperta avendo
la presta lepre, su lei
piomba, e ratto
la ghermisce e l'uccide. E tu del pari,
o da Giove educato
illustre Atride,
d'ogni parte volgevi i fulgid'occhi
fra le turbe de'
tuoi, vivo spïando
di Nestore il buon figlio. Alla sinistra
alfin lo vide
della pugna in atto
di far cuore ai compagni e rinfiammarli
alla
battaglia. Gli si fece appresso,
e con ratto parlar: Vieni, gli
disse,
vieni, Antìloco mio: t'annunzio un fiero
doloroso accidente, e oh!
mai non fosse
intervenuto. Un Dio, tu stesso il senti,
i Dànai strugge, e
i Teucri esalta: è morto
un fortissimo Acheo ch'alto ne lascia
desiderio
di sé, morto è Patròclo.
Corri, avvisa il Pelìde, e fa che voli
a trarne
in salvo il nudo corpo: l'armi
già venute in balìa sono
d'Ettorre.
All'annunzio crudel muto d'orrore
Antìloco restò: di pianto un
fiume
gli affogò le parole, e nondimeno,
l'armi in fretta rimesse al suo
compagno
Laòdoco che fido a lui dappresso
i destrier gli reggea, corse
d'Atride
il cenno ad eseguir. Piangea dirotto,
e volava l'eroe fuor della
pugna
nunzio ad Achille della rea novella.
Del dipartir d'Antìloco
dolenti
e bramose di lui le pilie schiere
in periglio restâr; né tu
potendo
dar loro aita, o Menelao, mettesti
alla lor testa il generoso
duce
Trasimède, e di nuovo alla difesa
del morto eroe tornasti; e degli
Aiaci
giunto al cospetto, sostenesti il piede,
e dicesti: Alle navi io
l'ho spedito
verso il Pelìde: ma ch'ei pronto or vegna,
benché crucciato
con Ettòr, nol credo;
ché per conto verun non fia ch'ei voglia
pugnar co'
Teucri disarmato. Or dunque
la miglior guisa risolviam noi stessi
di
sottrarre al furor dell'inimico
quell'estinto, e campar le proprie
vite.
Saggio parlasti, o Menelao, rispose
il grande Aiace Telamònio. Or
tosto
tu dunque e Merïon sotto all'esangue
mettetevi, e sul dosso alto il
portate
fuor del tumulto: frenerem da tergo
noi de' Troiani e d'Ettore
l'assalto,
noi che pari di nome e d'ardimento
la pugna uniti a sostener
siam usi.
Disse; e quelli da terra alto levaro
il morto tra le braccia. A
cotal vista
urlò la troica turba, e difilossi
furibonda, di cani a
simiglianza
che precorrendo i cacciator s'avventano
a ferito cinghial,
desiderosi
di farlo in brani: ma se quei repente
di sua forza securo in
lor converte
l'orrido grifo, immantinente tutti
dan volta e per terror
piglian la fuga
chi qua spersi, chi là: tali i Troiani
inseguono
attruppati il fuggitivo
stuol, coll'aste il pungendo e colle spade.
Ma
come rivolgean fermi sul piede
gli Aiaci il viso, di color
cangiava
l'inseguente caterva, e non ardìa
niun farsi avanti, e disputar
l'estinto,
che di mezzo al conflitto audacemente
venìa portato da quei
forti al lido,
benché fiera su lor cresca la zuffa.
Come fuoco che involve
all'improvviso
popolosa cittade, e ruinosi
sparir fa i tetti nella vasta
fiamma,
che dal vento agitata esulta e rugge;
tale alle spalle dell'acheo
drappello
de' guerrieri incalzanti e de' cavalli
rimbombava il tumulto. E
a quella guisa
che per aspero calle giù dal monte
traggon due muli di
robusta lena
o trave o antenna da volar sull'onda,
e di sudore infranti e
di fatica
studian la via: del par que' due gagliardi
portavano affannati
il tristo incarco
difesi a tergo dagli Aiaci. E quale
steso in larga
pianura argin selvoso
de' fiumi affrena il vïolento corso,
e respinta
devolve per lo chino
l'onda furente che spezzar nol puote;
così gli Aiaci
l'irruente piena
rispingono de' Troi che tuttavolta
gl'inseguono
ristretti, Enea tra questi
principalmente e il non mai stanco Ettorre.
Con
quell'alto stridor che di mulacchie
fugge una nube o di stornei
vedendo
venirsi incontro lo sparvier che strage
fa del minuto volatìo; con
tali
acute grida innanzi alla ruina
de' due troiani eroi fuggìa
dispersa
la turba degli Achei, posto di pugna
ogni pensier. Di belle armi,
cadute
ai fuggitivi, ingombra era la fossa
e della fossa il margo; e il
faticoso
lavor di Marte non avea respiro.
Libro
XVIII
Tutta
così qual fiamma arde la pugna.
Veloce messaggier correa
frattanto
Antìloco ad Achille. Anzi all'eccelse
sue navi il trova, che nel
cor già volge
l'accaduto disastro, e nel segreto
della grand'alma
sospirando, dice:
Perché di nuovo, ohimè! verso le navi
fuggon gli Achivi
con tumulto, e vanno
spaventati pel campo? Ah! non mi cómpia
l'ira de'
numi la crudel sventura
che un dì la madre profetò, narrando
che, me
vivente ancor, de' Mirmidóni
il più prode guerrier dai Teucri ucciso
del
Sol la luce abbandonato avrìa.
Ah! certo di Menèzio il forte figlio
morì.
Infelice! E pur gl'imposi io stesso
che risospinta la nemica
fiamma
ritornasse alle navi, e con Ettorre
cimentarsi in battaglia oso non
fosse.
In questo rio pensier l'aggiunse il figlio
di Nestore piangendo, e,
Ohimè! gli disse,
magnanimo Pelìde; una novella
tristissima ti reco, e che
nol fosse
oh piacesse agli Dei! Giace Patròclo;
sul cadavere nudo si
combatte;
nudo; ché l'armi n'ha rapito Ettorre.
Una negra a que' detti il
ricoperse
nube di duol; con ambedue le pugna
la cenere afferrò, giù per la
testa
la sparse, e tutto ne bruttò il bel volto
e la veste odorosa. Ei col
gran corpo
in grande spazio nella polve steso
giacea turbando colle man le
chiome
e stracciandole a ciocche. Al suo lamento
accorsero d'Achille e di
Patròclo
l'addolorate ancelle, e con alti urli
si fêr dintorno al
bellicoso eroe
percotendosi il seno, e ciascheduna
sentìa mancarsi le
ginocchia e il core.
Dall'altra parte Antìloco pietoso
lagrimando dirotto,
e di cordoglio
spezzato il petto rattenea d'Achille
le terribili mani,
onde col ferro
non si squarciasse per furor la gola.
Udì del figlio
l'ululato orrendo
la veneranda Teti che del mare
sedea ne' gorghi al
vecchio padre accanto.
Mise un gemito, e tutte a lei dintorno
si raccolser
le Dee, quante ne serra
il mar profondo, di Nerèo figliuole
Glauce, Talìa,
Cimòdoce, Nesea
e Spio vezzosa e Toe ed Alie bella
per bovine pupille, e
la gentile
Cimòtoe ed Attea: quindi Melìte
e Limnòria e Anfitòe, Jera ed
Agave,
Doto, Proto, Ferusa e Dinamena
e Desamena ed Amfinòma e
seco
Callïanìra e Dori e Panopea,
e sovra tutte Galatea famosa;
v'era
Apseude e Nemerte e con Janira
Callïanassa ed Ïanassa; alfine
l'alma
Climene, e Mera ed Oritìa
ed Amatea dall'auree trecce, ed altre
Nerëidi
dell'onda abitatrici.
Tutto di lor fu pieno in un momento
il cristallino
speco, e tutte insieme
batteansi il petto, allorché Teti in mezzo
tal diè
principio al lamentar: Sorelle,
m'udite, e quanto è il mio dolor
vedete.
Ohimè misera! ohimè madre infelice
di fortissima prole! Io
generai
un valoroso incomparabil figlio,
il più prestante degli eroi: lo
crebbi,
lo coltivai siccome pianta eletta
in fertile terren: poscia ne'
campi
d'Ilio lo spinsi su le navi io stessa
a pugnar co' Troiani. Ahi che
m'è tolto
l'abbracciarlo tornato alla paterna
reggia! e finch'egli
all'amor mio pur vive,
fin che gli è dato di fruir la luce,
di tristezza
si pasce; ed io, comunque
a lui mi rechi, sovvenir nol posso.
Nondimeno
v'andrò, del caro figlio
vedrò l'aspetto, e intenderò qual duolo
dalla
guerra lontano il cor gl'ingombra.
Uscì, ciò detto, dallo speco, e
quelle
piangendo la seguîr: l' onda ai lor passi
riverente s'aprìa. Come
di Troia
attinsero le rive, in lunga fila
emersero sul lido ove
frequenti
le mirmidònie antenne in ordinanza
facean selva e corona al
grande Achille.
A lui che in gravi si struggea sospiri
la diva madre
s'appressò, proruppe
in acuti ululati, ed abbracciando
l'amato capo, e
lagrimando, disse:
Figlio, che piangi? Che dolore è questo?
Nol mi celar,
deh parla. A compimento
mandò pur Giove il tuo pregar: gli Achivi
son pur,
siccome supplicasti, astretti
ripararsi alle navi, e del tuo braccio
aver
mestiero, di sciagure oppressi.
Con un forte sospir rispose Achille:
O
madre mia, ben Giove a me compiacque
ogni preghiera: ma di ciò qual
dolce
me ne procede, se il diletto amico,
se Pàtroclo è già spento? Io lo
pregiava
sovra tutti i compagni; io di me stesso
al par l'amava, ahi
lasso! e l'ho perduto.
L'uccise Ettorre, e lo spogliò dell'armi,
di quelle
grandi e belle armi, a vedersi
maravigliose, che gli eterni Dei,
dono
illustre, a Pelèo diero quel giorno
che te nel letto d'un mortal
locaro.
Oh fossi tu dell'Oceàn rimasta
fra le divine abitatrici, e
stretto
Pelèo si fosse a una mortal consorte!
Ché d'infinita angoscia il
cor trafitto
or non avresti pel morir d'un figlio
che alle tue braccia nel
paterno tetto
non tornerà più mai, poiché il dolore
né la vita né d'uom
più mi consente
la presenza soffrir, se prima Ettorre
dalla mia lancia non
cade trafitto,
e di Patròclo non mi paga il fio.
Figlio, nol dir (riprese
lagrimando
la Dea), non dirlo, ché tua morte affretti:
dopo quello d'Ettòr
pronto è il tuo fato.
Lo sia (con forte gemito interruppe
l'addolorato
eroe), si muoia, e tosto,
se giovar mi fu tolto il morto amico.
Ahi che
lontano dalla patria terra
il misero perì, desideroso
del mio soccorso
nella sua sciagura.
Or poiché il fato riveder mi vieta
di Ftia le care
arene, ed io crudele
né Pàtroclo aitai né gli altri amici
de' quai molti
domò l'ettòrea lancia,
ma qui presso le navi inutil peso
della terra mi
seggo, io fra gli Achei
nel travaglio dell'armi il più possente,
benché me
di parole altri pur vinca,
pera nel cor de' numi e de' mortali
la
discordia fatal, pera lo sdegno
ch'anco il più saggio a inferocir
costrigne,
che dolce più che miel le valorose
anime investe come fumo e
cresce.
Tal si fu l'ira che da te mi venne,
Agamennón. Ma su l'andate
cose,
benché ne frema il cor, l'obblìo si sparga,
e l'alme in sen
necessità ne domi.
Del caro capo l'uccisore Ettorre
or si corra a trovar;
poi quando a Giove
e agli altri Eterni piacerà mia morte,
venga pur, ch'io
l'accetto. Il forte Alcide,
dilettissimo a Giove e suo gran figlio,
Alcide
stesso vi soggiacque, domo
dalla Parca e dall'aspra ira di Giuno.
Così pur
io, se fato ugual m'aspetta,
estinto giacerò. Questo frattanto
tempo è di
gloria. Sforzerò qualcuna
delle spose di Dardano e di Troe
ad asciugar con
ambedue le mani
giù per le guance delicate il pianto,
e a trar dal largo
petto alti sospiri.
Sappiano alfin che il braccio mio dall'armi
abbastanza
cessò; né dalla pugna
tu, madre, mi svïar, ché indarno il tenti.
E a lui
la Diva dall'argenteo piede:
Giusta, o figlio, è l'impresa e d'onor
degna,
campar da scempio i travagliati amici.
Ma le tue scintillanti armi
divine
son fra' Troiani, ed Ettore, quel fiero
dell'elmo crollator, sen
fregia il dosso,
e dell'incarco esulta. Ma fia breve,
lo spero, il suo
gioir, ché negra al fianco
già l'incalza la Parca. Or tu di Marte
per anco
non entrar nel rio tumulto,
se tu qua pria venir non mi riveggia.
Verrò
dimani al raggio mattutino,
e recherotti io stessa una forbita
bella
armatura di Vulcan lavoro.
Così detto, dal figlio alle sorelle
ripiegò la
persona, e, Voi, soggiunse,
rïentrate del mar nell'ampio grembo,
e del
marino genitor canuto
rendetevi alle case, e tutto dite
che vedeste ed
udiste. Al grande Olimpo
io salgo a ritrovar l'inclito fabbro
Vulcano, e
il pregherò che luminose
armi stupende al figlio mio conceda.
Disse; e
quelle del mar tosto nell'onde
discesero, e la Dea dal piè
d'argento
avvïossi all'Olimpo a procacciarne
al diletto figliuolo armi
divine.
Mentr'ella al ciel salìa, con urlo immenso
dal sanguinoso Ettòr
cacciati in fuga
giunser gli Achivi delle navi al vallo
e al mugghiante
Ellesponto. E non ancora
del compagno achillèo la morta spoglia
al nembo
degli strali avean sottratta
gli argolici guerrieri. Un'altra volta
fiero
assalto le dava una gran serra
di cavalli e di fanti, e innanzi a tutti
di
Prìamo il figlio, l'indefesso Ettorre
che una fiamma parea. Tre volte il
prode
per gli piedi il cadavere afferrando
provò di trarlo, e con orrenda
voce
i Troiani chiamò: tre volte i due
impetuosi e vigorosi
Aiaci
respinserlo dal morto. E nondimeno
saldo e securo in sua fortezza or
dentro
nella turba ei s'avventa, ed or s'arresta,
e con gran voce tuttavia
pur grida,
né d'un passo s'arretra. E qual di notte
vigilanti pastori alla
campagna
da preso tauro allontanar non ponno
affamato lïon; così de'
forti
Aiaci la virtù da quell'esangue
dispiccar non potea l'ardito
Ettorre.
E l'avrìa tratto alfine e conseguita
immensa gloria, s'Iride
veloce,
a Giove occulta e a ogni altro iddio, dall'alto
Olimpo non correa
col vento al piede
messaggiera ad Achille; e la spedìa,
per eccitarlo alla
battaglia, il cenno
dell'augusta Giunon. Gli parve al fianco
improvvisa la
Diva, e questi accenti
fe' dal labbro volar: Sorgi, Pelìde
terribile
guerriero, e di Patròclo
il cadavere salva. Intorno a lui
ferve avanti
alle navi orrida pugna
con mutue stragi. In sua difesa i Greci
fan che
puossi: per trarlo in Ilio i Teucri
s'avventano di punta. Il fiero
Ettorre
innanzi a tutti di rapirlo agogna,
bramoso di mozzar dal
dilicato
collo il bel capo, e d'un infame tronco
conficcarlo alla cima.
Alzati, e pigro
più non giacer. Ti tocchi il cor vergogna
che de' cani di
Troia il tuo diletto
debba le sanne trastullar. Se offesa
ne riceve la
salma, è tuo lo smacco.
Rispose Achille: E quale a me de' numi
ti manda
ambasciatrice, Iri divina?
Mi manda, replicò la Dea veloce,
Giunon, di
Giove glorïosa moglie,
né Giove il sa, né verun altro iddio
de' sereni
d'Olimpo abitatore.
Come al campo n'andrò, soggiunse Achille,
se in mano
di color venner le mie
armi: e che d'armi or io mi cinga il vieta
la cara
madre, se lei pria non veggio
da Vulcano tornar, come promise,
di
leggiadra armatura apportatrice?
Di qual altra famosa or mi vestire
al
bisogno non so, tranne lo scudo
dell'egregio figliuol di Telamone.
Ma pur
egli, mi spero, in questo punto
sta combattendo pel mio spento amico.
E a
lui di nuovo la taumànzia figlia:
Noto è ben anco a noi che le tue
belle
armi or sono d'altrui. Ma su la fossa
anco inerme ti mostra
all'inimico.
Lascerà spaventato la battaglia
solo al vederti, e respirar
potranno
i travagliati Achei. Salute è spesso
nel calor della pugna un sol
respiro.
Così disse, e disparve. In piedi allora
rizzossi Achille amor di
Giove, e tutto
coll'egida Minerva il ricoperse.
D'un'aurea nube gli fasciò
la fronte,
ed una fiamma dalla nube uscìa,
che dintorno accendea l'aria di
luce.
Siccome quando al ciel s'innalza il fumo
d'isolana città, cui
d'aspro assedio
cinge il nemico: con orrendo marte
combattono dal muro i
cittadini
finché gli alluma il Sol; poi quando annotta,
destan fuochi
frequenti alle vedette,
e al ciel ne sbalza uno splendor che manda
ai
convicini del periglio il segno,
se per sorte venir con pronte
antenne
volessero in aita: a questo modo
dalla testa d'Achille alta alle
stelle
quella fiamma salìa. Varcato il muro,
sul primo margo s'arrestò del
fosso,
né mischiossi agli Achei, ché della madre
al precetto obbedìa. Lì
stando, un grido
mise, e d'un altro da lontan gli fece
eco Minerva, ed un
terror ne' Teucri
immenso suscitò. Come sonoro
d'una tuba talor s'ode lo
squillo,
quando d'assedio una città serrando
armi grida terribile il
nemico,
così chiara d'Achille era la voce.
N'udiro i Teucri il ferreo
suono, e a tutti
tremaro i petti; si rizzâr sul collo
ai destrieri le
chiome, e d'alto affanno
presaghi addietro rivolgean le bighe.
Gli aurighi
sbigottîr, vista la fiamma
che da Minerva di repente accesa
orrenda e
lunga su la fronte ardea
del magnanimo eroe. Tre volte Achille
dalla fossa
gridò: tre volte i Teucri
e i collegati sgominârsi, e dodici
de' più
prestanti fra i riversi cocchi
trafitti vi perîr dal proprio ferro.
Pronti
intanto gli Achei di sotto ai densi
strali sottratto di Menèzio il
figlio,
il locâr nella bara, e gli fêr cerchio
lagrimando i compagni.
Anch'ei veloce
v'accorse Achille, e si disciolse in pianto
nel feretro
mirando il fido amico
d'acuta lancia trapassato il petto.
Egli stesso con
carri, armi e destrieri
l'avea spedito alla battaglia, e freddo
lo rïebbe
al ritorno e sanguinoso.
Costrinse allor la veneranda Giuno
suo malgrado a
calar nelle correnti
dell'Oceàno l'instancabil Sole.
Ei si sommerse, e dal
crudel conflitto
ebber tregua gli Achei. Dier posa all'armi
di rincontro i
Troiani; i corridori
sciolser dai cocchi, e pria che a cibo alcuno
volger
la mente, convocâr consiglio.
Ritti in piedi aprîr essi il parlamento;
né
verun di sedersi ebbe fidanza,
perché d'Achille la comparsa orrenda
facea
loro tremar le vene e i polsi,
ché da lunga stagion ne' lagrimosi
campi di
Marte non l'avean veduto.
Prese tra lor Polidamante il primo
a ragionar.
Di Panto era costui
prudente figlio, e de' Troiani il solo
che le passate
e le future cose
al guardo avea presenti. Egli d'Ettorre
era compagno, e
una medesma notte
li produsse ambedue, l'un di parole,
l'altro d'asta
valente. Ei dunque in mezzo
con saggio avviso così tolse a dire:
Librate,
amici, la bisogna; ir dentro
alla cittade, e tosto, è mio
consiglio,
senz'aspettar davanti a queste navi
l'alma luce del dì. Troppo
siam lungi
qui dalle mura. Finché l'ira in petto
arse a questo guerrier
contra l'Atride,
più lieve er'anco il debellar gli Achivi,
ed io pure
vegliar godea le notti
presso le navi, nella dolce speme
d'occuparle. Or
tremar fammi il Pelìde.
L'ardor che il mena non vorrà ristretto
contenersi
nel campo ove l'acheo
col troiano valore in generose
prove la gloria
marzïal divise:
ma per Ilio a pugnar e per le mogli
ne sforzerà. Nella
cittade adunque
ripariamo, e si segua il mio sentire,
ché le cose avverran
com'io v'assenno.
L'alma notte or sopito in dolce calma
tien d'Achille il
furor: ma se dimani
all'assalto prorompe, e qui ne trova,
certo talun
conoscerallo, e quanti
dar potranno le spalle, e dentro il sacro
Ilio
camparsi, si terran beati;
ma pria ben molti rimarran pastura
di voraci
avoltoi. Deh ch'io non oda
sì rio caso giammai! Se al mio ricordo,
benché
non grato, obbedirem, la notte
spenderem ne' rinforzi e ne' consigli.
E le
torri e le porte e i contrafforti
de' ben commessi tavolati intanto
faran
sicura la città. Poi tutti
d'arme orrendi domani al nuovo Sole
starem su i
merli. E s'ei lasciato il lido
verrà nosco a pugnar sotto le mura,
duro
affar troveravvi, e poiché stanca
in vane giravolte avrà la foga
de' suoi
superbi corridor, gli fia
forza alle navi ritornar confuso;
né di
scagliarsi dentro alla cittade
daragli il cuore, e pria che porla al
fondo,
ei farà sazii del suo corpo i cani.
Qui tacque; e bieco gli rispose
Ettorre:
Tu non mi fai gradevole proposta,
Polidamante, no, quando
n'esorti
a serrarci di nuovo entro le mura.
E non vi noia ancor di quelle
torri
la prigionia? Fu tempo in cui le genti
di vario favellar tutte a una
voce
dicean ricca di molto auro e di bronzo
la città prïameia. Or dalle
case
dileguârsi i tesori. Alle contrade
dell'amena Meonia e della
Frigia
molta ricchezza ne passò venduta
da che l'ira di Giove i Teucri
oppresse.
Ed or che Giove innanzi a questi legni
d'alta vittoria mi fe'
lieto, e diemmi
che al mar chiudessi le falangi achee,
non far palese, o
stolto, ai cittadini
questo consiglio, ché nessuno avrai
fra i Troiani sì
vil che lo secondi,
né patirollo io mai. Teucri, obbediamo
tutti al mio
detto. Ristorate i corpi
al suo posto ciascuno, e vi sovvegna
delle scolte
per tutto e delle ronde.
Qualunque de' Troiani in pensier stassi
di sue
ricchezze, le raguni, e poscia
largo ai soldati le spartisca. E meglio
che
alcun nostro ne goda, e non l'Acheo.
Sull'aurora dimani in tutto
punto
assalirem le navi: e se il divino
Achille all'armi si svegliò
davvero,
gli fia la pugna, se la vuol, funesta.
Non fuggirollo io, no,
nell'affannoso
ballo di Marte, ma starogli a fronte
con intrepido petto.
Uno de' due
d'un'illustre vittoria andrà superbo;
il cimento è comune, ed
avvien spesso
che morte incontra chi di darla ha speme.
Disse, e i Teucri
levâr d'applauso un grido.
Stolti! ché Palla avea lor tolto il
senno.
Tutti assentîr d'Ettorre al pazzo avviso,
nessuno al saggio del
figliuol di Panto.
Mentre col cibo a rivocar le forze
intendono i Troiani,
in alti lai
l'intera notte dispendean gli Achivi
sovra il morto Patròclo,
e prorompea
fra loro in pianti sospirosi Achille,
la man tremenda sul
gelato petto
dell'amico ponendo, e cupi e spessi
i gemiti mettea, come
talvolta
ben chiomato lïone a cui rapìo
il cacciator nel bosco i
lïoncini.
Crucciato il fiero del suo tardo arrivo,
tutta scorre la valle,
e l'orme esplora
del predator, se mai di ritrovarlo
in qualche lato gli
rïesca; e orrenda
gli divampa nel cor la rabbia e l'ira:
tal si cruccia il
Pelìde, e con profondi
sospiri in mezzo ai Mirmidóni esclama:
Oh mie vane
parole il dì ch'io diedi
a Menèzio il conforto, e la promessa
che in
Opunta gli avrei carco di gloria
e di gran preda ricondotto il
figlio
dall'atterrata Troia! Ahi che non tutti
Giove i disegni de' mortali
adempie!
Sotto Troia il destino ambo ne danna
a far vermiglia una medesma
terra,
ché me neppure abbraccerà tornato
il buon vecchio Pelèo nel patrio
tetto,
né Teti genitrice; ma sepolcro
mi darà questo lido. Or poi che
deggio
dopo te, mio fedel, scender sotterra,
tu, no, sul rogo non andrai,
lo giuro,
se non t'arreco in prima io qui d'Ettorre,
del tuo crudo uccisor
l'armi e la testa;
e dodici d'illustri iliaci figli
troncheronne davanti
alla tua pira.
Giaci intanto così, caro compagno,
qui presso alle mie
navi; e le troiane
e le dardanie ancelle il largo seno
tutte discinte
intorno al tuo ferètro
notte e dì faran pianto, e ploreranno.
Esse ne fur
comun fatica e preda
quando noi colla forza e colle lunghe
aste domando le
nemiche genti
l'opime n'atterrammo ampie cittadi.
Ciò detto, comandò
l'almo Pelìde
che dai compagni al fuoco si ponesse
sul tripode un gran
vaso, onde veloci
di Pàtroclo lavar la sanguinosa
tabe. E quelli sul fuoco
in un baleno
atto ai lavacri collocaro un bronzo,
e v'infusero l'onda, e
di stecchiti
rami di sotto alimentâr la fiamma.
Abbracciavan le vampe
mormorando
del vaso il ventre, e rotto in sottil fumo
scaldavasi l'umor.
Poiché nel cavo
rame la linfa al suo bollor pervenne,
diersi il corpo a
lavar: l'unser di pingue
felice oliva, e le ferite empiero
di balsamo
novenne. Indi al funèbre
letto renduto, dalla fronte al piede
in sottil
lino avvolserlo, e superno
un bianco panno vi spiegâr. Ciò fatto,
tornaro
ai pianti, e intorno al mesto Achille
tutta in lamenti consumâr la
notte.
Giove in questo alla sua moglie e sorella
si volse e disse:
Veneranda Giuno,
ecco pieni alla fine i tuoi desiri;
ecco all'armi tornato
il grande Achille.
Di te nacque, cred'io, (cotanto l'ami)
l'argiva gente.
- E Giuno a lui: Che parli,
tremendo figlio di Saturno? All'uomo
povero
d'alma e di consigli è dato
il dannaggio tramar del suo simile;
ed io che
incedo degli Dei reina,
perché saturnia prole e perché sposa
son dell'alto
de' numi imperadore,
contra i Troiani co' Troiani irata
macchinar qualche
offesa io non dovea?
Mentre seguìan tra lor queste contese,
Teti agli
alberghi di Vulcan pervenne;
stellati eterni rilucenti alberghi,
fra i
celesti i più belli, e dallo stesso
Vulcan costrutti di massiccio
bronzo.
Tutto in sudor trovollo affaccendato
de' mantici al lavoro. Avea
per mano
dieci tripodi e dieci, adornamento
di palagio regal. Sopposte a
tutti
d'oro avea le rotelle, onde ne gisse
da sé ciascuno all'assemblea
de' numi,
e da sé ne tornasse onde si tolse:
maraviglia a vederli! Omai
compiuto
l'ammirando lavor, solo restava
ch'ei v'adattasse le polite
orecchie,
e appunto all'uopo n'aguzzava i chiovi.
Mentre venìa tai cose
elaborando
con egregio artificio, entro la soglia
l'alma Teti mettea
l'argenteo piede.
La vide, e le si fe' Càrite incontro
ornata il capo
d'eleganti bende,
dell'inclito Vulcan moglie vezzosa:
per man la strinse,
e il roseo labbro aprendo,
Qual, le disse, cagione, o bella Teti,
ti guida
inaspettata a queste case?
Rado suoli onorarle, e nondimeno
sempre cara vi
giungi e riverita.
Inóltrati, perch'io pronta t'appresti
le vivande
ospitali. - E sì dicendo,
la bellissima Dea l'altra introdusse,
e in un
bel seggio collocolla, ornato
d'argentee borchie a lavorìo gentile
col suo
sgabello al piede. Indi a chiamarne
corse l'esimio fabbro, e sì gli
disse:
Vieni, Vulcan, ché ti vuol Teti. - Ed egli:
Venerevole Diva e
d'onor degna
nella casa mi venne. Ella malconcio
e afflitto mi salvò
quando dal cielo
mi feo gittar l'invereconda madre,
che il distorto mio
piè volea celato;
e mille allor m'avrei doglie sofferto
se me del mar non
raccogliean nel grembo
del rifluente Ocèano la figlia
Eurìnome e la Dea
Teti. Di queste
quasi due lustri in compagnia mi vissi,
e di molte vi feci
opre d'ingegno,
fibbie ed armille tortuose e vezzi
e bei monili, in cavo
antro nascoso
a cui spumante intorno ed infinita
d'Oceàn la corrente
mormorava;
né verun di mia stanza avea contezza,
né mortale né Dio, tranne
le belle
mie servatrici. Or poiché Teti è giunta
alla nostra magion, piena
le voglio
render mercé del benefizio antico.
Tu dinanzi sollecita le
poni
il banchetto ospital, mentr'io veloce
questi mantici assetto e gli
altri arnesi.
Disse, e dal ceppo dell'incude il mostro
abbronzato levossi
zoppicando.
Moveansi sotto a gran stento le fiacche
gambe sottili.
Allontanò dal fuoco
i mantici ventosi: ogni fabbrile
istrumento raccolse,
e dentro un'arca
li ripose d'argento. Indi con molle
spugna ben tutto
stropicciossi il volto
affumicato ed ambedue le mani
e il duro collo ed il
peloso petto.
Poi la tunica mise; ed il pesante
scettro impugnato,
tentennando uscìo.
Seguìan l'orrido rege, e a dritta e a manca
il passo ne
reggean forme e figure
di vaghe ancelle, tutte d'oro, e a vive
giovinette
simìli, entro il cui seno
avea messo il gran fabbro e voce e vita
e vigor
d'intelletto e delle care
arti insegnate dai Celesti il senno.
Queste al
fianco del Dio spedite e snelle
camminavano; ed egli a tardo
passo
avvicinato a Teti, in un lucente
trono s'assise, e la sua man
ponendo
nella man della Dea, così le disse:
Qual mai sorte t'adduce a
queste soglie,
o sempre cara e veneranda Teti,
in quell'ampio tuo peplo
ancor più bella?
Troppo rado ne fai di tua presenza
contenti e lieti. Or
parla, e il tuo desire
libera esponi. A soddisfarlo il grato
cor mi
sospinge, se pur farlo io possa,
e il farlo mi s'addica. - E a lui
suffusa
di lagrime i bei rai Teti rispose:
Delle Dive d'Olimpo e qual
sofferse
tanti, o Vulcano, tormentosi affanni
quanti in me Giove n'adunò?
Me sola
fra le Dive del mar suggetta ei fece
ad un mortale, al re Pelèo.
Ritrosa
ne sostenni gli amplessi; ed egli or giace
logro dagli anni nel
regal suo tetto.
Né il tenor qui restò di mie sventure.
Mi nacque un
figlio. Io l'educai gelosa,
e come pianta ei crebbe, e mi divenne
il
maggior degli eroi. Questo germoglio
di fertile terren, questo
diletto
unico figlio su le navi io stessa
spedii di Troia alle funeste
rive
a guerreggiar co' Teucri. Avverso fato
gli dinega il ritorno; ed io
non deggio
nella pelèa magion madre infelice
abbracciarlo più mai. Né
questo è tutto.
Fin ch'ei mi vive, e la ria Parca il raggio
gli prolunga
del Sole, ei lo consuma
nella tristezza, né giovarlo io posso.
Dagli
Achivi ottenuta egli s'avea
premio di sue fatiche una fanciulla.
Agamennón
gliela ritolse; ed esso
dell'onta irato, e nel dolor sepolto
si ritrasse
dall'armi. I Teucri intanto
alle navi rinchiusero gli Achei,
né permettean
l'uscita. Umìli allora
i duci argivi gli mandâr preghiere
e d'orrevoli
doni ampie profferte.
Egli fermo negò la chiesta aita:
ma cinse di sue
stesse armi l'amico
Pàtroclo, e al campo l'invïò seguìto
da molti prodi.
Su le porte Scee
tutto un giorno durò l'aspro conflitto.
E il dì stesso
Ilïon sarìa caduto,
s'alta strage menar visto il gagliardo
di Menèzio
figliuol, non l'uccidea
tra i combattenti della fronte Apollo,
esaltandone
Ettorre. Or io pel figlio
vengo supplice madre al tuo ginocchio,
onde a
conforto di sua corta vita
di scudo e d'elmo provveder tu il voglia,
e di
forte lorica e di schinieri
con leggiadro fermaglio. A lui perdute
ha
tutte l'armi dai Troiani ucciso
il suo fedel compagno, ed egli or
giace
gittato a terra, e dal dolore oppresso.
Tacque; e il mal fermo Dio
così rispose:
Ti riconforta, o Teti, e questa cura
non ti gravi il
pensier. Così potessi
alla morte il celar quando la Parca
sul capo gli
starà, com'io di belle
armi fornito manderollo, e tali
che al vederle ogni
sguardo ne stupisca.
Lasciò la Dea, ciò detto, e impazïente
ai mantici
tornò, li volse al fuoco,
e comandò suo moto a ciascheduno.
Eran venti che
dentro la fornace
per venti bocche ne venìan soffiando,
e al fiato, che
mettean dal cavo seno,
or gagliardo or leggier, come il bisogno
chiedea
dell'opra e di Vulcano il senno,
sibilando prendea spirto la fiamma.
In un
commisti allor gittò nel fuoco
argento ed auro prezïoso e stagno
ed
indomito rame. Indi sul toppo
locò la dura risonante incude,
di pesante
martello armò la dritta,
di tanaglie la manca; e primamente
un saldo ei
fece smisurato scudo
di dèdalo rilievo, e d'auro intorno
tre ben fulgidi
cerchi vi condusse,
poi d'argento al di fuor mise la soga.
Cinque
dell'ampio scudo eran le zone,
e gl'intervalli, con divin
sapere,
d'ammiranda scultura avea ripieni.
Ivi ei fece la terra, il mare,
il cielo
e il Sole infaticabile, e la tonda
Luna, e gli astri diversi onde
sfavilla
incoronata la celeste volta,
e le Pleiadi, e l'Iadi, e la
stella
d'Orïon tempestosa, e la grand'Orsa
che pur Plaustro si noma.
Intorno al polo
ella si gira ed Orïon riguarda,
dai lavacri del mar sola
divisa.
Ivi inoltre scolpite avea due belle
popolose città. Vedi
nell'una
conviti e nozze. Delle tede al chiaro
per le contrade ne venìan
condotte
dal talamo le spose, e Imene, Imene
con molti s'intonava inni
festivi.
Menan carole i giovinetti in giro
dai flauti accompagnate e dalle
cetre,
mentre le donne sulla soglia ritte
stan la pompa a guardar
maravigliose.
D'altra parte nel fôro una gran turba
convenir si vedea.
Quivi contesa
era insorta fra due che d'un ucciso
piativano la multa. Un
la mercede
già pagata asserìa; l'altro negava.
Finir davanti a un arbitro
la lite
chiedeano entrambi, e i testimon produrre.
In due parti diviso era
il favore
del popolo fremente, e i banditori
sedavano il tumulto. In sacro
circo
sedeansi i padri su polite pietre,
e dalla mano degli araldi
preso
il suo scettro ciascun, con questo in pugno
sorgeano, e l'uno dopo
l'altro in piedi
lor sentenza dicean. Doppio talento
d'auro è nel mezzo da
largirsi a quello
che più diritta sua ragion dimostri.
Era l'altra città
dalle fulgenti
armi ristretta di due campi in due
parer divisi, o di
spianar del tutto
l'opulento castello, o che di quante
son là dentro
ricchezze in due partito
sia l'ammasso. I rinchiusi alla chiamata
non
obbedìan per anco, e ad un agguato
armavansi di cheto. In su le mura
le
care spose, i fanciulletti e i vegli
fan custodia e corona; e quelli
intanto
taciturni s'avanzano. Minerva
li precorre e Gradivo entrambi
d'oro,
e la veste han pur d'oro, ed alte e belle
le divine stature, e
d'ogni parte
visibili: più bassa iva la torma.
Come in loco all'insidie
atto fur giunti
presso un fiume, ove tutti a dissetarse
venìan gli
armenti, s'appiattâr que' prodi
chiusi nel ferro, collocati in pria
due di
loro in disparte, che de' buoi
spïassero la giunta e delle gregge.
Ed
eccole arrivar con due pastori
che, nulla insidia suspicando, al
suono
delle zampogne si prendean diletto.
L'insidiator drappello alla
sprovvista
gli assalìa, ne predava in un momento
de' buoi le mandre e
delle bianche agnelle,
ed uccidea crudele anco i pastori.
Scossa all'alto
rumor l'assediatrice
oste a consiglio tuttavia seduta,
de' veloci corsier
subitamente
monta le groppe, i predatori insegue,
e li raggiunge. Allor si
ferma, e fiera
sul fiume appicca la battaglia. Entrambe
si ferìan
coll'acute aste le schiere.
Scorrea nel mezzo la Discordia, e seco
era il
Tumulto e la terribil Parca
che un vivo già ferito e un altro
illeso
artiglia colla dritta, e un morto afferra
ne' piè coll'altra, e per
la strage il tira.
Manto di sangue tutto sozzo e rotto
le ricopre le
spalle: i combattenti
parean vivi, e traean de' loro uccisi
i cadaveri in
salvo alternamente.
Vi sculse poscia un morbido maggese
spazïoso, ubertoso
e che tre volte
del vomero la piaga avea sentito.
Molti aratori lo venìan
solcando,
e sotto il giogo in questa parte e in quella
stimolando i
giovenchi. E come al capo
giungean del solco, un uom che giva in
volta,
lor ponea nelle man spumante un nappo
di dolcissimo bacco; e quei
tornando
ristorati al lavor, l'almo terreno
fendean, bramosi di finirlo
tutto.
Dietro nereggia la sconvolta gleba:
vero arato sembrava, e
nondimeno
tutta era d'òr. Mirabile fattura!
Altrove un campo effigïato
avea
d'alta messe già biondo. Ivi le destre
d'acuta falce armati i
segatori
mietean le spighe; e le recise manne
altre in terra cadean tra
solco e solco,
altre con vinchi le venìan stringendo
tre legator da tergo,
a cui festosi
tra le braccia recandole i fanciulli
senza posa porgean le
tronche ariste.
In mezzo a tutti colla verga in pugno
sovra un solco sedea
del campo il sire,
tacito e lieto della molta messe.
Sotto una quercia i
suoi sergenti intanto
imbandiscon la mensa, e i lombi curano
d'un immolato
bue, mentre le donne
intente a mescolar bianche farine,
van preparando ai
mietitor la cena.
Seguìa quindi un vigneto oppresso e curvo
sotto il carco
dell'uva. Il tralcio è d'oro,
nero il racemo, ed un filar
prolisso
d'argentei pali sostenea le viti.
Lo circondava una cerulea
fossa
e di stagno una siepe. Un sentier solo
al vendemmiante ne schiudea
l'ingresso.
Allegri giovinetti e verginelle
portano ne' canestri il dolce
frutto,
e fra loro un garzon tocca la cetra
soavemente. La percossa
corda
con sottil voce rispondeagli, e quelli
con tripudio di piedi
sufolando
e canticchiando ne seguìano il suono.
Di giovenche una mandra
anco vi pose
con erette cervici. Erano sculte
in oro e stagno, e dal
bovile uscièno
mugolando e correndo alla pastura
lungo le rive d'un
sonante fiume
che tra giunchi volgea l'onda veloce.
Quattro pastori, tutti
d'oro, in fila
gìan coll'armento, e li seguìan fedeli
nove bianchi
mastini. Ed ecco uscire
due tremendi lïoni, ed avventarsi
tra le prime
giovenche ad un gran tauro,
che abbrancato, ferito e strascinato
lamentosi
mandava alti muggiti.
Per rïaverlo i cani ed i pastori
pronti accorrean:
ma le superbe fiere
del tauro avendo già squarciato il fianco,
ne mettean
dentro alle bramose canne
le palpitanti viscere ed il
sangue.
Gl'inseguivano indarno i mandrïani
aizzando i mastini. Essi co'
morsi
attaccar non osando i due feroci,
latravan loro addosso, e si
schermivano.
Fecevi ancora il mastro ignipotente
in amena convalle una
pastura
tutta di greggi biancheggiante, e sparsa
di capanne, di chiusi e
pecorili.
Poi vi sculse una danza a quella eguale
che ad Arïanna dalle
belle trecce
nell'ampia Creta Dedalo compose.
V'erano garzoncelli e
verginette
di bellissimo corpo, che saltando
teneansi al carpo delle palme
avvinti.
Queste un velo sottil, quelli un farsetto
ben tessuto vestìa,
soavemente
lustro qual bacca di palladia fronda.
Portano queste al crin
belle ghirlande,
quelli aurato trafiere al fianco appeso
da cintola
d'argento. Ed or leggieri
danzano in tondo con maestri passi,
come rapida
ruota che seduto
al mobil torno il vasellier rivolve,
or si spiegano in
file. Numerosa
stava la turba a riguardar le belle
carole, e in cor godea.
Finìan la danza
tre saltator che in varii caracolli
rotavansi, intonando
una canzona.
Il gran fiume Oceàn l'orlo chiudea
dell'ammirando scudo. A
fin condotto
questo lavoro, una lorica ei fece
che della fiamma lo
splendor vincea;
poi di raro artificio un saldo e vago
elmo alle tempie
ben acconcio, e sopra
d'auro tessuta v'innestò la cresta.
Fur l'ultima
fatica i bei schinieri
di pieghevole stagno. E terminate
l'armi tutte, il
gran fabbro alto levolle,
e al piè di Teti le depose. Ed ella,
co' bei
doni del Dio, come sparviero
ratta calossi dal nevoso
Olimpo.
Libro
XIX
Uscìa
del mar l'Aurora in croceo velo,
alla terra ed al ciel nunzia di luce,
e
co' doni del Dio Teti giungea.
Singhiozzante da canto al morto amico
trovò
l'amato figlio a cui dintorno
ploravano i compagni. Apparve in
mezzo
l'augusta Diva, e strettolo per mano,
Figlio, disse, poiché piacque
agli Dei
la sua morte, lasciam, benché dolenti,
che questi qui si giaccia;
e tu le belle
armi ti prendi di Vulcan, che mai
mortal non indossò. - Così
dicendo,
le depose al suo piè. Dier quelle un suono
che terror mise ai
Mirmidóni: il guardo
non le sostenne, e si fuggîr. Ma come
le vide
Achille, maggior surse l'ira,
e sotto le palpèbre orrendamente
gli occhi
qual fiamma balenâr. Godea
trattarle, vagheggiarle; e dilettato
del
mirando lavor, si volse, e disse:
Madre, son degne del divino
fabbro
quest'armi, né può tanto arte terrena.
Or le mi vesto; ma timor mi
grava
che nelle piaghe di Patròclo intanto
vile insetto non entri, che di
vermi
generator la salma (ahi! senza vita!)
ne guasti sì che tutta
imputridisca.
Pensier di questo non ti prenda, o figlio,
gli rispose la
Dea: l'infesto sciame
divoratore de' guerrieri uccisi
io ne terrò lontano.
Ov'anco ei giaccia
intero un anno, farò sì che il corpo
incorrotto ne
resti, e ancor più bello.
Or tu raccogli in assemblea gli Achivi,
e,
placato all'Atride, àrmati ratto
per la battaglia, e di valor ti
cingi.
Disse, e spirto audacissimo gl'infuse.
Indi ambrosia all'estinto, e
rubicondo
nèttare, a farlo d'ogni tabe illeso,
nelle nari stillò.
Lunghesso il lido
l'orrenda voce intanto alza il Pelìde;
né soli i prenci
achei, ma tutte accorrono
le sparse schiere per le navi, e quanti
di navi
han cura, remator, piloti
e vivandieri e dispensier, van tutti
a
parlamento, di veder bramosi
dopo un lungo cessar l'apparso
Achille.
Barcollanti v'andaro anche i due prodi
Dïomede ed Ulisse, per le
gravi
piaghe all'asta appoggiati, e ne' primieri
seggi adagiârsi. Ultimo
giunse il sommo
Atride, in forte mischia ei pur dal telo
di Coon
Antenòride ferito.
Tutti adunati, Achille surse e disse:
Atride, a te del
par che a me sarìa
meglio tornato che tra noi non fusse
mai surta la fatal
lite che il core
sì ne róse a cagion d'una fanciulla.
Dovea Dïana
saettarla il giorno
ch'io saccheggiai Lirnesso, e mia la feci,
ché tanti
non avrìan trafitti Achivi,
mentre l'ira io covai, morso il
terreno.
Ettore e i Teucri ne gioîr, ma lunga
rimarrà tra gli Achei,
credo, ed amara
de' nostri piati la memoria. Or copra
obblìo le andate
cose, e il cor nel petto
necessità ne domi. Io qui depongo
l'ira, né
giusto è ch'io la serbi eterna.
Tu ridesta le schiere alla
battaglia.
Vedrò se i Teucri al mio venir vorranno
presso le navi
pernottar. Di gambe,
spero, fia lesto volentier chïunque
potrà sottrarsi
in campo alla mia lancia.
Disse: e gli Achivi giubilâr vedendo
alfin
placato il generoso Achille.
Surse allora l'Atride, e dal suo
seggio,
senza avanzarsi, favellò: M'udite,
eroi di Grecia, bellicosi
amici,
né turbate il mio dir, ché lo frastuono
anche il più sperto dicitor
confonde.
E chi far mente, chi parlar potrebbe
in cotanto tumulto, ove la
voce
la più sonora verrìa meno? Io volgo
le parole ad Achille, e voi
porgete
attento orecchio. Con rimprocci ed onte
spesso gli Achivi
m'accusâr d'un fallo
cui Giove e il Fato e la notturna Erinni
commisero,
non io. Essi in consiglio
quel dì la mente m'offuscâr, che il premio
ad
Achille rapii. Che farmi? Un Dio
così dispose, la funesta a tutti
Ate,
tremenda del Saturnio figlia.
Lieve ed alta dal suolo ella sul capo
de'
mortali cammina, e lo perturba,
e a ben altri pur nocque. Anche allo
stesso
degli uomini e de' numi arbitro Giove
fu nocente costei quando
ingannollo
l'augusta Giuno il dì che in Tebe Alcmena
l'erculea forza
partorir dovea.
Detto ai Celesti avea Giove per vanto:
Divi e Dive,
ascoltate; io vo' del petto
rivelarvi un segreto: oggi Ilitìa
curatrice
de' parti in luce un uomo
del mio sangue trarrà, che su le tutte
vicine
genti stenderà lo scettro.
Mentirai, né atterrai la tua parola,
Giuno
riprese meditando un frodo.
Giura, o Giove, il gran giuro, che nel
vero
fia de' vicini regnator l'uom ch'oggi
di tua stirpe cadrà fra le
ginocchia
d'una madre mortal. Giurollo il nume
senza sospetto, e ne fu poi
pentito.
Ché Giuno dal ciel ratta in Argo scesa
del Perseìde Stènelo
all'illustre
moglie sen venne. Avea grav'ella il seno
d'un caro figlio
settimestre. A questo,
benché immaturo, accelerò la luce
Giuno, e
d'Alcmena prolungando il parto,
ne represse le doglie. Indi a
narrarne
corse al Saturnio la novella, e disse:
Giove, t'annunzio che mo'
nacque un prode
che in Argo impererà, lo Stenelìde,
tua progenie, Euristèo
d'Argo re degno.
D'alto dolor ferito infurïossi
Giove, e tosto ai capelli
Ate afferrando
per lo Stige giurò che questa a tutti
furia dannosa non
avrìa più mai
riveduto l'Olimpo. E sì dicendo,
la rotò colla destra, e
fra' mortali
dagli astri la scagliò. Per la costei
colpa veggendo di
travagli oppresso
il diletto figliuol sotto Euristèo
adiravasi Giove. E a
me pur anco,
quando alle navi Ettòr struggea gli Achivi,
lacerava il
pensier la rimembranza
di questa Diva che mi tolse il senno.
Ma poiché
Giove il volle, io vo' del pari
farne l'emenda con immensi doni.
Sorgi
Achille alla pugna, e gli altri accendi.
Tutto, che ieri nella tenda
Ulisse
ti promise, io darotti: e se t'aggrada,
l'ardor sospendi che a
pugnar ti sprona,
e dal mio legno farò tosto i doni
recar, che visti
placheranti il core.
Duce de' prodi glorïoso Atride,
rispose Achille, il
dar que' doni a norma
di tua giustizia o ritenerli, è tutto
nel tuo poter.
Ma tempo non è questo
da parole: sia d'armi ogni pensiero,
né più
s'indugi, ché il da farsi è assai.
Uop'è che Achille in campo rieda e
sperda
le troiane falangi, e ch'altri il vegga,
e l'esempio n'imiti. -
Illustre Achille,
soggiunse allor l'accorto Ulisse, è grande
il tuo valor;
ma non menar digiuni
contro i Teucri gli Achei. Venuti al cozzo
una volta
gli eserciti, e infiammati
quinci e quindi da un Dio, non fia sì
breve
l'aspro certame. Nelle navi adunque
comanda che di cibo e di
bevanda,
fonte di forza, si ristaurin tutti,
ché digiuno soldato un giorno
intero
fino al tramonto non sostiene la pugna.
Sete, fame, fatica a poco a
poco
dòman anco i più forti, e dispossato
casca il ginocchio. Ma guerrier,
cui fresche
tornò le forze il cibo, il giorno tutto
intrepido combatte, e
sua stanchezza
sol col finirsi del conflitto ei sente.
Dunque il campo
congeda, e fa che pronte
mense imbandisca. Agamennón frattanto
qua rechi i
doni, onde ogni Acheo li vegga,
e il tuo cor ne gioisca. Indi nel
mezzo
del parlamento il re si levi, e giuri
che mai non giacque colla tua
fanciulla;
e questo giuro il cor ti plachi. Ei poscia,
perché nulla si
fraudi al tuo diritto,
di lauto desco nella propria tenda
ti presenti e
t'onori. E tu più giusto
móstrati, Atride, in avvenir, ché bello
regal
atto è il placar, qual sia, l'offeso.
A questo il sire Agamennón: M'è
grato,
Ulisse, il saggio e acconciamente espresso
tuo ragionar. Io giurerò
dall'imo
cuor, né dinanzi al Dio sarò spergiuro.
Ma tempri Achille del
pugnar la foga
sino che giunga il donativo; e il sangue
della vittima
fermi il giuramento,
qui presenti voi tutti. Or tu medesmo
vanne, Ulisse,
e trascelto, io tel comando,
de' primi achivi giovinetti il fiore,
reca i
doni promessi e le donzelle;
e Taltìbio mi cerchi e m'apparecchi
un
cinghial da svenarsi a Giove e al Sole.
Inclito Atride, gli rispose
Achille,
serbar si denno queste cose al tempo
che dall'armi avrem posa, e
che non tanto
sdegno m'infiammi. Giacciono squarciati
nella polve gli eroi
che spense Ettorre
favorito da Giove, e voi ne fate
ressa di cibo? Io,
qual si trova, all'armi
senza ritardo il campo esorterei,
e vendicato
l'onor nostro, allegre
cene abbondanti appresterei la sera.
Non verrà cibo
al labbro mio né beva,
s'ulto pria non vedrò l'estinto amico.
D'acuto
acciar trafitto egli mi giace
nella tenda co' piè volti all'uscita,
e gli
fan cerchio i suoi compagni in pianto.
Non altro è dunque il mio pensier che
strage
e sangue, e il cupo di chi muor sospiro.
E Ulisse a lui: Fortissimo
Pelìde,
tu nell'asta me vinci, io te nel senno,
perché pria nacqui, e più
imparai. Fa dunque
di quetarti al mio detto. Umano core
presto si sazia di
conflitti in cui
molto miete l'acciar, poco raccoglie
il mietitor, se
Giove, arbitro sommo
di nostre guerre, le bilance inclina.
Pianger col
ventre non si dee gli estinti;
e qual respiro il pianto avrìa se mille
fa
caderne la Parca ogni momento?
Intero un sole al lagrimar si doni,
poi con
coraggio, chi morì s'intombi:
e noi che vivi della mischia
uscimmo
confortiamci di cibo, onde più fieri
d'invitto ferro ricoperti il
petto
alla pugna tornar, senza che sia
mestier novello incitamento. E
guai
a chi terrassi su le navi inerte,
mentre gli altri animosi ad acre
assalto
contra i Teucri dal vallo irromperanno!
Disse, e compagni i due
figliuoi si prese
di Nestore, e Toante e Merïone
e il Filìde Megète e
Melanippo
e Licomede di Creonte. Andaro
d'Atride al padiglion, presti il
comando
n'adempiro, e arrecâr le già promesse
cose; sette treppiè, venti
lebèti,
dodici corridori; indi prestanti
d'ingegno e di beltà sette
captive.
La figlia di Brisèo, guancia rosata,
ottava ne venìa. Li
precedea
con dieci di buon peso aurei talenti
Ulisse, e lo seguìan con gli
altri doni
gli altri giovani achei. Deposto il tutto
nell'assemblea,
levossi Agamennóne;
e Taltìbio di voce a un Dio simìle
irto cinghial gli
appresentò. Fuor trasse
il sospeso del brando alla vagina
trafier
l'Atride, e della belva i primi
peli recisi, alzò le palme, e a
Giove
pregò. Sedeansi tutti in riverente
giusto silenzio per udirlo; ed
egli
guardando al cielo e supplicando disse:
Il sommo ottimo Iddio, la
Terra, il Sole,
e l'Erinni laggiù gastigatrici
degli spergiuri, testimon
mi sieno
che per desìo lascivo unqua io non posi
sopra la figlia di Brisèo
le mani,
e che la tenni nelle tende intatta.
Mi mandino, s'io mento, ogni
castigo
serbato al falso giurator gli Dei.
Disse, e l'ostia scannò; poscia
ne' vasti
gorghi marini la scagliò l'araldo,
pasto de' pesci. Allor
rizzossi Achille
e sclamò: Giove padre, oh di che danni
tu ne gravi! Non
mai m'avrìa l'Atride
mosso all'ira, né mai per farmi oltraggio
rapita a
mio mal grado egli la schiava:
ma tu il volesti, Iddio, tu che di
tanti
Achei la morte decretavi. Or voi
itene al cibo, e all'armi indi si
voli.
Disse, e sciolto il consesso, alla sua nave
si disperse ciascun. Ma
co' presenti
i Mirmidóni s'avvïâr d'Achille
verso le tende, e li posâr,
schierando
su bei seggi le donne; e nell'armento
fur dai sergenti i
corridor sospinti.
Di beltà simigliante all'aurea Venere
come vide
Brisëide del morto
Pàtroclo le ferite, abbandonossi
sull'estinto, e
ululava e colle mani
laceravasi il petto e il delicato
collo e il bel
viso, e sì dicea plorando:
Oh mio Patròclo! oh caro e dolce amico
d'una
meschina! Io ti lasciai qui vivo
partendo; e ahi quale al mio tornar ti
trovo!
Ahi come viemmi un mal su l'altro! Vidi
l'uomo a cui diermi i
genitor, trafitto
dinanzi alla città, vidi d'acerba
morte rapiti tre
fratei diletti;
e quando Achille il mio consorte uccise
e di Minete la
città distrusse,
tu mi vietavi il piangere, e d'Achille
farmi sposa
dicevi, e a Ftia condurmi
tu stesso, e m'apprestar fra' Mirmidóni
il
nuzïal banchetto. Avrai tu dunque,
o sempre mite eroe, sempre il mio
pianto.
Così piange: piangean l'altre donzelle
Pàtroclo in vista, e il
proprio danno in core.
Stretti intanto ad Achille i senïori
lo confortano
al cibo, ed egli il niega
gemebondo: Se restami un amico
che mi
compiaccia, non m'esorti, il prego,
a toccar cibo in tanto duol: vo'
starmi
fino a sera, e potrollo, in questo stato.
Tutti, ciò detto,
accomiatò, ma seco
restâr gli Atridi e Nestore ed Ulisse
e il re cretese e
il buon Fenice, intenti
a stornarne il dolor: ma il cor sta chiuso
ad ogni
dolce finché l'apra il grido
della battaglia sanguinosa. Or tutto
col
pensier nell'amico alto sospira
e prorompe così: Caro infelice!
Tu pur ne'
giorni di feral conflitto
degli Achivi co' Troi m'apparecchiavi
con presta
cura nelle tende il cibo.
Or tu giaci, e digiuno io qui mi struggo
del
desìo di te sol; né più cordoglio
mi graverìa se morto il padre
udissi
(misero! ei forse or per me piange in Ftia,
per me fatto campione
in stranio lido
dell'abborrita Argiva), o morto il mio
di divina beltà
figlio diletto,
che a me si edùca, se pur vive, in Sciro.
Ahi! mi sperava
di morir qui solo;
sperava che tu salvo a Ftia tornando
su presta nave, un
dì da Sciro avresti
teco addutto il mio Pirro, e mostri a lui
i miei
campi, i miei servi e l'alta reggia;
perocché temo che Pelèo pur troppo
o
più non viva, o di dolor sol viva,
aspettando ogni dì veglio
cadente
l'amaro annunzio della morte mia.
Così geme: gemean gli astanti
eroi
ricordando ciascun gli abbandonati
suoi cari pegni. Di quel pianto
Giove
impietosito, a Pallade si volse
immantinente, e sì le disse: O
figlia,
perché lasci l'uom prode in abbandono?
Pensier d'Achille non hai
più? Nol vedi
là seduto alle navi e lagrimoso
pel caro amico? Andâr già
tutti al desco;
ei sol ricusa ogni ristor. Va dunque,
e dolce ambrosia e
nèttare nel petto,
onde non caggia di languor, gl'instilla.
Sprone
aggiunse quel cenno alla già pronta
Minerva che d'un salto, con la
foga
delle vaste ali di stridente nibbio,
calò dal cielo, e nèttare ed
ambrosia
stillò d'Achille in petto, onde le forze
il suo fiero digiun non
gli togliesse;
indi agli eterni del potente padre
soggiorni rivolò. Gli
Achivi intanto
tutti in procinto dalle navi a torme
versavansi nel campo;
e a quella guisa
che fioccano dal ciel, spinte dal soffio
serenatore
d'aquilon, le nevi,
così dai legni uscir densi allor vedi
i lucid'elmi, i
vasti scudi, e i forti
concavi usberghi e le frassinee lance.
Folgora ai
lampi dell'acciaro il cielo
e ne brilla il terren, che al calpestìo
delle
squadre rimbomba. In mezzo a queste
armasi Achille. Gli strideano i
denti,
gli occhi eran fiamme, di dolore e d'ira
rompeasi il petto; e tale
egli dell'armi
vulcanie si vestìa. Strinse alle gambe
i bei stinieri con
argentee fibbie,
pose al petto l'usbergo, e di lucenti
chiovi fregiato
agli omeri sospese
il forte brando; s'imbracciò lo scudo,
che immenso e
saldo di lontan splendea
come luna, o qual foco ai naviganti
sovr'alta
apparso solitaria cima,
quando lontani da' lor cari il vento
li travaglia
nel mar: tale dal bello
e vario scudo dell'eroe saliva
all'etra lo
splendor. Stella parea
su la fronte il grand'elmo irto d'equine
chiome, e
fusa sul cono tremolava
l'aurea cresta. In quest'armi il divo
Achille
tenta se stesso, e vi si vibra, e prova
se gli son atte; e gli
erano qual piuma
ch'alto il solleva. Alfin dal suo riservo
cavò l'immensa
e salda asta paterna,
cui nullo Achivo palleggiar potea
tranne il Pelìde,
frassino d'eroi
sterminatore, da Chiron reciso
su le pelìache vette, e
dato al padre.
Alcìmo intanto e Automedonte aggiogano
di belle barde
adorni e di bei freni
i cavalli: e allungate ai saldi anelli
le guide, e
tolta nella man la sferza,
salta sul cocchio Automedón. Vi monta
dopo,
raggiante come Sole, Achille
tutto presto alla pugna, e con tremenda
voce
ai paterni corridor sì grida:
Xanto e Bàlio a Podarge incliti figli,
sia
vostra cura in salvo ricondurre
sazio di stragi il signor vostro; e
morto
nol lasciate colà come Patròclo.
Chinò la testa l'immortal
corsiero
Xanto: diffusa per lo giogo andava
fino a terra la chioma, ed ei
da Giuno
fatto parlante udir fe' questi accenti:
Achille, in salvo questa
volta ancora
ti trarremo noi, sì; ma ti sovrasta
l'ultim'ora, né fia
nostra la colpa,
ma di Giove e del Fato. Se dell'armi
spogliâr Patroclo i
Troi, non accusarne
nostra pigrizia e tardità, ma il forte
di Latona
figliuolo. Ei nella prima
fronte l'uccise, e dienne a Ettòr la palma.
Noi
Zefiro sfidiamo, il più veloce
de' venti, al corso; ma nel Fato è
scritto
che un Dio te domi ed un mortal... Troncaro
l'Erinni i detti. E a
lui l'irato Achille:
Xanto, a che morte mi predir? Non tocca
questo a te.
Qui cader deggio lontano,
lo so, dai cari genitor; ma pria
trarrò tutta di
guerre a' Troi la voglia.
Disse, e gridando i corridor
sospinse.
Libro
XX
Così
dintorno a te, marzio Pelìde,
gli Achei metteansi in punto appo le navi,
e
i Troi del campo sul rïalto. A Temi
Giove allor comandò che dalle
molte
eminenze d'Olimpo a parlamento
convocasse gli Dei. Volò la
Diva
d'ogni parte, e chiamolli alla stellata
magion di Giove. Accorser
tutti, e, tranne
il canuto Oceàn, nullo de' Fiumi
né delle Ninfe vi mancò,
de' boschi
e de' prati e de' fonti abitatrici.
Giunti del grande adunator
de' nembi
alle stanze, si assisero su tersi
troni che a Giove con solerte
cura
Vulcano fabbricò. Prese ciascuno
cheto il suo posto; ma dal mar
venuto
obbedïente ei pure il re Nettunno,
tra i maggiori sedendosi, la
mente
di Giove interrogò con questi accenti:
Perché di nuovo, fulminante
Iddio,
chiami i numi a consiglio? Alfin decisa
de' Troiani vuoi forse e
degli Achei
pronti a zuffa mortal l'ultima sorte?
Ben vedesti, o Nettunno,
il mio pensiero,
Giove rispose; del chiamarvi è questa
la cagion: benché
presso al fato estremo
e gli uni e gli altri in cor mi stanno. Assiso
su
le cime d'Olimpo io qui mi resto
l'ire mortali a contemplar
tranquillo.
Voi sul campo scendete, e a cui v'aggrada
de' Teucri e degli
Achei recate aita.
Se pugna Achille ei sol, nol sosterranno
nè pur tampoco
i Teucri, essi che ieri
solo al vederlo ne tremaro. Ed oggi,
che d'ira
egli arde per l'amico, io temo
non anzi il dì fatal Troia rovini.
Disse, e
di guerra un fier desire accese
de' Celesti nel cor, che in due divisi
nel
campo si calâr: verso le navi
Giuno e Palla Minerva e coll'accorto
util
Mercurio s'avvïò Nettunno.
Li seguìa zoppicando, e truci intorno
gli occhi
volgendo di sua forza altero
Vulcano, ed il sottil stinco di sotto
gli
barcollava. Alla troiana parte
n'andâr dell'elmo il crollator
Gradivo,
l'intonso Febo colla madre e l'alma
cacciatrice sorella e Xanto e
Venere
Dea del riso. Finché dalle mortali
turbe i numi fur lungi, orgoglio
e festa
menavano gli Achei, perché comparso
dopo lungo riposo era il
Pelìde,
e corse ai Teucri un freddo orror per l'ossa
visto nell'armi
lampeggiar, sembiante
al Dio tremendo delle stragi, Achille.
Ma quando le
celesti alle terrene
armi fur miste, una ineffabil surse
di genti
agitatrici aspra contesa.
Terribile Minerva, or sull'estremo
fosso volando
ed or sul rauco lido,
da questa parte orribilmente grida:
grida Marte
dall'altra a tenebroso
turbin simìle, ed or dall'ardue cime
delle dardanie
torri, ed or sul poggio
di Colone lunghesso il Simoenta
correndo, infiamma
a tutta voce i Teucri.
Così l'un campo e l'altro inanimando
gli Dei beati
gli azzuffâr, commisti
in conflitto crudel. Dall'alto allora
de' mortali e
de' numi orrendamente
il gran padre tuonò: scosse di sotto
l'ampia terra e
de' monti le superbe
cime Nettunno. Traballâr dell'Ida
le falde tutte e i
gioghi e le troiane
rocche, e le navi degli Achei. Tremonne
Pluto il re
de' sepolti e spaventato
diè un alto grido e si gittò dal trono,
temendo
non gli squarci la terrena
volta sul capo il crollator Nettunno,
ed
intromessa colaggiù la luce
agli Dei non discopra ed ai mortali
le sue
squallide bolge, al guardo orrende
anco del ciel; cotanto era il
fragore
che dal conflitto de' Celesti uscìa.
Contra Nettunno il re
dell'arco Apollo,
contra Marte Minerva, e contra Giuno
sta delle cacce e
degli strali amante
la sorella di Febo alma Dïana:
contra il dator de'
lucri e servatore
di ricchezze Mercurio era Latona,
contra Vulcano il
vorticoso fiume
dai mortali Scamandro e dagli Dei
Xanto nomato. E questo
era di numi
contro numi il certame e l'ordinanza.
Ma di scagliarsi fra le
turbe in cerca
del Priàmide Ettorre arde il Pelìde,
ché innanzi a tutto
gli comanda il core
di far la rabbia marzïal satolla
di quel sangue
abborrito. Allor destando
le guerriere faville Apollo spinse
contro il
tessalo eroe d'Anchise il figlio,
e presa la favella e la sembianza
del
Prïameio Licaon gl'infuse
ardimento e valor con questi accenti:
Illustre
duce Enea dove n'andaro
le fatte tra le tazze alte promesse
al re de'
Teucri, che pur solo avresti
contro il Pelìde Achille
combattuto?
Prïamìde, e perché, contro mia voglia,
Enea rispose, ad
affrontar mi sproni
quell'invitto guerrier? Gli stetti a fronte
pur altra
volta, ed altra volta in fuga
la sua lancia dall'Ida mi sospinse,
quando,
assaliti i nostri armenti, ei Pèdaso
e Lirnesso atterrò. Giove protesse
il
mio ratto fuggir: senza il suo nume
m'avrìa domo il Pelìde, esso e
Minerva
che il precorrendo lo spargea di luce,
e de' Teucri e de' Lèlegi
alla strage
la sua lancia animava. Alcun non sia
dunque che pugni col
Pelìde. Un Dio
sempre va seco che il difende, e dritto
vola sempre il suo
telo, e non s'arresta
finché non passi del nemico il petto.
Se della
guerra si librasse eguale
dai Sampiterni la bilancia, ei certo,
fosse
tutto qual vantasi di ferro,
non avrìa meco agevolmente il meglio.
E tu
pur prega i numi, o valoroso,
rispose Apollo, ché tu pure, è fama,
di
Venere nascesti, ed ei di Diva
inferïor, ché quella a Giove, e questa
al
marin vecchio è figlia. Orsù dirizza
in lui l'invitto acciaro, e non
lasciarti
per minacce fugar dure e superbe.
Fatto animoso a questi detti
il duce,
processe di lucenti armi vestito
tra i guerrieri di fronte. E lui
veduto
per le file avanzarsi arditamente
contro il Pelìde, ai collegati
numi
si volse Giuno e disse: Il cor volgete,
tu Nettunno e tu Pallade, al
periglio
che ne sovrasta. Enea tutto nell'armi
folgorante s'avvìa contro
il Pelìde,
e Febo Apollo ve lo spinge. Or noi
o forziamlo a dar volta, o
pur d'Achille
vada in aiuto alcun di noi, che forza
all'uopo gli ministri,
onde s'avvegga
ch'egli ai Celesti più possenti è caro,
e che di Troia i
difensor fann'opra
infruttuosa. Vi rammenti, o numi,
che noi tutti
scendemmo a questa pugna
perché nullo da' Teucri egli riceva
questo dì
nocumento. Abbiasi dopo
quella sorte che a lui filò la Parca
quando la
madre il partorìo. Se istrutto
di ciò nol renda degli Dei la voce,
temerà
nel veder venirsi incontro
fra l'armi un nume: perocché tremendi
son gli
Eterni veduti alla scoperta.
Fuor di ragione non irarti, o Giuno,
ché ciò
sconvienti, rispondea Nettunno.
Non sia che primi commettiam la pugna
noi
che siamo i più forti. Alla vedetta
di qualche poggio dalla via
remoto
assidiamci piuttosto, ed ai mortali
resti la cura del pugnar. Se
poscia
cominceran la zuffa o Marte o Febo,
e rattenendo Achille
impediranno
ch'egli entri nella mischia, e noi pur tosto
susciteremo allor
l'aspro conflitto,
e presto, io spero, dal valor del nostro
braccio
domati, per le vie d'Olimpo
ritorneranno all'immortal consesso.
Li
precorse, ciò detto, il nume azzurro
verso l'alta bastìa che pel
divino
Ercole un giorno con Minerva i Teucri
innalzâr, perché a quella
egli potesse
riparato schivar della vorace
orca l'assalto allor che
furibonda
l'inseguisse dal lido alla pianura.
Qui co' numi alleati il Dio
s'assise
d'impenetrabil nube circonfuso.
Sul ciglio anch'essi s'adagiâr
dell'erto
Callicolon gli opposti numi intorno
a te, divino saettante
Apollo,
e a Marte di cittadi atterratore.
Così di qua, di là
deliberando
siedono i Divi, e niuna parte ardisce,
benché Giove gli
sproni, aprir la pugna.
E già tutto d'armati il campo è pieno,
e di lampi
che manda il riforbito
bronzo de' cocchi e de' guerrieri, e suona
sotto il
fervido piè de' concorrenti
eserciti la terra. Ed ecco in
mezzo
affrontarsi di pugna desïosi
due fortissimi eroi, d'Anchise il
figlio
ed Achille. Avanzossi Enea primiero
minacciando e crollando il
poderoso
elmo, e proteso il forte scudo al petto,
la grand'asta vibrava.
Ad incontrarlo
mosse il Pelìde impetuoso, e parve
truculento lïone alla
cui vita
denso stuol di garzoni, anzi l'intero
borgo si scaglia: incede
egli da prima
sprezzatamente; ma se alcun de' forti
assalitor coll'asta il
tocca, ei fiero
spalancando le fauci si rivolve
colla schiuma alle sanne;
la gagliarda
alma in cor gli sospira, i fianchi e i lombi
flagella colla
coda, e se medesmo
alla battaglia irrita: indi repente
con torvi sguardi
avventasi ruggendo,
di dar morte già fermo o di morire:
tal la forza e il
coraggio incontro al franco
Enea sospinser l'orgoglioso Achille,
e giunti
a fronte, favellò primiero
il gran Pelìde: Enea, perché tant'oltre
fuor
della turba ti spingesti? Forse
meco agogni pugnar perché su i Teucri
di
Prìamo speri un dì stender lo scettro?
Ma s'egli avvegna ancor che tu
m'uccida,
ei non porrallo alle tue mani, ei padre
di più figli, e d'età
sano e di mente:
o forse i Teucri, se mi metti a morte,
un eletto poder
bello di viti
ti statuiro e di fecondi solchi?
Ma dura impresa
t'assumesti, io spero;
ch'altra volta, mi par, ti pose in fuga
questa mia
lancia. Non rammenti il giorno
che soletto ti colsi, e con veloce
corso
dall'Ida ti cacciai lontano
dalle tue mandre? Tu volavi, e, mai
non
volgendo la fronte, entro Lirnesso
ti riparasti. Col favore io poi
di
Giove e Palla la città distrussi,
e ne predai le donne, e tolta loro
la
cara libertà, meco le trassi.
Gli Dei quel giorno ti scampâr; non oggi
lo
faranno, cred'io, come t'avvisi.
Va, ritìrati adunque, io te
n'assenno,
rientra in turba, né mi star di fronte,
se il tuo peggio non
vuoi, ché dopo il fatto
anche lo stolto dell'error si pente.
Me co' detti
atterrir come fanciullo
indarno tenti, Enea rispose; anch'io
so dir
minacce ed onte, e l'un dell'altro
i natali sappiamo, e per udita
i
genitori; ché né tu conosci
per vista i miei, ned io li tuoi. Te
prole
dell'egregio Pelèo dice la fama,
e della bella equòrea Teti. Io
nato
di Venere mi vanto, e generommi
il magnanimo Anchise. Oggi per
certo
o gli uni o gli altri piangeranno il figlio.
Ché veruno di noi di
puerili
ciance contento non vorrà, cred'io,
separarsi ed uscir di questo
arringo.
Ma se più brami di mia stirpe udire
al mondo chiara, primamente
Giove
Dàrdano generò, che fondamento
pose qui poscia alle dardanie
mura.
Perocché non ancora allor nel piano
sorgean le sacre ilìache torri,
e il molto
suo popolo le idèe falde copriva.
Di Dàrdano fu nato il re
d'ogni altro
più opulente Erittònio. A lui tre mila
di teneri puledri
allegre madri
le convalli pascean. Innamorossi
Borea di loro, e di
destrier morello
presa la forma alquante ne compresse,
che sei puledre e
sei gli partoriro.
Queste talor ruzzando alla campagna
correan sul capo
delle bionde ariste
senza pur sgretolarle; e se co' salti
prendean sul
dorso a lascivir del mare,
su le spume volavano de' flutti
senza toccarli.
D'Erittònio nacque
Tröe re de' Troiani, e poi di Troe
generosi tre figli
Ilo ed Assàraco,
e il deïforme Ganimede, al tutto
de' mortali il più
bello, e dagli Dei
rapito in cielo, perché fosse a Giove
di coppa mescitor
per sua beltade,
ed abitasse con gli Eterni. Ad Ilo
nacque l'alto figliuol
Laomedonte;
Titone a questo e Prìamo e Lampo e Clìzio
e l'alunno di Marte
Icetaone:
Assàraco ebbe Capi, e Capi Anchise,
mio venitore, e Prìamo il
divo Ettorre.
Ecco il sangue ch'io vanto. Il resto scende
tutto da Giove
che ne' petti umani
il valor cresce o scema a suo talento,
potentissimo
iddio. Ma tregua omai
fra l'armi a borie fanciullesche. Entrambi
possiam
d'ingiurie aver dovizia e tanta
che nave non potrìa di cento remi
levarne
il pondo. De' mortai volubile
e la lingua, e ne piovono parole
d'ogni
maniera in largo campo, e quale
dirai motto, cotal ti fia rimesso.
Ma
perché d'onte tenzonar siccome
stizzose femminette che nel mezzo
della via
si rabbuffano, col vero,
spinte dall'ira, affastellando il falso?
Me qui
pronto a pugnar non distorrai
colle minacce dal cimento. Or via
alle prove
dell'asta. - E così detto,
la ferrea lancia fulminò nel vasto
terribile
brocchier che dell'acuta
cuspide al picchio rimugghiò. Turbossi
il Pelìde,
e dal petto colla forte
mano lo scudo allontanò, temendo
nol trafori la
lunga ombrosa lancia
del magnanimo Enea. Di mente uscito
eragli, stolto!
che mortal possanza
difficilmente doma armi divine.
Non ruppe la gagliarda
asta troiana
il pavese achillèo, ché la rattenne
dell'aurea piastra
l'immortal fattura,
e sol due falde ne forò di cinque
che Vulcano v'avea
l'una sull'altra
ribattute; di bronzo le due prime,
le due dentro di
stagno, e tutta d'oro
la media che il crudel tronco represse.
Vibrò
secondo la sua lunga trave
il Pelìde, e colpì dell'inimico
l'orbicolar
rotella all'orlo estremo,
ove sottil di rame era condotta
una falda, e
sottile il sovrapposto
cuoio taurino. La pelìaca antenna
da parte a parte
lo passò. La targa
rimbombò sotto il colpo: esterrefatto
rannicchiossi e
scostò dalla persona
Enea lo scudo sollevato; e l'asta,
rotti i due cerchi
che il cingean, sul dorso
trasvolò furïosa, e al suol si fisse.
Scansato
il colpo, si ristette, e immenso
duol di paura gli abbuiò le luci,
sentita
la vicina asta confitta.
Pronto il Pelìde allor tratta la spada,
con
terribile grido si disserra
contro il nemico. Era nel campo un
sasso
d'enorme pondo che soverchio fôra
alle forze di due quai la
presente
età produce. Diè di piglio Enea
a questo sasso, e agevolmente
solo
l'agitando, si volse all'aggressore.
E nel vulcanio scudo o
nell'elmetto
avventato l'avrìa, ma senza offesa,
e a lui per certo del
Pelìde il brando
togliea la vita, se di ciò per tempo
avvistosi Nettunno,
ai circostanti
celesti non facea queste parole:
Duolmi, o numi, d'assai
del generoso
Enea che domo dal Pelìde all'Orco
irne tosto dovrà, dalle
lusinghe
mal consigliato dell'arciero Apollo.
Insensato! ché nulla
incontro a morte
gli varrà questo Dio. Ma della colpa
altrui la pena
perché dee patirla
quest'innocente, liberal di grati
doni mai sempre
agl'Immortali? Or via
moviamo in suo soccorso, e s'impedisca
che il Pelìde
l'uccida, e che di Giove
l'ire risvegli la sua morte. I fati
decretâr
ch'egli viva, onde la stirpe
di Dardano non pera interamente,
di lui che
Giove innanzi a quanti figli
alvo mortal gli partorìo, dilesse:
perocché
da gran tempo egli la gente
di Prìamo abborre, e su i Troiani omai
d'Enea
la forza regnerà con tutti
de' figli i figli e chi verrà da quelli.
Pensa
tu teco stesso, o re Nettunno,
Giuno rispose, se sottrarre a morte
Enea si
debba, o consentir, malgrado
la sua virtude, che lo domi Achille.
Quanto a
Pallade e a me, presenti i numi,
noi giurammo solenne giuramento
di non
mai da' Troiani la ruina
allontanar, no, s'anco tutta in cenere
Troia
cadesse tra le fiamme achee.
Udito quel parlar, corse per mezzo
alla
mischia e al fragor delle volanti
aste Nettunno, e giunto ove d'Enea
e
dell'inclito Achille era la pugna,
una sùbita nube intorno agli occhi
del
Pelìde diffuse, e dallo scudo
del magnanimo Enea svelto il
ferrato
frassino, al piede del rival lo pose.
Indi spinse di forza, e
dalla terra
levò sublime Enea, che preso il volo
dalla mano del Dio, varcò
d'un salto
molte file d'eroi, molte di cocchi,
e all'estremo arrivò del
rio conflitto,
ove in procinto si mettean di pugna
de' Càuconi le schiere.
Ivi davanti
gli si fece Nettunno, e così disse:
Sconsigliato! qual Dio
contra il Pelìde
ti sedusse a pugnar, contra un guerriero
di te più caro
ai numi e più gagliardo?
S'altra volta lo scontri, ti ritira,
onde anzi
tempo non andar sotterra.
Morto Achille, combatti audacemente,
ché nullo
Acheo t'ucciderà. - Disparve
dopo questo precetto, e alle pupille
del
Pelìde sgombrò la portentosa
caligine: tornâr tutto ad un tempo
chiari al
guardo gli obbietti, onde fremendo
nel magnanimo cor: Numi,
diss'egli,
quale strano prodigio? Al suol giacente
veggo il mio telo, ma
il guerrier non veggo
in cui bramoso di ferir lo spinsi.
Dunque è caro a'
Celesti ei pur davvero
questo figlio d'Anchise! ed io stimava
falso il suo
vanto. E ben si salvi. Andata
gli sarà, spero, di provarsi meco
in avvenir
la voglia, assai felice
d'aver posta in sicuro oggi la vita.
Orsù, l'acheo
valor riconfortato,
facciam degli altri Teucri esperimento.
Sì dicendo,
saltò dentro alle file
e tutti rincuorò: Prestanti Achei,
non vogliate
discosto or più tenervi
da' nemici: guerrier contra guerriero
scagliatevi,
e pugnate ardimentosi.
Per forte ch'io mi sia, m'è dura impresa
sol con
tutti azzuffarmi ed inseguirli.
Né Marte pure immortal Dio né Palla
a
tanti armati reggerìan. Ma quanto
queste man, questi piedi e questo
petto
potranno, io tutto vel consacro, e giuro
di non posarmi un sol
momento. Io vado
a sfondar quelle file, e non fia lieto
chi la mia lancia
scontrerà, mi penso.
Così gli sprona; e minaccioso anch'esso
Ettore i suoi
conforta, e contro Achille
ir si promette: Del Pelìde, o prodi,
non temete
le borie: anch'io saprei
pur co' numi combattere a parole,
coll'asta, no,
ch'ei son più forti assai.
Né tutti avran d'Achille i vanti effetto:
se
l'un pieno gli andrà, l'altro gli fia
tronco nel mezzo. Ad incontrarlo io
vado
s'anco la man di fuoco egli s'avesse,
sì, di fuoco la man, di ferro
il polso.
Da questo dire accesi, alto levaro
l'aste avverse i Troiani, e
con immenso
romor le forze s'accozzâr. Si strinse
allora Apollo al teucro
duce, e disse:
Ettore, non andar contro il Pelìde
fuor di fila: ma tienti
entro la schiera,
e dalla turba lo ricevi, e bada
che di brando o di stral
non ti raggiunga.
Udì del Dio la voce, e sbigottito
nella turba de' suoi
l'eroe s'immerse.
Ma di gran forza il cor vestito Achille
con gridi
orrendi si balzò nel mezzo
de' Troiani, e prostese a prima giunta
di
numerose genti un condottiero,
il prode Ifizïon che ad Otrintèo
guastator
di città nell'opulento
popolo d'Ide sul nevoso Tmolo
Näide Ninfa partorì.
Venìa
costui di punta a furia. Il divo Achille
coll'asta a mezzo capo lo
percosse,
e in due lo fésse. Rimbombando ei cadde,
ed orgoglioso il
vincitor sovr'esso
esclamò: Tremendissimo Otrintìde,
eccoti a terra: e tu
sepolcro umìle
in questa sabbia avrai, tu che superba
cuna sortisti alla
gigèa palude
ne' paterni poderi appo il pescoso
Illo e dell'Ermo il
vorticoso flutto.
Così l'oltraggia; della morte il buio
coprì gli occhi al
meschino, e de' cavalli
l'ugna e li chiovi delle rote achee
il lasciâr
nella calca infranto e pesto.
Ferì dopo costui Demoleonte,
d'Antènore
figliuolo e valoroso
combattitore; lo ferì sul polso
della tempia, né
valse alla difesa
la ferrea guancia del polito elmetto.
L'impetuosa punta
spezzò l'osso,
sgominò le cervella, che di sangue
tutte insozzârsi, e così
giacque il fiero.
Gittatosi dal carro, Ippodamante
dinanzi gli fuggìa.
L'asta d'Achille
lo raggiunse nel tergo. L'infelice
esalava lo spirto, e
mugolava
come tauro che a forza innanzi all'are
d'Elice è tratto da garzon
robusti,
e ne gode Nettunno: a questa guisa
muggìa quell'alma feroce, e
spirava.
S'avventò dopo questi a Polidoro.
Era costui di Prìamo un figlio:
il padre
gli avea difeso di pugnar, siccome
il minor de' suoi nati e il
più diletto,
che tutti al corso li vincea. Di questa
sua virtute di piè
con fanciullesca
demenza vanitoso egli tra' primi
combattenti correa senza
consiglio,
finché morto vi cadde. Il colse a tergo
in quei trascorsi
Achille ove la cinta
dall'auree fibbie s'annodava, e doppio
scontravasi
l'usbergo. Il telo acuto
rïuscì di rimpetto all'ombilico:
ululò quel
trafitto, e su i ginocchi
cascò: curvato colla man compresse
le intestina,
e mortal nube lo cinse.
Come in quell'atto miserando il vide
il suo
germano Ettorre, una profonda
nube di duolo gl'ingombrò le luci,
né gli
sofferse il cor di più ristarsi
dentro la turba; ma crollando immensa
una
lancia, volò contro il Pelìde
come fiamma ondeggiante. A quella
vista
saltò di gioia Achille, e baldanzoso,
Ecco l'uom, disse, che nel cor
m'aperse
sì gran piaga, colui che il mio m'uccise
caro compagno: or più
non fuggiremo
l'un l'altro a lungo pei sentier di guerra.
Disse, e al
divino Ettòr bieco guatando,
gridò: T'accosta, ché al tuo fin se'
giunto.
Non pensar, gli rispose imperturbato
l'eroe troiano, non pensar di
darmi
per minacce terror come a fanciullo,
ché oprar so l'armi della
lingua io pure,
e conosco tue forze, e mi confesso
men valente di te: ma
in grembo ai numi
sta la vittoria, ed avvenir può forse
ch'io men prode
dal sen l'alma ti svelga.
Affilata ha la punta anche il mio telo.
Disse, e
l'asta scagliò: ma dal divino
petto d'Achille la svïò Minerva
con
levissimo soffio. Risospinta
dall'alito immortal, l'asta ritorno
fece ad
Ettorre, e al piè gli cadde. Allora
con orribile grido
disserrossi
furibondo il Pelìde, impazïente
di trucidarlo. Ma gliel tolse
Apollo,
lieve impresa ad un Dio, tutto coprendo
di folta nebbia Ettòr. Tre
volte Achille
coll'asta l'assalì, tre volte un vano
fumo trafisse, e con
furor venendo
il divino guerriero al quarto assalto,
minaccioso tuonò
queste parole:
Cane troian, di nuovo ecco fuggisti
l'estremo fato che
t'avea raggiunto,
e Febo ti scampò, quel Febo a cui
tra il sibilo dei
dardi alzi le preci.
Ma s'altra volta mi darai nell'ugna,
e se a me pure
assiste un qualche iddio,
ti finirò. Di quanti in man frattanto
mi
verranno de' tuoi farò macello.
Così dicendo, a Drïope sospinse
sotto il
mento la picca, e questi al piede
gli traboccò. Così lasciollo, e
ratto
scagliandosi a Demùco, un grande e prode
di Filètore figlio, alle
ginocchia
lo ferì, l'arrestò, poscia col brando
l'alma gli tolse. Dopo
questi Dardano
e Laògono assalse, illustri figli
di Bïante, e travolti
ambo dal cocchio
l'un di lancia atterrò, l'altro di spada.
Poi distese il
troiano Alastorìde
che a' suoi ginocchi supplice cadendo
chiedea la vita
in dono, ed ai conformi
suoi verd'anni pietà. Stolto! ché vano
il pregar
non sapea, né quanto egli era
mite no, ma feroce. In umil atto
gli
abbracciava i ginocchi, ed altro dire
volea pure il meschin; ma quegli il
ferro
nell'èpate gl'immerse, che di fuori
riversossi, e di sangue un nero
fiume
gli fe' lago nel seno. Venne manco
l'alma, e gli occhi coprì di
morte il velo.
Indi Mulio investendo, entro un'orecchia
gli fisse il telo,
e uscir per l'altra il fece.
Ad Echeclo d'Agènore un fendente
calò di
spada al mezzo della testa,
e la spaccò; si tepefece il grande
acciar nel
sangue, e la purpurea morte
e la Parca possente i rai gli chiuse.
Colse
dopo di punta nella destra
Deucalïon là dove i nervi vanno
del cubito ad
unirsi. Intormentito
nella mano il guerrier vedeasi innanzi
la morte, e
passo non movea. Gli mena
un mandritto il Pelìde alla cervice,
netto il
capo gli mozza, e via coll'elmo
lungi il butta. Schizzâr dalle vertèbre
le
midolle, e disteso il tronco giacque.
Rigmo poscia aggredì, Rigmo dai
pingui
tracii campi venuto, e di Pirèo
generoso figliuol. Lo colse al
ventre
il tessalico telo, e giù dal cocchio
lo scosse. Allor diè volta ai
corridori
l'auriga Arëitòo; ma del Pelìde
l'asta il giunge alle spalle, e
capovolto
tra i turbati cavalli lo precipita.
Quale infuria talor per le
profonde
valli d'arido monte un vasto fuoco
che divora le selve, e in ogni
lato
l'agita e spande di Garbino il soffio;
tale in sembianza d'un irato
iddio
d'ogni parte si volve furibondo
il Pelìde, ed insegue e uccide e
rossa
fa di sangue la terra. E come quando
nella tonda e polita aia il
villano
due tauri accoppia di ben larga fronte
di Cerere a trebbiar le
bionde ariste,
fuor del guscio in un subito saltella
di sotto al piede de'
mugghianti il grano:
del magnanimo Achille in questa forma
gl'immortali
cornipedi sospinti
i cadaveri calcano e gli scudi.
L'orbe tutto del
cocchio e tutto l'asse
gronda di sangue dalle zampe sparso
de' cavalli a
gran sprazzi e dalle rote.
Desìo di gloria il cuor d'Achille infiamma,
e
l'invitte sue mani tutte sozze
son di polve, di tabe e di
sudore.
Libro
XXI
Ma
divenuti i Teucri alle bell'onde
del vorticoso Xanto, ameno fiume
generato
da Giove, ivi il Pelìde
intercise i fuggenti; e parte al muro
per lo piano
ne incalza ove testeso
davan le spalle al furibondo Ettorre
scompigliati
gli Achei (per l'orme istesse
or dispersi si versano i Troiani,
e a
tardarne il fuggir densa una nebbia
Giuno intorno spandea), parte negli
alti
gorghi si getta dell'argenteo fiume
con tumulto. La rotta onda
rimbomba,
ne gemono le ripe, e quei mettendo
cupi ululati, nuotano
dispersi
come il rapido vortice li gira.
Qual cacciate dall'impeto del
fuoco
alzan repente le locuste il volo
sul margo del ruscello: arde
veloce
l'inopinata fiamma, e quelle in fretta
spaventate si gettano nel
rio:
tal dinanzi al Pelìde la sonante
corsìa di Xanto rïempìasi
tutta
di guerrieri e cavalli alla rinfusa.
Su la sponda del fiume allor
poggiata
alle mirìci la pelìaca antenna,
strinse l'eroe la spada, e dentro
il flutto
come demón lanciossi, rivolgendo
opre orrende nel cor. Menava a
cerchio
il terribile acciar; s'udìa lugùbre
dei trafitti il lamento, e
tinta in rosso
l'onda correa. Qual fugge innanzi al vasto
delfin la torma
del minuto pesce,
che di tranquillo porto si ripara
nei recessi atterrito,
ed ei n'ingoia
quanti ne giunge: paurosi i Teucri
così ne' greti
s'ascondean del fiume.
Poiché stanca d'ucciderli il Pelìde
sentì la
destra, dodici ne prese
vivi e di scelta gioventù, che il fio
dovean
pagargli dell'estinto amico.
Stupidi per terror come cervetti
fuor degli
antri ei li tira, e co' politi
cuoi di che strette avean le gonne, a
tutti
dietro annoda le mani, e a' suoi compagni
onde trarli alle navi li
commette.
Vago ei poscia di stragi in mezzo all'acque
diessi di nuovo
impetuoso, e il figlio
del dardànide Prìamo Licaone
gli occorse in quella
che fuggìa dal fiume.
Ne' paterni poderi un'altra volta,
venutovi
notturno, egli l'avea
sorpreso e seco a viva forza addutto
mentre
inaccorto con tagliente accetta
i nuovi rami recidendo stava
di selvatico
fico, onde foggiarne
di bel carro il contorno: all'improvvista
gli fu
sopra in quell'opra il divo Achille,
che trattolo alle navi in Lenno il
cesse
per prezzo al figlio di Giasone Eunèo.
Ospite poi d'Eunèo con molti
doni
ne fe' riscatto l'imbrio Eezióne,
che in Arisba il mandò. Di là
fuggito
nascostamente, alle paterne case
avea fatto ritorno, e già la
luce
undecima splendea, che con gli amici
si ricreava di servaggio
uscito;
quando di nuovo il dodicesmo giorno
un Dio nemico tra le mani il
pose
del terribile Achille, onde invïarlo
suo malgrado alle porte atre di
Pluto.
Riguardollo il Pelìde; e siccom'era
nudo la fronte (ché celata e
scudo
e lancia e tutto avea gittato oppresso
dalla fatica nel fuggir dal
fiume,
e vacillava di stanchezza il piede),
lo riconobbe, e irato in suo
cor disse:
Quale agli occhi mi vien strano portento?
Che sì che i Teucri
dal mio ferro ancisi
tornan dall'ombre di Cocito al giorno!
Come vivo
costui? come, venduto
già tempo in Lenno, del frapposto mare
poté l'onda
passar che a tutti è freno?
Or ben, dell'asta mia gusti la punta.
Vedrem
s'ei torna di là pure, ovvero
se l'alma terra che ritien costretti
anche i
più forti, riterrà costui.
Queste cose ei discorre in suo segreto
senza
far passo. Sbigottito intanto
Licaon s'avvicina desïoso
d'abbracciargli i
ginocchi, e al nero artiglio
della Parca involarsi. Alza il Pelìde
la
lunga lancia per ferir; ma quello
gli si fa sotto a tutto corso, e
chino
atterrasi al suo piè. Divincolando
l'asta sul capo gli trapassa, e
in terra
sitibonda di sangue si conficca.
Supplichevole allor coll'una
mano
le ginocchia gli stringe il meschinello,
coll'altra gli rattien
l'asta confitta,
né l'abbandona, e tuttavia pregando,
Deh ferma, ei grida:
umilemente io tocco
le tue ginocchia, Achille: ah, mi rispetta;
miserere
di me: pensa che sacro
tuo supplice son io, pensa, o divino
germe di
Giove, che nudrito fui
del tuo pane quel dì che nel paterno
poder tua
preda mi facesti, e tratto
lungi dal padre e dagli amici in Lenno,
di
cento buoi ti valsi il prezzo, ed ora
tre volte tanti io ti varrò
redento.
È questa a me la dodicesma aurora
che dopo molti affanni in Ilio
giunsi,
ed ecco che crudel fato mi mette
in tuo poter: ciò chiaro assai mi
mostra
che in odio a Giove io sono. Ahi! che a ben corta
vita la madre a
partorir mi venne,
la madre Laotòe d'Alte figliuola,
di quell'Alte che
vecchio ai bellicosi
Lelegi impera, e tien suo seggio al fiume
Satnïoente
nell'eccelsa Pèdaso.
Di questo ebbe la figlia il re troiano
fra le molte
sue spose, e due nascemmo
di lei, serbati a insanguinarti il ferro.
E l'un
tra i fanti della prima fronte
già domasti coll'asta, il generoso
mio
fratel Polidoro, ed or me pure
ria sorte attende; ché non io già
spero,
poiché nemico mi vi spinse un Dio,
le tue mani sfuggir. E
nondimeno
nuovo un prego ti porgo, e tu del core
la via gli schiudi. Non
volermi, Achille,
trucidar: d'uno stesso alvo io non nacqui
con Ettor che
t'ha morto il caro amico.
Così pregava umìl di Prìamo il figlio;
ma
dispietata la risposta intese.
Non parlar, stolto, di riscatto, e
taci.
Pria che Patròclo il dì fatal compiesse,
erami dolce il perdonar de'
Teucri
alla vita, e di vivi assai ne presi,
ed assai ne vendetti: ora di
quanti
fia che ne mandi alle mie mani Iddio,
nessun da morte scamperà,
nessuno
de' Teucri, e meno del tuo padre i figli.
Muori dunque tu pur.
Perché sì piangi?
Morì Patròclo che miglior ben era.
E me bello qual vedi
e valoroso
e di gran padre nato e di una Diva,
me pur la morte ad ogni
istante aspetta,
e di lancia o di strale un qualcheduno
anche ad Achille
rapirà la vita.
Sentì mancarsi le ginocchia e il core
a quel dir
l'infelice, e abbandonata
l'asta, accosciossi coll'aperte braccia.
Strinse
Achille la spada, e alla giuntura
lo percosse del collo. Addentro
tutto
gli si nascose l'affilato acciaro,
e boccon egli cadde in sul
terreno
steso in lago di sangue. Allor d'un piede
presolo Achille, lo
gittò nell'onda,
e con acerbo insulto, Or qui ti giaci,
disse, tra' pesci
che di tua ferita
il negro sangue lambiran securi.
Né te la madre sul
funereo letto
piangerà, ma del mar nell'ampio seno
ti trarrà lo Scamandro
impetuoso,
e là qualcuno del guizzante armento
ti salterà dintorno, e
sotto l'atre
crespe dell'onda l'adipose polpe
di Licaon si roderà.
Possiate
così tutti perir finché del sacro
Ilio sia nostra la città, voi
sempre
fuggendo, e io sempre colle stragi al tergo.
Né gioveranvi i
vortici di questo
argenteo fiume a cui di molti tori
fate sovente
sacrificio, e vivi
gettar solete i corridor nell'onda.
Né per questo sarà
che non vi tocchi
di rio fato perir, finché la morte
di Patroclo sia
sconta e in un la strage
che, me lontano, degli Achei faceste.
Dagl'imi
gorghi udì Xanto d'Achille
le superbe parole, e d'alto sdegno
fremendo,
divisava in suo pensiero
come alla furia dell'eroe por modo,
e de' Teucri
impedir l'ultimo danno.
Intanto il figlio di Pelèo brandita
a nuove stragi
la gran lancia, assalse
Asteropèo, figliuol di Pelegone,
di Pelegon cui
l'Assio ampio-corrente
generò Dio commisto a Peribèa,
d'Acessameno la
maggior fanciulla.
A costui si fe' sopra il grande Achille,
e quei del
fiume uscendo ad incontrarlo
con due lance ne venne. Animo e forza
gli
avea messo nel cor lo Xanto irato
pe' tanti in mezzo alle sue
limpid'onde
giovani prodi dal Pelìde uccisi
spietatamente. Avvicinati
entrambi,
disse Achille primiero: Chi se' tu
ch'osi farmiti incontro, e di
che gente?
Chi m'attenta è figliuol d'un infelice.
E a lui di Pelegon
l'inclita prole:
Magnanimo Pelìde, a che mi chiedi
del mio lignaggio? Dai
remoti campi
della Peonia qua ne venni (è questo
già l'undecimo sole), e
alla battaglia
guido i Peonii dalle lunghe picche.
Del nostro sangue è
autor l'Assio di larga
bellissima corrente, e genitore
del bellicoso
Pelegon. Di questo
io nacqui, e basta. Or mano all'armi, o
prode.
All'altere minacce alto solleva
il divo Achille la pelìaca
trave.
Fassi avanti del par con due gran teli
l'ambidestro campione
Asteropèo.
Coglie col primo l'inimico scudo,
ma nol giunge a forar, ché
l'aurea squama
lo vieta, opra d'un Dio: sfiora coll'altro
il destro
braccio dell'eroe, di nero
sangue lo sprizza, e dopo lui si figge
di
maggior piaga desïoso in terra.
Fe' secondo volar contro il nemico
la sua
lancia il Pelìde, intento tutto
a trapassargli il cor, ma colse in
fallo:
colse la ripa, e mezzo infitto in quella
il gran fusto restò. Dal
fianco allora
trasse Achille la spada, e furibondo
assalse Asteropèo che
invan dall'alta
sponda si studia di sferrar d'Achille
il frassino: tre
volte egli lo scosse
colla robusta mano, e lui tre volte
la forza
abbandonò. Mentre s'accinge
ad incurvarlo colla quarta prova
e spezzarlo,
d'Achille il folgorante
brando il prevenne arrecator di morte.
Lo percosse
nell'epa all'ombelico;
n'andâr per terra gl'intestini; in negra
caligine
ravvolti ei chiuse i lumi,
e spirò. L'uccisor gli calca il petto,
lo
dispoglia dell'armi, e sì l'insulta:
Statti così, meschino, e benché
nato
d'un fiume, impara che il cozzar co' figli
del saturnio signor t'è
dura impresa.
Tu dell'Assio che larghe ha le correnti
ti lodavi rampollo,
ed io di Giove
sangue mi vanto, e generommi il prode
Eàcide Pelèo che i
numerosi
Mirmidóni corregge, e discendea
Eaco da Giove. Or quanto è questo
Dio
maggior de' fiumi che nel vasto grembo
devolvonsi del mar, tanto sua
stirpe
la stirpe avanza che da lor procede.
Eccoti innanzi un alto fiume,
il Xanto;
di' che ti porga, se lo puote, aita.
Ma che puot'egli contra
Giove a cui
né il regale Achelòo né la gran possa
del profondo Oceàno si
pareggia?
E l'Oceàn che a tutti e fiumi e mari
e fonti e laghi è genitor,
pur egli
della folgore trema, e dell'orrendo
fragor che mette del gran
Giove il tuono.
Sì dicendo, divelse dalla ripa
la ferrea lancia, e su la
sabbia steso
l'esamine lasciò. Bruna il bagnava
la corrente, e famelici
dintorno
affollavansi i pesci a divorarlo.
Visto il forte lor duce
Asteropèo
cader domato dal Pelìde, in fuga
spaventati si volsero i
Peonii
lungo il rapido fiume, flagellando
prontamente i corsier.
Gl'insegue Achille
e Tersìloco uccide e Trasio e Mneso,
Enio, Midone,
Astìpilo, Ofeleste,
e più n'avrìa trafitti il valoroso,
se irato il fiume
dai profondi gorghi
non levava in mortal forma la fronte
con questo grido:
Achille, tu di forza
ogni altro vinci, è ver, ma il vinci insieme
di fatti
indegni, e troppo insuperbisci
del favor degli Dei che sempre hai teco.
Se
ti concesse di Saturno il figlio
di tutti i Troi la morte, dal mio
letto
cacciali, e in campo almen fa tue prodezze.
Di cadaveri e d'armi
ingombra è tutta
la mia bella corrente, ed impedita
da tante salme aprirsi
al mar la via
più non puote; e tu segui a farle intoppo
di nuova strage.
Orsù, desisti, o fiero
prence, e ti basti il mio stupor. -
Scamandro
figlio di Giove, gli rispose Achille,
sia che vuoi; ma non io
degli spergiuri
Teucri l'eccidio cesserò, se pria
dentr'Ilio non li
chiudo, e corpo a corpo
non mi cimento con Ettòr. Qui deve
restar privo di
vita od esso od io.
Sì dicendo, coll'impeto d'un nume
avventossi ai
Troiani. Allor si volse
Xanto ad Apollo: Saettante iddio,
Giove fatto
t'avea l'alto comando
di dar soccorso ai Teucri insin che giunga
la sera,
e il volto della terra adombri.
E tu del padre non adempi il
cenno?
Mentr'egli sì dicea, l'audace Achille
si scagliò dalla ripa in
mezzo al fiume.
Il fiume allor si rabbuffò, gonfiossi,
intorbidossi, e
furïando sciolse
a tutte l'onde il freno: urtò la stipa
de' cadaveri
opposti, e li respinse,
mugghiando come tauro, alla pianura,
servati i
vivi ed occultati in seno
a' suoi vasti recessi. Orrenda intorno
al Pelìde
ruggìa la torbid'onda,
e gli urtava lo scudo impetuosa,
sì ch'ei fermarsi
non potea su i piedi.
A un eccelso e grand'olmo alfin s'apprese
colle
robuste mani, ma divelta
dalle radici ruinò la pianta,
seco trasse la
ripa, e coi prostrati
folti rami la fiera onda rattenne,
e le sponde
congiunse come ponte.
Fuor balza allor l'eroe dalla vorago,
e, messe l'ali
al piè, nel campo vola
sbigottito. Nè il Dio perciò si resta,
ma colmo e
negro rinforzando il flutto
vie più gonfio l'insegue, onde di
Marte
rintuzzargli le furie, e de' Troiani
l'eccidio allontanar. Diè un
salto Achille
quanto è il tratto d'un'asta, ed il suo corso
somigliava il
volar di cacciatrice
aquila fosca che i volanti tutti
di forza vince e di
prestezza. Il bronzo
dell'usbergo gli squilla orribilmente
sul vasto
petto; con obliqua fuga
scappar dal fiume ei tenta, e il fiume a tergo
con
più spesse e sonanti onde l'incalza.
Come quando per l'orto e pe'
filari
di liete piante il fontanier deduce
di limpida sorgente un
ruscelletto,
e, la marra alla man, sgombra gl'intoppi
alla rapida linfa
che correndo
i lapilli rimescola, e si volve
giù per la china
gorgogliando, e avanza
pur chi la guida: così sempre insegue
l'alto flutto
il Pelìde, e lo raggiunge
benché presto di piè: ché non resiste
mortal
virtude all'immortal. Quantunque
volte la fronte gli converse il
forte,
mirando se giurati a porlo in fuga
tutti fosser gli Dei, tante il
sovrano
fiotto del fiume gli avvolgea le spalle.
Conturbato nell'alma egli
non cessa
d'espedirsi e saltar verso la riva,
ma con rapide ruote il fiero
fiume
sottentrato gli snerva le ginocchia,
e di costa aggirandolo, gli
ruba
di sotto ai piedi la fuggente arena.
Levò lo sguardo al cielo il
generoso,
ed urlò: Giove padre, adunque nullo
de' numi aita l'infelice
Achille
contro quest'onda! Ah ch'io la fugga, e poi
contento patirò
qualsia sventura.
Ma nullo ha colpa de' Celesti meco
quanto la madre mia
che di menzogne
mi lattò, profetando che di Troia
sotto le mura perirei
trafitto
dagli strali d'Apollo! Oh foss'io morto
sotto i colpi d'Ettorre,
il più gagliardo
che qui si crebbe! Avrìa rapito un forte
d'un altro forte
almen l'armi e la vita.
Or vuole il Fato che sommerso io pera
d'oscura
morte, ohimè! come fanciullo
di mandre guardian cui ne' piovosi
tempi il
torrente, nel guardarlo, affoga.
Accorsero veloci al suo lamento,
e
appressârsi all'eroe Palla e Nettunno
in sembianza mortal: lo
confortaro,
il presero per mano, e della terra
sì disse il grande
scotitor: Pelìde,
non trepidar: qui siamo in tua difesa
due gran Divi,
Minerva ed io Nettunno,
né Giove il vieta, né dal Fato è fisso
che ti
conquida un fiume; e tu di questo
vedrai tra poco abbonacciarsi il
flutto.
Un saggio avviso porgeremti intanto,
se obbedirne vorrai. Dalla
battaglia
non ti ristar se pria dentro le mura
dell'alta Troia non
rinserri i Teucri
quanti potranno dalla man fuggirti,
né alle navi tornar
che spento Ettorre:
noi ti daremo di sua morte il vanto.
Disparvero, ciò
detto, e ai congiurati
Numi tornâr. Riconfortato Achille
dal celeste
comando, in mezzo al campo
precipitossi. Il campo era già tutto
una vasta
palude in cui disperse
de' trafitti nuotavano le belle
armature e le
salme. Alto al Pelìde
saltavano i ginocchi, ed ei diretto
la fiumana
rompea, che a rattenerlo
più non bastava: perocché Minerva
gli avea nel
petto una gran forza infuso.
Né rallentò per questo lo Scamandro
gl'impeti
suoi, ma più che pria sdegnoso
contro il Pelìde sollevossi in
alto
arricciando le spume, e al Simoenta,
destandolo, gridò queste
parole:
Caro germano, ad affrenar vien meco
la costui furia, o le dardànie
torri
vedrai tosto atterrate, e tolta ai Teucri
di resister la speme. Or
tu deh corri
veloce in mio soccorso, apri le fonti,
tutti gonfia i tuoi
rivi, e con superbe
onde t'innalza e tronchi aduna e sassi,
e con fracasso
ruotali nel petto
di questo immane guastator che tenta
uguagliarsi agli
Dei. Ben io t'affermo
che né bellezza gli varrà, né forza,
né quel divin
suo scudo, che di limo
giacerà ricoperto in qualche gorgo
voraginoso. Ed
io di negra sabbia
involverò lui stesso, e tale un monte
di ghiaia immenso
e di pattume intorno
gli verserò, gli ammasserò, che l'ossa
gli Achei
raccorne non potran: cotanta
la belletta sarà che lo nasconda.
Fia questo
il suo sepolcro, onde non v'abbia
mestier di fossa nell'esequie
sue.
Disse, ed alto insorgendo e d'atre spume
ribollendo e di sangue e
corpi estinti,
con tempesta piombò sopra il Pelìde.
E già la sollevata
onda vermiglia
occupava l'eroe, quando temendo
che vorticoso nol rapisca
il fiume,
diè Giuno un alto grido, ed a Vulcano
Sorgi, disse, mio figlio;
a te si spetta
pugnar col Xanto: non tardar, risveglia
le tremende tue
fiamme. Io di Ponente
e di Noto a destar dalla marina
vo le gravi
procelle, onde l'incendio
per lor cresciuto i corpi involva e l'arme
de'
Troiani, e le bruci. E tu del Xanto
lungo il margo le piante
incenerisci,
fa che avvampi egli stesso; e non lasciarti
né per minacce né
per dolci preghi
svolger dall'opra, né allentar la forza
s'io non ten
porga con un grido il segno.
Frena allora gl'incendii e ti ritira.
Ciò
detto appena, un vasto foco accese
Vulcano, e lo scagliò. Si sparse
quello
prima pel campo, e i tanti, di che pieno
il Pelìde l'avea, morti
combusse.
Si dileguâr le limpid'acque, e tutto
seccossi il pian, qual
suole in un istante
d'autunnale aquilon sciugarsi al soffio
l'orto
irrigato di recente, e in core
ne gode il suo cultor. Seccato il campo,
e
combusti i cadaveri, si volse
contro il fiume la vampa. Ardean stridendo
i
salci e gli olmi e i tamarigi, ardea
il loto e l'alga ed il cipero in
molta
copia cresciuti su la verde ripa.
Dal caldo spirto di Vulcano
afflitti,
e qua e là per le belle onde dispersi
guizzano i pesci. Il cupo
fiume istesso
s'infoca, e in voce dolorosa esclama:
Vulcano, al tuo poter
nullo resiste
de' numi: io cedo alle tue fiamme. Ah cessa
dalla contesa:
immantinente Achille
scacci pur tutti di cittade i Teucri;
di soccorsi e
di risse a me che cale? -
Così rïarso dalle fiamme ei parla.
Come ferve a
gran fuoco ampio lebète
in cui di verro saginato il pingue
lombo si
frolla; alla sonora vampa
crescon forza di sotto i crepitanti
virgulti, e
l'onda d'ogni parte esulta:
sì la bella del Xanto acqua infocata
bolle, né
puote più fluir consunta
ed impedita dalla forza infesta
dell'ignifero
Dio. Quindi a Giunone
quell'offeso pregò con questi accenti:
perché prese
il tuo figlio, augusta Giuno,
su l'altre a tormentar la mia corrente?
Reo
ti son forse più che gli altri tutti
protettori de' Troi? Pur se il
comandi,
mi rimarrò, ma si rimanga anch'esso
questo nemico, e non sarà, lo
giuro,
mai de' Teucri per me conteso il fato,
no, s'anco tutta per la man
dovesse
de' forti Achivi andar Troia in faville.
La Dea l'intese, ed a
Vulcan rivolta,
Férmati, disse, glorïoso figlio:
dar cotanto martìr non si
conviene
per cagion de' mortali a un Immortale.
Spense Vulcano della madre
al cenno
quell'incendio divino, e ne' bei rivi
retrograda tornò l'onda
lucente.
Domo il Xanto, quetârsi i due rivali,
ché così Giuno comandò,
quantunque
calda di sdegno; ma tra gli altri numi
più tremenda risurse la
contesa.
Scissi in due parti s'avanzâr sdegnosi
l'un contro l'altro con
fracasso orrendo:
ne muggì l'ampia terra, e le celesti
tube squillâr:
sull'alte vette assiso
dell'Olimpo n'udì Giove il clangore,
e il cor di
gioia gli ridea mirando
la divina tenzone: e già sparisce
tra gli eterni
guerrieri ogn'intervallo.
Truce di scudi forator diè Marte
le mosse, e
primo colla lancia assalse
Minerva, e ontoso favellò: Proterva
audacissima
Dea, perché de' numi
l'ire attizzi così? Non ti ricorda
quando a ferirmi
concitasti il figlio
di Tidèo Dïomede, e dirigendo
della sua lancia tu
medesma il colpo,
lacerasti il mio corpo? Il tempo è giunto
che tu mi
paghi dell'oltraggio il fio.
Sì dicendo, avventò l'insanguinato
Marte il
gran telo, e ne ferì l'orrenda
egida, che di Giove anco resiste
alle
saette. Si ritrasse indietro
la Diva, e ratta colla man robusta
un macigno
afferrò, che negro e grande
giacea nel campo dalle prische genti
posto a
confine di poder. Con questo
colpì l'impetuoso iddio nel collo,
e gli
sciolse le membra. Ei cadde, e steso
ingombrò sette jugeri; le
chiome
insozzârsi di polve, e orrendamente
l'armi sul corpo gli tonâr.
Sorrise
Pallade, e altera l'insultò: Demente!
che meco ardisci gareggiar,
non vedi
quant'io t'avanzo di valor? Va, sconta
di tua madre le furie, e
dal suo sdegno
maggior castigo, dell'aver tradito
pe' Teucri infidi i
giusti Achei, t'aspetta.
Così detto, le lucide pupille
volse altrove.
Frattanto al Dio prostrato
Venere accorse, per la mano il prese,
e lui che
grave sospira, e a fatica
riaver può gli spirti, altrove adduce.
L'alma
Giuno li vide, ed a Minerva,
Guarda, disse, di Giove invitta
figlia,
guarda quella impudente: ella di nuovo
fuor dell'aspro conflitto
via ne mena
quell'omicida. Ah vola, e su lor piomba.
Volò Minerva, e
gl'inseguì. Di gioia
il cor balzava, e fattasi lor sopra,
colla terribil
mano a Citerea
tal diè un tocco nel petto, che la stese:
giaceano entrambi
riversati, e altera
su lor Minerva glorïossi, e disse:
Fosser tutti così
questi di Troia
proteggitori a disfidar venuti
i loricati Achei! Fossero
tutti
di fermezza e d'ardir pari a Ciprigna
di Marte aiutatrice e mia
rivale!
E noi, distrutte d'Ilïon le torri,
già poste l'armi da gran tempo
avremmo.
Udì la Diva dalle bianche braccia
il motteggio, e sorrise. A Febo
allora
disse il sire del mar: Febo, già sono
gli altri alle prese; e noi
ci stiamo in posa?
ciò del tutto sconviensi; onta sarìa
tornar di Giove ai
rilucenti alberghi
senza far d'armi paragon. Comincia
tu minore d'età; ché
non è bello
a me, più saggio e antico, esser primiero.
Oh povero di senno
e d'intelletto!
non ricordi più dunque i tanti affanni
che noi da Giove ad
esular costretti
intorno ad Ilio sopportammo insieme,
noi soli e numi,
allor che all'orgoglioso
Laomedonte intero un anno a prezzo
pattuimmo il
servir? Duri comandi
il tiranno ne dava. Ed io di Troia
l'alta cittade
edificai, di belle
ampie mura la cinsi, e di securi
baluardi; e tu, Febo,
alle selvose
idèe pendici pascolavi intanto
le cornigere mandre. Ma
condotta
dalle grate Ore del servir la fine,
ne frodò la mercede il re
crudele,
e minaccioso ne scacciò, giurando
che te di lacci avvinto e mani
e piedi
in isola remota avrìa venduto,
e mozze inoltre ad ambeduo
l'orecchie.
Frementi di rancor per la negata
pattuita mercede,
immantinente
noi ne partimmo. È questo forse il merto
ch'or le sue genti a
favorir ti move,
anzi che nosco procurar di questi
fedìfraghi Troiani e
de' lor figli
e delle mogli la total ruina?
Possente Enosigèo, rispose
Apollo,
stolto davvero ti parrei se teco
a cagion de' mortali io
combattessi,
che miseri e quai foglie or freschi sono,
or languidi e
appassiti. Usciamo adunque
del campo, e sia tra lor tutta la briga.
Ciò
detto, altrove s'avviò, né volle
alle mani venir, per lo rispetto
di quel
Nume a lui zio. Ma la sorella
di belve agitatrice aspra Dïana
con acri
motti il rampognò: Tu fuggi,
tu che lunge saetti? e tutta cedi
senza
contrasto al re Nettun la palma?
Vile! a che dunque nella man
quell'arco?
Ch'io non t'oda più mai nella paterna
reggia tra' numi, come
pria, vantarti
di combattere solo il re Nettunno.
Non le rispose Apollo;
ma sdegnosa
si rivolse alla Dea di strali amante
la veneranda Giuno, e sì
la punse
con acerbo ripiglio: E come ardisci
starmi a fronte, o proterva?
Di possanza
mal tu puoi meco gareggiar, quantunque
d'arco armata. Gli è
ver che fra le donne
ti fe' Giove un lïone, e qual ti piaccia
ti concesse
ferir. Ma per le selve
meglio ti fia dar morte a capri e cervi,
che pugnar
co' più forti. E se provarti
vuoi pur, ti prova, e al paragone
impara
quanto io sono da più. - Ciò detto, al polso
colla manca le afferra
ambe le mani,
colla dritta dagli omeri le strappa
gli aurei strali, e
ridendo su l'orecchia
li sbatte alla rival che d'ogni parte
si divincola;
e sparse al suol ne vanno
le aligere saette. Alfin di sotto
le si tolse, e
fuggì come colomba
che da grifagno augel per venturoso
fato scampata ad
appiattarsi vola
nel cavo d'una rupe. Ella piangendo
così fuggìa, lasciate
ivi le frecce.
Parlò quindi a Latóna il messaggiero
argicìda: Latóna, io
non vo' teco
cimentarmi; il pugnar colle consorti
del nimbifero Giove è
dura impresa.
Va dunque; e franca fra gli eterni Dei
d'avermi vinto per
valor ti vanta.
Così dicea Mercurio, e quella intanto
gli sparsi per la
polve archi e quadrelli
raccogliea della figlia, e la seguìa,
ché
all'Olimpo salita entro l'eterne
stanze di Giove avea già messo il
piede.
Su i paterni ginocchi lagrimando
la vergine s'assise, e le
tremava
l'ambrosio manto sul bel corpo. Il padre
la si raccolse al petto,
e con un dolce
sorriso dimandò: Chi de' Celesti
temerario t'offese, o mia
diletta,
come colta in error? - La tua consorte,
Cinzia rispose, mi
percosse, o padre,
Giunon che sparge fra gli Dei le risse.
Mentre in cielo
seguìan queste parole,
Febo entrava nel sacro Ilio a difesa
dell'alto
muro, perocché temea
nol prendesse in quel dì pria del destino
degli
Achivi il valor. Ma gli altri Eterni
all'Olimpo tornaro, irati i
vinti,
festosi i vincitori, e ognun dintorno
al procelloso genitor
s'assise.
Il Pelìde struggea pel campo intanto
i Troiani, e stendea
confusamente
cavalli e cavalier. Come fra densi
globi di fumo che si volve
al cielo
un gran fuoco, in cui soffia ira divina,
una cittade incende, e a
tutti arreca
travaglio e a molti esizio; a questa immago
dava Achille ai
Troiani angoscia e morte.
Stava sull'alto d'una torre il veglio
Prìamo, e
visti fuggir senza ritegno,
senza far più difesa, i Troi davanti
al
gigante guerrier, mise uno strido,
e calò dalla torre, onde ai
custodi
degli ingressi lasciar lungo le mura
questi avvisi: Alle man
tenete, o prodi,
spalancate le porte insin che tutti
nella città sien
salvi i fuggitivi
dal diro Achille sbaragliati. Ahi giunto
forse è
l'ultimo danno! Come dentro
siensi messe le schiere, e ognun
respiri,
riserrate le porte, e saldamente
sbarratele; ch'io temo non
irrompa
fin qua dentro il furor di questo fiero.
Al comando regal
schiusero quelli
tosto le porte, e ne levâr le sbarre.
Onde una via
s'aperse di salute.
Fuor delle soglie allor lanciossi Apollo
in soccorso
de' Troi che dritto al muro
fuggìan da tutto il campo arsi di sete,
sozzi
di polve. E impetuoso Achille,
come il porta furor, rabbia, ira e brama
di
sterminarli, gl'inseguìa coll'asta;
ed era questo il punto in che gli
Achei
dell'alta Troia avrìan fatto il conquisto,
se Febo Apollo
l'antenòreo figlio
Agènore, guerrier d'alta prestanza,
non eccitava alla
battaglia. Il Dio
gli fe' coraggio, gli si mise al fianco,
onde lungi
tenergli della Parca
i gravi artigli, ed appoggiato a un faggio,
di
caligine tutto si ricinse.
Come Agènore il truce ebbe veduto
guastator di
città, fermossi, e molti
pensier volgendo, gli ondeggiava il core,
e dicea
doloroso in suo segreto:
Misero me! se dietro agli altri io fuggo
per
timor di quel crudo, egli malgrado
la mia rattezza prenderammi, e
morte
non decorosa mi darà. Se mentre
ei va questi inseguendo, io d'altra
parte
m'involo, e d'Ilio traversando il piano,
dell'Ida ai gioghi mi
riparo, e quivi
nei roveti m'appiatto, indi la sera
lavato al fiume, e
rinfrescato a Troia
mi ritorno... Oh che penso? Egli non puote
non veder
la mia fuga, e arriverammi
precipitoso con più presti piedi.
E allor
dall'ugna di costui, che tutti
vince di forza, chi mi scampa? Or
dunque,
poiché certa è mia morte, ad incontrarlo
vadasi in faccia alla
cittade. Ei pure
ha corpo che si fora, e un'alma sola;
e benché Giove
glorïoso il renda,
mortal cosa lo dice il comun grido.
Verso Achille, in
ciò dir, volta la fronte,
e desïoso di pugnar l'aspetta.
Come da folto
bosco una pantera
sbucando affronta il cacciator, né teme
i latrati, né
fugge, e s'anco avvegna
ch'ei l'impiaghi primier, la generosa
il furor non
rallenta, innanzi ch'ella
o gli si stringa addosso, o resti uccisa:
così
ricusa di fuggir l'ardito
d'Antènore figliuol, se col Pelìde
pria non fa
prova di valor. Protese
dunque al petto lo scudo, e nel nemico
tolta la
mira, alto gridò: Per certo
de' magnanimi Teucri, illustre
Achille,
atterrar ti speravi oggi le mura.
Stolto! n'avrai penoso affare
ancora,
ché là dentro siam molti e valorosi
che ai cari padri, alle
consorti, ai figli
difendiam la cittade, e tu, quantunque
guerrier
tremendo, giacerai qui steso.
Sì dicendo, lanciò con vigoroso
polso la
picca, e nello stinco il colse
sotto il ginocchio. Risonò lo
stagno
dell'intatto stinier, ma il ferro acuto
senza forarlo rimbalzò
respinto
dalle tempre divine. Impetuoso
scagliossi Achille al feritor, ma
ratto
gl'invidïando quella lode Apollo,
involò l'avversario alla sua
vista
l'avvolgendo di nebbia, e queto queto
dal certame lo trasse, e via
lo spinse.
Indi tolta d'Agènore la forma,
diessi in fuga, e svïò con
quest'inganno
dalla turba il Pelìde che veloce
dietro gli move e
incalzalo, e piegarne
vêr lo Scamandro studiasi la fuga.
Nol precorre il
fuggente a tutto corso,
ma di poco intervallo, e colla speme
sempre
l'alletta d'una pronta presa,
e sempre lo delude. Intanto a
torme
spaventati si versano i Troiani
dentro le porte. In un momento
tutta
di lor fu piena la città, ché nullo
rimanersene fuori non
sostenne,
né il compagno aspettar, né dei campati
dimandar, né de' morti.
Ognun che snelle
a salvarsi ha le piante, alla rinfusa
dentro si getta, e
dal terror respira.
Libro
XXII
Così,
quai cervi paurosi, i Teucri
nella città fuggìan confusamente,
e davano
appoggiati agli alti merli
al sudor refrigerio ed alla sete,
mentre gli
Achei con inclinati scudi
si fan sotto alle mura. Ma la Parca
dinanzi ad
Ilio su le porte Scee
rattenne immoto, come astretto in ceppi,
lo
sventurato Ettòr. Fece ad Achille
l'arciero Apollo allor queste
parole:
Perché mortale un Immortal persegui,
o figlio di Pelèo? Non anco
avvisi,
cieco furente, che un Celeste io sono?
Dei fugati Troiani e nel
riparo
d'Ilio già chiusi ogni pensier ponesti,
e qua svïasti il tuo furor.
Che speri?
uccidermi? Son nume. - E nume infesto,
e di tutti il peggior
(rispose acceso
di grand'ira il Pelìde). A questa parte
m'hai devïato
dalle mura, e tolto
che molti, prima d'arrivar là dentro,
mordessero la
polve. Ah mi rapisti
un gran vanto, e quei vili in salvo hai messo
perché
non temi la vendetta mia;
ma la farei ben io, se la potessi.
Tacque, e
drizzossi alla città volgendo
terribili pensieri, e il piè movea
rapido
come vincitor de' ludi
animoso destrier che per l'arena
fa le ruote volar.
Primo lo vide
precipitoso correre pel campo
Prìamo, e da lungi folgorar,
siccome
l'astro che cane d'Orïon s'appella,
e precorre l'Autunno:
scintillanti
fra numerose stelle in densa notte
manda i suoi raggi;
splendissim'astro,
ma luttuoso e di cocenti morbi
ai miseri mortali
apportatore.
Tal del volante eroe sul vasto petto
splendean l'armi.
Ululava, e colle mani
alto levate si battea la fronte
il buon vecchio, e
chiamava a tutta voce
l'amato figlio supplicando: e questi
fermo innanzi
alle porte altro non ode
che il desìo di pugnar col suo nemico.
Allor le
palme il misero gli stese,
e questi profferì pietosi accenti:
Mio diletto
figliuolo, Ettore mio,
deh lontano da' tuoi da solo a solo
non affrontar
costui che di fortezza
d'assai t'è sopra. Oh fosse in odio il crudo
agli
Dei quanto a me! Pasto di belve
ei giacerìa qui steso (e del mio
petto
avrìa fine l'angoscia), ei che di tanti
orbo mi fece valorosi
figli,
quale ucciso, qual tratto alle remote
rive e venduto. Ed or fra i
qui rinchiusi
Teucri i due figli, ahi lasso! ancor non veggo
che l'esimia
consorte Laotòe
a me produsse, Polidoro io dico
e Licaon. Se prigionieri
ei sono,
con auro e bronzo ne farem riscatto,
ch'io n'ho molte conserve, e
molto avere
diè l'egregio vegliardo Alte alla figlia.
Se poi ne' regni già
passâr di Pluto,
alto sarà su la lor morte il pianto
della madre ed il
mio, ma brevi i lutti
del popolo, ove spento tu non cada
dal Pelìde, tu
pur. Rïentra adunque,
mio dolce figlio, nelle mura, e i Teucri
conservane
e le spose. Al diro Achille
non lasciar sì gran lode: abbi pensiero
della
cara tua vita, abbi pietade
di me meschino a cui non tolse ancora
la
sventura il sentir, di me che misi
già nelle soglie di vecchiezza il
piede,
dall'alta condannato ira di Giove
di ria morte a perir, vista di
mali
prima ogni faccia, trucidati i figli,
rapite le fanciulle, i casti
letti
contaminati, crudelmente infranti
contro terra i bambini, e
strascinate
dall'empio braccio degli Achei, le nuore.
Ed ultimo me pur su
le regali
porte trafitto e spoglia abbandonata
voraci i cani sbraneran,
que' cani
che custodi io nudrìa del regio tetto
alla mia mensa io stesso;
e allor da ingorda
rabbia sospinti disputar vedransi
il mio sangue; e di
questo alfin satolli
ne' portici sdraiarsi. Ah, bello è in campo
del
giovine il morir! Coperto il petto
d'onorate ferite, onta non avvi,
non
offesa che morto il disonesti.
Ma che ludibrio sia degli affamati
mastini
il capo venerando e il bianco
mento d'un veglio indegnamente ucciso,
che
sia bruttato il nudo e verecondo
suo cadavere, ah! questo, è questo il
colmo
dell'umane sventure. E sì dicendo,
strappasi il veglio dall'augusto
capo
i canuti capei; ma non si piega
l'alma d'Ettorre. Desolata
accorse
d'altra parte la madre, e lagrimando
e nudandosi il seno, la
materna
poppa scoperse, e, A questa abbi rispetto,
singhiozzante sclamava,
a questa, o figlio,
che calmò, lo ricorda, i tuoi vagiti.
Rïentra, Ettore
mio, fuggi cotesto
sterminatore, non istargli a petto,
sciaurato! Non io,
s'egli t'uccide,
non io darti potrò, caro germoglio
delle viscere mie, su
la funèbre
bara il mio pianto, né il potrà l'illustre
tua consorte: e tu
lungi appo le navi
giacerai degli Achivi, esca alle belve.
Questi preghi
di lagrime interrotti
porgono al figlio i dolorosi, e nulla
persuadon
l'eroe che fermo attende
lo smisurato già vicino Achille.
Quale in tana di
tristi erbe pasciuto
fero colùbro il vïandante aspetta,
e gonfio di
grand'ira, orribilmente
guatando intorno, nelle sue latèbre
lubrico si
convolve; e tale il duce
Troian, di sdegni generosi acceso,
appoggiato lo
scudo a una sporgente
torre, sta saldo; e nel gran cor rivolge
questi
pensieri: Che farò? Se metto
là dentro il piè, Polidamante il
primo
rampognerammi acerbo, ei che la scorsa
notte esortommi alla città
ritrarre,
comparso Achille, i Teucri; ed io nol feci:
e sì quest'era il
meglio. Or che la mia
pertinacia fatal tutti li trasse
nella ruina,
sostener l'aspetto
più non oso de' Troi né dell'altere
Troiane, e parmi
già i peggiori udire:
Ecco là quell'Ettòr che di sue forze
troppo fidando
il popolo distrusse.
Così diranno, e meglio allor mi fia
combattere, e
redir, prostrato Achille,
nella cittade, o per la patria mia
aver qui
morte glorïosa io stesso.
Pur se deposto e scudo e lancia ed elmo,
io
medesmo mi fêssi incontro a questo
magnanimo rivale, e la spartana
donna
cagion di tanta guerra, e tutte
gli promettessi le con lei portate
da
Paride ricchezze, ed altre ancora
da partirsi agli Achei, quante ne
chiude
questa città; se con tremendo giuro
quindi i Troiani a rivelar
stringessi
i riposti tesori, ed in due parti
dividendoli tutti... Oh che
vaneggia
mai la mia mente! Io supplice, io dimesso
presentarmi? Il crudel,
nulla m'avendo
né pietà né rispetto (ov'io dell'armi
nudo a lui vada),
disarmato ancora,
qual donna imbelle, metterammi a morte,
ch'ei non è tale
da poter con esso
novellar dal querceto o dalla rupe
come amanti garzoni e
donzellette.
A donzellette adunque ed a garzoni
le dolci fole, a me la
pugna; e tosto
vedrassi cui darà Giove la palma.
Così seco ragiona, e
fermo aspetta.
Ed ecco Achille avvicinarsi, al truce
dell'elmo agitator
Marte simìle.
Nella destra scotea la spaventosa
pelìaca trave; come viva
fiamma,
o come disco di nascente Sole
balenava il suo scudo. Il
riconobbe
Ettore, e freddo corsegli per l'ossa
un tremor, né aspettarlo ei
più sostenne,
ma lasciate le porte, a fuggir diessi
atterrito. Spiccossi
ad inseguirlo
fidato Achille ne' veloci piedi;
qual ne' monti sparvier
che, de' volanti
il più ratto, si scaglia impetuoso
su pavida colomba:
ella sen fugge
obbliquamente, e quei doppiando il volo
vie più l'incalza
con acuti stridi,
di ghermirla bramoso: a questa guisa
l'ardente Achille
difilato vola
dietro il trepido Ettòr che in tutta fuga
mena il rapido piè
rasente il muro.
Trascorsero veloci la collina
delle vedette, oltrepassâr,
lunghesso
la callaia, il selvaggio aereo fico
sempre sotto alle mura; e
già venuti
son dell'alto Scamandro alle due fonti.
Calida è l'una, e qual
di fuoco acceso
spandesi intorno di sue linfe il fumo:
fredda come
gragnuola o ghiaccio o neve
scorre l'altra di state: ambe son
cinte
d'ampii lavacri di polita pietra,
a cui, pria che l'Acheo venisse i
giorni
della pace a turbar, solean de' Teucri
liete le spose e le
avvenenti figlie
i bei veli lavar. Da questa parte
volano i due campion,
l'uno fuggendo,
l'altro inseguendo. Il fuggitivo è forte,
ma più forte e
più ratto è chi l'insegue,
e d'un tauro non già, né della pelle
si
gareggia d'un bue, premio a veloce
di corsa vincitor, ma della vita
del
grande Ettorre. E quale a vincer usi
giran le mete corridori ardenti,
a
cui proposto è di gentil donzella
o d'un tripode il premio, ad
onoranza
d'alcun defunto eroe; così tre volte
dell'ilìaca città fêr questi
il giro
velocemente. A riguardarli intento
stava il consesso de' Celesti,
e Giove
a dir si fece: Ahi sorte indegna! io veggo
d'Ilio intorno alle
mura esagitato
un diletto mortal; duolmi d'Ettorre
che su l'idèe pendici e
sull'eccelsa
pergàmea rocca a me solea di scelte
vittime offrire i pingui
lombi, ed ora
del minaccioso Achille il presto piede
l'incalza intorno
alla città. Pensate,
vedete, o numi, se per noi si debba
dalla morte
camparlo, o pur, quantunque
così prode, il domar sotto il
Pelìde.
Procelloso Tonante, oh che dicesti,
gli rispose Minerva, e che
t'avvisi?
Alla morte involar uomo sacro a morte?
E tu l'invola. Ma non
tutti al certo
noi Celesti tal fatto assentiremo.
T'accheta, o figlia,
replicò de' nembi
l'adunator, ch'io nulla ho fermo ancora,
e nulla io
voglio a te negar. Fa tutto,
senza punto ristarti, il tuo desire.
Spronò
quel detto la già pronta Diva
che dall'olimpie cime impetuosa
spiccossi, e
scese. Alla dirotta intanto
incalza Achille il fuggitivo Ettorre.
Come
veltro cerviero alla montagna
giù per convalli e per boscaglie
insegue
dalla tana destato un caprïuolo:
sotto un arbusto il meschinel
s'appiatta
tutto tremante, e l'altro ne ritesse
l'orme, e corre e ricorre
irrequïeto
finché lo trova: così tutte Achille
del sottrarsi ad Ettòr
tronca le vie.
Quante volte sfilar diritto ei tenta
alle dardanie porte, o
delle torri
sotto gli spaldi, onde co' dardi aita
gli dian di sopra i
suoi, tante il Pelìde
lo previene e il ricaccia alla pianura,
vicino alla
città. Come nel sogno
talor ne sembra con lena affannata
uom che fugge
inseguir, né questi ha forza
d'involarsi, né noi di conseguirlo;
così né
Achille aggiugner puote Ettorre,
né questi a quello dileguarsi. E
intanto
come schivar potuto avrìa la Parca
di Prìamo il figlio, se
l'estrema volta
nuovo al petto vigor non gli porgea
propizio Apollo, e
nuova lena al piede?
Accennava col capo il divo Achille
alle sue genti di
non far co' dardi
al fuggitivo offesa, onde veruno,
ferendolo, l'onor non
gli precida
del primo colpo. Ma venuti entrambi
la quarta volta alle
scamandrie fonti,
l'auree bilance sollevò nel cielo
il gran Padre, e due
sorti entro vi pose
di mortal sonno eterno, una d'Achille,
l'altra
d'Ettorre: le librò nel mezzo,
e del duce troiano il fatal giorno
cadde, e
vêr l'Orco dechinò. Dolente
Febo allora lasciollo in abbandono;
ed al
Pelìde fattasi vicina,
sì Minerva parlò: Diletto a Giove
inclito Achille,
or sì che giunto io spero
il momento in che noi su queste rive,
spento
alla fine il bellicoso Ettorre,
d'alta gloria andrem lieti. Ei più non
puote
scapparne ei no, quand'anche il Saettante,
ai piè prostrato
dell'Egìoco Padre,
di liberarlo s'argomenti. Or tu
qui sòstati e respira.
Andronne io stessa
al tuo nemico, e metterogli in core
di venir teco a
singolar conflitto.
Obbedì, s'appoggiò lieto al ferrato
suo frassino il
Pelìde, e dipartita
da lui la Diva, al volto, alla favella
Dëìfobo si
fece, e all'anelante
Ettor venuta, O mio german, dicea,
troppo costui
dintorno a queste mura
con piè ratto t'incalza e ti travaglia.
Or via
restiamci, e difendiamci a fermo.
Rispose Ettòr: Dëìfobo, di quanti
mi diè
fratelli Prïamo ed Ecùba,
sempre il più caro tu mi fosti, ed ora
lo mi sei
più che prima, e più mi traggi
ad onorarti, perocché tu solo
da quelle
mura osasti a mia difesa,
tu solo uscir, veduto il mio periglio.
Fratello
amato, replicò la Diva,
i venerandi genitori, e tutti
stringendosi gli
amici a' miei ginocchi
di non uscire mi pregâr, cotanto
terror
gl'ingombra: ma l'interno vinse,
che per te mi struggea, fiero
dolore.
Combattiam dunque arditamente, e nullo
sia più d'aste risparmio,
onde si vegga
s'egli, noi spenti, tornerà di nostre
spoglie onusto alle
navi, o se piuttosto
qui cadrà per la tua lancia trafitto.
Sì dicendo, la
Diva ingannatrice
precorse, e quelli l'un dell'altro a fronte
divenuti,
primier l'armi crollando
fe' questi detti l'animoso Ettorre:
Più non
fuggo, o Pelìde. Intorno all'alte
ilìache mura mi aggirai tre volte,
né
aspettarti sostenni. Ora son io
che intrepido t'affronto, e darò morte,
o
l'avrò. Ma gli Dei, fidi custodi
de' giuramenti, testimon ne sièno,
che se
Giove l'onor di tua caduta
mi concede, non io sarò spietato
col cadavere
tuo, ma renderollo,
toltene solo le bell'armi, intatto
a' tuoi. Tu giura
in mio favor lo stesso.
Non parlarmi d'accordi, abbominato
nemico,
ripigliò torvo il Pelìde:
nessun patto fra l'uomo ed il lïone,
nessuna
pace tra l'eterna guerra
dell'agnello e del lupo, e tra noi due
né
giuramento né amistà nessuna,
finché l'uno di noi steso col
sangue
l'invitto Marte non satolli. Or bada,
ché n'hai mestiero, a
richiamar la tutta
tua prodezza, e a lanciar dritta la punta.
Ogni scampo
è preciso, e già Minerva
per l'asta mia ti doma. Ecco il momento
che dei
morti da te miei cari amici
tutte ad un tempo sconterai le pene.
Disse, e
forte avventò la bilanciata
lunga lancia. Antivide Ettorre il tiro,
e
piegato il ginocchio e la persona,
lo schivò. Sorvolando il ferreo telo
si
confisse nel suol, ma ne lo svelse
invisibile ad Ettore Minerva,
e
tornollo al Pelìde. - Errasti il colpo,
gridò l'eroe troian, né Giove
ancora,
come dianzi cianciasti, il mio destino
ti fe' palese. Dëiforme
sei,
ma cinguettiero, ché con vani accenti
atterrirmi ti speri, e nella
mente
addormentarmi la virtude antica.
Ma nel dorso tu, no, non
pianterai
l'asta ad Ettorre che diritto viene
ad assalirti, e ti presenta
il petto;
piantala in questo se t'assiste un Dio.
Schiva intanto tu pur la
ferrea punta
di mia lancia. Oh si possa entro il tuo corpo
seppellir tutta
quanta, e della guerra
ai Teucri il peso allevïar, te spento,
te lor
funesta principal rovina.
Disse, e l'asta di lunga ombra squassando,
la
scagliò di gran forza, e del Pelìde
colpì senza fallir lo smisurato
scudo
nel mezzo. Ma il divino arnese
la respinse lontan. Crucciossi
Ettorre,
visto uscir vano il colpo, e non gli essendo
pronta altra lancia,
chinò mesto il volto,
e a gran voce Dëìfobo chiamando,
una picca chiedea:
ma lungi egli era.
Allor s'accorse dell'inganno, e disse:
Misero! a morte
m'appellâr gli Dei.
Credeami aver Dëìfobo presente;
egli è dentro le mura,
e mi deluse
Minerva. Al fianco ho già la morte, e nullo
v'è più scampo per
me. Fu cara un tempo
a Giove la mia vita, e al saettante
suo figlio, ed
essi mi campâr cortesi
ne' guerrieri perigli. Or mi raggiunse
la negra
Parca. Ma non fia per questo
che da codardo io cada: periremo,
ma
glorïosi, e alle future genti
qualche bel fatto porterà il mio nome.
Ciò
detto, scintillar dalla vagina
fe' la spada che acuta e grande e forte
dal
fianco gli pendea. Con questa in pugno
drizza il viso al nemico, e si
disserra
com'aquila che d'alto per le fosche
nubi a piombo sul campo si
precipita
a ghermir una lepre o un'agnelletta:
tale, agitando l'affilato
acciaro,
si scaglia Ettorre. Scagliasi del pari
gonfio il cor di feroce
ira il Pelìde
impetuoso. Gli ricopre il petto
l'ammirando brocchier: sovra
il guernito
di quattro coni fulgid'elmo ondeggia
l'aureo pennacchio che
Vulcan v'avea
sulla cima diffuso. E qual sfavilla
nei notturni sereni in
fra le stelle
Espero il più leggiadro astro del cielo;
tale l'acuta
cuspide lampeggia
nella destra d'Achille che l'estremo
danno in cor volge
dell'illustre Ettorre,
e tutto con attenti occhi spïando
il bel corpo, pon
mente ove al ferire
più spedita è la via. Chiuso il nemico
era tutto
nell'armi luminose
che all'ucciso Patròclo avea rapite.
Sol, dove il collo
all'omero s'innesta,
nuda una parte della gola appare,
mortalissima parte.
A questa Achille
l'asta diresse con furor: la punta
il collo trapassò, ma
non offese
della voce le vie, sì che precluso
fosse del tutto alle parole
il varco.
Cadde il ferito nella sabbia, e altero
sclamò sovr'esso il
feritor divino:
Ettore, il giorno che spogliasti il morto
Patroclo, in
salvo ti credesti, e nullo
terror ti prese del lontano Achille.
Stolto!
restava sulle navi al mio
trafitto amico un vindice, di molto
più
gagliardo di lui: io vi restava,
io che qui ti distesi. Or cani e corvi
te
strazieranno turpemente, e quegli
avrà pomposa dagli Achei la tomba.
E a
lui così l'eroe languente: Achille,
per la tua vita, per le tue
ginoccnia,
per li tuoi genitori io ti scongiuro,
deh non far che di belve
io sia pastura
alla presenza degli Achei: ti piaccia
l'oro e il bronzo
accettar che il padre mio
e la mia veneranda genitrice
ti daranno in gran
copia, e tu lor rendi
questo mio corpo, onde l'onor del rogo
dai Teucri io
m'abbia e dalle teucre donne.
Con atroce cipiglio gli rispose
il fiero
Achille: Non pregarmi, iniquo,
non supplicarmi né pe' miei ginocchi
né pe'
miei genitor. Potessi io preso
dal mio furore minuzzar le tue
carni, ed io
stesso, per l'immensa offesa
che mi facesti, divorarle crude.
No, nessun
la tua testa al fero morso
de' cani involerà: né s'anco dieci
e venti
volte mi s'addoppii il prezzo
del tuo riscatto, né se d'altri doni
mi si
faccia promessa, né se Prìamo
a peso d'oro il corpo tuo redima,
no, mai
non fia che sul funereo letto
la tua madre ti pianga. Io vo' che tutto
ti
squarcino le belve a brano a brano.
Ben lo previdi che pregato
indarno
t'avrei, riprese il moribondo Ettorre.
Hai cor di ferro, e lo
sapea. Ma bada
che di qualche celeste ira cagione
io non ti sia quel dì
che Febo Apollo
e Paride, malgrado il tuo valore,
t'ancideranno su le
porte Scee.
Così detto, spirò. Sciolta dal corpo
prese l'alma il suo vol
verso l'abisso,
lamentando il suo fato ed il perduto
fior della forte
gioventude. E a lui,
già fredda spoglia, il vincitor soggiunse:
Muori; ché
poscia la mia morte io pure,
quando a Giove sia grado e agli altri
Eterni,
contento accetterò. Così dicendo,
svelse dal morto la ferrata
lancia,
in disparte la pose, e dalle spalle
l'armi gli tolse insanguinate.
Intanto
d'ogn'intorno v'accorsero gli Achivi
contemplando d'Ettòr
maravigliosi
l'ammirande sembianze e la statura;
né vi fu chi di fargli
una ferita
non si godesse, al suo vicin dicendo:
Per gli Dei, che a
toccarsi egli s'è fatto
più tenero che quando arse le navi:
e in questo
dir coll'asta il ripungea.
Spoglio ch'ei l'ebbe, fra gli astanti
Achei
ritto Achille parlò queste parole:
Amici e prenci e capitani,
udite.
Poiché diermi gli Dei che domo alfine
costui ne fosse, che d'assai
più nocque
che gli altri tutti insieme, alla cittade
volgiam l'armi, e
vediam se, spento Ettorre,
fanno i Teucri pensier d'abbandonarla,
o,
benché privi di cotanto aiuto,
coraggiosi resistere... Ma quale
vano
consiglio mi ragiona il core?
Senza pianto sul lido e senza tomba
giace il
morto Patròclo. Insin che queste
mie membra animerà soffio di vita,
ei fia
presente al mio pensiero; e s'anco
laggiù nell'Orco obblivïon
scendesse
della vita primiera, anco nell'Orco
mi seguirà del mio diletto
amico
la rimembranza. Or via, dunque si rieda
alle navi, e costui vi si
strascini.
E voi frattanto, giovinetti achivi,
intonate il peana: alto è
il trionfo
che riportammo: il grande Ettòr, dai Teucri
adorato qual nume,
è qui disteso.
Disse, e contra l'estinto opra crudele
meditando, de' piè
gli fora i nervi
dal calcagno al tallone, ed un guinzaglio
insertovi
bovino, al cocchio il lega,
andar lasciando strascinato a terra
il bel
capo. Sul carro indi salito
con l'elevate glorïose spoglie,
stimolò col
flagello a tutto corso
i corridori che volâr bramosi.
Lo strascinato
cadavere un nembo
sollevava di polve onde la sparta
negra chioma agitata e
il volto tutto
bruttavasi, quel volto in pria sì bello,
allor da Giove
abbandonato all'ira
degl'inimici nella patria terra.
All'atroce spettacolo
si svelse
la genitrice i crini, e via gittando
il regal velo, un ululato
mise,
che alle stelle n'andò. Plorava il padre
miseramente, e gemiti e
singulti
per la città s'udìan, come se tutta
dall'eccelse sue cime arsa
cadesse.
Rattenevano a stento i cittadini
il re canuto, che di duol
scoppiando
dalle dardànie porte a tutto costo
fuor voleva gittarsi.
S'avvolgea
il misero nel fango, e tutti a nome
chiamandoli e pregando, Ah!
vi scostate,
lasciatemi, gridava; è intempestivo
ogni vostro timor;
lasciate, amici,
ch'io me n'esca, ch'io vada tutto solo
alle navi nemiche.
Io vo' cadere
supplichevole ai piè di quell'iniquo
violento uccisor. Chi
sa che il crudo
il mio crin bianco non rispetti e senta
pietà di mia
vecchiezza. Ei pure ha un padre
d'anni carco, Pelèo che generollo
e de'
Teucri nudrillo alla ruina,
soprattutto alla mia, tanti
uccidendo
giovinetti miei figli: né mi dolgo
sì di lor tutti, ohimè!
quanto d'un solo,
quanto d'Ettòr, di cui trarrammi in breve
l'empia doglia
alla tomba. Oh fosse ei morto
tra le mie braccia almen! così la madre,
che
sventurata partorillo, e io stesso
sfogo avremmo di pianti e di
sospiri.
Questo ei dicea piangendo, e co' lamenti
facean eco al suo pianto
i cittadini.
Dalle Tröadi intanto circondata,
in alti lai rompea la madre:
Oh figlio!
tu se' morto, ed io vivo? io giunta al sommo
delle sventure te
perdendo, ahi lassa!
te che in ogni momento eri la mia
gloria e il
sostegno della patria tutta
che t'accogliea qual nume. Ahi! ne
saresti,
vivo, il decoro; e ne sei, morto, il lutto.
Seguìa questo parlar
di pianto un fiume.
Ma del fato d'Ettòr nulla per anco
Andròmaca sapea,
ché nullo a lei
del marito rimasto anzi alle porte
recato avea l'avviso.
Nell'interne
regie stanze tessendo ella si stava
a doppie fila una lucente
tela
di diverso rabesco. E per suo cenno
avean frattanto le leggiadre
ancelle
posto un tripode al fuoco, onde al consorte
pronto fosse, al
tornar dalla battaglia,
caldo un lavacro. Non sapea, demente!
che da'
lavacri assai lungi domato
l'avea Minerva per la man d'Achille.
Ma come
dalla torre un suon confuso
d'ululi intese e di lamenti, tutte
le tremaro
le membra, al suol le cadde
la spola, e volta alle donzelle,
disse:
Accorrete sollecite, seguitemi
due di voi tosto: vo' veder che
avvenne.
Dell'onoranda suocera la voce
mi percuote l'orecchio, e il cor mi
balza
con sussulto nel petto, e manca il piede.
Certo, qualche gran danno,
ohimè! sovrasta
di Prìamo ai figli. Allontanate, o numi,
questo presagio:
ma ben forte io temo
che il divo Achille all'animoso Ettorre
non abbia del
salvarsi entro le mura
già tagliata la strada, ed or pel campo
lo
m'insegua da tutti abbandonato;
e la bravura esizïal non domi
che il
possedea: restarsi egli non seppe
mai nella folla, e sempre oltre si
spinse,
a nessun prode di valor secondo.
Così dicendo, della reggia
uscìo
qual forsennata, e le tremava il core.
La seguivan le ancelle; e fra
le turbe
giunta alla torre, s'arrestò, girando
lo sguardo intorno dalle
mura. Il vide,
il riconobbe da corsier veloci
strascinato davanti alla
cittade
verso le navi indegnamente. Oscura
notte i rai le coperse, ed ella
cadde
all'indietro svenuta. Si scomposero
i leggiadri del capo
adornamenti
e nastri e bende e l'intrecciata mitra
e la rete ed il vel che
dielle in dono
l'aurea Venere il dì che dalle case
d'Eezïòne Ettòr la si
condusse
di molti doni nuzïali ornata.
Affollârsi pietose a lei
dintorno
le cognate che smorta tra le braccia
reggean l'afflitta di morir
bramosa
per immenso dolor. Come in se stessa
alfin rivenne, e l'alma al
cor s'accolse,
fe' degli occhi due fonti, e così disse:
Oh me deserta! oh
sposo mio! noi dunque
nascemmo entrambi col medesmo fato,
tu nella reggia
del tuo padre, ed io
nella tebana Ipòplaco selvosa
seggio d'Eezïón che
pargoletta
allevommi, meschino una meschina!
Oh non m'avesse generata! Ai
regni
tu di Pluto discendi entro il profondo
sen della terra, e me qui
lasci al lutto
vedova in reggia desolata. Intanto
del figlio, ohimè! che
fia? Figlio infelice
di miserandi genitor, bambino
egli è del tutto ancor,
né tu puoi morto
più farti suo sostegno, Ettore mio,
ned egli il padre
vendicar: ché dove
pur sia che degli Achei la lagrimosa
guerra egli
sfugga, nondimen dolenti
trarrà sempre i suoi giorni, e a lui
l'avaro
vicin mutando i termini del campo
spoglierallo di questo.
Abbandonato
da' suoi compagni è l'orfanello; ei porta
ognor dimesso il
volto, e lagrimosa
la smunta guancia. Supplice indigente
va del padre agli
amici, e all'uno il saio,
tocca all'altro la veste. Il più pietoso
gli
accosta alquanto il nappo, e il labbro bagna,
non il palato. Ed altro tal che
lieto
va di padre e di madre, alteramente
dalla mensa il ributta, e lo
percote,
e villano gli grida: Sciagurato,
esci: il tuo padre qui non siede
al desco.
Torna allor lagrimando Astïanatte
alla vedova madre, egli che
dianzi
d'eletti cibi si nudrìa, scherzando
sul paterno ginocchio. E quando
ei stanco
d'innocenti trastulli al dolce sonno
chiudea le luci alla
nudrice in grembo,
dentro il suo letticciuol su molli piume,
sazio di
gioia il cor, s'addormentava.
E quanti or privo dell'amato padre,
ahi
quanti affanni soffrirà! né punto
d'Astïanatte gioveragli il nome
che gli
posero i Troi, perché le porte
tu sol ne difendevi e l'ardue mura.
Or te
sul lido fra le navi, e lungi
da chi vita ti diè, lubrici i vermi
roderan,
come sazio avrai de' veltri
nudo le gole; ahi nudo! e nella reggia
tante
avevi leggiadre ed esquisite
vesti, lavoro dell'esperte ancelle.
Or poiché
vane a te son fatte, e tolto
n'è il coprirti di queste in sul
ferètro,
tutte alle fiamme gitterolle io stessa,
onde al cospetto de'
Troiani almeno
questo segno d'onor ti sia renduto.
Così dicea piangendo,
ed al suo pianto
co' sospiri facean eco le donne.
Libro
XXIII
Mentre
in Troia si piange, all'Ellesponto
giungon gli Achivi, e spargesi
ciascuno
alla sua nave. Ma l'andar dispersi
non permise il Pelìde ai
bellicosi
suoi Mirmidóni, da cui cinto disse:
Miei diletti compagni e
cavalieri,
non distacchiamo per ancor dai cocchi
i corridori: procediam
con questi
a piagnere Patròclo, a tributargli
l'onor dovuto ai trapassati.
E quando
avrem del pianto al cor dato il diletto,
sciolti i destrieri,
appresterem le cene.
Disse, e tutti innalzâr ristretti insieme
il fùnebre
lamento, Achille il primo.
Corser tre volte colle bighe
intorno
all'estinto ululando, e ne' lor petti
destò Teti di pianto alto
desìo.
Si bagnava di lagrime l'arena,
di lagrime gli usberghi;
cotant'era
il desiderio dell'eroe perduto.
Ma fra tutti piagnea
dirottamente
Achille, e poste le omicide mani
dell'amico sul cor, Salve,
dicea,
salve, caro Patròclo, anco sotterra.
Tutto io voglio compir che ti
promisi.
D'Ettore il corpo al tuo piè strascinato
farò pasto de' cani, e
alla tua pira
dodici capi troncherò d'eletti
figli de' Teucri, di tua
morte irato.
Disse; ed opra crudel contra il divino
Ettor volgendo in suo
pensiero, il trasse
per la polve boccon presso al ferètro
del figliuol di
Menèzio: e gli altri intanto
scinsero le corrusche armi, e staccati
gli
annitrenti corsier, folti sull'alta
capitana d'Achille a lauto
desco
s'assisero. Muggìan sotto la scure
molti candidi buoi, molte
belando
cadean capre scannate e pecorelle,
e molti di pinguedine
fiorenti
cinghiai sannuti alle vulcanie vampe
venìan distesi a
brustolarsi. Il sangue
scorrea dintorno al morto in larghi rivi.
Al sommo
Atride intanto i prenci achei
scortâr vinto da' preghi, e per
l'amico
sempre d'ira infiammato il re Pelìde.
Giunti i duci alla tenda,
immantinente
ai prodi araldi Agamennón comanda
che alle fiamme un gran
tripode si metta,
onde il Pelìde indur, se gli rïesca,
a lavarsi del
sangue ogni sozzura.
Recusollo il feroce, e fermamente
giurò: Non sia per
Giove ottimo e sommo
che lavacro mi tocchi anzi ch'io ponga
l'amico mio
sul rogo, e gli consacri
sull'eretto sepolcro il crin reciso.
Ah! mai pari
dolor, fin ch'io mi viva,
in questo petto non cadrà, giammai.
Nondimeno si
segga all'abborrita
mensa: ma tu, supremo Atride, imponi
alla tua gente
che domàn per tempo
molta selva qua porti; e qual conviensi
ad illustre
defunto che nell'atra
notte discende, le cataste appresti,
onde rapido il
foco lo consumi,
e tolto agli occhi il doloroso obbietto,
tornin le
schiere ai consueti offici.
Obbedîr tutti al detto, e prontamente
poste le
mense, a convivar si diero,
e vivandò ciascuno a suo talento.
Del cibarsi
e del ber spenta la voglia,
tutti sbandârsi alle lor tende, e al
sonno
cesser le membra. Ma del mar sonante
lungo il lido si stese in mezzo
ai folti
tessali Achille su la nuda arena,
di cui l'onda gli estremi orli
lambìa.
Ivi stanco di gemiti e sospiri
e della molta in perseguendo
Ettorre
sostenuta fatica, il dolce sonno
alleggiator dell'aspre cure il
prese,
soavemente circonfuso. Ed ecco
comparirgli del misero
Patròclo
in visïon lo spettro, a lui del tutto
ne' begli occhi simìle e
nella voce,
nella statura, nelle vesti, e tale
sovra il capo gli stette, e
così disse:
Tu dormi, Achille, né di me più pensi.
Vivo m'amasti, e morto
m'abbandoni.
Deh tosto mi sotterra, onde mi sia
dato nell'Orco penetrar.
Respinto
io ne son dalle vane ombre defunte,
né meschiarmi con lor di là
dal fiume
mi si concede. Vagabondo io quindi
m'aggiro intorno alla magion
di Pluto.
Or deh porgi la man, ché teco io pianga
anco una volta: perocché
consunto
dalle fiamme del rogo a te dall'Orco
non tornerò più mai. Più non
potremo
vivi entrambi, e lontan dagli altri amici
seduti in dolci
parlamenti aprire
i segreti del cor: ché preda io sono
della Parca crudele
a me nascente
un dì sortita. E a te pur anco, Achille,
a te che un Dio
somigli, è destinato
il perir sotto le dardanie mura.
Ben ti prego, o mio
caro, e raccomando
che tu non voglia, se mi sei cortese,
dal tuo disgiunto
il cener mio. Noi fummo
nella tua reggia allor nudriti insieme
che Menèzio
d'Opunte a Ftia menommi
giovinetto quel dì che per la lite
degli astragali
irato e fuor di senno
d'Anfidamante a morte misi il figlio,
mio malgrado.
M'accolse il re Pelèo
ne' suoi palagi umanamente, e posta
nell'educarmi
diligente cura,
mi nomò tuo donzello. Una sol'urna
chiuda adunque le
nostre ossa, quell'urna
che d'ôr ti diè la tua madre divina.
A che ne
vieni, o anima diletta?
gli rispose il Pelìde; e a che
m'ingiungi
partitamente queste cose? Io tutto
che comandi farò: ma deh
t'appressa,
ch'io t'abbracci, che stretti almen per poco
gustiam la trista
voluttà del pianto.
Così dicendo, coll'aperte braccia
amoroso avventossi,
e nulla strinse,
ché stridendo calò l'ombra sotterra,
e svanì come fumo.
In piè rizzossi
sbalordito il Pelìde, e palma a palma
battendo, in suono
di lamento disse:
Oh ciel! dell'Orco gli abitanti han dunque
spirito ed
ombra, ma non corpo alcuno?
Del misero Patròclo in questa notte
sovra il
capo mi stette il sospiroso
spettro piangente, tutto desso al vivo,
e più
cose m'ingiunse ad una ad una.
Ridestâr delle lagrime la brama
queste
parole: raddoppiossi il lutto
sul miserando corpo, e l'Alba intanto
col
roseo dito l'Orïente aprìa.
Da tutte parti allor fece l'Atride
dalle
trabacche uscir giumenti e turbe
per lo trasporto del funereo bosco,
duce
il valente Merïon, del prode
Idomenèo scudier. Givan costoro
di corde
armati e di taglienti scuri
co' giumenti dinanzi. E per distorti
aspri
greppi montando e discendendo
e rimontando, agli erti boschi
alfine
giunser dell'Ida che di fonti abbonda.
Qui dier sùbita man con
affilate
bipenni al taglio dell'aeree querce
che strepitose al suol
cadeano, e poscia
legavansi spaccate in su la schiena
de' giumenti, che
ratte orme stampando
scendean bramosi d'arrivar pe' folti
roveti alla
pianura: e li seguièno
carchi il dosso di ciocchi i tagliatori;
ché tal di
Merïon era il precetto.
Giunti sul lido, scaricâr le some,
ne fêr catasta
al luogo ove il Pelìde
un tumulo sublime al morto amico
ed a se stesso
disegnato avea.
E tutta apparecchiata in questa guisa
l'immensa selva,
riposâr seduti,
nuovi cenni aspettando. Intanto Achille
ai bellicosi
Mirmidón comanda
di porsi in armi, ed aggiogar ciascuno
alle bighe i
destrier. Sursero quelli
frettolosi, e fur tutti in tutto punto.
Montan su
i cocchi aurighi e duci, e danno
alla pompa principio. Immenso un nembo
di
pedoni li segue, e a questi in mezzo
di Patròclo procede il cataletto
da'
compagni portato, che sul morto
venìan gittando le recise chiome,
di che
tutto il coprìan. Di retro Achille
colla man gli reggea la
tremolante
testa, e plorava sui fùnebri onori
con che all'Orco spedìa
l'illustre amico.
Giunti al luogo lor detto, il mesto incarco
deposero, e
a ribocco intorno a quello
adunâr pronti la funerea selva.
Recatosi in se
stesso, un altro avviso
fece allora il Pelìde. Allontanossi
dal rogo
alquanto, e il biondo si recise,
che allo Sperchio nudrìa, florido
crine,
e al mar guardando con dolor, sì disse:
Sperchio, invan ti promise
il padre mio
che tomando al natìo dolce terreno
io t'avrei tronco la mia
chioma, e offerto
una sacra ecatombe, ed immolato
cinquanta agnelli
accanto alla tua fonte
ov'hai delubro, ed odorati altari.
Del canuto Pelèo
fu questo il voto:
tu nol compiesti. Poiché dunque or tolto
n'è alla
patria il ritorno, abbia il mio crine
l'eroe Patròclo, e lo si porti
seco.
Così detto, alla man del caro amico
pose la chioma, e rinnovossi il
pianto
de' circostanti: e tra gli omei gli avrìa
colti il cader della
dïurna luce,
se non si fea davanti al grande Atride
il figlio di Pelèo con
questi accenti:
Agamennón, di lagrime potremo
satollarci altra volta. Or
tu, cui tutti
obbediscon gli Achei, tu li congeda
da questa pira, e a
ristorar li manda
colla mensa le membra. Avrem del resto
noi la cura, ché
nostro innanzi a tutti
dell'esequie è il pensiero, e rimarranno
nosco, a
tal uopo di pietade, i duci.
Udito questo, Agamennón disperse
tosto le
schiere per le tende, e soli
vi restaro i deletti al
ministero
dell'esequie e del rogo. Essi una pira
cento piedi sublime in
ogni lato
innalzâr primamente, e sovra il sommo,
d'angoscia oppressi,
collocâr l'estinto;
poi davanti alla pira una gran torma
scuoiâr di pingui
agnelle e di giovenchi,
e traendone l'adipe il Pelìde
coprìane il morto
dalla fronte al piede,
e le scuoiate vittime dintorno
gli accumolò. Da
canto indi gli pose
colle bocche sul fèretro inclinate
due di miele e
d'unguento urne ricolme.
Precipitoso ei poscia e sospiroso
sulla pira
gittò quattro corsieri
d'alta cervice, e due smembrati cani
di nove che
del sir nudrìa la mensa.
Preso alfin da spietata ira, le gole
di dodici
segò prestanti figli
de' magnanimi Teucri, e sulla pira
scagliandoli,
destò del fuoco in quella
l'invitto spirto struggitor, che il
tutto
divorasse, e chiamò con dolorosi
gridi l'amico: Addio, Patròclo,
addio
ne' regni anche di Pluto. Ecco adempite
le mie promesse: dodici
d'illustre
sangue Troiani si consuman teco
in queste fiamme, ed Ettore fia
pasto
delle fiamme non già, ma delle belve.
Queste minacce ei fea; ma
gl'incitati
mastin la salma non toccâr d'Ettorre,
ché notte e dì sollecita
la figlia
di Giove Citerea gli allontanava,
e il cadavere ugnea d'una
celeste
rosata essenza che impedìa del corpo
strascinato l'offesa. Intanto
Apollo
sul campo indusse una cerulea nube
che tutto intorno ricoprìa lo
spazio
dal cadavere ingombro, onde alle membra
e de' nervi al tessuto
innocua fosse
dell'igneo Sole la virtute attiva.
Ma del morto Patròclo il
rogo ancora
non avvampa. Allor prende altro consiglio
il divo Achille.
Trattosi in disparte,
ai due venti Ponente e Tramontana
supplicando,
solenni ostie promette,
e in aurea coppa ad ambedue libando,
di venirne li
prega, e intorno al morto
sì le fiamme animar, che in un momento
lo si
struggano tutto, esso e la pira.
Udito la veloce Iride il prego,
ai venti
lo recò, che accolti insieme
nella reggia di Zefiro un festivo
tenean
convito. S'arrestò la Diva
su la marmorea soglia, e alla sua vista
sursero
tutti frettolosi: ognuno
a sé chiamolla, ognun le offerse il seggio,
ma
ricusollo la Taumànzia, e disse:
Di seder non è tempo: alle
correnti
dell'Oceàno ritornar mi deggio
nell'etìope terreno ove
s'appresta
agl'Immortali un'ecatombe, e bramo
ne' sacrifici aver mia parte
io pure.
Ma il Pelìde te, Borea, e te, sonoro
Zefiro, prega di soffiar nel
rogo
su cui giace di Pàtroclo la spoglia
dagli Achei tutti deplorata, e
molte
vittime ei v'offre, se avvampar lo fate.
Così detto, disparve; e
quei levârsi
con immenso stridor, densate innanzi
a sé le nubi. Si sfrenâr
soffiando
sulla marina, sollevaro i flutti,
e di Troia arrivati alla
pianura,
riunâr su la pira; e strepitoso
immane incendio si destò. Dai
forti
soffii agitata divampò sublime
tutta notte la fiamma, e tutta
notte
il Pelìde da vasto aureo cratere
il vino attinse con ritonda
coppa,
e spargendolo al suol devotamente,
n'irrigava la terra, e
l'infelice
ombra invocava dell'estinto amico.
Come un padre talor piange
bruciando
l'ossa d'un figlio che morì già sposo,
e morendo lasciò gli
sventurati
suoi genitori di cordoglio oppressi;
così dando alle fiamme il
suo compagno,
geme il Pelìde, e crebri alti sospiri
traendo, intorno al
rogo si strascina.
Come poi nunzio della luce al mondo
Lucifero brillò,
dopo cui stende
sul pelago l'Aurora il croceo velo,
morì la vampa sul
consunto rogo,
e per lo tracio mar, che rabbuffato
muggìa, tornaro alle
lor case i venti.
Stanco allora il Pelìde, e dalla pira
scostatosi,
sdraiossi, e dolce il sonno
l'occupò. Ma il tumulto e il calpestìo
de'
capitani, che all'Atride in folla
si raccogliean, destollo; ei surse, e
assiso
così loro parlò: Supremo Atride,
e voi primati degli Achei,
spegnete
voi tutti or meco con purpureo vino
di tutto il rogo in pria la
brage, e poscia
raccogliam di Patròclo attentamente
le sacrate ossa; e
scernerle fia lieve,
imperocché nel mezzo ei si giacea
della catasta, e
gli altri all'orlo estremo
separati, fur arsi alla rinfusa
e uomini e
cavalli. Indi d'opimo
doppio zirbo ravvolte, in urna d'oro
le riporremo,
finché vegna il giorno
ch'io pur di Pluto alla magion discenda.
Non vo'
gli s'erga una superba tomba,
ma modesta. Potrete ampia e sublime
voi
poscia alzarla, o duci achei, che vivi
dopo me rimarrete a questa
riva.
Del Pelìde al comando obbedïenti
con larghi sprazzi di vermiglio
bacco
di tutto il rogo ei spensero alla prima
le vive brage, e giù cadde
profonda
la cenere. Adunâr quindi piangendo
del mansueto eroe le
candid'ossa;
le composer nell'urna avvolte in doppio
adipe, e dentro il
padiglion deposte,
di sottil lino le coprîr. Ciò fatto,
disegnâr presti in
tondo il monumento,
ne gittaro dintorno all'arsa pira
i fondamenti,
v'ammassâr di sopra
lo scavato terreno, e a fin condotta
la tomba, si
partìan. Ma li rattenne
il Pelìde, e lì fatto in ampio agone
il popolo
seder, de' ludi i premii
fe' dai legni recar; tripodi e vasi
e destrieri e
giumenti e generosi
tauri e captive di gentil cintiglio
e forbite
armature. E primamente
alla corsa de' cocchi il premio pose:
una leggiadra
in bei lavori esperta
donzella a chi primier tocca la meta,
con un tripode
a doppia ansa, e capace
di ventidue misure. Una giumenta
che al sest'anno
già venne, ancor non doma,
e il sen già grave di bastarda prole
al
secondo. Un lebète intatto e bello
e di quattro misure al terzo auriga;
al
quarto un doppio aureo talento, e al quinto
una coppa dal foco ancor non
tocca.
Surto in piedi allor disse: Atride, Argivi,
gioventù bellicosa, a
voi dinanzi
ecco i premii che attendono nel circo
degli aurighi il valor.
S'altra cagione
questi ludi eccitasse, i primi onori
miei per certo
sarìan, ché la prestezza
de' miei destrieri non ha pari, e voi
lo vi
sapete: perocché son essi
immortali, e donolli il re Nettunno
al mio padre
Pelèo, che a me li cesse.
Queto io dunque starommi, e queti insieme
i miei
cavalli. I miseri perduto
hanno il lor forte condottiero e mite,
che
lavarne solea le belle chiome
alla chiara corrente, ed irrorarle
di
liquid'olio rilucente; ed ora
piangonlo immoti, colle meste giubbe
al suol
diffuse, e il cor di doglia oppresso.
Chïunque degli Achei pertanto ha
speme
ne' cocchi e ne' destrier, si metta in punto.
Ciò disse appena, che
animosi e pronti
presentârsi gli aurighi; Eumelo il primo,
regal germe
d'Admeto, e delle bighe
perito agitator. Mosse secondo
il gagliardo Tidìde
Dïomède
co' destrieri di Troe tolti ad Enea,
cui da morte campò l'opra
d'Apollo.
Il biondo Menelao, sangue di Giove,
levossi il terzo, e sotto al
giogo addusse
due veloci cavalli, il suo Podargo,
ed Eta, del fratello una
puledra,
dell'aringo bramosa a meraviglia.
Donata al rege Agamennón
l'avea
l'Anchisìade Echepòlo, onde francarsi
dal seguitarlo a Troia, e
neghittoso
nell'opulenta Sicïon sua stanza
rimanersi a fruir le
concedute
dal saturnio Signor molte ricchezze.
Del magnanimo Nèstore buon
figlio
Antìloco aggiogò quarto i criniti
suoi cavalli di Pilo, ancor del
cocchio
buoni al tiro. Si trasse il vecchio padre
a lui già saggio per se
stesso, e un saggio
utile avviso gli porgea dicendo:
Antìloco, te amâr
Giove e Nettunno
giovane ancora, e t'erudîr di tutta
l'arte equestre:
perciò poco fia l'uopo
d'ammaestrarti, perocché sai destro
girar la meta:
ma son tardi al corso
i tuoi destrieri, e qualche danno io temo.
Destrier
più ratti han gli altri, ma non arte
né scïenza maggior. Dunque, o mio
caro,
tutti richiama al cor gli accorgimenti,
se vuoi che il premio da tue
man non fugga.
L'arte più che la forza al fabbro è buona;
coll'arte in mar
da venti combattuto
regge il piloto la sua presta nave,
e coll'arte il
cocchier passa il cocchiero.
Chi sol del cocchio e de' corsier si
fida,
qua e là s'aggira senza senno; incerti
divagano i cavalli, ed ei non
puote
più governarli. Ma l'esperto auriga,
benché meno valenti i suoi
sospinga,
sempre ha l'occhio alla meta, e volta stretto,
e sa come lentar,
sa come a tempo
con fermi polsi rattener le briglie,
ed osserva il rival
che lo precede.
Or la meta, perché tu senza errore
la distingua, dirò.
Sorge da terra
alto sei piedi un tronco di larìce
o di quercia che sia,
secco e da pioggia
non putrefatto ancor. Stan quinci e quindi,
dove sbocca
la via, due bianche pietre
da cui si stende tutto piano in giro
de'
cavalli lo stadio. O che sepolcro
questo si fosse d'un illustre estinto,
o
confin posto dalla prisca gente,
meta al corso lo fece oggi il Pelìde.
Tu
fa di rasentarla, e vi sospingi
vicin vicino il cocchio e i
corridori,
alcun poco piegando alla sinistra
la persona, e flagella e
incalza e sgrida
il cavallo alla dritta, e gli abbandona
tutta la briglia,
e fa che l'altro intanto
rada la meta sì che paia il mozzo
della ruota
volubile toccarla;
ma vedi, ve', che non la tocchi, infranto
n'andrebbe il
carro, offesi i corridori,
e tu deriso e di disnor coperto.
Sii dunque
saggio e cauto. Ove la meta
trascorrer netto ti rïesca, alcuno
non fia che
poi t'aggiunga o ti trapassi,
no, s'anco a tergo ti venisse a volo
quel
d'Adrasto corsier nato d'un Dio,
il veloce Arïone, o quei famosi
che qui
Laomedonte un dì nudrìa.
Divisate al figliuol distintamente
queste
avvertenze, si raccolse il veglio
nell'erboso suo seggio. Ultimo
intanto
con bella coppia di corsier superbi
Merïon nella lizza era
venuto.
Montati i carri, si gittâr le sorti.
Agitolle il Pelìde, e uscì
primiero
Antìloco; indi Eumelo, indi l'Atride,
fu quarto Merïon, quinto il
fortissimo
Dïomede. Locârsi in ordinanza
tutti, ed Achille mostrò lor
lontana
nel pian la meta a cui giudice avea
posto del padre lo scudier
Fenice
venerando vegliardo, onde notasse
le corse attento, e riferisse il
vero.
Stavano tutti colle sferze alzate
su gli ardenti destrieri, e dato
il segno,
lentâr tutti le briglie, e co' flagelli
e co' gridi animaro i
generosi
corsier che ratti si lanciâr nel campo,
e dal lido spariro in un
baleno.
Sorge sotto i lor petti alta la polve
che di nugolo a guisa o di
procella
si condensa, ed al vento abbandonate
svolazzano le giubbe. Or
vedi i cocchi
rader bassi la terra, ed or sublimi
balzarsi, né perciò
perde mai piede
degli aurighi veruno, e batte a tutti
per desiderio della
palma il core;
e in un nembo di polve ognun dà spirto
a' suoi volanti
alipedi. Varcata
la meta, e preso il rimanente corso
di ritorno alle
mosse, allor rifulse
di ciascun la prodezza, allor si stese
nello stadio
ogni cocchio. Innanzi a tutti
le puledre volavano veloci
del Ferezìade
Eumelo; e dopo queste,
ma di poco intervallo, i corridori
di Troe, guidati
dal Tidìde, e tanto
imminenti che ognor parean sul carro
montar d'Eumelo,
a cui co' fiati ardenti
già scaldano le spalle, e già le toccano
colle
fervide teste. E oltrepassato
forse l'avrebbe, o pareggiato almeno,
se al
figlio di Tidèo Febo la palma
invidïando, non gli fea sdegnoso
balzar dal
pugno la lucente sferza.
Lagrime d'ira e di dolor le gote
inondâr
dell'eroe, vista d'Eumelo
lontanarsi più rapida la biga,
e per difetto di
flagel più lenta
correr la sua. Ma Pallade d'Apollo
scorta la frode, e del
Tidìde il danno,
presta a lui corse, e alla sua man rimessa
la sferza,
aggiunse ai corridor la lena.
Indi al figlio d'Admeto avvicinossi
irata, e
il giogo gli spezzò. Turbate
si svïar le cavalle, andò per terra
il timon,
riversossi il cavaliero
presso alla ruota, e il cubito e la
bocca
lacerossi e le nari, e su le ciglia
n'ebbe pesta la fronte: le
pupille
s'empîr di pianto, s'arrestò la voce,
e Dïomede il trapassò
sferzando
gli animosi destrier che innanzi a tutti
scappan di molto,
perocché Minerva
gli afforza, e vincitor vuole il Tidìde.
Vien dopo questi
Menelao cui preme
di Nèstore il figliuol che confortando
i paterni
destrier, grida: Correte,
stendetevi prestissimi: non io
già vi comando
gareggiar con quelli
del forte Dïomède, a' quai Minerva
diè l'ali al
piede, e a lui la palma: solo
raggiungete l'Atride, e non
soffrite
restando addietro, ch'Eta, una giumenta,
vi sorpassi di corso e
disonori.
Che lentezza s'è questa? ov'è l'antica
vostra prestanza? Io lo
vi giuro, e il giuro
s'adempirà; se pigri un premio vile
riporterem,
negletti, anzi trafitti
da Nèstore sarete. Or via, volate,
ch'io di
astuzia giovandomi senz'erro
trapasserò l'Atride nello stretto.
Antìloco
sì disse, e quei temendo
le sue minacce rinforzaro il corso;
ed ecco dopo
poco il passo angusto
del concavo cammin. V'era una frana
ove l'acqua
invernal, raccolta in copia,
dirotta avea la strada, e tutto
intorno
affondato il terren. Per quella parte
si drizzava l'Atride, onde
il concorso
ischivar delle bighe. Ivi si spinse
Antìloco pur esso; e
devïando
dalla carriera un cotal poco, e forte
flagellando i corsier, lo
stringe, e tenta
prevenirlo. Temettene l'Atride,
e gridò: Dove vai, pazzo?
rattieni,
Antìloco, i destrier: stretta è la via.
Aspetta che s'allarghi,
e trapassarmi
potrai: qui entrambi romperemo i cocchi.
Antìloco non l'ode,
e stimolando
più veemente i corridor, s'avanza.
Quanto è il tratto d'un
disco da robusto
giovin scagliato per provar sue forze,
tanto trascorse la
nestòrea biga.
Iscansossi l'Atride, e volontario
i suoi destrieri
rallentò, temendo
che da quegli altri urtati in quello stretto
non gli
versino il cocchio, e al suol stramazzino
essi medesmi nel voler per
troppo
amor di lode acccelerarsi. Intanto
dietro al figlio di Nèstore
l'Atride
gridar s'udiva: Antìloco, non avvi
il più tristo di te: va pure:
a torto
noi saggio ti tenemmo: ma tu premio
non toccherai, per dio! se
pria non giuri.
Quindi animando i suoi corsier, dicea:
non v'impigrite,
non mi state afflitti;
pria di voi perderan quelli la lena,
ch'ei son
vecchi ambidue. - Così lor grida,
e docili i destrieri alla sua
voce
doppiaro il corso, e tosto li raggiunsero.
Nel circo assisi intanto i
prenci achei
stavansi attenti ad osservar da lungi
i volanti cavalli che
nel campo
sollevavan la polve. Idomeneo
re de' Cretesi gli avvisò
primiero,
che fuor del circo si sedea sublime
a una vedetta. E di lontano
udita
del primo auriga che venìa, la voce,
lo conobbe, e distinse il
precorrente
destrier che tutto sauro in fronte avea
bianca una macchia,
tonda come luna.
Rizzossi in piedi, e disse: O degli Achei
prenci amici,
m'inganno, o ravvisate
quei cavalli voi pure? Altri mi sembrano
da quei di
prima, ed altro il condottiero.
Le puledre che dianzi eran davanti
forse
sofferto han qualche sconcio. Al certo
girar primiere le vid'io la
meta;
or come che pel campo il guardo io volga,
più non le scorgo. O che
scappâr di mano
all'auriga le briglie, o ch'ei non seppe
rattenerne la
foga, e non fe' netto
il giro della meta. Ei forse quivi
cadde, e infranse
la biga, e le cavalle
deviâr furïose. Or voi pur anco
alzatevi e guardate:
io non discerno
abbastanza; ma parmi esser quel primo
l'ètolo prence
argivo Dïomede.
Che vai tu vaneggiando? aspro riprese
Aiace d'Oilèo.
Quelle che miri
da lungi a noi volar son le puledre.
Più non sei
giovinetto, o Idomenèo:
la vista hai corta, e ciance assai, né il
farne
molte t'è bello ov'altri è più prestante.
Quelle davanti son, qual
pria, d'Eumelo
le puledre, e ne regge esso le briglie.
E a lui cruccioso
de' Cretesi il sire:
Malèdico rissoso, in questo solo
tra noi valente, ed
ultimo nel resto,
villano Aiace, deponiam su via
un tripode o un lebète, e
Agamennóne
giudichi e dica che corsier sian primi,
e pagando il saprai.
Sorgea parato
a far risposta con acerbi detti
lo stizzito Oilìde, e la
contesa
crescea: ma grave la precise Achille:
Fine, o duci, a un ontoso ed
indecoro
parlar che in altri biasmereste. In pace
sedetevi e guardate. I
gareggianti
corridori son presso, e voi ben tosto
chi sia primo saprete, e
chi secondo.
Fra questo dire, a furia ecco il Tidìde
avanzarsi, e le
groppe senza posa
tempestar de' cavalli che sublimi
divorano la via.
Schizzi di polve
incessanti percuotono l'auriga.
D'ôr raggiante e di
stagno si rivolve
dietro i ratti corsier sì lieve il cocchio
che appena
vedi della ruota il solco
nella sabbia sottil. Giunto alle mosse,
fra le
plaudenti turbe il vincitore
fermossi. Un rivo di sudor dal collo
e dal
petto scorrea degli anelanti
corsieri, ed esso dal lucente carro
leggier
d'un salto al suol gittossi, e al giogo
lo scudiscio appoggiò. Né stette a
bada
Stenelo, il forte suo scudier, che pronto
il tripode si tolse e la
donzella
premio del corso, e consegnato il tutto
ai prodi amici, i
corridor disciolse.
Secondo giunse Antìloco che avea
non per rattezza di
destrier precorso
Menelao, ma per arte; e nondimeno
questi a tergo gli è
sì, che quasi il tocca.
Quanto si scosta dalla ruota il piede
di corsier
che pel campo alla distesa
tragge sul cocchio il suo signor, lambendo
co'
crini estremi della coda il cerchio
del volubile giro che diviso
da minimo
intervallo ognor si volve
dietro i rapidi passi; iva l'Atride
sol di tanto
discosto allor dal figlio
di Nèstore, quantunque egli da prima
fosse
rimasto un trar di disco indietro.
Ma dell'agamennònia Eta fu tale
la
prestezza e il valor, che tosto il giunse.
E l'avrìa pure oltrepassato, e
fatta
non dubbia la vittoria, ove più lunga
stata si fosse d'ambedue la
corsa.
Seguìa l'Atride Merïon, preclaro
scudier d'Idomenèo, distante il
tiro
d'una lancia, perché belli, ma pigri
i corridori egli ebbe, e perché
desso
era il men destro nel guidar la biga.
Ultimo ne venìa d'Admeto il
figlio,
a stento il cocchio traendo, e dinanzi
cacciandosi i destrieri. Lo
compianse,
come lo vide, Achille, e circondato
dagli Achei, profferì
queste parole:
Ultimo giunge il più valente. Or via,
diamgli il premio
secondo; egli n'è degno.
Ma il primo al figlio di Tidèo si resti.
Lodâr
tutti il decreto, e fra gli applausi
degli Achei sull'istante egli
donata
la giumenta gli avrìa, se posta in campo
la sua ragione Antìloco al
Pelìde
non si volgea dicendo: Achille, io teco
mi corruccio davver, se il
tuo disegno
metti ad effetto. Perché un Dio gli offese
i cavalli ed il
cocchio, e non gli valse
la sua prodezza, mi vorrai tu dunque
il mio
premio rapir? Ché non pors'egli
prima ai numi i suoi voti? Ei non
sarìa
ultimo giunto nell'illustre aringo.
Ché se di lui pietà ti move, e
questo
al cor t'è grato, nella tenda hai molte
d'auro e bronzo conserve,
hai molto gregge,
hai fanciulle e cavalli. E tu il presenta
di queste
cose, e sian maggiori ancora,
ma in altro tempo, o se il vuoi, pure
adesso,
onde ten vegna degli Achei la lode.
Ma questa io non vo' darla, e
dovrà meco
sperimentarsi ogni uom che la pretenda.
Delle franche
d'Antìloco parole
compiaciuto, sorrise il divo Achille,
cui caro amico
egli era; e gli rispose:
Antìloco, tu vuoi che s'abbia Eumelo
di ciò che
in serbo io tengo, altro presente;
e l'avrà. Gli darò d'Asteropeo
la di
bronzo lorica, a cui dintorno
scorre un bell'orlo di fulgente
stagno;
lavoro di gran pregio. - E così detto,
al suo fedele Automedonte
impose
di recar dalla tenda la lorica.
Volò quegli, e recolla al suo
signore
che in man la pose dell'allegro Eumelo.
Contro Antìloco allor
surse il cor pieno
di doglia e d'ira Menelao. L'araldo
misegli tosto nelle
man lo scettro,
e silenzio intimò. Quindi l'eroe
così a dir prese: O tu,
che per l'innanzi
grido avevi di saggio, che facesti?
Disonestasti, o
Antìloco, la mia
gloria, e cacciati per inganno avanti
li tuoi corsieri
assai da meno, i miei
sconciamente offendesti. Or voi qui fate,
prenci
achivi, ragione ad ambedue
senza rispetti; ch'io non vo' che poi
dica
qualcuno degli Achei: L'Atride
colle menzogne Antìloco aggravando
via la
giumenta si menò, vincendo
di cavalli non già, ma di possanza
e di forza.
Ma che? Senza paura
di biasmo io stesso finirò la lite,
e fia retto il
giudizio. Orsù, t'accosta,
prode alunno di Giove, e giusta il rito
statti
innanzi alla biga, e d'una mano
impugnando la sfera agitatrice,
e sì
coll'altra i corridor toccando,
giura a Nettunno non aver volente
né con
frode impedito il cocchio mio.
Re Menelao, mi compatisci, accorto
l'altro
rispose: giovinetto ancora
son io: tu d'anni e di virtù mi vinci,
e
dell'etade giovanil ben sai
i difetti: cuor caldo e poco senno.
Siimi
dunque benigno. Ecco a te cedo
l'ottenuta giumenta; e s'altro brami
del
mio, darollo di cuor pronto, e tosto,
anzi che l'amor tuo per sempre, o
prence,
perdere e farmi ai sommi iddii spergiuro.
Sì dicendo, di Nèstore
il buon figlio
la giumenta condusse, ed alle mani
la ponea dell'Atride a
cui di gioia
intenerissi il cor. Siccome quando
su i sitibondi culti la
rugiada
spargesi e avviva le crescenti spighe:
a te del pari, o Menelao,
nel petto
si sparse la letizia, e dolcemente
gli rispondesti: Antìloco, a
te cedo,
deposta l'ira, io stesso. Unqua non fosti
né leggier né bizzarro.
Oggi fu vinto
da sconsigliata giovinezza il senno.
Ma il ben guardarsi
dagl'inganni è bello
co' maggiori. Nessun m'avrìa placato
sì facilmente
degli Achei: ma molto
coll'egregio tuo padre e col fratello
per mia cagion
tu soffri, e molto sudi;
perciò m'arrendo al tuo pregare, e questa,
ch'è
mia, ti dono, a fin che ognun si vegga
che né fier né superbo ho il cor nel
petto.
Diè, ciò detto, d'Antìloco al compagno
Nöemón la giumenta, indi si
tolse
il fulgido lebète; e Merïone,
che quarto giunse, i due talenti
d'oro.
Restava il quinto guiderdon, la coppa.
La prese Achille, e
traversando il pieno
circo, accostossi al buon Nestorre, e
lieto
presentolla all'eroe con questi accenti:
Tieni, illustre vegliardo,
e questo dono
ricordanza ti sia delle funèbri
pompe del nostro Pàtroclo,
cui, lasso!
non rivedrem più mai. Questo vogl'io
che gratuito sia, poiché
del cesto,
e dell'arco il certame e della lotta,
e del corso pedestre a te
si vieta
dalla triste vecchiezza che ti grava.
Tacque, e la coppa fra le
man gli mise.
Lieto il veglio accettolla, e sì rispose:
Ben parli, o
figlio: le mie forze tutte
sono inferme, o mio caro: il piè va
lento:
dispossato mi pende dalle spalle
l'un braccio e l'altro. Oh!
giovine foss'io
e intero di vigor siccome il giorno
che in Buprasio gli
Epei diero al sepolcro
il rege Amarincèo, proposti i ludi
dai regali suoi
figli! Ivi nessuno
né degli Epei né de' medesmi Pilii
pari mi stette di
valor, né manco
de' magnanimi Etòli. Io vinsi al cesto
il figliuolo
d'Enòpe Clitomède,
Alceo Pleurònio nella lotta a cui
m'avea sfidato:
superai nel corso
l'agile Ificlo, e nel vibrar dell'asta
Polidoro e Filèo.
Soli all'equestre
lizza innanzi m'andâr d'Attore i figli,
che due contr'un
gelosi invidiârmi
una vittoria d'infinito prezzo.
Indivisi gemelli, uno
reggeva
sempre sempre i destrier, l'altro di sferza
li percotea. Tal fui
già tempo: or lascio
siffatte imprese ai giovinetti, e forza
m'è
l'obbedire alla feral vecchiezza.
Ma tra gli eroi fui chiaro anch'io. Tu
segui
del morto amico ad onorar la tomba
co' fùnebri certami. Il tuo bel
dono
m'è caro, e il prendo. Mi gioisce il core
al veder che di me, che
t'amo, ognora
sei memore, e sai quale al mio canuto
crine si debba dagli
Achivi onore:
di ciò ti dien gli Dei larga mercede.
Tutta udita di Nestore
la lode,
entrò il Pelìde nella calca, e il duro
pugilato propose. Addur si
fece
ed annodar nel circo una gagliarda
infaticabil mula, a cui già il
sesto
anno fiorìa, non doma, ed a domarsi
malagevole: premio al
vincitore.
Pel vinto pose una ritonda coppa.
Indi surse, e parlava:
Atridi, Achei,
ecco i premii alli due che valorosi
vorranno al cesto
perigliarsi. Quegli,
cui doni amico la vittoria il figlio
di Latona, e
l'affermino gli Achei,
s'abbia la mula, e il perditor la coppa.
Disse, e
un uom si levò forte, membruto,
pugilatore assai perito, Epèo,
di Panope
figliuol. Stese alla mula
costui la mano, e favellò: S'accosti
chi vuol la
coppa, ché la mula è mia.
Niun degli Achivi vincerammi, io spero,
nel
certame del cesto, in che mi vanto
prestantissimo. E che? forse non
basta
che agli altri io ceda in battagliar? Non puote
a verun patto un
solo esser di tutte
arti maestro. Io vel dichiaro, e il fatto
proverà ciò
che dico: al mio rivale
spezzerò il corpo e l'ossa. Abbia vicino
molti
assistenti a trasportarlo pronti
fuor della lizza da mie forze
domo.
Tacque, e tutti ammutiro. Eravi un figlio
del Taleònio Mecistèo, di
quello
che un dì nell'alta Tebe ai sepolcrali
ludi venuto del defunto
Edippo,
tutti vinse i Cadmei. Costui di nome
Eurïalo, e guerrier di divo
aspetto,
fu il solo che s'alzò. Molto dintorno
gli si adoprava il grande
Dïomede,
e co' detti il pungea, lui desïando
vincitore. Egli stesso al
fianco il cinto
gli avvinse, e il guanto gli fornì di duro
cuoio, già
spoglia di selvaggio bue.
Come in punto si furo, ambi nel
mezzo
presentârsi gli atleti, e sollevate
l'un contra l'altro le robuste
pugna,
si mischiâr fieramente. Odesi orrendo
sotto i colpi il crosciar
delle mascelle,
e da tutte le membra il sudor piove.
Il terribile Epèo con
improvvisa
furia si scaglia all'avversario, e mentre
questi bada a mirar
dove ferire,
Epèo la guancia gli tempesta in guisa,
che il meschin più non
regge, e balenando
con tutto il corpo si rovescia in terra.
Qual di Borea
al soffiar l'onda sul lido
gitta il pesce talvolta, e lo risorbe;
tale
l'invitto Epèo stese al terreno
il suo rivale, e tosto generosa
la man gli
porse, e il rïalzò. Pietosi
accorsero del vinto i fidi amici
che fuor del
circo lo menâr gittante
atro sangue, e i ginocchi egri traente
col capo
spenzolato, ed in disparte
condottolo, il posâr de' sensi uscito:
ed altri
intorno gli restaro, ed altri
a tor ne giro la ritonda coppa.
Tronco
ogn'indugio, Achille il terzo giuoco
propose, il giuoco della dura
lotta,
e de' premii fe' mostra; al vincitore
un tripode da fuoco, e a cui
di dodici
tauri il valore dagli Achei si dava,
ed al perdente una
leggiadra ancella
quattro tauri estimata, e che di molti
bei lavori
donneschi era perita.
Rizzossi Achille, e a quegli eroi rivolto,
Sorga,
disse, chi vuole in questo ludo
del suo valor far prova.
Immantinente
surse l'immane Telamònio Aiace,
e il saggio mastro delle
frodi Ulisse.
Nel mezzo della lizza entrambi accinti
presentârsi, e
stringendosi a vicenda
colle man forti s'afferrâr, siccome
due travi che
valente architettore
congegna insieme a sostener d'eccelso
edificio il
colmigno, agli urti invitto
degli aquiloni. Allo stirar de' validi
polsi
intrecciati scricchiolar si sentono
le spalle, il sudor gronda, e spessi
appaiono
pe' larghi dossi e per le coste i lividi
rosseggianti di sangue.
Ambi del tripode
a tutta prova la conquista agognano,
ma né Ulisse può mai
l'altro dismuovere
e atterrarlo, né il puote il Telamònio,
ché del rivale
la gran forza il vieta.
Gli Achei noiando omai la zuffa, Aiace
all'emolo
guerrier fe' questo invito:
Nobile figlio di Laerte, in alto
sollevami, o
sollevo io te: del resto
abbia Giove la cura. E così detto,
l'abbranca, e
l'alza. Ma di sue malizie
memore Ulisse col tallon gli sferra,
al
ginocchio di retro ove si piega,
tale un sùbito colpo, che le
forze
sciolse ad Aiace, e resupino il gitta
con Ulisse sul petto. Alto
levossi
de' riguardanti stupefatti il grido.
Tentò secondo il sofferente
Ulisse
alzar da terra l'avversario, e alquanto
lo mosse ei sì, ma non
alzollo. Intanto
l'altro gl'impaccia le ginocchia in guisa
che sossopra
ambedue si riversaro
e lordârsi di polve. E già risurti
sarìano al terzo
paragon venuti,
se il figlio di Pelèo levato in piedi
non l'impedìa,
dicendo: Oltre non vada
la tenzon, né vi state, o valorosi,
a consumar le
forze. Ambo vinceste,
e v'avrete egual premio. Itene, e resti
agli altri
Achivi libero l'aringo.
Obbedîr quegli al detto, e dalle membra
tersa la
polve, ripigliâr le vesti.
Pose, ciò fatto, i premii alla pedestre
corsa:
al primo un cratere ampio d'argento,
messo a rilievi, contenea sei
metri,
né al mondo si vedea vaso più bello.
Era d'industri artefici
sidonii
ammirando lavoro, e per l'azzurre
onde ai porti di Lenno
trasportato
l'avean fenicii mercatanti, e in dono
cesso a Toante. A
Pàtroclo poi diello
il Giasònide Eunèo, prezzo del figlio
di Prìamo
Licaone: ed or l'espose
premio il Pelìde al vincitor del corso
in onor
dell'amico. Un grande e pingue
tauro al secondo; all'ultimo d'ôr
mette
mezzo talento, e ritto alza la voce:
Sorga chi al premio delle corse
aspira.
E sursero di sùbito il veloce
Aiace d'Oilèo, lo scaltro
Ulisse,
e il Nestòride Antìloco, il più ratto
de' giovinetti achei. Posti
in diritta
riga alle mosse, additò lor la meta
il Pelìde, e diè il segno.
In un baleno
s'avventâr dalla sbarra, e innanzi a tutti
l'Oilìde
spiccossi: Ulisse a lui
vicino si spingea quanto di snella
tessitrice al
sen candido la spola,
quando presta dall'una all'altra mano
la gitta, e
svolge per la trama il filo,
e sull'opra gentil pende col petto:
così
l'incalza Ulisse, e col seguace
piè ne preme i vestigi anzi che s'alzi
il
polverìo dintorno; e sì correndo
gli manda il fiato nella nuca. Un
grido
sorge di plauso d'ogni parte, e tutti
gli fan cuore alla palma a cui
sospira.
Eran del corso ormai presso alla fine,
quando a Minerva l'Itaco
dal core
mandò questa preghiera: Odimi, o Dea,
e soccorri al mio piè. - La
Dea l'intese,
gli fe' lievi le membra, i piè, le braccia;
e come fur per
avventarsi entrambi
ad un tempo sul premio, l'Oilìde
da Minerva sospinto
sdrucciolò
in lubrico terren sparso del fimo
de' buoi mugghianti dal
Pelìde uccisi
di Pàtroclo alla pira. Ivi il caduto
nari e bocca
insozzossi. Il precorrente
divo Ulisse il cratere ampio si prese,
e
l'Oilìde il bue. Della selvaggia
fera il corno impugnò l'eroe doglioso,
la
lordura sputando, e fra la turba
ruppe in questo lamento: Empio
destino!
Per certo i piedi mi rubò la Dea
che da gran tempo va d'Ulisse al
fianco,
e qual madre sel guarda. - Accompagnaro
tutti il suo cruccio con
un dolce riso.
Ultimo giunto Antìloco si tolse
l'ultimo premio, e
sorridendo disse:
Amici, i numi, lo vedete, onorano
i provetti mortali.
Aiace innanzi
mi va di poca etade: Ulisse al tempo
de' nostri padri è
nato, e nondimeno
egli è rubizzo e verde, e nullo al corso
superarlo
potrìa, tranne il Pelìde.
Questo sol disse: e l'esaltato Achille
così
rispose: Antìloco, non fia
detta invan la tua lode. Eccoti d'oro
altro
mezzo talento. - E sì dicendo
gliel porse, e quegli giubilando il
prese.
Dopo ciò, fe' recarsi, e nell'arena
depose Achille una
lunghissim'asta,
uno scudo ed un elmo, armi rapite
già da Patròclo a
Sarpedonte; e ritto
nel mezzo degli Achei, Vogliamo, ei disse,
che per
l'esposto guiderdone armati
due guerrieri de' più forti con
acuto
tagliente acciar davanti all'adunanza
combattano. Chi pria punga la
pelle
dell'avversario, e rotte l'armi, il sangue
ne tragga, avrassi questo
brando in dono
di tracia lama, e bello e tempestato
d'argentei chiovi. Di
quest'arme io stesso
Asteropèo spogliai. L'altre saranno
premio comune. Ai
combattenti io poscia
nelle tende farò lauto banchetto.
Surse subitamente
al fiero invito
lo smisurato Telamònio Aiace,
surse del par l'invitto
Dïomède,
e armatisi in disparte ambo nel campo
pronti alla pugna s'avanzâr
gli eroi
con terribili sguardi. Alto stupore
tutti occupava i circostanti
Achei.
L'uno all'altro appressati a fiero assalto
si disserrâr tre volte,
e tre alla vita
impetuosi s'investîr. Primiero
Aiace traforò di
Dïomède
il rotondo brocchier, ma non la pelle
dall'usbergo difesa. Indi il
Tidìde
sopra la penna dello scudo all'altro
spinse rapido l'asta, e nella
strozza
gliel'appuntò. D'Aiace al fier periglio
spaventârsi gli Achivi, e
della pugna
gridâr la fine, e premio egual. Ma il brando
col bel cinto
l'eroe diello al Tidìde.
Grezzo, qual già dalla fornace uscìo,
un gran
disco il Pelìde allor nel mezzo
collocò. Lo solea l'immensa forza
scagliar
d'Eezïone; a costui morte
diè poscia il divo Achille, e nelle navi
con
altre spoglie si portò quel peso.
Ritto alzossi, e gridò: Sorga chi
brama
così bel premio meritarsi. In questo
il vincitor s'avrà per cinque
interi
giri di Sole di che all'uopo tutto
provveder de' suoi campi anche
remoti:
né suoi bifolchi né pastori andranno
per bisogno di ferro alla
cittade,
ché questo ne darà quanto è mestiero.
Levossi il bellicoso
Polipete;
levossi Leontèo, forza divina;
levossi Aiace Telamònio, e
seco
il muscoloso Epèo. Locârsi in fila,
e primo Epèo scagliò l'orbe
rotato,
ma sì mal destro, che ne rise ognuno.
Il rampollo di Marte
Leontèo
fu secondo a lanciar: terzo il gran figlio
di Telamone, che con
man robusta
ogni segno passò: quarto alla fine
con fermo polso Polipete il
disco
afferrò. Quanto lungi un pastorello
gitta il vincastro che rotato in
alto
vola sopra l'armento; andò di tanto
fuor del circo il suo tiro.
Applause tutto
il consesso: affollârsi i fidi amici
del forte Polipete, e
alla sua nave
portâr del disco la pesante massa.
Invitò quindi i
saettieri, e in mezzo
dieci bipenni espose e dieci accette;
e piantato
lontano nell'arena
un albero navale, avvinse a questo
con sottil fune al
piede una colomba,
segno alle frecce. Le bipenni prenda
chi l'augel
coglie, e le si porti. Quello
che il fallisca, e a toccar vada la
fune,
essendo inferïor, s'abbia l'accette.
Ciò detto appena, presentossi
il forte
re Teucro, e Merïon d'Idomenèo
prode sergente, e in un sonoro
elmetto
agitate le sorti, uscì primiero
Teucro, e tosto lo stral tirò di
forza.
Ma perché non aveva votata a Febo
di primo-nati agnelli
un'ecatombe,
sfallì l'augello (ché tal lode il Dio
gl'invidïò); sol colse
al piè la fune
che legato il tenea. Tagliolla il dardo;
libera la colomba
a volo alzossi
per lo cielo, e fuggì; cadde la fune,
e di plausi sonar
s'udìa l'arena.
Ratto allora di mano a Teucro tolse
Merïon l'arco, e ben
presa la mira
colla cocca sul nervo, al saettante
nume promise
un'ecatombe; e in alto
adocchiata la timida colomba
che in vario giro
s'avvolgea, la colse
sotto l'ala. Passolla il dardo acuto,
e ricadde, e
s'infisse alto nel suolo
di Merïone al piè. Ma la ferita
colomba si posò
sovra l'antenna,
stese il collo, abbassò l'ali diffuse,
e dal corpo volata
la veloce
alma, dal tronco piombò. Stupefatte
guardavano le turbe. Allor
si tolse
le scuri Merïon, Teucro l'accette.
Produsse Achille all'ultimo
nel mezzo
una lunga lunga asta, ed un lebète
non vïolato dalle fiamme
ancora,
del valore d'un tauro, e sculto a fiori,
premio alla prova delle
lance. Alzossi
l'ampio-regnante Atride Agamennóne
e il compagno fedel del
re cretese
Merïon. Ma levatosi il Pelìde,
trasse innanzi, e parlò: Figlio
d'Atrèo,
sappiam noi tutti come tutti avanzi
e nel vibrar dell'asta e
nella possa.
Prenditi dunque questo premio, e il manda
alla tua nave. A
Merïon daremo,
se il consenti, la lancia; ed io ten prego.
Acconsentì
l'Atride. A Merïone
diede Achille la lancia, ed all'araldo
d'Agamennón lo
splendido lebète.
Libro
XXIV
Finiti
i ludi, s'avviâr le sciolte
turbe alle navi per diverse vie,
e preso il
cibo, a placido riposo
s'abbandonâr. Ma memore il Pelìde
dell'amato
compagno, in nuovo pianto
scioglieasi, né serrar poteagli il sonno,
di
tutte cure domator, le ciglia.
Di qua, di là si rivolgea membrando
il
valor di Patròclo, e la grand'alma,
e le comuni imprese, e i
tollerati
guerrieri affanni insieme, e i perigliosi
trascorsi flutti. E in
queste ricordanze
dirottamente lagrimava, ed ora
giacea su i fianchi, or
prono, ora supino;
poi di repente in piè balzato errava
mesto sul lido. E
quando i campi e l'onde
illumina l'Aurora, egli di nuovo,
aggiogati i
corsier, di retro al cocchio
Ettore avvince, e trattolo tre volte
di
Pàtroclo dintorno al monumento,
a riposar si torna entro la tenda,
boccon
lasciando nella polve steso
l'esangue corpo. Ma del morto eroe
impietosito
Apollo ogni bruttura
ne tien rimossa, e tutto coll'aurata
egida il copre,
perché nulla offesa
lo strascinato corpo ne riceva.
Visto del divo Ettòr
lo strazio indegno,
pietà ne venne ai fortunati Eterni,
e il vegliante
Argicida ad involarlo
incitando venìan. Questo di tutti
era il vivo desìo,
ma non di Giuno,
né di Nettunno, né dell'aspra vergine
dall'azzurre
pupille. Alto riposta
nella mente sedea di queste Dive
di Paride
l'ingiuria, e la sprezzata
lor beltade quel dì che a lui venute
nel suo
tugurio, ei preferì lor quella
che di funesto amor contento il
fece.
Quindi l'odio immortal delle superbe
contro le sacre ilìache mura, e
Prìamo
e tutta insieme la dardania gente.
Ma il duodecimo sole apparso al
mondo,
Febo agli Eterni così prese a dire:
Numi crudeli, che vi fece
Ettorre?
Forse che su gli altari a voi non arse
e di mugghianti e di
lanosi armenti
vittime elette ei sempre? Ed or che fiera
morte lo spense,
che furor s'è questo
di non renderne il corpo alla consorte,
alla madre,
al figliuolo, al genitore,
al popol tutto, acciò che tosto ei
s'abbia
l'onor del rogo e della tomba? E tante
onte a qual fine? Per
servir d'Achille
alle furie; d'Achille, a cui nel seno
né amor del giusto
né pietà s'alberga,
ma cuor selvaggio di lïon che spinto
dall'ardir, dalla
forza e dalla fame
il gregge assalta a procacciarsi il cibo.
Tale il
Pelìde gittò via dal petto
ogni senso pietoso, e quel pudore
che l'uom
castiga co' rimorsi e il giova.
Perde taluno ancor più cari oggetti,
il
fratello od il figlio. E nondimeno,
finito il pianto, al suo dolor dà
tregua;
ché nell'uom pose il Fato alma soffrente.
Ma non sazio costui
della già spenta
vita d'Ettorre, al carro il lega, e morto
pur dintorno
alla tomba lo strascina
dell'amico. Non è questo per lui
né utile né
bello: e badi il crudo
che, quantunque sì prode, egli le nostre
ire non
desti infurïando e tanta
onta facendo a un'insensibil terra.
Tacque: e
irata Giunon così rispose:
Se d'Ettore e d'Achille a una bilancia
l'onor
dee porsi, e così piace ai numi,
s'adémpia, o re dell'arco, il tuo
discorso.
Ma di padre mortale Ettore è figlio,
e mortal poppa l'allattò.
Divino
germe è il Pelìde, ed io nudrìa la Diva
sua madre, io stessa
l'educava, e sposa
la concessi a Pelèo diletto ai numi.
Voi tutti a quelle
nozze, o Dei, scendeste,
e tu medesmo, o disleal compagno
de' malvagi,
toccasti allor la cetra,
e misto agli altri banchettasti allegro.
Contro
gli Dei non adirarti, o Giuno,
l'interruppe il Tonante. Eguale onore
dar
non vuolsi, no certo, ai due guerrieri;
ma carissimo ai numi era pur
anco
tra i Teucri tutti Ettorre, e a Giove in prima.
Ostie elette mai
sempre gli m'offerse,
né l'are mie per esso ebber difetto
mai di convivii,
né di pingui odori,
né di tazze libate, onor che solo
ai Celesti è
sortito. Ma si ponga
ogni pensiero d'involar l'offeso
cadavere; e
sottrarlo ora di furto
al fiero Achille non si può, ché Teti
notte e dì
gli è dintorno e tutto osserva.
Pur se alcuno di voi Teti a me chiami,
io
tale un motto le farò discreto,
che tutti accetterà di Prìamo i
doni
placato Achille, e renderagli il figlio.
Disse, ed Iri col piè che le
tempeste
nel corso adegua, si spiccò. Fra Samo
e l'aspra Imbro calò sovra
le brune
onde del mare, e il mar sotto le piante
della Diva muggìa. Quindi
s'immerse
come ghianda di piombo che a bovino
corno fidata a disertar giù
scende
i crudivori pesci; e in cavo speco
Teti trovò che dalle sue
sorelle
circondata piagnea la già vicina
morte del figlio che ne' frigii
campi
perir lungi dovea dal patrio lido.
Le parve innanzi all'improvviso,
e disse:
Sorgi, o Teti: il gran padre a sé ti chiama.
E che vuole da me
l'Onnipotente?
Teti rispose. Afflitta, come sono,
di mischiarmi arrossisco
agl'Immortali.
Pur vadasi e s'adémpia il suo volere.
Ciò detto, si coprì
l'augusta Diva
d'un atro vel di che null'altro il nero
color lugùbre
eguaglia, e in via si mise.
Iva innanzi la presta Iri, e sonora
intorno a
lor s'apria l' onda marina.
Sul lido emerse al ciel volaro: e Giove
trovâr
seduto tra gli accolti Eterni.
Qui Teti accanto al sommo Iddio
s'assise
(cesso a lei da Minerva il proprio seggio):
un aureo nappo in man
Giuno le pose
con dolci accenti di conforto; ed ella
vôtollo, e il rese
grazïosa. Allora
il gran padre dicea queste parole:
Teti, malgrado il tuo
dolor (ch'io tutto
ben conosco e so quanto il cor t'aggrava),
tu salisti
all'Olimpo, ed io dirotti
la cagion del chiamarti. È questo il nono
giorno
che in cielo si destò tra i numi
pel morto Ettòr gran lite e per
Achille.
Voleano i più che l'Argicida il corpo
n'involasse di furto. Io
non v'assento
e per l'onor d'Achille, e pel rispetto
e per l'amor ch'io
t'aggio e aver ti voglio
eternamente. Frettolosa adunque
scendi, o Diva,
sul campo, e al figlio porta
i miei precetti. Digli che adirati
son con
esso gli Dei, ch'io stesso il sono
sovra tutti, da che sì furibondo
agli
strazii ei rattien l'ettòrea salma,
e per riscatto non la rende ancora.
Ma
renderalla, se il mio cenno ei teme.
A Prìamo intanto io spedirò di
Giuno
la messaggiera, ond'egli immantinente
ito alle navi degli Achei, co'
doni
plachi il Pelìde, e il figlio suo redima.
Obbedïente a quel parlar la
Diva
mosse i candidi piedi, e dall'Olimpo
scese d'un salto al padiglion
d'Achille.
Il trovò sospiroso; affaccendati
a lui dintorno i suoi diletti
amici
apprestavan la mensa, ucciso un grande
e lanoso arïète. Entrò,
s'assise
dolce al suo fianco la divina madre,
accarezzollo colla destra, e
disse:
E fino a quando, o figlio, in pianti e lutti
ti struggerai,
immemore del cibo,
e deserto nel letto? Eppur di cara
donna l'amplesso il
cor consola: il tempo,
ch'a me vivrai, gli è breve, e vïolenta
già
t'incalza la Parca. Or via, m'ascolta,
ch'io di Giove a te vengo
ambasciatrice.
I numi, ed esso primamente, sono
teco irati, perché nel tuo
furore
ostinato ritieni appo le navi
d'Ettore il corpo, e al genitor nol
rendi.
Rendilo, e il prezzo del riscatto accetta.
E ben, rispose
sospirando Achille,
venga chi lo redima e via sel porti,
se tal di Giove è
l'assoluto impero.
Mentre in questo parlar stassi col figlio
la genitrice
Dea dentro la tenda,
Giove alla sacra Troia Iri spedìa.
Su, t'affretta,
veloce Iri, e dal cielo
vola in Ilio, ed a Prïamo comanda
che alle navi si
tragga e seco apporti
a riscatto del figlio eletti doni,
onde si plachi
del Pelìde il core.
Ma solo ei vada, né verun lo scorti
de' Teucri,
eccetto un attempato araldo
che d'un plaustro mular segga al governo,
su
cui la salma dal Pelìde uccisa
alla cittade trasportar. Né tema
di morte
il cor gli turbi o d'altro danno.
Gli darem l'Argicida a condottiero,
che
fin d'Achille al padiglion lo guidi.
L'eroe vedrallo al suo cospetto, e
lungi
dal porlo a morte, terrà gli altri a freno,
ch'ei non è stolto né
villan né iniquo,
e benigno farassi a chi lo prega.
Ratta, come del
turbine le penne,
partì la Diva messaggiera, e a Prìamo
giunta, il trovò
tra pianti e grida. I figli
dintorno al padre doloroso accolti
inondavan
di lagrime le vesti.
Stavasi in mezzo il venerando veglio
tutto chiuso nel
manto, ed insozzato
il capo e il collo dell'immonda polve
di che bruttato
di sua mano ei s'era
sul terren voltolandosi. La turba
delle misere figlie
e delle nuore
empiea la reggia d'ululati, e quale
ricordava il fratel,
quale il marito,
ché valorosi e molti eran caduti
sotto le lance degli
Achei. Comparve
improvvisa davanti al re canuto
la ministra di Giove, e a
lui che tutto
al vederla tremò, dicea sommesso:
Prìamo, fa core, né timor
ti prenda.
Nunzia di mali non vengh'io, ma tutta
del tuo meglio bramosa. A
te mi manda
l'Olimpio Giove che lontano ancora
su te veglia pietoso. Ei ti
comanda
di redimere il figlio, e recar molti
doni ad Achille per placarlo.
A lui
vanne adunque, ma solo, e che nessuno
t'accompagni de' Troi, salvo
un araldo
d'età provetta, reggitor del plaustro
che il corpo trasportar
del figlio ucciso
ti dee qua dentro: né temer di morte
o d'altra offesa.
Condottiero avrai
l'Argicida che te fino al cospetto
d'Achille scorterà.
Lungi l'eroe
dal trucidarti, terrà gli altri a freno.
Ei non è stolto né
villan né iniquo,
e benigno farassi a chi lo prega.
Disse, e sparve.
Riscosso il re dolente,
senza punto indugiarsi, ai figli
impone
d'apprestargli il mular plaustro veloce,
e di legar su quello una
grand'arca.
Indi salito ad un'eccelsa stanza
odorosa di cedro, ov'egli in
serbo
tenea di molti preziosi arredi,
chiamò dentro la moglie Ecuba, e
disse:
Infelice, m'ascolta: la celeste
messaggiera recommi or or di
Giove
un comando. Egli vuol che degli Achei
m'incammini alle navi, ed al
Pelìde
il prezzo io porti del diletto figlio.
Che ne senti? A quel campo,
a quelle tende
certo mi spinge fortemente il core.
Ululò la consorte, e
gli rispose:
Misera! ahi dove ti fuggìa quel senno
che alle tue genti e
alle straniere un giorno
glorïoso ti fea? Solo alle navi
inimiche
avvïarti? esporti solo
alla presenza di colui che tanti
figli t'uccise? oh
cuor di ferro! e quale,
s'ei ti scopre, se cadi in suo potere,
qual mai
pietade o riverenza speri
da quell'alma crudele e senza fede?
Deh
piangiamlo qui soli. Era destino
dalle Parche filato
all'infelice,
quand'io meschina il partorii; che lungi
dai genitori
satollar dovesse
d'un barbaro i mastini. Oh potess'io
stretto tenerne fra
le mani il core,
e strazïarlo, divorarlo! Allora
del mio figlio sarìa
sconta l'offesa,
ch'ei da codardo non morì, ma in campo
per la patria
pugnando, e fermo il piede,
senza smarrirsi o declinar la fronte.
Cessa,
il vecchio riprese: il mio partire
è risoluto; non mi far ritegno,
non
volermi tu stessa esser funesta
auguratrice: il distornarmi è vano.
Se mi
desse un mortal questo comando,
o aruspice o indovino o sacerdote,
lo
terremmo menzogna, e spregeremmo:
ma vidi io stesso, io stesso udii la
Diva.
Dunque si vada, ed obbediam. Se il Fato
vuol che fra' Greci io pera,
io pure il voglio.
Morrò trafitto, ma stringendo il figlio,
e tutto il
dolce esaurirò del pianto.
Aprì ciò detto, i bei forzieri, e fuora
dodici
ne cavò splendidi pepli,
ed altrettante clamidi e tappeti
e tuniche ed
ammanti, e dieci insieme
aurei talenti, due forbiti tripodi,
quattro
lebèti, e finalmente un nappo
bellissimo, dai Traci avuto in dono
quando
andovvi orator; raro presente:
e nondimen di questo pure il veglio
si fe'
privo: cotanto al cor gli preme
il riscatto del figlio. Uscito ei
quindi,
tutto discaccia de' Troiani il vulgo
ai portici raccolto, e acerbo
grida:
Via, perversi, di qua: forse vi manca
domestico dolor, ché qui
venite
ad aggravarmi il mio? forse n'è poco
l'alto affanno in che Giove mi
sommerse
il più forte togliendomi de' figli?
Ma voi medesmi vel saprete in
breve,
voi che senza difesa, or ch'egli è morto,
sotto le spade degli
Achei cadrete.
Ma deh! pria che veder Troia distrutta,
deh ch'io discenda
alla magion di Pluto.
Così grida il tapino, e con lo scettro
fuor ne mette
la turba che sommessa
si dileguava. Irrequïeto poscia
i suoi figli
bravando li rampogna,
Eleno e Pari e Antifono e Pammone
e l'illustre
Agatone e il prode in guerra
buon Polite e Dëìfobo ed Agàvo,
di divina
sembianza giovinetto,
ed Ippotòo. Si volge a questi nove
con acerbi
rabbuffi il doloroso,
e, Studiatevi, grida: a che vi state,
nequitosi
infingardi? oh foste tutti
spenti in vece d'Ettorre! Oh me infelice!
Re
dell'eccelsa Troia io generai
fortissimi figliuoli, e nullo in vita
ne
rimase. Caduto è il dëiforme
mio Mèstore; caduto è il bellicoso
Tròilo di
cocchi agitatore; ed ora
Ettore cadde, quell'Ettòr che un Dio
fra' mortali
parea; no, d'un mortale
figlio ei non parve, ma d'un Dio. La guerra
mi
tolse i buoni, e mi lasciò cotesti
vituperii; sì voi, prodi soltanto
alle
danze, agl'inganni, alle rapine.
Su, che si tarda? Apparecchiate il
carro,
ponetevi que' doni, e vi spedite,
onde senza più starmi io
m'incammini.
Rispettosi al garrir del genitore
corser quelli e dier fuora
incontanente
l'agile plaustro tutto nuovo e bello,
e una grand'arca vi
legâr di sopra.
Indi un giogo mulin di bosso, ornato
d'un umbilico con
anel ben messo,
dal pïuòlo spiccâr: poscia di nove
cubiti tratta la giogal
gombìna,
al capo accomodâr del liscio temo
acconciamente il giogo, e
sovrapposto
alla caviglia del timon l'anello,
con triplicato giro
all'umbilico
l'avvinghiâr quinci e quindi, e fatto un nodo,
della gombìna
ripiegâr la punta
nella parte di sotto. Ciò finito,
giù recâr dalla stanza
i destinati
doni al riscatto dell'ettòrea testa,
immensi doni; e sul
pulito plaustro
gl'imposero, e del plaustro al giogo addussero
senza
ritardo due gagliarde mule,
de' Misii illustre dono al re troiano.
Quindi
allestiti presentaro al padre
del regale suo cocchio i corridori,
cui
Prìamo stesso governar solea
ne' nitidi presepi: ed or gli accoppia
ei
medesmo alla biga il mesto veglio
sotto i portici eccelsi, esso e il suo
fido
araldo, entrambi pensierosi e muti.
Féssi allor la dolente Ecuba
incontro
al re marito, nella man tenendo
di soave licore un aureo
nappo,
onde ai numi libasse anzi il partire.
Stette avanti ai corsieri, e,
Tien, gli disse,
liba a Giove, e lo prega che ti voglia
dai nemici tornar
salvo al tuo tetto,
poiché, malgrado il mio dissenso, hai ferma
la tua
partenza. Or tu la supplicante
voce innalza all'idèo Giove nemboso,
che
d'alto guarda la cittade, e chiedi
che messaggier ti mandi alla
diritta
quel fortissimo suo veloce augello
sovra tutti a lui caro, onde
tal vista
il tuo vïaggio affidi al campo acheo.
Se il Dio ricusa
d'invïarti questo
suo propizio messaggio, io ti scongiuro
di non rischiar
tuoi passi a quelle navi,
e di dar bando al fier desìo che
porti.
Facciasi, o donna, il tuo voler, rispose
il nobile vegliardo: ai
numi è buono
alzar le palme ed implorar mercede.
Disse; e all'ancella
dispensiera impose
di versargli una pura onda alle mani;
e l'ancella
appressossi, e colla manca
sostenendo il bacin, versò coll'altra
da tersa
idria l'umor. Lavato ei prese
l'offerta coppa, e ritto in piè nel
mezzo
dell'atrio, in atto supplicante alzati
gli occhi al cielo, libò con
questi accenti:
Giove massimo Iddio, che glorïoso
dall'Ida imperi, fa che
grato io giunga
ad Achille, e pietà di me gl'ispira.
Mandami a dritta il
tuo veloce e caro
re de' volanti, e ch'io lo vegga: e certo
per lui del
tuo favore, alle nemiche
tende i miei passi volgerò sicuro.
Esaudì Giove
il prego, e il più perfetto
degli augurii mandò, l'aquila
fosca,
cacciatrice, che detta è ancor la Bruna.
Larghe quanto la porta di
sublime
stanza regal spiegava il negro augello
le sue vaste ali, dirigendo
a destra
sulla cittade il volo. Esilarossi
a tutti il core nel vederla. Il
veglio
montò il bel cocchio frettoloso, e fuora
dei risonanti portici lo
spinse.
Traenti il plaustro precedean le mule
dal saggio Idèo guidate, e
lo seguièno
della biga i corsier che il re canuto
per l'ampie strade colla
sferza affretta.
L'accompagnan piangendo i suoi più cari,
come se a morte
ei gisse. Alfin venuti
alle porte, lasciârsi. Il re discese
verso il campo
nemico, e lagrimosi
nella cittade ritornârsi i figli.
Vide Giove dall'alto
i due soletti
pellegrini inoltrarsi alla pianura.
Pietà gli venne
dell'antico sire,
e a Mercurio parlò: Diletto figlio,
tu che guida ai
mortali esser ti piaci,
e pietoso gli ascolti, va veloce,
ed alle navi
achee Prìamo conduci
occulto in guisa che nessuno il vegga
de' vigilanti
Argivi e se n'accorga,
pria che d'Achille alla presenza ei sia.
Mercurio
ad obbedir tosto s'accinge
i precetti del padre. E prima ai piedi
i bei
talari adatta. Ali son queste
d'incorruttibil auro, ond'ei
volando
l'immensa terra e il mar ratto trascorre
collo spiro de' venti.
Indi la verga,
che dona e toglie a suo talento il sonno,
nella destra si
reca, e scioglie il volo.
In un batter di ciglio all'Ellesponto
giunge e
al campo troian. Qui prende il volto
di regal giovinetto a cui fiorìa
del
primo pelo la venusta guancia,
e, così fatto, il nume s'incammina.
Già
Prìamo con Idèo d'Ilo la tomba
avea trascorsa, e qui sostato
alquanto,
alla chiara corrente abbeverava
e le mule e i destrier. L'ombra
notturna
sulla terra scendea, quando l'araldo
del nume s'avvisò che alla
lor volta
già s'appressava, e sbigottito disse:
Bada, o re; qui si vuol
tutta prudenza.
Veggo un nemico, e siam perduti. O ratto
diamci in fuga, o
abbracciam le sue ginocchia
implorando pietà. - Smarrissi il veglio,
il
terror gli arricciò su le canute
tempie le chiome, il brivido gli
corse
per le tremule membra; e stupidito
s'arrestò: Ma si fece innanzi il
nume,
e presolo per mano interrogollo:
Dove, o padre, dirigi esti
corsieri
così pel buio della dolce notte
mentre gli altri han riposo? E
non paventi
i furibondi Achei, che ti son presso,
fieri nemici? Se qualcun
di loro
per l'ombra oscura portator ti coglie
di quei tesori, che farai?
Garzone
tu non sei, né cotesto che ti segue,
onde far petto a chi
t'assalti infesto.
Ma di me non temer, ch'io qui mi sono
in tuo danno non
già, ma in tua difesa,
perocché come padre a me sei caro.
E Prìamo a lui:
La va, come tu dici,
mio dolce figlio. Ma propizio ancora
tien su me la
sua mano un qualche iddio,
che tal mi manda della via compagno
ben
augurato, come te, di corpo
bello e di volto, e di mirando senno,
e di
beati genitor germoglio.
Gli è ver, ti guarda un Dio, siccome
avvisi
(ripiglia il nume): ma rispondi, e schietto
parlami il vero. In
regïon straniera
porti tu forse, per salvarli, questi
prezïosi tesori? O
forse tutti
di spavento compresi abbandonate
la città, da che spento è il
tuo gran figlio
che a nullo Achivo di valor cedea?
Oh chi se' tu? riprese
intenerito
l'esimio rege, chi se' tu che parli
del mio morto figliuol così
cortese?
E chi son dunque i tuoi parenti, o caro?
Allor Mercurio: Tu mi
tenti, o veglio,
col tuo dimando. Or ben: nella battaglia
onoratrice de'
guerrieri io vidi
con quest'occhi più volte il divo Ettorre,
massimamente
il dì che degli Achei
strage egli fece col fulmineo ferro
cacciandoli alle
navi. Ad ammirarlo
noi fermi ci stavam; ché irato Achille
col sommo Atride
a noi non consentìa
l'entrar dentro alla mischia. Io suo soldato
qua ne
venni con esso in una stessa
nave: di schiatta Mirmidóne io sono;
Polìtore
m'è padre: a lui son molte
ricchezze e molta età pari alla tua,
e settimo
de' figli io fui sortito
a questa guerra. Esplorator del campo
or qui ne
venni: perocché dimani
di buon tempo gli Achivi alla cittade
daran
l'assalto. Di riposo ei sono
tutti sdegnosi, e contenerne il fiero
desìo
di pugna più non ponno i duci.
Udito questo, replicò de' Teucri
l'augusto
sire: Se davver soldato
del Pelìde tu sei, tutto deh fammi
palese il vero.
Il mio figliuol giac'egli
per anco intero nelle tende, o fatto,
misero! in
brani, lo gittò pastura
de' suoi mastini l'uccisor? - No,
pronto
l'Argicida rispose. Ei giace intatto
tuttavia dalle belve appo la
nave
capitana d'Achille entro la tenda
senza segno d'onor. La
dodicesma
luce rifulse sul giacente, e ancora
il suo corpo è incorrotto,
ed il vorace
morso de' vermi che gli estinti in guerra
tutti consuma, il
figlio tuo rispetta.
Vero gli è ben che dell'amico intorno
alla tomba, col
sorgere dell'alba,
spietatamente Achille lo strascina;
né per ciò giunge a
deturparlo, e quando
tu medesmo il vedessi, maraviglia
ti prenderebbe nel
trovarlo tutto
mondo dal tabo e fresco e rugiadoso,
in ogni parte intégro,
e le ferite,
che molte ei n'ebbe, tutte chiuse. Tanto
gl'iddii beati, a
cui diletto egli era,
dell'estinto tuo figlio ebber pensiero.
Gioinne il
vecchio, e replicò: Per certo
torna in gran bene agl'Immortali
offrire
ogni debito onor, né il mio figliuolo,
finché si visse, degli Dei
gli altari
dimenticò. Quind'essi alla sua morte
ricordârsi di lui. Ma tu
ricevi,
deh ricevi da me questo bel nappo;
custodiscilo, e fausti i sommi
Dei,
del Pelìde alla tenda m'accompagna.
Buon vecchio, replicò con un
sorriso
l'Argicida, tu tenti l'inesperta
mia giovinezza, ma la tenti in
vano.
Inscio Achille, non fia che doni io prenda.
Temo il mio duce, e più
il rubar; né voglio
che guaio me n'incolga. Io scorterotti
così pur senza
doni e di buon grado,
e per terra e per mar, come ti piace,
anche d'Argo
alle rive, né veruno
su te le mani metterà, me duce.
Così detto, balzò
sopra la biga,
e alle man date col flagel le briglie
ne' cavalli trasfuse
e nelle mule
una gagliarda lena. Eran già presso
delle navi alle torri ed
alla fossa,
e davano le scolte opra alle cene.
Tutte Mercurio
addormentolle, e tosto,
levatene le sbarre, aprì le porte,
e di Prìamo la
biga, e de' bei doni
l'onusto carro v'introdusse. Il passo
drizzâr quindi
d'Achille al padiglione,
che splendido e sublime i Mirmidóni
gli avean
costrutto di robusto abete.
Irsuto e spesso di campestri giunchi
il
culmine s'estolle: ampio di pali
folto steccato lo circonda, e sola
una
trave la porta n'assicura,
trave immensa, abetina, che a levarsi
e a
riporsi di tre chiedea la forza,
ed il Pelìde vi bastava ei solo.
L'aperse
il nume, ed intromesso il vecchio
co' recati ad Achille incliti
doni,
scese d'un salto a terra, e così disse:
O Prìamo, io sono il
sempiterno iddio
Mercurio; il padre mi spedì tua guida,
e qui ti lascio,
ché il menarti io stesso
del Pelìde al cospetto, e tanto innanzi
favorire
un mortale, a un Immortale
disconviensi. Tu entra, ed abbracciando
le sue
ginocchia per la madre il prega
e pel padre e pel figlio, onde si
plachi.
Sparve, ciò detto, ed all'olimpie cime
risalì. Prìamo scese, ed
alla cura
de' cavalli lasciato e delle mule
l'araldo, s'avvïò dritto
d'Achille
alle stanze riposte. Avea di Giove
l'eroe diletto in quel
medesmo punto
dato fine alla cena. I suoi sergenti
in disparte sedean.
Soli al guerriero
ministravano in piedi Automedonte
ed Alcimo, di Marte
almo rampollo.
Tolta non era ancor la mensa, e ancora
sedeavi Achille. Il
venerando veglio
entrò non visto da veruno, e tosto
fattosi innanzi, tra
le man si prese
le ginocchia d'Achille, e singhiozzando
la tremenda baciò
destra omicida
che di tanti suoi figli orbo lo fece.
Come avvien talor se
un infelice
reo del sangue d'alcun del patrio suolo
fugge in altro paese,
e ad un possente
s'appresentando, i riguardanti ingombra
d'improvviso
stupor; tale il Pelìde
del dëiforme Prìamo alla vista
stupì. Stupiro e si
guardaro in viso
gli altri con muta maraviglia, e allora
il supplice così
sciolse la voce:
Divino Achille, ti rammenta il padre,
il padre tuo da ria
vecchiezza oppresso
qual io mi sono. Io questo punto ei forse
da' potenti
vicini assediato
non ha chi lo soccorra, e all'imminente
periglio il
tolga. Nondimeno, udendo
che tu sei vivo, si conforta, e spera
ad
ogn'istante riveder tornato
da Troia il figlio suo diletto. Ed
io,
miserrimo! io che a tanti e valorosi
figli fui padre, ahi! più nol
sono, e parmi
già di tutti esser privo. Di cinquanta
lieto io vivea de'
Greci alla venuta.
Dieci e nove di questi eran d'un solo
alvo prodotti; mi
venìano gli altri
da diverse consorti, e i più ne spense
l'orrido Marte.
Mi restava Ettorre,
l'unico Ettorre, che de' suoi fratelli
e di Troia e di
tutti era il sostegno;
e questo pure per le patrie mura
combattendo cadéo
dianzi al tuo piede.
Per lui supplice io vegno, ed infiniti
doni ti reco a
riscattarlo, Achille!
Abbi ai numi rispetto, abbi pietade
di me: ricorda
il padre tuo: deh! pensa
ch'io mi sono più misero, io che
soffro
disventura che mai altro mortale
non soffrì, supplicante alla mia
bocca
la man premendo che i miei figli uccise.
A queste voci intenerito
Achille,
membrando il genitor, proruppe in pianto,
e preso il vecchio per
la man, scostollo
dolcemente. Piangea questi il perduto
Ettorre ai piè
dell'uccisore, e quegli
or il padre, or l'amico, e risonava
di gemiti la
stanza. Alfin satollo
di lagrime il Pelìde, e ritornati
tranquilli i
sensi, si rizzò dal seggio,
e colla destra sollevò il cadente
veglio, il
bianco suo crin commiserando
ed il mento canuto. Indi rispose:
Infelice!
per vero alte sventure
il tuo cor tollerò. Come potesti
venir solo alle
navi ed al cospetto
dell'uccisore de' tuoi forti figli?
Hai tu di ferro il
core? Or via, ti siedi,
e diam tregua a un dolor che più non giova.
Liberi
i numi d'ogni cura al pianto
condannano il mortal. Stansi di Giove
sul
limitar due dogli, uno del bene,
l'altro del male. A cui d'entrambi ei
porga,
quegli mista col bene ha la sventura.
A cui sol porga del funesto
vaso,
quei va carco d'oltraggi, e lui la dura
calamitade su la terra
incalza,
e ramingo lo manda e disprezzato
dagli uomini e da' numi. Ebbe
Pelèo
al nascimento suo molti da Giove
illustri doni. Ei ricco, egli
felice
sovra tutti i viventi, il regno ottenne
de' Mirmidóni, e una
consorte Diva
benché mortale. Ma lui pure il nume
d'un disastro gravò.
Nell'alta reggia
prole negògli del suo scettro erede,
né gli concesse che
di corta vita
un unico figliuolo, ed io son quello;
io che di lui già
vecchio esser non posso
dolce sostegno, e negl'ilìaci campi
seggo lontano
dalla patria, infesto
a' tuoi figli e a te sesso. E te pur anco
udimmo un
tempo, o vecchio, esser beato
posseditor di quanta hanno ricchezza
Lesbo
sede di Màcare, e la Frigia
ed il lungo Ellesponto. All'opulenza
di queste
terre numerosi figli
la fama t'aggiungea. Ma poiché i numi
in questa
guerra ti cacciâr, meschino!
ch'altro vedesti intorno alle tue mura
che
perpetue battaglie e sangue e morti?
Pur datti pace, né voler ch'eterno
ti
consumi il dolor. Nullo è il profitto
del piangere il tuo figlio, e pria che
in vita
richiamarlo, ti resta altro soffrire.
Deh non far ch'io mi segga,
almo guerriero,
l'antico sire ripigliò: là dentro
senza onor di sepolcro
il mio diletto
Ettore giace: rendilo al mio sguardo;
rendilo prontamente,
e i molti doni
che ti rechiamo, accetta, e ne fruisci,
e dìati il ciel di
salvo ritornarti
al tuo loco natìo, poiché pietoso
e la vita mi lasci e i
rai del Sole.
Non m'irritar co' tuoi rifiuti, o veglio,
bieco Achille
riprese. Io stesso avea
statuito nel cor, che alfin renduto
ti fosse il
figlio, perocché la diva
Nerëide mia madre a me di Giove
già fe' chiaro il
voler. Né si nasconde
al mio vedere, al mio sentir, che un nume
ti fu
scorta alle navi a cui veruno
mortal non fôra d'inoltrarsi ardito,
né le
guardie ingannar, né delle porte
avrìa le sbarre disserrar potuto
neppur
di tutto il suo vigor nel fiore.
Con querimonie adunque il mio
corruccio
non rinfrescarmi, se non vuoi ti metta,
benché supplice mio,
fuor della tenda,
e del Tonante trasgredisca il cenno.
Tremonne il
vecchio, ed obbedì. Balzossi
fuor della tenda allor come lïone
il Pelìde
con esso i due scudieri
Automedonte ed Alcimo, cui, dopo
il morto amico,
tra' compagni egli ebbe
in più pregio ed amor. Sciolsero questi
i corsieri
e le mule, ed intromesso
l'antico araldo l'adagiaro in seggio.
Poscia dal
plaustro i prezïosi doni
del riscatto levâr, ma due pomposi
manti
lasciârvi, ed una ben tessuta
tunica all'uopo di mandar coperto
il
cadavere in Ilio. Indi chiamate
le ancelle, comandò che tutto fosse
e
lavato e di balsami perfuso
in disparte dal padre, onde il
meschino,
veduto il figlio, in impeti non rompa
subitamente di dolore e
d'ira,
sì che la sua destando anche il Pelìde
contro il cenno di Giove nol
trafigga.
Lavato adunque dall'ancelle ed unto
di balsami odorati, e di
leggiadra
tunica avvolto, e poi di risplendente
pallio coperto, il gran
Pelìde istesso
alzatolo di peso, in sul ferètro
collocollo; e composto i
suoi compagni
sul liscio plaustro lo portâr. Dal petto
trasse allora
l'eroe cupo un sospiro,
e il diletto chiamando estinto amico
sclamò:
Patròclo, non volerti meco
adirar, se nell'Orco udrai ch'io rendo
Ettore
al padre. In suo riscatto ei diemmi
convenevoli doni, e la migliore
parte
a te sarà sacra, anima cara.
Rïentrò quindi nella tenda, e sopra
il suo
seggio col tergo alla parete
sedutosi di fronte a Prìamo, disse:
Buon
vecchio, il tuo figliuol, siccome hai chiesto,
è in tuo potere, e nel ferètro
ei giace.
Potrai dell'alba all'apparir vederlo,
e via portarlo. Si rivolga
adesso
alla mensa il pensier, ch'anco l'afflitta
Nìobe del cibo ricordossi
il giorno
che dodici figliuoi morti le furo,
sei del leggiadro e sei del
forte sesso,
tutti nel fior di giovinezza. Ai primi
recò morte Diana, ed
ai secondi
il saettante Apollo, ambo sdegnati
che Nìobe ardisse
all'immortal Latona
uguagliarsi d'onor, perché la Dea
sol di due parti fu
feconda, ed essa
di ben molti di più. Ma i molti furo
dai due trafitti.
Nove volte il Sole
stesi li vide nella strage, e nullo
fu che di poca
terra li coprisse,
perché converso in dure pietre avea
Giove la gente.
Alfin lor diero i numi
nella decima luce sepoltura.
Stanca la madre del
suo molto pianto,
non fu schiva di cibo. Or poi fra i sassi
del Sipilo
deserti, ove le stanze
son delle Ninfe che sul verde margo
danzano
d'Achelèo, cangiata in rupe
sensibilmente ancor piagne, e in
ruscelli
sfoga l'affanno che gli Dei le diero.
E noi pure, o divin
vecchio, pensiamo
al nutrimento. Ritornato poscia
col figlio a Troia, il
piangerai di nuovo,
ché molto è il pianto che ti resta ancora.
Così detto,
levossi frettoloso,
e un'agnella sgozzò di bianco pelo.
La scuoiaro i
compagni, e acconciamente
l'apprestâr minuzzandola con molta
perizia; e
infissa negli spiedi, e quindi
ben rosolata la levâr dal foco.
Da nitido
canestro Automedonte
pose il pan su la mensa, ed il Pelìde
spartì le
carni. La man porse ognuno
alle vivande apparecchiate, e spento
del
cibarsi il desìo, Prìamo si pose
maravigliando a contemplar d'Achille
le
divine sembianze, e quale e quanto
il portamento. Stupefatto ei pure
sul
dardànide eroe tenea le luci
fisse il Pelìde, e il venerando
volto
n'ammirava e il parlar pieno di senno.
Come fur sazii del mirarsi,
ruppe
Prìamo il tacer: Preclaro ospite mio,
mettimi or tosto a riposar,
ch'io possa
gustar di dolce sonno alcuna stilla.
Dal dì che sotto la tua
man possente
il mio figlio spirò, mai non fur chiuse
queste palpebre, mai;
ch'altro non seppi
da quel punto che piangere, ululare,
voltolarmi per gli
atrii nella polve,
mille ambasce ingoiando. Dopo tanto
fiero digiuno, or
ecco che gustato
ho qualche cibo alfine e qualche sorso.
Questo udendo, ai
compagni ed all'ancelle
pronto il Pelìde comandò di porre
nel padiglione
esterïor due letti
con distesi tappeti, e porporine
belle coltrici, e
vesti altre vellose
da ricoprirsi. Obbedïenti al cenno
uscîr le ancelle
colle faci in mano,
e tosto i letti apparecchiâr. Di lui
sollecito il
Pelìde, allor gli punse
di tema il cor, dicendo: Ottimo padre,
dormi qua
fuor. Potrìa de' prenci achivi,
che qui son per consulte a tutte
l'ore,
recarsi a me talun, siccome è l'uso,
e vederti, e ridirlo al sommo
duce
Agamennóne, e farsi impedimento
al riscatto d'Ettorre. Or mi
dichiara
veracemente. A' suoi funebri onori
quanti vuoi giorni? Io terrò
l'armi in posa
per altrettanti, e frenerò le schiere.
Se ne consenti
(Prïamo rispose)
placide esequie al figlio mio, per certo
mi fai cosa ben
grata, o generoso.
Siam rinchiusi, lo sai, dentro le mura;
sai che n'è
lungi il monte, ove la selva
tagliar pel rogo, e sai quanto de' Teucri
è
lo spavento. Nove giorni al pianto
consacreremo nelle case: al
decimo
arderemo la pira, e imbandirassi
per la cittade il funeral
banchetto.
Gli darem tomba nel seguente, e l'armi
nell'altro piglierem, se
stremo il chiede.
Buon vecchio, sia così, soggiunse Achille:
tanto l'armi
staran quanto tu brami.
Così dicendo, la sua destra pose
nella destra di
quello, onde sgombrargli
ogni temenza. Prïamo e l'araldo
nell'atrio
coricârsi; entro i recessi
della tenda il Pelìde; ed al suo fianco
la
bella figlia di Brisèo si giacque.
Tutti dormìan sepolti in dolce sonno
i
guerrieri e gli Dei, ma non l'amico
de' mortali Mercurio, che venìa
pur
divisando in suo pensier la guisa
di trarre, dalle guardie
inosservato,
fuor del dorico vallo il re troiano.
Stettegli adunque su la
fronte, e disse:
Re, così dormi fra' nemici? e nulla
ti cal del rischio in
che ti trovi, uscito
dagli artigli d'Achille? A caro prezzo
redimesti
l'amato estinto figlio.
Ma per te che sei vivo, Agamennóne
se qui
sapratti, e tutto il campo acheo,
tre volte tanto chiederanno ai figli
che
rimasti ti sono. - E più non disse.
Destasi il vecchio sbigottito, e
sveglia
l'araldo: aggioga l'Argicida istesso
i cavalli e le mule, e presto
presto
spinti i carri, invisibile traversa
gli accampamenti. Alla corrente
giunti
del genito da Giove ondoso Xanto
nell'ora che sul mondo il suo
vermiglio
velo dispiega di Titon l'amica,
volò Mercurio al cielo, e i due
canuti
con gemiti e lamenti alla cittade
celeravan la via. Grave del
caro
cadavere davanti iva il carretto,
né d'uomo orecchio, né di donna
ancora
il fragor ne sentìa. L'udì primiera
la vergine Cassandra, e su la
rocca
di Pergamo salita, il suo diletto
padre e l'araldo riconobbe
eccelsi
sovra i carri, e la spoglia inanimata
che sul plaustro giacea.
Mise a tal vista
alti gridi e ululati, e per le vie,
Troi, Troiane,
gridava, eccone Ettorre;
accorrete, vedetelo, gli è quello
che ritornando
dalla pugna empiea
tutti, un tempo, di gioia i vostri petti.
Né verun né
veruna a questo annunzio
nella cittade si restò, ma tutti
d'intollerando
duolo il cuor compresi
si versâr dalle porte, e fersi incontro
al lugubre
convoglio. Ivi primiere
lacerandosi i crini la diletta
sposa e l'augusta
genitrice al carro
s'avventâr furïose, e sull'amata
pallida fronte
abbandonâr le bocche,
tutta dintorno piangendo la turba.
E le lagrime, i
gemiti, le grida
sul deplorato Ettorre avrìan l'intero
giorno consunto su
le meste porte,
se Prïamo dal cocchio all'inondante
turba rivolto non
dicea: Sgombrate
al carro il varco: pascervi di pianto
su quel corpo
potrete entro la reggia.
S'aprì la folta, passò il carro, e
giunse
negl'incliti palagi. Ivi deposto
il cadavere in regio
cataletto,
il lugubre sovr'esso incominciaro
inno i cantori de' lamenti, e
al mesto
canto pietose rispondean le donne:
fra cui plorando Andròmaca, e
strignendo
d'Ettore il capo fra le bianche braccia,
fe' primiera sonar
queste querele:
Eccoti spento, o mio consorte, e spento
sul fior degli
anni! e vedova me lasci
nella tua reggia, ed orfanello il figlio
di
sventurato amor misero frutto,
bambino ancora, e senza pur la speme
che
pubertade la sua guancia infiori.
Perocché dalla cima Ilio
sovverso
ruinerà tra poco or che tu giaci,
tu che n'eri il custode, e gli
servavi
i dolci pargoletti e le pudiche
spose, che tosto ai legni achei
n'andranno
strascinate in catene, ed io con esse.
E tu, povero figlio, o
ne verrai
meco in servaggio di crudel signore
che ad opre indegne
danneratti, o forse
qualche barbaro Acheo dall'alta torre
ti scaglierà
sdegnoso, vendicando
o il padre, o il figlio, od il fratel
dall'asta
d'Ettor prostrati; ché per certo molti
di costoro per lui mordon
la terra.
Terribile ai nemici era il tuo padre
nelle battaglie, e quindi è
il duol che tragge
da tutti gli occhi cittadini il pianto.
Ineffabile
angoscia, Ettore mio,
tu partoristi ai genitor, ma nulla
si pareggia al
dolor dell'infelice
tua consorte. Spirasti, e la mancante
mano dal letto,
ohimè! non mi porgesti,
non mi lasciasti alcun tuo savio avviso,
ch'or
giorno e notte nel fedel pensiero
dolce mi fôra richiamar
piangendo.
Accompagnâr co' gemiti le donne
d'Andròmaca i lamenti, e li
seguiva
il compianto d'Ecùba in questa voce:
O de' miei figli, Ettorre, il
più diletto!
Fosti caro agli Dei mentre vivevi,
e il sei, qui morto,
ancora. Il crudo Achille
di Samo e d'Imbro e dell'infida Lenno
su le
remote tempestose rive
quanti a man gli venìan, tutti vendeva
gli altri
miei figli; e tu dal suo spietato
ferro trafitto, e tante volte
intorno
strascinato alla tomba dell'amico
che gli prostrasti (né per
questo in vita
lo ritornò), tu fresco e rugiadoso
or mi giaci davanti, e
fior somigli
dai dolci strali della luce ucciso.
A questo pianto
rinnovossi il lutto,
ed Elena fe' terza il suo lamento:
O a me il più caro
de' cognati, Ettorre,
poiché il Fato mi trasse a queste rive
di Paride
consorte! oh morta io fossi
pria che venirvi! Venti volte il Sole
il suo
giro compì da che lasciato
ho il patrio nido, e una maligna o dura
sola
parola sul tuo labbro io mai
mai non intesi. E se talvolta o suora
o
fratello o cognata, o la medesma
veneranda tua madre (ché benigno
a me fu
Prìamo ognor) mi rampognava,
tu mansueto, con dolce ripiglio
gli
ammonendo, placavi ogni corruccio.
Quind'io te piango e in un la mia
sventura,
ché in tutta Troia io non ho più chi m'ami
o compatisca, a tutti
abbominosa.
Così sclamava lagrimando, e seco
il popolo gemea. Si volse
alfine
Prìamo alla turba, e favellò: Troiani,
si pensi al rogo. Andate, e
dalla selva
qua recate il bisogno, né vi prenda
timor d'insidie. Mi
promise Achille,
nel congedarmi, di non farne offesa
anzi che spunti il
dodicesmo Sole.
Disse; e muli e giovenchi in un momento
sotto il giogo fur
pronti, e dalle porte
proruppero. Durò ben nove interi
giorni il trasporto
delle tronche selve.
Come rifulse su la terra il raggio
della decima
aurora, lagrimando
dal feretro levâr del valoroso
Ettore il corpo, e
postolo sul rogo,
il foco vi destâr. Rïapparita
la rosea figlia del
mattin, s'accolse
il popolo dintorno all'alta pira,
e pria con onde di
purpureo vino
tutte estinser le brage. Indi per tutto
queto il foco, i
fratelli e i fidi amici
pieni il volto di pianto e sospirosi
raccolsero le
bianche ossa, e composte
in urna d'oro le coprîr d'un molle
cremisino. Ciò
fatto, in cava buca
le posero, e di spesse e grandi pietre
un lastrico vi
fêro, e prestamente
il tumulo elevâr. Le scolte intanto
vigilavan
dintorno, onde un ostile
non irrompesse repentino assalto
pria che fosse
al suo fin l'opra pietosa.
Innalzato il sepolcro dipartîrsi
tutti in
grande frequenza, e nella vasta
di Prïamo adunati eccelsa reggia
funebre
celebrâr lauto convito.
Questi furo gli estremi onor renduti
al domatore
di cavalli Ettorre.
|
|