Libro IX

 

Queste de' Teucri eran le veglie. Intanto
del gelido Terror negra compagna
la Fuga, dagli Dei ne' petti infusa,
l'achivo campo possedea. Percosso
da profonda tristezza era di tutti
i più forti lo spirto; e in quella guisa
che il pescoso Oceàno si rabbuffa,
quando improvviso dalla tracia tana
di Ponente sorgiunge e d'Aquilone
l'impetuoso soffio; alto s'estolle
l'onda, e si sparge di molt'alga il lido:
tale è l'interna degli Achei tempesta.
Sovra ogni altro l'Atride addolorato
di qua, di là s'aggira, ed agli araldi
comanda di chiamar tutti in segreto
ad uno ad uno i duci a parlamento.
Come fûro adunati, e mesti in volto
s'assisero, levossi Agamennóne.
Lagrimava simìle a cupo fonte
che tenebrosi da scoscesa rupe
versa i suoi rivi; e dal profondo seno
messo un sospiro, cominciò: Diletti
principi Argivi, in una ria sciagura
Giove m'avvolse. Dispietato! ei prima
mi promise e giurò che al suol prostrate
d'Ilio le mura, glorïoso in Argo
avrei fatto ritorno; ed or mi froda
indegnamente, e dopo tante in guerra
estinte vite, di partir m'impone
inonorato. Il piacimento è questo
del prepotente nume, che già molte
spianò cittadi eccelse, e molte ancora
ne spianerà, ché immenso è il suo potere.
Dunque al mio detto obbediam tutti, al vento
diam le vele, fuggiamo alla diletta
paterna terra, ché dell'alta Troia
lo sperato conquisto è vana impresa.
Ammutîr tutti a queste voci, e in cupo
lungo silenzio si restâr dolenti
i figli degli Achei. Lo ruppe alfine
il bellicoso Dïomede, e disse:
Atride, al torto tuo parlar col vero
libero dir, che in libero consesso
lice ad ognun, risponderò. Tu m'odi
senza disdegno. Osasti, e fosti il primo,
alla presenza degli Achei pur dianzi
vituperarmi, e imbelle dirmi, e privo
d'ogni coraggio, e l'udîr tutti. Or io
dico a te di rimando, che se Giove
l'un ti diè de' suoi doni, l'onor sommo
dello scettro su noi, non ti concesse
l'altro più grande che lo scettro, il core.
Misero! e speri sì codardi e fiacchi,
come pur cianci, della Grecia i figli?
Se il cor ti sprona alla partenza, parti;
sono aperte le vie; le numerose
navi, che d'Argo ti seguîr, son pronte:
ma gli altri Achivi rimarran qui fermi
all'eccidio di Troia; e se pur essi
fuggiran sulle prore al patrio lido,
noi resteremo a guerreggiar; noi due
Stènelo e Dïomede, insin che giunga
il dì supremo d'Ilion; ché noi
qua ne venimmo col favor d'un Dio.
Tacque; e tutti mandâr di plauso un grido,
del Tidìde ammirando i generosi
sensi; e di Pilo il venerabil veglio
surto in piedi dicea: Nelle battaglie
forte ti mostri, o Dïomede, e vinci
di senno insieme i coetani eroi.
Né biasmar né impugnar le tue parole
potrà qui nullo degli Achei: ma pure,
benché retti e prudenti e di noi degni,
non ferîr giusto i tuoi discorsi il segno.
Giovinetto se' tu, sì che il minore
esser potresti de' miei figli. Io dunque
che di te più d'assai vecchio mi vanto,
dironne il resto, né il mio dir veruno
biasmerà, non lo stesso Agamennóne.
È senza patria, senza leggi e senza
lari chi la civile orrenda guerra
desidera. Ma giovi or della fosca
diva dell'ombre rispettar l'impero.
S'apprestino le cene, ed ogni scolta
vegli al fosso del muro, e questo sia
de' giovani il pensier. Tu, sommo Atride,
come a capo s'addice, accogli a mensa
i più provetti; e ben lo puoi, ché piene
le tende hai tu del buon lïeo che ognora
pel vasto mar ti recano veloci
l'achive prore dalle tracie viti.
Nulla all'uopo ti manca, ed al tuo cenno
tutto obbedisce. Congregati i duci,
apra ognun la sua mente, e tu seconda
il consiglio miglior, ché di consiglio
utile e saggio or fa mestier davvero.
Imminente alle navi è l'inimico,
pien di fuochi il suo campo. E chi mirarli
può senza tema? Questa fia la notte
che l'esercito perda, o lo conservi.
Disse, e tutti obbediro. Immantinente
uscîr di rilucenti armi vestite
le sentinelle. N'eran sette i duci;
il Nestoride prence Trasimede,
di Marte i figli Ascàlafo e Jalmeno,
Merïon, Dëipìro ed Afarèo
con Licomede di Creonte; e cento
giovani prodi conducea ciascuno
di lunghe picche armati. In ordinanza
si difilâr tra il fosso e il muro, e quivi
destaro i fuochi, e apposero le cene.
Nella tenda regal l'Atride intanto
convita i duci, di vivande grate
li ristaura; e sì tosto che de' cibi
e del bere in ciascun tacque il desìo,
il buon Nestorre, di cui sempre uscìa
ottimo il detto, cominciò primiero
a svolgere dal petto un suo consiglio,
e in questo saggio ragionar l'espose:
Agamennóne glorïoso Atride,
da te principio prenderan le mie
parole, e in te si finiranno, in te
di molte genti imperador, cui Giove,
per la salute de' suggetti, il carco
delle leggi commise e dello scettro.
Principalmente quindi a te conviensi
dir tua sentenza, ed ascoltar l'altrui,
e la porre ad effetto, ove da pura
coscïenza proceda, e il ben ne frutti;
ché il buon consiglio, da qualunque ei vegna,
tuo lo farai coll'eseguirlo. Io dunque
ciò che acconcio a me par, dirò palese,
né verun penserà miglior pensiero
di quel ch'io penso e mi pensai dal punto
che dalla tenda dell'irato Achille
via menasti, o gran re, la giovinetta
Brisëide, sprezzato il nostro avviso.
Ben io, lo sai, con molti e caldi preghi
ti sconfortai dall'opra: ma tu spinto
dall'altero tuo cor onta facesti
al fortissimo eroe, dagl'Immortali
stessi onorato, e il premio gli rapisti
de' suoi sudori, e ancor lo ti ritieni.
Or tempo egli è di consultar le guise
di blandirlo e piegarlo, o con eletti
doni o col dolce favellar che tocca.
Tu parli il vero, Agamennón rispose,
parli il vero pur troppo, enumerando
i miei torti, o buon vecchio. Errai, nol nego:
val molte squadre un valoroso in cui
ponga Giove il suo cor, siccome in questo
per lo cui solo onor doma gli Achei.
Ma se ascoltando un mal desìo l'offesi,
or vo' placarlo, e il presentar di molti
onorevoli doni, e a voi qui tutti
li dirò: sette tripodi, non anco
tocchi dal foco; dieci aurei talenti;
due volte tanti splendidi lebeti;
dodici velocissimi destrieri
usi nel corso a riportarmi i primi
premii, e di tanti già mi fêr l'acquisto,
che povero per certo e di ricchezze
desideroso non sarìa chi tutti
li possedesse. Donerogli in oltre
di suprema beltà sette captive
lesbie donzelle a meraviglia sperte
nell'opre di Minerva, e da me stesso
trascelte il dì che Lesbo ei prese. A queste
aggiungo la rapita a lui poc'anzi
Brisëide, e farò giuro solenne
ch'unqua il suo letto non calcai. Ciò tutto
senza indugio fia pronto. Ove gli Dei
ne concedano poscia il porre al fondo
la troiana città, primiero ei vada,
nel partir delle spoglie, a ricolmarsi
d'oro e bronzo le navi, e si trascelga
venti bei corpi di dardanie donne
dopo l'argiva Elèna le più belle.
Di più: se d'Argo riveder n'è dato
le care sponde, ei genero sarammi
onorato e diletto al par d'Oreste,
ch'unico germe a me del miglior sesso
ivi s'edùca alle dovizie in seno.
Ho di tre figlie nella reggia il fiore,
Crisotemi, Laòdice, Ifianassa.
Qual più d'esse il talenta a sposa ei prenda
senza dotarla, ed a Pelèo la meni.
Doterolla io medesmo, e di tal dote
qual non s'ebbe giammai altra donzella:
sette città, Cardàmile ed Enòpe,
le liete di bei prati Ira ed Antèa,
l'inclita Fere, Epèa la bella, e Pèdaso
d'alme viti feconda: elle son poste
tutte quante sul mar verso il confine
dell'arenosa Pilo, e dense tutte
di cittadini che di greggi e mandre
ricchissimi, co' doni al par d'un Dio
l'onoreranno, e di tributi opimi
faran bello il suo scettro. Ecco di quanto
gli farò dono se depor vuol l'ira.
Placar si lasci: inesorato è il solo
Pluto, e per questo il più abborrito iddio.
Rammenti ancora che di grado e d'anni
io gli vo sopra; lo rammenti, e ceda.
Potentissimo Atride Agamennóne,
riprese il veglio cavalier, pregiati
sono i doni che appresti al re Pelìde.
Senza dunque indugiar alla sua tenda
si mandino i legati. Io stesso, o sire,
li nomerò, né alcun mi fia ritroso:
primamente Fenice, al sommo Giove
carissimo mortale, e capo ei sia
dell'imbasciata. Il seguirà col grande
Aiace il divo Ulisse, e degli araldi
n'andran Hodio ed Eurìbate. Frattanto
date l'acqua alle mani, e comandate
alto silenzio, acciò che salga a Giove
la nostra prece, e la pietà ne svegli.
Disse; e a tutti fu caro il suo consiglio.
Dier le linfe alle mani i banditori;
lesti i donzelli coronâr di liete
spume le tazze, e le portaro in giro:
e libato e gustato a pien talento
il devoto licore, uscîr veloci
dalla tenda regal gli ambasciadori;
e molti avvisi porgea lor per via
il buon veglio, girando a ciascheduno,
principalmente di Laerte al figlio,
le parlanti pupille, e a tentar tutte
le vie gli esorta d'ammansar quel fiero.
Del risonante mar lungo la riva
avviârsi i legati, supplicando
dall'imo cor l'Enosigèo Nettunno
perché d'Achille la grand'alma ei pieghi.
Alle tende venuti ed alle navi
de' Mirmidóni, ritrovâr l'eroe
che ricreava colla cetra il core,
cetra arguta e gentil, che la traversa
avea d'argento, e spoglia era del sacco
della città d'Eezïon distrutta.
Su questa degli eroi le glorïose
geste cantando raddolcìa le cure:
Solo a rincontro gli sedea Patròclo
aspettando la fin del bellicoso
canto in silenzio riverente. Ed ecco
dall'Itaco precessi all'improvviso
avanzarsi i legati, e al suo cospetto
rispettosi sostar. Alzasi Achille
del vederli stupito, ed abbandona
colla cetra lo seggio; alzasi ei pure
di Menèzio il buon figlio, e lor porgendo
il Pelìde la man, Salvete, ei dice,
voi mi giungete assai graditi: al certo
vi trae grand'uopo: benché irato, io v'amo
sovra tutti gli Achei. - Così dicendo,
dentro la tenda interïor li guida,
in alti scanni fa sederli sopra
porporini tappeti, ed a Patròclo
che accanto gli venìa, Recami, disse,
o mio diletto, il mio maggior cratere,
e mesci del più puro, ed apparecchia
il suo nappo a ciascun: sotto il mio tetto
oggi entrâr generose anime care.
Disse; e Patròclo del suo dolce amico
alla voce obbedì. Su l'ignee vampe
concavo bronzo di gran seno ei pose,
e dentro vi tuffò di pecorella
e di scelta capretta i lombi opimi
con esso il pingue saporoso tergo
di saginato porco. Intenerite
così le carni, Automedonte in alto
le sollevava; e con forbito acciaro
acconciamente le incidea lo stesso
divino Achille, e le infiggea ne' spiedi.
Destava intanto un grande foco il figlio
di Menèzio, e conversi in viva bragia
i crepitanti rami, e già del tutto
queta la fiamma, delle brage ei fece
ardente un letto, e gli schidion vi stese;
del sacro sal gli asperse, e tolte alfine
dagli alari le carni abbrustolate
sul desco le posò; prese di pani
un nitido canestro, e su la mensa
distribuilli; ma le apposte dapi
spartìa lo stesso Achille, assiso in faccia
ad Ulisse col tergo alla parete.
Ciò fatto, ingiunse al suo diletto amico
le sacre offerte ai numi; e quei nel foco
le primizie gettò. Stesero tutti
allor le mani all'imbandito cibo.
Come fur sazi, fe' degli occhi Aiace
al buon Fenice un cotal cenno: il vide
lo scaltro Ulisse, e ricolmato il nappo,
al grande Achille propinollo, e disse:
Salve, Achille; poc'anzi entro la tenda
d'Atride, ed ora nella tua di lieto
cibo noi certo ritroviam dovizia;
ma chi di cibo può sentir diletto
mentre sul capo ci veggiam pendente
un'orrenda sciagura, e sul periglio
delle navi si trema? E periranno,
se tu, sangue divin, non ti rivesti
di tua fortezza, e non ne rechi aita.
Gli orgogliosi Troiani e gli alleati
imminente all'armata e al nostro muro
han posto il campo, e mille fuochi accesi,
e fan minaccia d'avanzarsi arditi,
e le navi assalir. Giove co' lampi
del suo favor gli affida; Ettore i truci
occhi volgendo d'ogni parte, e molto
delle sue forze altero e del suo Giove,
terribilmente infuria, e non rispetta
né mortali né Dei (tanto gl'invade
furor la mente), e della nuova aurora
già le tardanze accusa, e freme, e giura
di venirne a schiantar di propria mano
delle navi gli aplustri, ed a scagliarvi
dentro le fiamme, e incenerirle tutte,
e tutti tra le vampe istupiditi
ancidere gli Achivi. Or io di forte
timor la mente contristar mi sento,
che le costui minacce avversi numi
non mandino ad effetto, e che non sia
delle Parche decreto il dover noi
lungi d'Argo perir su queste rive.
Ma tu deh! sorgi, e benché tardi, accorri
a preservar dall'inimico assalto
i desolati Achei. Se gli abbandoni,
alto cordoglio un dì n'avrai, né al danno
troverai più riparo. A tempo adunque
l'antivieni prudente, ed allontana
dall'argolica gente il giorno estremo.
Ricòrdati, mio caro, i saggi avvisi
del tuo padre Pelèo, quando di Ftia
invïotti all'Atride. Amato figlio,
(il buon vecchio dicea) Minerva e Giuno,
se fia lor grado, ti daran fortezza;
ma tu nel petto il cor superbo affrena,
ché cor più bello è il mansueto; e tienti
(onde più sempre e giovani e canuti
t'onorino gli Achei), tienti remoto
dalla feconda d'ogni mal Contesa.
Questi del veglio i bei ricordi fûro:
tu gli obblïasti. Ten sovvenga adesso,
e la trista una volta ira deponi.
Ti sarà, se lo fai, largo di cari
doni l'Atride. Nella tenda ei dianzi
l'impromessa ne fece: odili tutti.
Sette tripodi intatti, e dieci d'oro
talenti, e venti splendidi lebeti;
dodici velocissimi destrieri
usi nel corso a riportarne i primi
premii, e già tanti n'acquistâr, che brama
più di ricchezze non avrìa chi tutti
li possedesse. Ti largisce inoltre
sette d'alma beltà lesbie donzelle
d'ago esperte e di spola, e da lui stesso
per lor suprema leggiadrìa trascelte
il dì che Lesbo tu espugnavi. A queste
la figlia aggiunge di Brisèo, giurando
che intatta, o prence, la ti rende. E tutte
pronte son queste cose. Ove poi Troia
ne sia dato atterrar, tu primo andrai,
nel partir della preda, a ricolmarti
d'oro e di bronzo i tuoi navigli, e dieci
captive e dieci ti scerrai tenute
dopo l'Argiva Elèna le più belle.
Di più: se d'Argo rivedrem le rive,
tu genero sarai del grande Atride,
e in onoranza e nella copia accolto
d'ogni cara dovizia al par del suo
unico Oreste. Delle tre che il fanno
beato genitor alme fanciulle,
Crisotemi, Laòdice, Ifianassa,
prendi quale vorrai senza dotarla.
Doteralla lo stesso Agamennóne
di tanta dote e tal, ch'altra giammai
regal donzella la simìl non s'ebbe;
sette città, Cardamile ed Enòpe,
Ira, Pedaso, Antèa, Fere ed Epèa,
tutte belle marittime contrade
verso il pilio confin, tutte frequenti
d'abitatori, a cui di molte mandre
s'alza il muggito, e che di bei tributi
t'onoreranno al par d'un Dio. Ciò tutto
daratti Atride, se lo sdegno acqueti.
Ché se lui sempre e i suoi presenti abborri,
abbi almeno pietà degli altri Achei
là nelle tende costernati e chiusi,
che t'avranno qual nume, ed alle stelle
la tua gloria alzeran. Vien dunque, e spegni
questo Ettòr che furente a te si para,
e vanta che nessun di quanti Achivi
qua navigaro, di valor l'eguaglia.
Divino senno, Laerzìade Ulisse,
rispose Achille, senza velo, e quali
il cor li detta e proveralli il fatto,
m'è d'uopo palesar dell'alma i sensi,
onde cessiate di garrirmi intorno.
Odio al par della porte atre di Pluto
colui ch'altro ha sul labbro, altro nel core:
ma ben io dirò netto il mio pensiero.
Né il grande Atride Agamennón, né alcuno
me degli Achivi piegherà. Qual prezzo,
qual ricompensa delle assidue pugne?
Di chi poltrisce e di chi suda in guerra
qui s'uguaglia la sorte: il vile usurpa
l'onor del prode, e una medesma tomba
l'infingardo riceve e l'operoso.
Ed io che tanto travagliai, che a tanti
rischi di Marte la mia vita esposi,
che guadagni, per dio, che guiderdone
su gli altri ottenni? In vero il meschinello
augel son io, che d'esca i suoi provvede
piccioli implumi, e sé medesmo obblìa.
Quante, senza dar sonno alle palpèbre,
trascorse notti! quanti giorni avvolto
in sanguinose pugne ho combattuto
per le ree mogli di costor! Conquisi
guerreggiando sul mar dodici altere
cittadi; ne conquisi undici a piede
dintorno ai campi d'Ilïon; da tutte
molte asportai pregiate spoglie, e tutte
all'Atride le cessi, a lui che inerte
rimasto indietro, nell'avare navi
le ricevea superbo, e dividendo
altrui lo peggio riserbossi il meglio;
o s'alcun dono agli altri duci ei fenne,
nol si ritolse almeno. Io sol del mio
premio fui spoglio, io solo; egli la donna
del mio cor si ritiene, e ne gioisce.
A che mai questa degli Achei co' Teucri
cotanta guerra? a che raccolse Atride
qui tant'armi? Non forse per la bella
Elena? Ma l'amor delle consorti
tocca egli forse il cor de' soli Atridi?
Ogni buono, ogni saggio ama la sua,
e tienla in pregio, siccom'io costei
carissima al mio cor, quantunque ancella.
Or ch'egli dalle man la mi rapìo
con fatto iniquo, di piegar non tenti
me da sue frodi ammaestrato assai.
Teco, Ulisse, e co' suoi re tanti ei dunque
consulti il modo di sottrar l'armata
alle fiamme nemiche. E quale ha d'uopo
ei del mio braccio? Senza me già fece
di gran cose. Innalzato ha un alto muro,
lungo il muro ha scavato un largo e cupo
fosso, e nel fosso un gran palizzo infisse.
Mirabil opra! che dal fiero Ettorre
nol fa sicuro ancor, da quell'Ettorre
che, mentre io parvi fra gli Achei, scostarsi
non ardìa dalle mura, o non giugnea
che sino al faggio delle porte Scee.
Sola una volta ei là m'attese, e a stento
poté sottrarsi all'asta mia. Ma nullo
più conflitto vogl'io con quel guerriero,
nullo: e offerti dimani al sommo Giove
e agli altri numi i sacrifici, e tratte
tutte nel mare le mie carche navi,
sì, dimani vedrai, se te ne cale,
coll'aurora spiegar sull'Ellesponto
i miei legni le vele, ed esultanti
tutte di lieti remator le sponde.
Se di prospero corso il buon Nettunno
cortese mi sarà, la terza luce
di Ftia porrammi su la dolce riva.
Ivi molta lasciai propria ricchezza
qua venendo in mal punto, ivi molt'altra
ne reco in oro, e in fulvo rame, e in terso
splendido ferro e in eleganti donne,
tutto tesoro a me sortito. Il solo
premio ne manca che mi diè l'Atride,
e re villano mel ritolse ei poscia.
Torna dunque all'ingrato, e gli riporta
tutto che dico, e a tutti in faccia, ond'anco
negli altri Achei si svegli una giust'ira
e un avvisato diffidar dell'arti
di quel franco impudente, che pur tale
non ardirebbe di mirarmi in fronte.
Digli che a parte non verrò giammai
né di fatto con lui né di consiglio;
che mi deluse; che mi fece oltraggio;
che gli basti l'aver tanto potuto
sola una volta, e che mal fonda in vane
ciance la speme d'un secondo inganno.
Digli che senza più turbarmi corra
alla ruina a cui l'incalza Giove
che di senno il privò: digli che abborro
suoi doni, e spregio come vil mancipio
il donator. Né s'egli e dieci e venti
volte gli addoppii, né se tutto ei m'offra
ciò ch'or possiede, e ciò ch'un dì venirgli
potrìa d'altronde, e quante entran ricchezze
in Orcomèno e nell'egizia Tebe
per le cento sue porte e li dugento
aurighi co' lor carri a ciascheduna;
mi fosse ei largo di tant'oro alfine
quanto di sabbia e polve si calpesta,
né così pur si speri Agamennóne
la mia mente inchinar prima che tutto
pagato ei m'abbia dell'offesa il fio.
Non vo' la figlia di costui. Foss'ella
pari a Minerva nell'ingegno, e il vanto
di beltà contendesse a Citerea,
non prenderolla in mia consorte io mai.
Serbila ad altro Acheo che al grand'Atride
più di grado s'adegui e di possanza.
A me, se salvo raddurranmi i numi
al patrio tetto, a me scerrà lo stesso
Pelèo lo sposa. Han molte Ellade e Ftia
figlie di regi assai possenti: e quale
di lor vorrò, legittima e diletta
moglie farolla, e mi godrò con essa
nella pace, a cui stanco il cor sospira,
il paterno retaggio. E parmi in vero
che di mia vita non pareggi il prezzo
né tutta l'opulenza in Ilio accolta
pria della giunta degli Achei, né quanto
tesor si chiude nel marmoreo templo
del saettante Apollo in sul petroso
balzo di Pito. Racquistar si ponno
e tripodi e cavalli e armenti e greggi;
ma l'alma, che passò del labbro il varco,
chi la racquista? chi del freddo petto
la riconduce a ravvivar la fiamma?
Meco io porto (la Dea madre mel dice)
doppio fato di morte. Se qui resto
a pugnar sotto Troia, al patrio lido
m'è tolto il ritornar, ma d'immortale
gloria l'acquisto mi farò. Se riedo
al dolce suol natìo, perdo la bella
gloria, ma il fiore de' miei dì non fia
tronco da morte innanzi tempo, ed io
lieta godrommi e dïuturna vita.
Questa m'eleggo, e gli altri tutti esorto
a rimbarcarsi e abbandonar di Troia
l'impossibil conquista. Il Dio de' tuoni
su lei stese la mano, e rincorârsi
i suoi guerrieri. Itene adunque, e come
di legati è dover, le mie risposte
ai prenci achivi riferendo, dite
che a preservar le navi e il campo argivo
lor fa mestiero ruminar novello
miglior partito, ché il già preso è vano.
Inesorata è l'ira mia. Fenice
qui rimanga e riposi: al nuovo giorno
seguirammi, se il vuole, alla diletta
patria. Di forza nol trarrò giammai.
Disse: e l'alto parlare e l'aspro niego
tutti li fece sbalorditi e muti.
Ruppe alfin quel silenzio il cavaliero
veglio Fenice, e sul destin tremando
delle argoliche navi, ed ai sospiri
mescendo i pianti, così prese a dire:
Se in tuo pensiero è fissa, inclito Achille,
la tua partenza, se nell'ira immoto
di niuna guisa allontanar non vuoi
gli ostili incendii dalla classe achea,
come, ahi come poss'io, diletto figlio,
qui restar senza te? Teco mandommi
il tuo canuto genitor Pelèo
quel giorno che all'Atride Agamennóne
invïotti da Ftia, fanciullo ancora
dell'arte ignaro dell'acerba guerra,
e dell'arte del dir che fama acquista.
Quindi ei teco spedimmi, onde di questi
studi erudirti, e farmi a te nell'opre
della lingua maestro e della mano.
A niun conto vorrei dunque, mio caro,
dispiccarmi da te, no, s'anco un Dio,
rasa la mia vecchiezza, mi prometta
rinverdir le mie membra, e ritornarmi
giovinetto qual era allor che il suolo
d'Ellade abbandonai, l'ira fuggendo
e un atroce imprecar del padre mio
Amintore d'Orméno. Era di questa
ira cagione un'avvenente druda
ch'egli, sprezzata la consorte, amava
follemente. Abbracciò le mie ginocchia
la tradita mia madre, e supplicommi
di mischiarmi in amor colla rivale,
e porle in odio il vecchio amante. Il feci.
Reso accorto di questo il genitore,
mi maledisse, ed invocò sul mio
capo l'orrendi Eumenidi, pregando
che mai concesso non mi fosse il porre
sul suo ginocchio un figlio mio. L'udiro
il sotterraneo Giove e la spietata
Proserpina, e il feral voto fu pieno.
Carco allor della sacra ira del padre,
non mi sofferse il cor di più restarmi
nelle case paterne. E servi e amici
e congiunti mi fean con caldi preghi
dolce ritegno, ed in allegre mense
stornar volendo il mio pensier, si diero
a far macco d'agnelle e di torelli,
a rosolar sul foco i saginati
lombi suìni, a tracannar del veglio
l'anfore in serbo. Nove notti al fianco
mi fur essi così con veglie alterne
e con perpetui fuochi, un sotto il portico
del ben chiuso cortil, l'altro alle soglie
della mia stanza nell'andron. Ma quando
della decima notte il buio venne,
l'uscio sconfissi, e della stanza evaso
varcai d'un salto della corte il muro,
né de' custodi alcun né dell'ancelle
di mia fuga s'avvide. Errai gran pezza
per l'ellade contrada, e giunto ai campi
della feconda pecorosa Ftia,
trassi al cospetto di Pelèo. M'accolse
lietamente il buon sire, e mi dilesse
come un padre il figliuol ch'unico in largo
aver gli nasca nell'età canuta:
e di popolo molto e di molt'oro
fattomi ricco, l'ultimo confine
di Ftia mi diede ad abitar, commesso
de' Dolopi il governo alla mia cura.
Son io, divino Achille, io mi son quegli
che ti crebbi qual sei, che caramente
t'amai; né tu volevi bambinello
ir con altri alla mensa, né vivanda
domestica gustar, ov'io non pria
adagiato t'avessi e carezzato
su' miei ginocchi, minuzzando il cibo,
e porgendo la beva che dal labbro
infantil traboccando a me sovente
irrigava sul petto il vestimento.
Così molto soffersi a tua cagione,
e consolava le mie pene il dolce
pensier che, i numi a me negando un figlio
generato da me, tu mi saresti
tal per amore divenuto, e tale
m'avresti salvo un dì da ria sciagura.
Doma dunque, cor mio, doma l'altero
tuo spirto: disconviene una spietata
anima a te che rassomigli i numi:
ché i numi stessi, sì di noi più grandi
d'onor, di forza, di virtù, son miti;
e con vittime e voti e libamenti
e odorosi olocausti il supplicante
mortal li placa nell'error caduto.
Perocché del gran Giove alme figliuole
son le Preghiere che dal pianto fatte
rugose e losche con incerto passo
van dietro ad Ate ad emendarla intese.
Vigorosa di piè questa nocente
forte Dea le precorre, e discorrendo
la terra tutta l'uman germe offende.
Esse van dopo, e degli offesi han cura.
Chi dispettoso queste Dee riceve,
ne va colmo di beni ed esaudito;
chi pertinace le respinge indietro,
ne spermenta lo sdegno. Esse del padre
si presentano al trono, e gli fan prego
ch'Ate ratta inseguisca, e al fio suggetti
l'inesorato che al pregar fu sordo.
Trovin dunque di Giove oggi le figlie
appo te quell'onor ch'anco de' forti
piega le menti. Se al tuo piè di molti
doni l'offerta non mettesse Atride
coll'impromessa di molt'altri poscia,
e persistesse in suo rancor, non io
t'esorterei di por giù l'ira, e all'uopo
degli Achivi volar, comunque afflitti;
ma molti di presente egli ne porge,
ed altri poi ne profferisce, e i duci
miglior trascelti tra gli Achei t'invìa,
e a te stesso i più cari a supplicarti.
Non disprezzarne la venuta e i preghi,
onde l'ira, che pria giusta pur era,
non torni ingiusta. Degli andati eroi
somma laude fu questa, allor che grave
li possedea corruccio, alle preghiere
placarsi, né sdegnar supplici doni.
Opportuno sovviemmi un fatto antico,
che quale avvenne io qui fra tutti amici
narrerò. Combattean ferocemente
con gli Etòli i Cureti anzi alle mura
di Calidone, ad espugnarla questi,
a difenderla quelli; e gli uni e gli altri,
gente d'alto valor, con mutue stragi
si distruggean. Commossa avea tal guerra
di Dïana uno sdegno, e del suo sdegno
fu la cagione Enèo che, de' suoi campi
terminata la messe, e offerti ai numi
i consueti sacrifici, sola
(fosse spregio od obblìo) lasciato avea
senza offerte la Diva. Ella di questo
altamente adirata un fero spinse
cinghial d'Enèo ne' campi, che tremendo
tutte atterrava col fulmineo dente
le fruttifere piante. Il forte Enìde
Meleagro alla fin, dalle propinque
città raccolto molto nerbo avendo
di cacciatori e cani, a morte il mise;
né minor forza si chiedea: tant'era
smisurata la belva, e tanti al rogo
n'avea sospinti. Ma la Dea pel teschio
e per la pelle dell'irsuta fera
tra i Cureti e gli Etòli una gran lite
suscitò. Finché in campo il bellicoso
Meleagro comparve, andâr disfatti,
benché molti, i Cureti, e approssimarse
unqua alle mura non potean. Ma l'ira,
che anche i più saggi invade, il petto accese
di Meleagro, e la destò la madre
Altèa che, forte pe' fratelli uccisi
crucciosa, il figlio maledisse, e il suolo
colle man percotendo inginocchiata
e forsennata con orrendi preghi
di gran pianto confusi il negro Pluto
supplicava e la rigida mogliera
di dar morte all'eroe: né dal profondo
orco fu sorda l'implacata Erinni.
Del materno furor sdegnato il figlio
lungi dall'armi si ritrasse in braccio
alla bella consorte Cleopatra,
di Marpissa Evenina e del possente
Ida figliuola, di quell'Ida io dico
che tra' guerrieri de' suoi tempi il grido
di fortissimo avea, tanto che contra
lo stesso Apollo per la tolta ninfa
ardì l'arco impugnar. Mutato poscia
di Cleopatra il nome, i genitori
la chiamaro Alcïon, perché simìle
alla mesta Alcïon gemea la madre
quando rapilla il saettante Iddio.
Con gran furore intanto eran le porte
di Calidone e le turrite mura
combattute e percosse. Eletta schiera
di venerandi vegli e sacerdoti
a Meleagro deputati il prega
di venir, di respingere il nemico,
a sua scelta offerendo di cinquanta
iugeri il dono, del miglior terreno
di tutto il caledonio almo paese,
parte alle viti acconcio e parte al solco.
Molto egli pure il genitor lo prega,
dell'adirato figlio alle sublimi
soglie traendo il senil fianco, e in voce
supplicante del talamo picchiando
alle sbarrate porte. Anche le suore,
anche la madre già pentita orando
chiedean mercede; ed ei più fermo ognora
la ricusava. Accorsero gli amici
i più cari e diletti; e su quel core
nulla poteva degli amici il prego:
finché le porte da sonori e spessi
colpi battute, lo fêr certo alfine
che scalate i Cureti avean le mura,
e messo il foco alla città. Piangente
la sua bella consorte allor si fece
a deprecarlo, ed alla mente tutti
d'una presa città gli orrendi mali
gli dipinse: trafitti i cittadini,
arse le case, ed in catene i figli
strascinati e le spose. Si commosse
all'atroce pensier l'alma superba,
prese l'armi, volò, vinse, e gli Etòli
salvò; ma solo dal suo cor sospinto.
Quindi alcun dono non ottenne, e il tardo
beneficio rimase inonorato.
Non imitar cotesto esempio, o figlio,
né vi ti spinga demone maligno:
ché il soccorso indugiar, finché le navi
s'incendano, maggior onta sarìa.
Vieni, imita gli Dei, gli offerti doni
non disdegnar. Se li dispregi, e poscia
volontario combatti, egual non fia,
benché ritorni vincitor, l'onore.
Qui tacque il veglio, e brevemente Achille
in questi detti replicò: Fenice,
caro alunno di Giove, ed a me caro
padre, di questo onor non ho bisogno.
L'onor ch'io cerco mi verrà da Giove,
e qui pure davanti a queste antenne
l'avrò fin che vitale aura mi spiri,
fin che il piè mi sorregga. Altra or vo' dirti
cosa che in mente riporrai. Per farti
grato all'Atride non venir con pianti
né con lagni a turbarmi il cor più mai.
Non amar contra il giusto il mio nemico,
se l'amor mio t'è caro, e meco offendi
chi m'offende, ché questo ti sta meglio.
Del mio regno partecipa, e diviso
sia teco ogni onor mio. Riporteranno
questi le mie risposte, e tu qui dormi
sovra morbido letto. Al nuovo sole
consulterem se starci, o andar si debba.
Disse; e a Patròclo fe' degli occhi un cenno
d'allestire al buon veglio un colmo letto,
onde gli altri a lasciar tosto la tenda
volgessero il pensiero. In questo mezzo
vòlto ad Ulisse il gran Telamonìde,
Partiam, diss'egli, ché per questa via
parmi che vano il ragionar rïesca.
Benché ingrata, n'è forza il recar pronti
la risposta agli Achei, che impazïenti,
e forse ancora in assemblea seduti
l'attendono. Feroce alma superba
chiude Achille nel petto: indegnamente
l'amistà de' compagni egli calpesta,
né ricorda l'onor che gli rendemmo
su gli altri tutti. Dispietato! Il prezzo
qualcuno accetta dell'ucciso figlio,
o del fratello; e l'uccisor, pagata
del suo fallo la pena, in una stessa
città dimora col placato offeso.
Ma inesorata ed indomata è l'ira
che a te pose nel petto un dio nemico;
per chi? per una donzelletta! e sette
noi te n'offriamo a maraviglia belle,
e molt'altre più cose. Or via, rivesti
cor benigno una volta. Abbi rispetto
ai santi dritti dell'ospizio almeno,
ch'ospiti tuoi noi siamo, e dal consesso
degli Achei ne venimmo, a te fra tutti
i più cari ed amici. - Illustre figlio
di Telamone, gli rispose Achille,
ottimo io sento il tuo parlar; ma l'ira
mi rigonfia qualor penso a colui
che in mezzo degli Achei mi vilipese
come un vil vagabondo. Andate, e netta
la risposta ridite. Alcun pensiero
non tenterammi di pugnar, se prima
il Prïamìde bellicoso Ettorre
fino al quartier de' Mirmidoni il foco
e la strage non porti. Ov'egli ardisca
assalir questa tenda e questa nave,
saprò la furia rintuzzarne, io spero.
Sì disse; e quegli, alzato il nappo e fatta
la libagion, partîrsi; e taciturno
li precedeva di Laerte il figlio.
A' suoi sergenti intanto ed all'ancelle
Patroclo impone d'apprestar veloci
soffice letto al buon Fenice; e pronte
quelle obbedendo steser d'agnelline
pelli uno strato, vi spiegâr di sopra
di finissimo lino una sottile
candida tela, e su la tela un'ampia
purpurea coltre; e qui ravvolto il vecchio
aspettando l'aurora si riposa.
Nel chiuso fondo della tenda ei pure
ritirossi il Pelìde, ed al suo fianco
lesbia fanciulla di Forbante figlia
si corcò la gentil Dïomedea.
Dormì Patròclo in altra parte, e a lato
Ifi gli giacque, un'elegante schiava
che il Pelìde donògli il dì che l'alta
Sciro egli prese d'Enïeo cittade.
Giunti i legati al padiglion d'Atride,
sursero tutti e con aurate tazze
e affollate dimande i prenci achivi
gli accolsero. Primiero interrogolli
il re de' forti Agamennón: Preclaro
della Grecia splendor, inclito Ulisse,
parla: vuol egli dalle fiamme ostili
servar l'armata? o d'ira ancor ripieno
il cor superbo, di venir ricusa?
Glorïoso signor, rispose il saggio
di Laerte figliuol, non che gli sdegni
ammorzar, li raccende egli più sempre,
e te dispregia e i tuoi presenti, e dice
che del come salvar le navi e il campo
co' duci achivi ti consulti. Aggiunse
poi la minaccia, che il novello sole
varar vedrallo le sue navi; e gli altri
a rimbarcarsi esorta, ché dell'alto
Ilio l'occaso non vedrem, dic'egli,
giammai: la mano del Tonante il copre,
e rincorârsi i Teucri. Ecco i suoi sensi,
che questi a me consorti, il grande Aiace
e i saggi araldi confermar ti ponno.
Il vegliardo Fenice è là rimasto
per suo cenno a dormir, onde dimani
seguitarlo, se il vuole, al patrio lido:
non farà forza al suo voler, se il niega.
D'alto stupor percossi alla feroce
risposta, tutti ammutoliro i duci,
e lunga pezza taciturni e mesti
si restâr. Finalmente in questi detti
proruppe il fiero Dïomede: Eccelso
sire de' prodi, glorïoso Atride,
non avessi tu mai né supplicato
né fatta offerta di cotanti doni
all'altero Pelìde. Era superbo
egli già per se stesso; or tu n'hai fatto
montar l'orgoglio più d'assai. Ma vada,
o rimanga, di lui non più parole.
Lasciam che il proprio genio, o qualche iddio
lo ridesti alla pugna. Or secondiamo
tutti il mio dir. Di cibo e di lïeo,
fonte d'ogni vigor, vi ristorate,
e nel sonno immergete ogni pensiero.
Tosto che schiuda del mattin le porte
il roseo dito della bella Aurora,
metti in punto, o gran re, fanti e cavalli
nanzi alle navi, e a ben pugnar gl'istiga,
e combatti tu stesso alla lor testa.
Disse, e tutti applaudîr lodando a cielo
l'alto parlar di Dïomede i regi;
e fatti i libamenti, alla sua tenda
s'incamminò ciascuno. Ivi le stanche
membra accolser del sonno il dolce dono.

 

Libro X

 

Tutti per l'alta notte i duci achei
dormìan sul lido in sopor molle avvinti;
ma non l'Atride Agamennón, cui molti
toglieano il dolce sonno aspri pensieri.
Quale il marito di Giunon lampeggia
quando prepara una gran piova o grandine,
o folta neve ad inalbare i campi,
o fracasso di guerra voratrice;
spessi così dal sen d'Agamennóne
rompevano i sospiri, e il cor tremava.
Volge lo sguardo alle troiane tende,
e stupisce mirando i molti fuochi
ch'ardon dinanzi ad Ilio, e non ascolta
che di tibie la voce e di sampogne
e festivo fragor. Ma quando il campo
acheo contempla ed il tacente lido,
svellesi il crine, al ciel si lagna, ed alto
geme il cor generoso. Alfin gli parve
questo il miglior consiglio, ir del Nelìde
Nestore in traccia a consultarne il senno,
onde qualcuna divisar con esso
via di salute alla fortuna achea.
Alzasi in questa mente, intorno al petto
la tunica s'avvolge, ed imprigiona
ne' bei calzari il piede. Indi una fulva
pelle s'indossa di leon, che larga
gli discende al calcagno, e l'asta impugna.
Né di minor sgomento a Menelao
palpita il petto; e fura agli occhi il sonno
l'egro pensier de' periglianti Achivi,
che a sua cagione avean per tanto mare
portato ad Ilio temeraria guerra.
Sul largo dosso gittasi veloce
una di pardo maculata pelle,
ponsi l'elmo alla fronte, e via brandito
il giavellotto, a risvegliar s'affretta
l'onorato, qual nume, e dagli Argivi
tutti obbedito imperador germano;
ed alla poppa della nave il trova
che le bell'armi in fretta si vestìa.
Grato ei n'ebbe l'arrivo: e Menelao
a lui primiero, Perché t'armi, disse,
venerando fratello? Alcun vuoi forse
mandar de' nostri esplorator notturno
al campo de' Troiani? Assai tem'io
che alcuno imprenda d'arrischiarsi solo
per lo buio a spïar l'oste nemica,
ché molta vuolsi audacia a tanta impresa.
Rispose Agamennón: Fratello, è d'uopo
di prudenza ad entrambi e di consiglio
che gli Argivi ne scampi e queste navi,
or che di Giove si voltò la mente,
e d'Ettore ha preferti i sacrifici:
ch'io né vidi giammai né d'altri intesi,
che un solo in un sol dì tanti potesse
forti fatti operar quanti il valore
di questo Ettorre a nostro danno; e a lui
non fu madre una Dea, né padre un Dio:
e temo io ben che lungamente afflitti
di tanto strazio piangeran gli Achivi.
Or tu vanne, e d'Aiace e Idomenèo
ratto vola alle navi, e li risveglia,
ché a Nestore io ne vado ad esortarlo
di tosto alzarsi e di seguirmi al sacro
stuol delle guardie, e comandarle. A lui
presteran più che ad altri obbedïenza:
perocché delle guardie è capitano
Trasimède suo figlio, e Merïone
d'Idomenèo l'amico, a' quai commesso
è delle scolte il principal pensiero.
E che poi mi prescrive il tuo comando?
(replicò Menelao). Degg'io con essi
restarmi ad aspettar la tua venuta?
O, fatta l'imbasciata, a te veloce
tornar? - Rimanti, Agamennón ripiglia,
tu rimanti colà, ché disvïarci
nell'andar ne potrìan le molte strade
onde il campo è interrotto. Ovunque intanto
t'avvegna di passar leva la voce,
raccomanda le veglie, ognun col nome
chiama del padre e della stirpe, a tutti
largo ti mostra d'onoranze, e poni
l'alterezza in obblìo. Prendiam con gli altri
parte noi stessi alla comun fatica,
perché Giove noi pur fin dalla cuna,
benché regi, gravò d'alte sventure.
Così dicendo, in via mise il fratello
di tutto l'uopo ammaestrato; ed esso
a Nestore avvïossi. Ritrovollo
davanti alla sua nave entro la tenda
corco in morbido letto. A sé vicine
armi diverse avea, lo scudo e due
lung'aste e il lucid'elmo; e non lontana
giacea di vario lavorìo la cinta,
di che il buon veglio si fasciava il fianco
quando a battaglie sanguinose armato
le sue schiere movea; ché non ancora
alla triste vecchiezza egli perdona.
All'apparir d'Atride erto ei rizzossi
sul cubito, e levata alto la fronte,
l'interrogò dicendo: E chi sei tu
che pel campo ne vieni a queste navi
così soletto per la notte oscura,
mentre gli altri mortali han tregua e sonno?
Forse alcun de' veglianti o de' compagni
vai rintracciando? Parla, e taciturno
non appressarti: che ricerchi? - E a lui
il regnatore Atride: Oh degli Achei
inclita luce, Nestore Nelìde,
Agamennón son io, cui Giove opprime
d'infinito travaglio, e fia che duri
finché avrà spirto il petto e moto il piede.
Vagabondo ne vo poiché dal ciglio
fuggemi il sonno, e il rio pensier mi grava
di questa guerra e della clade achea.
De' Danai il rischio mi spaventa: inferma
stupidisce la mente, il cor mi fugge
da' suoi ripari, e tremebondo è il piede.
Tu se cosa ne mediti che giovi
(quando il sonno s'invola anco a' tuoi lumi),
sorgi, e alle guardie discendiam. Veggiamo
se da veglia stancate e da fatica
siensi date al dormir, posta in obblìo
la vigilanza. Del nemico il campo
non è lontano, né sappiam s'ei voglia
pur di notte tentar qualche conflitto.
Disse; e il gerenio cavalier rispose:
Agamennóne glorïoso Atride,
non tutti adempirà Giove pietoso
i disegni d'Ettore e le speranze.
Ben più vero cred'io che molti affanni
sudar d'ambascia gli faran la fronte
se desterassi Achille, e la tenace
ira funesta scuoterà dal petto.
Or io volonteroso ecco ti seguo:
andianne, risvegliam dal sonno i duci
Dïomede ed Ulisse, ed il veloce
Aiace d'Oilèo, e di Filèo
il forte figlio; e si spedisca intanto
alcun di tutta fretta a richiamarne
pur l'altro Aiace e Idomenèo che lungi
agli estremi del campo hanno le navi.
Ma quanto a Menelao, benché ne sia
d'onor degno ed amico, io non terrommi
di rampognarlo (ancor che debba il franco
mio parlare adirarti), e vergognarlo
farò del suo poltrir, tutte lasciando
a te le cure, or ch'è mestier di ressa
con tutti i duci e d'ogni umìl preghiera,
come crudel necessità dimanda.
Ben altra volta (Agamennón rispose)
ti pregai d'ammonirlo, o saggio antico,
ché spesso ei posa, e di fatica è schivo;
per pigrezza non già, né per difetto
d'accorta mente, ma perché miei cenni
meglio aspettar che antivenirli ei crede.
Pur questa volta mi precorse, e innanzi
mi comparve improvviso, ed io l'ho spinto
a chiamarne i guerrieri che tu cerchi.
Andiam, ché tutti fra le guardie, avanti
alle porte del vallo congregati
li troverem; ché tale è il mio comando.
E Nèstore a rincontro: Or degli Achei
niun ritroso a lui fia né disdegnoso,
o comandi od esorti. - In questo dire
la tunica s'avvolse intorno al petto;
al terso piede i bei calzari annoda;
quindi un'ampia s'affibbia e porporina
clamide doppia, in cui fiorìa la felpa.
Poi recossi alla man l'acuta e salda
lancia, e verso le navi incamminossi
de' loricati Achivi. E primamente
svegliò dal sonno il sapïente Ulisse
elevando la voce: e a lui quel grido
ferì l'orecchio appena, che veloce
della tenda n'uscì con questi accenti:
Chi siete che soletti errando andate
presso le navi per la dolce notte?
Qual vi spinge bisogno? - O di Laerte
magnanimo figliuol, prudente Ulisse,
(gli rispose di Pilo il cavaliero)
non isdegnarti, e del dolor ti caglia
de' travagliati Achei: vieni, che un altro
svegliarne è d'uopo, e consultar con esso
o la fuga o la pugna. - A questo detto
rïentrò l'Itacense nella tenda,
sul tergo si gittò lo scudo, e venne.
Proseguiro il cammin quindi alla volta
di Dïomede, e lo trovâr di tutte
l'armi vestito, e fuor del padiglione.
Gli dormìano dintorno i suoi guerrieri
profondamente, e degli scudi al capo
s'avean fatto origlier. Fitto nel suolo
stassi il calce dell'aste, e il ferro in cima
mette splendor da lungi, a simiglianza
del baleno di Giove. Esso l'eroe
di bue selvaggio sulla dura pelle
dormìa disteso, ma purpureo e ricco
sotto il capo regale era un tappeto.
Giuntogli sopra, il cavalier toccollo
colla punta del piè, lo spinse, e forte
garrendo lo destò. Sorgi, Tidìde;
perché ne sfiori tutta notte il sonno?
Non odi che i Troiani in campo stanno
sovra il colle propinquo, e che disgiunti
di poco spazio dalle navi ei sono?
Disse; e quei si destò balzando in piedi
veloce come lampo, e a lui rivolto
con questi accenti rispondea: Sei troppo
delle fatiche tollerante, o veglio,
né ozïoso giammai. A risvegliarne
di quest'ora i re duci inopia forse
v'ha di giovani achei pronti alla ronda?
Ma tu sei veglio infaticato e strano.
E Nestore di nuovo: Illustre amico,
tu verace parlasti e generoso.
Padre io mi son d'egregi figli, e duce
di molti prodi che potrìan le veci
pur d'araldo adempir. Ma grande or preme
necessità gli Achivi, e morte e vita
stanno sul taglio della spada. Or vanne
tu che giovine sei, vanne, e il veloce
chiamami Aiace e di Filèo la prole,
se pietà senti del mio tardo piede.
Così parla il vegliardo. E Dïomede
sull'omero si getta una rossiccia
capace pelle di lïon, cadente
fino al tallone ed una picca impugna.
Andò l'eroe, volò, dal sonno entrambi
li destò, li condusse; e tutti in gruppo
s'avvïar delle guardie alle caterve:
né delle guardie abbandonato al sonno
duce alcuno trovâr, ma vigilanti
tutti ed armati e in compagnia seduti.
Come i fidi molossi al pecorile
fan travagliosa sentinella udendo
calar dal monte una feroce belva
e stormir le boscaglie: un gran tumulto
s'alza sovr'essa di latrati e gridi,
e si rompe ogni sonno: così questi
rotto il dolce sopor su le palpebre,
notte vegliano amara, ognor del piano
alla parte conversi, ove s'udisse
nemico calpestìo. Gioinne il veglio,
e confortolli e disse: Vigilate
così sempre, o miei figli, e non si lasci
niun dal sonno allacciar, onde il Troiano
di noi non rida. Così detto, il varco
passò del fosso, e lo seguièno i regi
a consiglio chiamati. A lor s'aggiunse
compagno Merïone, e di Nestorre
l'inclito figlio, convocati anch'essi
alla consulta. Valicato il fosso,
fermârsi in loco dalla strage intatto,
in quel loco medesmo ove sorgiunto
Ettore dalla notte alla crudele
uccisïone degli Achei fin pose.
Quivi seduti cominciâr la somma
a parlar delle cose; e in questi detti
Nestore aperse il parlamento: Amici,
havvi alcuna tra voi anima ardita
e in sé sicura, che furtiva ir voglia
de' fier Troiani al campo, onde qualcuno
de' nemici vaganti alle trinciere
far prigioniero? o tanto andar vicino,
che alcun discorso de' Troiani ascolti,
e ne scopra il pensier? se sia lor mente
qui rimanersi ad assediar le navi,
o alla città tornarsi, or che domata
han l'achiva possanza? Ei forse tutte
potrìa raccor tai cose, e ritornarne
salvo ed illeso. D'alta fama al mondo
farebbe acquisto, e n'otterrìa bel dono.
Quanti son delle navi i capitani
gli daranno una negra pecorella
coll'agnello alla poppa; e guiderdone
alcun altro non v'ha che questo adegui.
Poi ne' conviti e ne' banchetti ei fia
sempre onorato, desïato e caro.
Disse; e tutti restâr pensosi e muti.
Ruppe l'alto silenzio il bellicoso
Dïomede e parlò: Saggio Nelìde,
quell'audace son io: me la fidanza,
me l'ardir persuade al gran periglio
d'insinuarmi nel dardanio campo.
Ma se meco verranne altro guerriero,
securtà crescerammi ed ardimento.
Se due ne vanno di conserva, l'uno
fa l'altro accorto del miglior partito.
Ma d'un solo, sebben veggente e prode,
tardo è il coraggio e debole il consiglio.
Disse: e molti volean di Dïomede
ir compagni: il volean ambo gli Aiaci,
il volea Merïon: più ch'altri il figlio
di Nestore il volea: chiedealo anch'esso
l'Atride Menelao: chiedea del pari
penetrar ne' troiani accampamenti
il forte Ulisse: perocché nel petto
sempre il cor gli volgea le ardite imprese.
Mosse allor le parole il grande Atride.
Diletto Dïomede, a tuo talento
un compagno ti scegli a sì grand'uopo,
qual ti sembra il miglior. Molti ne vedi
presti a seguirti; né verun rispetto
la tua scelta governi, onde non sia
che lasciato il miglior, pigli il peggiore;
né ti freni pudor, né riverenza
di lignaggio, né s'altri è re più grande.
Così parlava, del fratello amato
paventando il periglio: e fea risposta
Dïomede così: Se d'un compagno
mi comandate a senno mio l'eletta,
come scordarmi del divino Ulisse,
di cui provato è il cor, l'alma costante
nelle fatiche, e che di Palla è amore?
S'ei meco ne verrà, di mezzo ancora
alle fiamme uscirem; cotanto è saggio.
Non mi lodar né mi biasmar, Tidìde,
soverchiamente (gli rispose Ulisse),
ché tu parli nel mezzo ai consci Argivi.
Partiam: la notte se ne va veloce,
delle stelle il languir l'alba n'avvisa,
né dell'ombre riman che il terzo appena.
D'armi orrende, ciò detto, si vestiro.
A Dïomede, che il suo brando avea
obblïato alle navi, altro ne diede
di doppio taglio, ed il suo proprio scudo
il forte Trasimede. Indi alla fronte
una celata gli adattò di cuoio
taurin compatta, senza cono e cresta,
che barbuta si noma, e copre il capo
de' giovinetti. Merïone a gara
d'una spada, d'un arco e d'un turcasso
ad Ulisse fe' dono, e su la testa
un morïon gli pose aspro di pelle,
da molte lasse nell'interno tutto
saldamente frenato, e nel di fuore
di bianchissimi denti rivestito
di zannuto cinghial, tutti in ghirlanda
con vago lavorìo disposti e folti.
Grosso feltro il cucuzzolo guarnìa.
L'avea furato in Eleona un giorno
Autolico ad Amìntore d'Ormeno,
della casa rompendo i saldi muri;
quindi il ladro in Scandea diello al Citèrio
Amfidamante; Amfidamante a Molo
ospital donamento, e questi poscia
al figlio Merïon, che su la fronte
alfin lo pose dell'astuto Ulisse.
Racchiusi nelle orrende arme gli eroi
partîr, lasciando in quel recesso i duci.
E da man destra intanto su la via
spedì loro Minerva un aïrone.
Né già questi il vedean, ché agli occhi il vieta
la cieca notte, ma n'udìan lo strido.
Di quell'augurio l'Itacense allegro
a Minerva drizzò questa preghiera:
Odimi, o figlia dell'Egìoco Giove,
che l'opre mie del tuo nume proteggi,
né t'è veruno de' miei passi occulto.
Or tu benigna più che prima, o Dea,
dell'amor tuo m'affida, e ne concedi
glorïoso ritorno e un forte fatto,
tale che renda dolorosi i Teucri.
Pregò secondo Dïomede, e disse:
Di Giove invitta armipotente figlia,
odi adesso me pur: fausta mi segui
siccome allor che seguitasti a Tebe
il mio divino genitor Tidèo,
de' loricati Achivi ambasciadore
attendati d'Asopo alla riviera.
Di placido messaggio egli a' Tebani
fu portator; ma fieri fatti ei fece
nel suo ritorno col favor tuo solo,
ché nume amico gli venivi al fianco.
E tu propizia a me pur vieni, o Dea,
e salvami. Sull'ara una giovenca
ti ferirò d'un anno, ampia la fronte,
ancor non doma, ancor del giogo intatta.
Questa darotti, e avrà dorato il corno.
Così pregaro, e gli esaudìa la Diva.
Implorata di Giove la possente
figlia Minerva, proseguîr la via
quai due lïoni, per la notte oscura,
per la strage, per l'armi e pe' cadaveri
sparsi in morta di sangue atra laguna.
Né d'altra parte ai forti Teucri Ettorre
permette il sonno; ma de' prenci e duci
chiama tutti i migliori a parlamento;
e raccolti, lor apre il suo consiglio.
Chi di voi mi promette un'alta impresa
per grande premio che il farà contento?
Darogli un cocchio, e di cervice altera
due corsieri, i miglior dell'oste achea
(taccio la fama che n'avrà nel mondo).
Questo dono otterrà chiunque ardisca
appressarsi alle navi, e cauto esplori
se sian, qual pria, guardate, o pur se domo
da nostre forze l'inimico or segga
a consulta di fuga, e le notturne
veglie trascuri affaticato e stanco.
Disse, e il silenzio li fe' tutti muti.
Era un certo Dolone infra' Troiani,
uom che di bronzo e d'oro era possente,
figlio d'Eumede banditor famoso,
deforme il volto, ma veloce il piede,
e fra cinque sirocchie unico e solo.
Si trasse innanzi il tristo, e così disse:
Ettore, questo cor l'incarco assume
d'avvicinarsi a quelle navi, e tutto
scoprir. Lo scettro mi solleva e giura
che l'èneo cocchio e i corridori istessi
del gran Pelìde mi darai: né vano
esploratore io ti sarò: né vôta
fia la tua speme. Nell'acheo steccato
penetrerò, mi spingerò fin dentro
l'agamennònia nave, ove a consulta
forse i duci si stan di pugna o fuga.
Sì disse, e l'altro sollevò lo scettro,
e giurò: Testimon Giove mi sia,
Giove il tonante di Giunon marito,
che da que' bei corsieri altri tirato
non verrà de' Troiani, e che tu solo
glorïoso n'andrai. - Fu questo il giuro,
ma sperso all'aura; e da quel giuro intanto
incitato Dolone in su le spalle
tosto l'arco gittossi, e la persona
della pelle vestì di bigio lupo:
poi chiuse il brutto capo entro un elmetto
che d'ispida faìna era munito.
Impugnò un dardo acuto, ed alle navi,
per non più ritornarne apportatore
di novelle ad Ettorre, incamminossi.
Lasciata de' cavalli e de' pedoni
la compagnia, Dolon spedito e snello
battea la strada. Se n'accorse Ulisse
alla pesta de' piedi, e a Dïomede
sommesso favellò: Sento qualcuno
venir dal campo, né so dir se spia
di nostre navi, o spogliator di morti.
Lasciam che via trapassi, e gli saremo
ratti alle spalle, e il piglierem. Se avvegna
ch'ei di corso ne vinca, tu coll'asta
indefesso l'incalza, e verso il lido
serralo sì, che alla città non fugga.
Uscîr di via, ciò detto, e s'appiattaro
tra' morti corpi; ed egli incauto e celere
oltrepassò. Ma lontanato appena,
quanto è un solco di mule (che de' buoi
traggono meglio il ben connesso aratro
nel profondo maggese), gli fur sopra:
ed egli, udito il calpestìo, ristette,
qualcun sperando che de' suoi venisse
per comando d'Ettorre a richiamarlo.
Ma giunti d'asta al tiro e ancor più presso,
li conobbe nemici. Allor dier lesti
l'uno alla fuga il piè, gli altri alla caccia.
Quai due d'aguzzo dente esperti bracchi
o lepre o caprïol pel bosco incalzano
senza dar posa, ed ei precorre e bela;
tali Ulisse e il Tidìde all'infelice
si stringono inseguendo, e precidendo
sempre ogni scampo. E già nel suo fuggire
verso le navi sul momento egli era
di mischiarsi alle guardie, allor che lena
crebbe Minerva e forza a Dïomede,
onde niun degli Achei vanto si desse
di ferirlo primiero, egli secondo.
Alza l'asta l'eroe, Ferma, gridando,
o ch'io di lancia ti raggiungo e uccido.
Vibra il telo in ciò dir, ma vibra in fallo
a bello studio: gli strisciò la punta
l'omero destro e conficcossi in terra.
Ristette il fuggitivo, e di paura
smorto tremando, della bocca uscìa
stridor di denti che batteano insieme.
L'aggiungono anelanti i due guerrieri,
l'afferrano alle mani, ed ei piangendo
grida: Salvate questa vita, ed io
riscatterolla. Ho gran ricchezza in casa
d'oro, di rame e lavorato ferro.
Di questi il padre mio, se nelle navi
vivo mi sappia degli Achei, faravvi
per la mia libertà dono infinito.
Via, fa cor, rispondea lo scaltro Ulisse,
né veruno di morte abbi sospetto,
ma dinne, e sii verace: Ed a qual fine
dal campo te ne vai verso le navi
tutto solingo pel notturno buio
mentre ogni altro mortal nel sonno ha posa?
A spogliar forse estinti corpi? o forse
Ettor ti manda ad ispïar de' Greci
i navili, i pensieri, i portamenti?
O tuo genio ti mena e tuo diletto?
E a lui tremante di terror Dolone:
Misero! mi travolse Ettore il senno,
e in gran disastro mi cacciò, giurando
che in don m'avrebbe del famoso Achille
dato il cocchio e i destrieri a questo patto,
ch'io di notte traessi all'inimico
ad esplorar se, come pria, guardate
sien le navi, o se voi dal nostro ferro
domi teniate del fuggir consiglio,
schivi di veglie, e di fatica oppressi.
Sorrise Ulisse, e replicò: Gran dono
certo ambiva il tuo cor, del grande Achille
i destrier. Ma domarli e cavalcarli
uom mortale non può, tranne il Pelìde
cui fu madre una Dea. Ma questo ancora
contami, e non mentire: Ove lasciasti,
qua venendoti, Ettorre? ove si stanno
i suoi guerrieri arnesi? ove i cavalli?
quai son de' Teucri le vigilie e i sonni?
quai le consulte? Bloccheran le navi?
O in Ilio torneran, vinto il nemico?
Gli rispose Dolon: Nulla del vero
ti tacerò. Co' suoi più saggi Ettorre
in parte da rumor scevra e sicura
siede a consiglio al monumento d'Ilo.
Ma le guardie, o signor, di che mi chiedi,
nulla del campo alla custodia è fissa.
Ché quanti in Ilio han focolar, costretti
son cotesti alla veglia, e a far la scolta
s'esortano a vicenda: ma nel sonno
tutti giacccion sommersi i collegati,
che da diverse regïon raccolti,
né figli avendo né consorte al fianco,
lasciano ai Teucri delle guardie il peso.
Ma dormon essi co' Troian confusi
(ripiglia Ulisse), o segregati? Parla,
ch'io vo' saperlo. - E a lui d'Eumede il figlio:
Ciò pure ti sporrò schietto e sincero.
Quei della Caria, ed i Peonii arcieri,
i Lelegi, i Caucóni ed i Pelasghi
tutto il piano occupâr che al mare inchina;
ma il pian di Timbra i Licii e i Misii alteri
e i frigii cavalieri, e con gli equestri
lor drappelli i Meonii. Ma dimande
tante perché? Se penetrar vi giova
nel nostro campo, ecco il quartier de' Traci
alleati novelli, che divisi
stansi ed estremi. Han duce Reso, il figlio
d'Eïonèo, e a lui vid'io destrieri
di gran corpo ammirandi e di bellezza,
una neve in candor, nel corso un vento.
Monta un cocchio costui tutto commesso
d'oro e d'argento, e smisurata e d'oro
(maraviglia a vedersi!) è l'armatura,
di mortale non già ma di celeste
petto sol degna. Che più dir? Traetemi
prigioniero alle navi, o in saldi nodi
qui lasciatemi avvinto infin che pure
vi ritorniate, e siavi chiaro a prova
se fu verace il labbro o menzognero.
Lo guatò bieco Dïomede, e disse:
Da che ti spinse in poter nostro il fato,
Dolon, di scampo non aver lusinga,
benché tu n'abbia rivelato il vero.
Se per riscatto o per pietà disciolto
ti mandiam, tu per certo ancor di nuovo
alle navi verresti esploratore,
o inimico palese in campo aperto.
Ma se qui perdi per mia man la vita,
più d'Argo ai figli non sarai nocente.
Disse; e il meschino già la man stendea
supplice al mento; ma calò di forza
quegli il brando sul collo, e ne recise
ambe le corde. La parlante testa
rotolò nella polve. Allor dal capo
gli tolsero l'elmetto, e l'arco e l'asta
e la lupina pelle. In man solleva
le tolte spoglie Ulisse, e a te, Minerva
predatrice, sacrandole, sì prega:
Godi di queste, o Dea, ché te primiera
de' Celesti in Olimpo invocheremo;
ma di nuovo propizia ai padiglioni
or tu de' traci cavalier ne guida.
Disse, e le spoglie su la cima impose
d'un tamarisco, e canne e ramoscelli
sterpando intorno, e di lor fatto un fascio,
segnal lo mette che per l'ombra incerta
nel loro ritornar lo sguardo avvisi.
Quindi inoltrâr pestando sangue ed armi,
e fur tosto de' Traci allo squadrone.
Dormìano infranti di fatica, e stesi
in tre file, coll'armi al suol giacenti
a canto a ciascheduno. Ognun de' duci
tiensi dappresso due destrier da giogo:
dorme Reso nel mezzo; e a lui vicino
stansi i cavalli colle briglie avvinti
all'estremo del cocchio. Avvisto il primo
si fu di Reso Ulisse, e a Dïomede
l'additò: Dïomede, ecco il guerriero,
ecco i destrier che dianzi n'avvisava
quel Dolon che uccidemmo. Or tu fuor metti
l'usata gagliardìa, che qui passarla
neghittoso ed armato onta sarebbe.
Sciogli tu quei cavalli, o a morte mena
costor, ché de' cavalli è mia la cura.
Disse, e spirò Minerva a Dïomede
robustezza divina. A dritta, a manca
fora, taglia ed uccide, e degli uccisi
il gemito la muta aria ferìa.
Corre sangue il terren: come lïone
sopravvenendo al non guardato gregge
scagliarsi, e capre e agnelle empio diserta;
tal nel mezzo de' Traci è Dïomede.
Già dodici n'avea trafitti; e quanti
colla spada ne miete il valoroso,
tanti n'afferra dopo lui d'un piede
lo scaltro Ulisse, e fuor di via li tira,
nettando il passo a' bei destrieri, ond'elli
alla strage non usi in cor non tremino,
le morte salme calpestando. Intanto
piomba su Reso il fier Tidìde, e priva
lui tredicesmo della dolce vita.
Sospirante lo colse ed affannoso
perché per opra di Minerva apparso
appunto in quella gli pendea sul capo,
tremenda visïon, d'Enide il figlio.
Scioglie Ulisse i destrieri, e colle briglie
accoppiati, di mezzo a quella torma
via li mena, e coll'arco li percuote
(ché tor dal cocchio non pensò la sferza),
e d'un fischio fa cenno a Dïomede.
Ma questi in mente discorrea più arditi
fatti, e dubbiava se dar mano al cocchio
d'armi ingombro si debba, e pel timone
trarlo; o se imposto alle gagliarde spalle
via sel porti di peso; o se prosegua
d'altri più Traci a consumar le vite.
In questo dubbio gli si fece appresso
Minerva, e disse: Al partir pensa, o figlio
dell'invitto Tidèo, riedi alle navi,
se tornarvi non vuoi cacciato in fuga,
e che svegli i Troiani un Dio nemico.
Udì l'eroe la Diva, e ratto ascese
su l'uno de' corsier, su l'altro Ulisse
che via coll'arco li tempesta, e quelli
alle navi volavano veloci.
Il signor del sonante arco d'argento
stavasi Apollo alla vedetta, e vista
seguir Minerva del Tidìde i passi,
adirato alla Dea, mischiossi in mezzo
alle turbe troiane, e Ipocoonte
svegliò, de' Traci consigliero, e prode
consobrino di Reso. Ed ei balzando
dal sonno, e de' cavalli abbandonato
il quartiero mirando, e palpitanti
nella morte i compagni, e lordo tutto
di sangue il loco, urlò di doglia, e forte
chiamò per nome il suo diletto amico;
e un trambusto levossi e un alto grido
degli accorrenti Troi, che l'arduo fatto
dei due fuggenti contemplâr stupiti.
Giungean questi frattanto ove d'Ettorre
avean l'incauto esploratore ucciso.
Qui ferma Ulisse de' corsieri il volo:
balza il Tidìde a terra, e nelle mani
dell'itaco guerrier le sanguinose
spoglie deposte, rapido rimonta
e flagella i corsier che verso il mare
divorano la via volonterosi.
Primo udinne il romor Nestore, e disse:
O amici, o degli Achei principi e duci,
non so se falso il cor mi parli o vero;
pur dirò: mi ferisce un calpestìo
di correnti cavalli. Oh fosse Ulisse!
Oh fosse Dïomede, che veloci
gli adducessero a noi tolti a' Troiani!
Ma mi turba timor che a questi prodi
non avvegna fra' Teucri un qualche danno.
Finite non avea queste parole,
che i campioni arrivâr. Balzaro a terra;
e con voci di plauso e con allegro
toccar di mani gli accogliean gli amici.
Nestore il primo interrogolli: O sommo
degli Achivi splendore, inclito Ulisse,
che destrieri son questi? ove rapiti?
nel campo forse de' Troiani? o dielli
fattosi a voi d'incontro un qualche iddio?
Sono ai raggi del Sol pari in candore
mirabilmente; ed io che sempre in mezzo
a' Troiani m'avvolgo, e, benché veglio
guerrier, restarmi neghittoso abborro,
io né questi né pari altri corsieri
unqua vidi né seppi. Onde per via
qualcun mi penso degli Dei v'apparve,
e ven fe' dono; perocché voi cari
siete al gran Giove adunator di nembi,
e alla figlia di Giove alma Minerva.
Nestore, gloria degli Achei, rispose
l'accorto Ulisse, agevolmente un Dio
potrìa darli, volendo, anco migliori,
ché gli Dei ponno più d'assai. Ma questi,
di che chiedi, son traci e qua di poco
giunti: al re loro e a dodici de' primi
suoi compagni diè morte Dïomede,
e tredicesmo un altro n'uccidemmo
dai teucri duci esplorator spedito
del nostro campo. - Così detto, spinse
giubilando oltre il fosso i corridori,
e festeggianti lo seguîr gli Achivi.
Giunto al suo regio padigion, legolli
con salda briglia alle medesme greppie
ove dolci pascen biade i corsieri
Dïomedèi. Ulisse all'alta poppa
le spoglie di Dolon sospende, e a Palla
prepararsi comanda un sacrificio.
Tersero quindi entrambi alla marina
l'abbondante sudor, gambe lavando
e collo e fianchi. Riforbito il corpo
e ricreato il cor, si ripurgaro
nei nitidi lavacri. Indi odorosi
di pingue oliva si sedeano a mensa
pieni i nappi votando, ed a Minerva
libando di Lïèo l'almo licore.

 

Libro XI

 

Dal croceo letto di Titon l'Aurora
sorgea, la terra illuminando e il cielo,
e vêr le navi achee Giove spedìa
la Discordia feral. Scotea di guerra
l'orrida insegna nella man la Dira,
e tal d'Ulisse s'arrestò su l'alta
capitana che posta era nel mezzo,
donde intorno mandar potea la voce
fin d'Aiace e d'Achille al padiglione,
che nella forza e nel gran cor securi
sottratte ai lati estremi avean le prore.
Qui ferma d'un acuto orrendo grido
empì l'achive orecchie, e tal ne' petti
un vigor suscitò, tale un desìo
di pugnar, d'azzuffarsi e di ferire,
che sonava nel cor dolce la guerra
più che il ritorno al caro patrio lido.
Alza Atride la voce, e a tutti impone
di porsi in tutto punto; e d'armi ei pure
folgoranti si veste. E pria circonda
di calzari le gambe ornati e stretti
d'argentee fibbie. Una lorica al petto
quindi si pon che Cinira gli avea
un dì mandata in ospital presente.
Perocché quando strepitosa in Cipro
corse la fama che l'achiva armata
verso Troia spiegar dovea le vele,
gratificar di quell'usbergo ei volle
l'amico Agamennón. Di bruno acciaro
dieci strisce il cingean, dodici d'oro,
venti di stagno. Lubrici sul collo
stendon le spire tre cerulei draghi
simiglianti alle pinte iri che Giove
suol nelle nubi colorar, portento
ai parlanti mortali. Indi la spada
agli omeri sospende rilucente
d'aurate bolle, e la vestìa d'argento
larga vagina col pendaglio d'oro.
Poi lo scudo imbracciò che vario e bello
e di facil maneggio tutto cuopre
il combattente. Ha dieci fasce intorno
di bronzo, e venti di forbito stagno
candidissimi colmi, e un altro in mezzo
di bruno acciar. Su questo era scolpita
terribile gli sguardi la Gorgone
col Terrore da lato e con la Fuga,
rilievo orrendo. Dallo scudo poscia
una gran lassa dipendea d'argento,
lungo la quale azzurro e sinuoso
serpe un drago a tre teste, che ritorte
d'una sola cervice eran germoglio.
Quindi al capo diè l'elmo adorno tutto
di lucenti chiavelli, irto di quattro
coni e d'equine setole con una
superba cresta che di sopra ondeggia
terribilmente. Alfin due lance impugna
massicce, acute, le cui ferree punte
mettean baleni di lontano. Intanto
Giuno e Palla onorando il grande Atride
dier di sua mossa con fragore il segno.
All'auriga ciascuno allor comanda
che parati in bell'ordine sostegna
alla fossa i destrier, mentre a gran passi
chiuse nell'armi le pedestri schiere
procedono al nemico. Ancor non vedi
spuntar l'aurora, e d'ogni parte immenso
romor già senti. Come tutto giunse
l'esercito alla fossa, immantinente
fur cavalli e pedoni in ordinanza,
questi primieri e quei secondi. Intanto
Giove dall'alto romoreggia, e piove
di sangue una rugiada, annunziatrice
delle molte che all'Orco in quel conflitto
anime generose avrìa sospinto.
D'altra parte i Troiani in su l'altezza
si schierano del poggio. In mezzo a loro
s'affaccendano i duci; il grande Ettorre,
d'Anchise il figlio che venìa qual nume
da' Troiani onorato, il giusto e pio
Polidamante, e i tre antenòrei figli,
Polibo, io dico, ed il preclaro Agènore,
ed Acamante, giovinetto a cui
di celeste beltà fiorìa la guancia.
Maestoso fra tutti Ettor si volve
coll'egual d'ogni parte ampio pavese.
E qual di Sirio la funesta stella
or senza vel fiammeggia ed or rientra
nel buio delle nubi, a tal sembianza
or nelle prime file or nell'estreme
Ettore comparìa dando per tutto
provvidenza e comandi, e tutta d'arme
rilucea la persona, e folgorava
come il baleno dell'Egìoco Giove.
Qual di ricco padron nel campo vanno
i mietitori con opposte fronti
falciando l'orzo od il frumento; in lunga
serie recise cadono le bionde
figlie de' solchi, e in un momento ingombra
di manipoli tutta è la campagna;
così Teucri ed Achei gli uni su gli altri
irruendo si mietono col ferro
in mutua strage. Immemore ciascuno
di vil fuga, e guerrier contra guerriero
pugnan tutti del pari, e si van contra
coll'impeto de' lupi. A riguardarli
sta la Discordia, e della strage esulta
a cui sola de' numi era presente.
Sedeansi gli altri taciturni in cielo
in sua magion ciascuno, edificata
su gli ardui gioghi del sereno Olimpo.
Ivi ognuno in suo cor fremea di sdegno
contro l'alto de' nembi addensatore,
che dar vittoria a' Troi volea; ma nullo
pensier si prende di quell'ira il padre
che in sua gloria esultante e tutto solo
in disparte sedea, Troia mirando
e l'achee navi, e il folgorar dell'armi,
e il ferire e il morir de' combattenti.
Finché il mattin processe, e crebbe il sacro
raggio del giorno, d'ambe parti eguale
si mantenne la strage. Ma nell'ora
che in montana foresta il legnaiuolo
pon mano al parco desinar, sentendo
dall'assiduo tagliar cerri ed abeti
stanche le braccia e fastidito il core,
e dolce per la mente e per le membra
serpe del cibo il natural desìo,
prevalse la virtù de' forti Argivi,
che animando lor file e compagnie
sbaragliâr le nemiche. Agamennóne
saltò primier nel mezzo, e Bïanorre,
pastor di genti, uccise, indi Oilèo,
suo compagno ed auriga. Era dal carro
costui sceso d'un salto, e gli venìa
dirittamente contro. A mezza fronte
coll'acuta asta lo colpì l'Atride.
Non resse al colpo la celata; il ferro
penetrò l'elmo e l'osso, e tutto interna-
mente di sangue gli allagò il cerèbro.
Così l'audace assalitor fu domo.
Rapì d'ambo le spoglie Agamennóne,
e nudi il petto li lasciò supini.
Andò poscia diretto ad assalire
due di Priamo figliuoli, Iso ed Antifo,
l'un frutto d'Imeneo, l'altro d'Amore.
Venìano entrambi sul medesmo cocchio
i fratelli: reggeva Iso i destrieri,
Antifo combattea. Sul balzo d'Ida
aveali un giorno sopraggiunti Achille,
mentre pascean le gregge, e di pieghevoli
vermene avvinti, e poi disciolti a prezzo.
Ed or l'Atride Agamennón coll'asta
spalanca ad Iso tra le mamme il petto,
fiede di brando Antifo nella tempia,
e lo spiomba dal cocchio. Immantinente
delle bell'armi li dispoglia entrambi,
che ben li conoscea dal dì che Achille
dai boschi d'Ida prigionier li trasse
seco alle navi, ed ei notonne i volti.
Come quando un lïon nel covo entrato
d'agil cerva, ne sbrana agevolmente
i pargoli portati, e li maciulla
co' forti denti mormorando e sperde
l'anime tenerelle; la vicina
misera madre, non che dar soccorso,
compresa di terror fugge veloce
per le dense boscaglie, e trafelando
suda al pensier della possente belva:
così nullo de' Troi poteo da morte
salvar que' due: ma tutti anzi le spalle
conversero agli Achivi. Assalse ei dopo
Ippòloco e Pisandro, ambo figliuoli
del bellicoso Antìmaco, di quello
che da Paride compro per molt'oro
e ricchi doni, d'Elena impedìa
il rimando al marito. I figli adunque
di costui colse al varco Agamennóne
sovra un medesmo carro ambo volanti,
e turbati e smarriti; ché pel campo
sfrenaronsi i destrieri, e dalla mano
le scorrevoli briglie eran cadute.
Come lïon fu loro addosso, e quelli
s'inginocchiâr, dal carro supplicando:
Lasciane vivi, Atride, e di riscatto
gran pezzo n'otterrai. Molta risplende
nella magion d'Antìmaco ricchezza,
d'oro, di bronzo e lavorato ferro.
Di questo il padre ti darà gran pondo
per la nostra riscossa, ov'egli intenda
vivi i suoi figli nelle navi achee.
Così piangendo supplicâr con dolci
modi, ma dolce non rispose Atride.
Voi d'Antìmaco figli? di colui
che nel troiano parlamento osava
d'Ulisse e Menelao, venuti a Troia
ambasciatori, consigliar la morte?
Pagherete voi dunque ora del padre
l'indegna offesa. - Sì dicendo, immerge
l'asta in petto a Pisandro, e giù dal carro
supin lo stende sul terren. Ciò visto,
balza Ippoloco al suolo, e lui secondo
spaccia l'Atride; coll'acciar gli pota
ambe le mani, e poi la testa, e lungi
come palèo la scaglia a rotolarsi
fra la turba. Lasciati ivi costoro,
fulminando si spinge nel più caldo
tumulto della pugna, e l'accompagna
molta mano d'Achei. Fan strage i fanti
de' fanti fuggitivi, i cavalieri
de' cavalier. Si volve al ciel la polve
dalle sonanti zampe sollevata
de' fervidi corsieri, e Agamennóne
sempre insegue ed uccide, e gli altri accende.
Come quando s'appiglia a denso bosco
incendio struggitor, cui gruppo aggira
di fiero vento e d'ogni parte il gitta:
cadono i rami dall'invitta fiamma
atterrati e combusti; a questo modo
sotto l'Atride Agamennón le teste
cadean de' Teucri fuggitivi; e molti
colle chiome sul collo fluttuanti
destrier traean pel campo i vôti carri,
sgominando le file, ed il governo
desiderando de' lor primi aurighi:
ma quei giacean già spenti, agli avoltoi
gradita vista, alle consorti orrenda.
Fuori intanto dell'armi e della polve,
delle stragi, del sangue e del tumulto
condusse Giove Ettòr. Ma gl'inseguiti
Teucri dritto al sepolcro del vetusto
Dardanid'Ilo verso il caprifico
la piena fuga dirigean, bramosi
di ripararsi alla cittade; e sempre
gl'incalza Atride, e orrendo grida, e lorda
di polveroso sangue il braccio invitto.
Giunti alfine alle Scee quivi sostârsi
vicino al faggio, ed aspettâr l'arrivo
de' compagni pel campo ancor fuggenti,
e simiglianti a torma d'atterrite
giovenche che lïon di notte assalta.
Alla prima che abbranca ei figge i duri
denti nel collo, e avidamente il sangue
succhiatone, n'incanna i palpitanti
visceri: e tale gl'inseguìa l'Atride
sempre il postremo atterrando, e quei sempre
spaventati fuggendo: e giù dal cocchio
altri cadea boccone, altri supino
sotto i colpi del re che innanzi a tutti
oltre modo coll'asta infurïava.
E già in cospetto gli venìan dell'alto
Ilio le mura, e vi giungea; quand'ecco
degli uomini il gran padre e degli Dei
scender dal cielo, e maestoso in cima
sedersi dell'acquosa Ida, stringendo
la folgore nel pugno. Iri a sé chiama
l'ali-dorata messaggiera, e, Vanne
vola, le disse, Iri veloce, e ad Ettore
porta queste parole. Infin ch'ei vegga
tra' primi combattenti Agamennóne
romper le file furibondo, ei cauto
stìasi in disparte, e d'animar sia pago
gli altri a far testa, e oprar le mani. Appena
o di lancia percosso o di saetta
l'Atride il cocchio monterà, si spinga
ei ratto nella mischia. Io porgerogli
alla strage la forza, infin che giunga
vincitore alle navi, e al dì caduto
della notte succeda il sacro orrore.
Disse; e veloce la veloce Diva
dal gioco idèo discende al campo, e trova
stante in piè sul suo carro il bellicoso
Prïamide: e appressata, O tu, gli disse,
che il consiglio d'un Dio porti nel core,
Ettore, le parole odi che Giove
per me ti manda. Infin che Agamennóne
vedrai tra' primi infurïar rompendo
de' guerrieri le file, il piè ritira
tu dal conflitto, e fa che col nemico
pugni il resto de' tuoi. Ma quando ei d'asta
o di strale ferito darà volta
sopra il suo cocchio, allor t'avanza. Avrai
tal da Giove un vigor ch'anco alle navi
la strage spingerai, finché la sacra
ombra si stenda su la morta luce.
Disse, e sparve. L'eroe balza dal cocchio
risonante nell'armi, e nella mano
palleggiando la lancia il campo scorre,
e raccende la pugna. Allor destossi
grande conflitto. Rivoltaro i Teucri
agli Achivi la faccia, e di rincontro
le lor falangi rinforzâr gli Achivi.
Venuti a fronte, rinnovossi il cozzo,
e primiero si mosse Agamennóne
innanzi a tutti di pugnar bramoso.
Muse dell'alto Olimpo abitatrici,
or voi ne dite chi primier si spinse
o troiano guerriero od alleato
contro il supremo Atride. Ifidamante,
d'Antenore figliuolo, un giovinetto
d'altere forme e di gran cor, nudrito
nell'opima di greggi odrisia terra.
L'educò bambinetto in propria casa
della bella Teano il genitore
Cissèo l'avo materno, e maturati
di glorïosa pubertate i giorni
sposo alla figlia il diè. Ma colta appena
d'Imen la rosa, al talamo strappollo
da dodici navigli accompagnato
della venuta degli Achei la fama.
Quindi lasciate alla percopia riva
le sue navi, pedone ad Ilio ei venne,
e primo si piantò contro l'Atride.
Giunti al tiro dell'asta, Agamennóne
vibrò la sua, ma in fallo. Ifidamante
appuntò l'avversario alla cintura
sotto il torace, e colla man robusta
di tutta forza l'asta sospingea;
ma non valse a forarne il ben tessuto
cinto, e spuntossi nell'argentea lama
l'acuta punta, come piombo fosse.
A due mani l'afferra allor l'Atride
con ira di lïone, a sé la tira,
gliela svelle dal pugno; e tratto il brando,
lo percuote alla nuca, e lo distende.
Sì cadde, e chiuse in ferreo sonno i lumi.
Miserando garzon! venne a difesa
del patrio suolo e vi trovò la morte:
né gli compose i rai la giovinetta
consorte, né di lei frutto lasciava
che il ravvivasse; e sì l'avea con molti
doni acquistata: perocché da prima
di cento buoi dotolla, e mille in oltre
madri promise di lanute torme
che numerose gli pasceva il prato.
Spoglia Atride l'ucciso, e le bell'armi
ne porta ovante fra le turbe achee.
Come vide Coon morto il fratello,
(d'Antenore era questi il maggior figlio
e guerriero di grido), una gran nube
di dolor gl'ingombrò la mente e gli occhi.
Ponsi in agguato con un dardo in mano
al re di costa, e vibra. A mezzo il braccio
conficcossi la punta sotto il cubito,
e trapassollo. Inorridì del colpo
l'Atride regnator; ma non per questo
abbandona la pugna; anzi più fiero
colla salda dagli Euri asta nudrita
avventossi a Coon che frettoloso
dell'amato fratello Ifidamante
d'un piè traea la salma, alto chiedendo
de' più forti l'aita. Lo raggiunge
in quell'atto l'Atride, e sotto il colmo
dello scudo gli caccia impetuoso
la zagaglia, e l'atterra. Indi sul corpo
d'Ifidamante il capo gli recide.
Così n'andâr, compiuto il fato, all'Orco
per man d'Atride gli antenòrei figli.
Finché fu calda la ferita, il sire
coll'asta, colla spada e con enormi
ciotti la pugna seguitò; ma come
stagnossi il sangue, e s'aggelò la piaga,
d'acerbe doglie saettar sentissi.
Qual trafigge la donna, al partorire,
l'acuto strale del dolor, vibrato
dalle figlie di Giuno alme Ilitìe,
d'amare fitte apportatrici; e tali
eran le punte che ferìan l'Atride.
Salì dunque sul carro, ed all'auriga
comandò di dar volta alla marina,
e cruccioso elevando alto la voce,
Prenci, amici, gridava, e voi valenti
capitani de' Greci, allontanate
dalle navi il conflitto, or che di Giove
non consente il voler ch'io qui compisca,
combattendo co' Teucri, il giorno intero.
Disse, e l'auriga flagellò i destrieri
verso le navi; e quei volâr spargendo
le belle chiome all'aura; e il petto aspersi
d'alta spuma e di polve in un baleno
fuor del campo ebber tratto il re ferito.
Come dall'armi ritirarsi il vide,
diè un alto grido Ettorre, e rincorando
Troiani e Licii e Dardani tonava:
Uomini siate, amici, e richiamate
l'antica gagliardìa: lasciato ha il campo
quel fortissimo duce, e a me promette
l'Olimpio Giove la vittoria. Or via
gli animosi cornipedi spingete
dirittamente addosso ai forti Achivi,
e acquisto fate d'immortal corona.
Disse, e in tutti destò la forza e il core.
Come buon cacciator contra un lïone
o silvestre cignale il morso aizza
de' fier molossi, così l'ira instiga
de' magnanimi Troi contro gli Achivi
il Prïamide Marte: ed ei tra' primi
intrepido si volve, e nel più folto
della mischia coll'impeto si spinge
di sonante procella che dall'alto
piomba e solleva il ferrugineo flutto.
Allor chi pria, chi poi fu messo a morte
dal Prïamide eroe, quando a lui Giove
fu di gloria cortese? Assèo da prima,
Autònoo, Opìte, e Dòlope di Clito,
Ofeltio ed Agelao, Esimno, ed Oro
e il bellicoso Ippònoo. Fur questi
i dànai duci che il Troiano uccise:
dopo lor, molta plebe. Come quando
di Ponente il soffiar l'umide figlie
di Noto aggira, e con rapido vortice
le sbatte irato: il mar gonfiati e crebri
volve i flutti, e dal turbo in larghi sprazzi
sollevata diffondesi la spuma:
tal Ettore cader confuse e spesse
fa le teste plebee. Disfatta intera
allor sarìa seguìta, e colla strage
de' fuggitivi ineluttabil danno,
se con questo parlar l'accorto Ulisse
non destava il valor di Dïomede.
Magnanimo Tidìde, e qual disdetta
della nostra virtù ci toglie adesso
la ricordanza? Or su; ti metti, amico,
al mio fianco, e tien fermo: onta sarebbe
lasciar che piombi su le navi Ettorre.
E Dïomede di rincontro: Io certo
rimarrò, pugnerò; ma vano il nostro
sforzo sarà, ché la vittoria ai Teucri
dar vuole, non a noi, Giove nemico.
Disse; e coll'asta alla sinistra poppa
Timbrèo percosse, e il riversò dal carro.
Ulisse uccise Molïon, guerriero
d'apparenza divina, e valoroso
del re Timbrèo scudiero. E spenti questi,
si cacciâr nella turba, simiglianti
a due cinghiali di gran cor, che il cerchio
sbarattano de' veltri; e impetuosi
voltando faccia sgominaro i Teucri,
sì che fuggenti dall'ettòreo ferro
preser conforto e respirâr gli Achivi.
Combattean fra le turbe alti sul carro
fortissimi campioni i due figliuoli
di Merope Percòsio. Il genitore,
celebrato indovino, avea dell'armi
il funesto mestier loro interdetto.
Non l'obbediro i figli, e la possanza
seguîr del fato che traeali a morte.
Coll'asta in guerra sì famosa entrambi
gl'investì Dïomede, e colla vita
dell'armi li spogliò, mentre per mano
cadean d'Ulisse Ippòdamo e Ipiròco.
Contemplava dall'Ida i combattenti
di Saturno il gran figlio, e nel suo senno
equilibrava tuttavia la pugna,
e l'orror della strage. Infurïava
pedon tra' primi battaglianti il figlio
di Peone Agastròfo, e non avea
l'incauto eroe dappresso i suoi corsieri,
onde all'uopo salvarsi; ché in disparte
lo scudier li tenea. Mirollo, e ratto
l'assalse Dïomede, e all'anguinaglia
lo ferì di tal colpo che l'uccise.
Cader lo vide Ettorre, e tra le file
si spinse alto gridando, e lo seguièno
le troiane falangi. Al suo venire
turbossi il forte Dïomede, e vòlto
ad Ulisse, dicea: Ci piomba addosso
del furibondo Ettorre la ruina.
Stiam saldi, amico, e sosteniam lo scontro.
Disse, e drizzando alla nemica testa
la mira, fulminò l'asta vibrata,
e colse al sommo del cimier; ma il ferro
fu respinto dal ferro, e non offese
la bella fronte dell'eroe, ché il lungo
triplice elmetto l'impedì, fatato
dono d'Apollo. Sbalordì del colpo
Ettore, e lungi riparò tra' suoi.
Qui cadde su i ginocchi, puntellando
contro il suol la gran palma, e tenebroso
su le pupille gli si stese un velo.
Ma mentre corre a ricovrar Tidìde
la fitta nella sabbia asta possente,
si rïebbe il caduto, e sopra il carro
balzando, nella turba si confuse
novellamente, ed ischivò la morte.
Perocché il figlio di Tidèo coll'asta
un'altra volta l'assalìa gridando:
Cane troian, di nuovo tu la scappi
dalla Parca che già t'avea raggiunto.
Gli è Febo che ti salva, a cui, dell'armi
entrando nel fragor, ti raccomandi.
Ma se verrai per anco al paragone,
ti spaccerò, s'io pure ho qualche Dio.
Qualunque intanto mi verrà ghermito
sconterà la tua fuga. - E sì dicendo,
l'ucciso figlio di Peon spogliava.
Ma della ben chiomata Elena il drudo
Alessandro tenea contro il Tidìde
lo strale in cocca, standosi nascoso
diretro al cippo sepolcral che al santo
Dardanid'Ilo, antico padre, eresse
de' Teucri la pietà. Curvo l'eroe
di dosso al morto Agàstrofo traea
il varïato usbergo, ed il brocchiero
ed il pesante elmetto, allor che l'altro
lentò la corda, e non invan. Veloce
il quadrello volò, nell'ima parte
del destro piè s'infisse, e trapassando
conficcossi nel suolo. Uscì d'agguato
sghignazzando il fellone, e, Sei ferito,
glorïoso gridò: Ve' s'io t'ho côlto
pur finalmente! Oh t'avess'io trafitta
più vital fibra, e tolta l'alma! Avrebbe
dall'affanno dell'armi respirato
il popolo troiano a cui se' orrendo
come il leone alle belanti agnelle.
Villan, cirrato arciero, e di fanciulle
vagheggiator codardo (gli rispose
nulla atterrito Dïomede), vieni
in aperta tenzon, vieni e vedrai
a che l'arco ti giova, e la di strali
piena faretra. Mi graffiasti un piede,
e sì gran vampo meni? Io de' tuoi colpi
prendo il timor che mi darebbe il fuso
di femminetta, o di fanciul lo stecco;
ché non fa piaga degl'imbelli il dardo.
Ma ben altro è il ferir di questa mano.
Ogni puntura del mio telo è morte
del mio nemico, e pianto de' suoi figli
e della sposa che le gote oltraggia;
mentre di sangue il suol quegli arrossando
imputridisce, e intorno gli s'accoglie,
più che di donne, d'avoltoi corona.
Così parlava. Accorso intanto Ulisse
di sé gli fea riparo: ed ei seduto
dell'amico alle spalle il dardo acuto
sconficcossi dal piede. Allor gli venne
per tutto il corpo un dolor grave e tanto,
che angosciato nell'alma e impazïente
montò sul cocchio, ed all'auriga impose
di portarlo volando alle sue tende.
Solo rimase di Laerte il figlio,
ché la paura avea tutti sbandati
gli Argivi; ond'egli addolorato e mesto
seco nel chiuso del gran cor dicea:
Misero, che farò? Male, se in fuga
mi volgo per timor: peggio, se solo
qui mi coglie il nemico ora che Giove
gli altri Achei sgominò. Ma quai pensieri
mi ragiona la mente? Ignoro io forse
che nell'armi il vil fugge, e resta il prode
a ferire o a morir morte onorata?
Mentre in cor queste cose egli discorre,
di scutati Troiani ecco venirne
una gran torma che l'accerchia. Stolti!
che il proprio danno si chiudean nel mezzo.
Come stuol di molossi e di fiorenti
giovani intorno ad un cinghial s'addensa
per investirlo, ed ei da folto vepre
sbocca aguzzando le fulminee sanne
tra le curve mascelle; d'ogni parte
impeto fassi, e suon di denti ascolti,
e della belva si sostien l'assalto,
benché tremenda irrompa e spaventosa:
tali intorno ad Ulisse furïosi
s'aggruppano i Troiani. Alto ei sull'asta
insorge, e primo all'omero ferisce
il buon Deïopìte; indi Toone
mette a morte ed Ennomo, e dopo questi
Chersidamante nel saltar che fea
dal cocchio a terra. Gli cacciò la picca
sotto il rotondo scudo all'umbilico,
e quei riverso nella polve strinse
colla palma la sabbia. Abbandonati
costor, coll'asta avventasi a Caropo,
d'Ippaso figlio, e dell'illustre Soco
fratel germano; e lo ferisce. Accorre
il dëiforme Soco in sua difesa,
e all'Itacense fattosi vicino
fermasi, e parla: Artefice di frodi
famoso, e sempre infatigato Ulisse,
oggi, o palma otterrai d'entrambi i figli
d'Ippaso, e, spenti, n'avrai l'armi; o colto
tu dal mio telo perderai la vita.
Vibrò, ciò detto, e lo colpì nel mezzo
della salda rotella. Il vïolento
dardo lo scudo traforò, ficcossi
nella corazza, e gli stracciò sul fianco
tutta la pelle: non permise al ferro
l'addentrarsi di più Palla Minerva.
Conobbe tosto che letal non era
il colpo Ulisse; e retrocesso alquanto,
Sciagurato, rispose al suo nemico,
or sì che morte al varco ti raggiunse.
Mi togliesti, egli è vero, il poter oltre
pugnar co' Teucri, ma ben io t'affermo
che questa di tua vita è l'ultim'ora,
e che tu dalla mia lancia qui domo,
la palma a me darai, lo spirto a Pluto.
Disse, e l'altro fuggiva. Al fuggitivo
scaglia Ulisse il suo cerro, e a mezzo il tergo
sì glielo pianta che gli passa al petto.
Diè d'armi un suono nel cadere, e il divo
vincitor l'insultò: Soco, del forte
Ippaso cavaliero audace figlio,
morte t'ha giunto innanzi tempo, e vana
fu la tua fuga. Misero! né il padre
gli occhi tuoi chiuderà né la pietosa
madre, ma densi a te gli scaveranno
gli avoltoi dibattendo le grandi ali
su la tua fronte; e me spento di tomba
onoreranno i generosi Achei.
Detto ciò, dalla pelle e dal ricolmo
brocchier si svelse del possente Soco
il duro giavellotto, e nel cavarlo
diè sangue, e forte dolorossi il fianco.
Visto il sangue d'Ulisse, i coraggiosi
Teucri l'un l'altro inanimando mossero
per assalirlo: ma l'accorto indietro
si ritrasse, e i compagni ad alta voce
chiamò. Tre volte a tutta gola ei grida,
tre volte il marzio Menelao l'intese,
e ad Aiace converso, Aiace, ei disse,
Telamònio regal seme divino,
sento all'orecchio risonarmi il grido
del sofferente Ulisse, e tal mi sembra
qual se, solo rimasto, ei sia da' Teucri
nel forte della mischia oppresso e chiuso.
Corriam, ché giusto è l'aitarlo: solo
fra nemici potrebbe il valoroso
grave danno patirne, e costerìa
la sua morte agli Achei molti sospiri.
Si mise in via, ciò detto, e lo seguiva
quel magnanimo, tale al portamento
che un Dio detto l'avresti: e il caro a Giove
Ulisse ritrovâr da densa torma
accerchiato di Teucri. A quella guisa
che affamate s'attruppano le linci
dintorno a cervo di gran corna, a cui
fisse lo strale il cacciator nel fianco,
e il ferito fuggì dal feritore
finché fu caldo il sangue e lesto il piede;
ma domo alfine dallo stral nel bosco
lo dismembran le linci; allor, se guida
colà fortuna un fier lïon, disperse
sfrattano quelle, ed ei fa sua la preda:
molta turba così di valorosi
Teucri intorno al pugnace astuto Ulisse
aggirasi; ma l'asta dimenando
l'eroe tien lungi la fatal sua sera.
E comparir tremendo ecco d'Aiace
il torreggiante scudo, eccolo fermo
dinanzi a quell'oppresso, e scombuiarsi
chi qua chi là per lo spavento i Teucri.
Per man lo prende allora il generoso
minor Atride, e fuor dell'armi il tragge
finché l'auriga i corridor gli adduca.
Ma il Telamònio eroe contra i Troiani
irrompendo, il Prïamide bastardo
Doriclo uccide; e poi Pandoco, e poi
Lisandro fiede e Piraso e Pilarte.
E come quando ruinoso un fiume,
cui crebbe l'invernal pioggia di Giove,
si devolve dal monte alla pianura,
e molte aride querce e molti pini
rotando spinge una gran torba al mare:
tal cavalli tagliando e cavalieri
l'illustre Aiace furïoso insegue
per lo campo i Troiani; e non per anco
n'aveva Ettorre udita la ruina,
ch'ei della zuffa sul sinistro corno
pugnava in riva allo Scamandro, dove
il cader delle teste era più spesso,
e infinito il clamor dintorno al grande
Nestore e al marzio Idomenèo. Qui stava
Ettore, e oprava orrende cose, e densa
colla lancia e col carro distruggeva
la gioventude achea. Né ancor per tanto
avrian gli Argivi abbandonato il campo,
se il bel marito della bella Elèna
Alessandro ritrar non fea dall'armi
il bellicoso Macaon, ferendo
l'illustre duce all'omero diritto
con trisulca saetta. Di quel colpo
tremâr gli Achivi, e si scorâr, temendo
che, inclinata di Marte la fortuna,
non vi restasse il buon guerriero ucciso.
Onde a Nestore vòlto Idomenèo:
Eroe Nelìde, ei disse, alto splendore
degli Achivi, t'affretta, il carro ascendi
e Macaone vi raccogli, e ratto
sferza i cavalli al mar, salva quel prode,
ch'egli val molte vite, e non ha pari
nel cavar dardi dalle piaghe, e spargerle
di balsamiche stille. - A questo dire
montò l'antico cavaliero il cocchio
subitamente, vi raccolse il figlio
d'Esculapio divin medicatore,
sferzò i destrieri, e quei volaro al lido
volonterosi e dal desìo chiamati.
Vide in questa de' Teucri lo scompiglio
Cebrïon che d'Ettorre al fianco stava,
e rivolto a quel duce: Ettorre, ei disse,
noi di Dànai qui stiamo a far macello
nel corno estremo dell'orrenda mischia,
e gli altri Teucri intanto in fuga vanno
cavalli e battaglier cacciati e rotti
dal Telamònio Aiace: io ben lo scerno
all'ampio scudo che gli copre il petto.
Drizziamo il carro a quella volta, ch'ivi
più feroce de' fanti e cavalieri
è la zuffa, e più forti odo le grida.
Così dicendo, col flagel sonoro
i ben chiomati corridor percosse,
che sentita la sferza a tutto corso
fra i Troiani e gli Achei traean la biga,
cadaveri pestando ed elmi e scudi.
Era tutto di sangue orrido e lordo
l'asse di sotto e l'àmbito del cocchio,
cui l'ugna de' corsieri e la veloce
ruota spargean di larghi sprazzi. Anela
il teucro duce di sfondar la turba,
e spezzarla d'assalto. In un momento
gli Achivi sgominò, sempre coll'asta
fulminando; e scorrendo entro le file,
colla lancia, col brando e con enormi
macigni le rompea. Solo d'Aiace
evitava lo scontro. Ma l'Eterno
alto-sedente al cor d'Aiace incusse
tale un terror che attonito ristette,
e paventoso si gittò sul tergo
la settemplice pelle, e nel dar volta
come una fiera si guatava intorno
nel mezzo della turba, e tardi e lenti
alternando i ginocchi, all'inimico
ad or ad ora convertìa la fronte.
Come fulvo leon che dall'ovile
vien da' cani cacciato e da' pastori
che de' buoi gli frastornano la pingue
preda, la notte vigilando intera:
famelico di carne ei nondimeno
dritto si scaglia, e in van; ché dall'ardite
destre gli piove di saette un nembo
e di tizzi e di faci, onde il feroce
atterrito rifugge, e in sul mattino
mesto i campi traversa e si rinselva:
tale Aiace da' Teucri in suo cor tristo
e di mal grado assai si dipartìa
delle navi temendo. E quale intorno
ad un pigro somier, che nella messe
si ficcò, s'arrabattano i fanciulli
molte verghe rompendogli sul tergo,
ed ei pur segue a cimar l'alta biada,
né de' lor colpi cura la tempesta,
ché la forza è bambina, e appena il ponno
allontanar poiché satolla ha l'epa;
non altrimenti i Teucri e le coorti
collegate inseguìan senza riposo
il gran Telamonìde, e colle basse
lance nel mezzo gli ferìan lo scudo.
Ma memore l'eroe di sua virtude
or rivolta la faccia, e le falangi
respinge de' nemici, or lento i passi
move alla fuga: e sì potette ei solo
che di sboccarsi al mar tutti rattenne.
Ritto in mezzo ai Troiani ed agli Achivi
infurïava, e sostenea di strali
una gran selva sull'immenso scudo,
e molti a mezzo spazio e senza forza,
pria che il corpo gustar, perdeano il volo
desïosi di sangue. In questo stato
lo mirò d'Evemon l'inclito figlio
Euripilo, ed a lui, che sotto il nembo
degli strali languìa, fatto dappresso,
a vibrar cominciò l'asta lucente,
e il duce Apisaon, di Fausia figlio,
nell'epate percosse, e gli disciolse
de' ginocchi il vigor. Sovra il caduto
Euripilo avventossi, e le bell'armi
di dosso gli traea. Ma come il vide
Paride, il drudo di beltà divina,
del morto Apisaon l'armi rapire,
mise in cocca lo strale, e d'aspra punta
la destra coscia gli ferì. Si franse
il calamo pennuto, e tal nell'anca
spasmo destò, che ad ischivar la morte
gli fu mestieri ripararsi a' suoi,
alto gridando, O amici, o prenci achivi,
volgetevi, sostate, liberate
da morte Aiace; egli è da' teli oppresso,
sì ch'io pavento, ohimè! che più non abbia
scampo l'eroe: correte, circondate
de' vostri petti il Telamònio figlio.
Così disse il ferito: e quelli a gara
stretti inclinando agli omeri gli scudi,
e l'aste sollevando, al grande Aiace
si fêr dappresso; ed ei venuto in salvo
tra' suoi, di nuovo la terribil faccia
converse all'inimico. In cotal guisa,
come fiamma, tra questi ardea la zuffa.
Di sudor molli intanto e polverose
le cavalle nelèe fuor della pugna
traean col duce Macaon Nestorre.
Lo vide il divo Achille e lo conobbe,
mentre ritto si stava in su la poppa
della sua grande capitana, e il fiero
lavor di Marte, e degli Achei mirava
la lagrimosa fuga. Incontanente
mise un grido, e chiamò dall'alta nave
il compagno Patròclo: e questi appena
dalla tenda l'udì, che fuori apparve
in marzïal sembianza; e dal quel punto
ebbe inizio fatal la sua sventura.
Parlò primiero di Menèzio il figlio:
A che mi chiami, a che mi brami, Achille?
O mio diletto nobile Patròclo,
gli rispose il Pelìde, or sì che spero
supplicanti e prostesi a' miei ginocchi
veder gli Achivi, ché suprema e dura
necessità li preme. Or vanne, o caro,
vanne e chiedi a Nestòr chi quel ferito
sia, ch'ei ritragge dalla pugna. Il vidi
ben io da tergo, e Macaon mi parve,
d'Esculapio il figliuol; ma del guerriero
non vidi il volto, ché veloci innanzi
mi passâr le cavalle, e via spariro.
Disse; e Patròclo obbedïente al cenno
dell'amico diletto già correa
tra le navi e le tende. E quelli intanto
del buon Nelìde al padiglion venuti
dismontaro, e l'auriga Eurimedonte
sciolse dal carro le nelèe puledre,
mentr'essi al vento asciugano sul lido
le tuniche sudate, e delle membra
rinfrescano la vampa: indi raccolti
dietro la tenda s'adagiâr su i seggi.
Apparecchiava intanto una bevanda
la ricciuta Ecamède. Era costei
del magnanimo Arsìnoo una figliuola
che il buon vecchio da Tenedo condotta
avea quel dì che la distrusse Achille,
e a lui, perché vincea gli altri di senno,
fra cento eletta la donâr gli Achivi.
Trass'ella innanzi a lor prima un bel desco
su piè sorretto d'un color che imbruna,
sovra il desco un taglier pose di rame,
e fresco miel sovresso, e la cipolla
del largo bere irritatrice, e il fiore
di sacra polve cereal. V'aggiunse
un bellissimo nappo, che recato
aveasi il veglio dal paterno tetto,
d'aurei chiovi trapunto, a doppio fondo,
con quattro orecchie, e intorno a ciascheduna
due beventi colombe, auree pur esse.
Altri a stento l'avrìa colmo rimosso;
l'alzava il veglio agevolmente. In questo
la simile alle Dee presta donzella
pramnio vino versava; indi tritando
su le spume caprin latte rappreso,
e spargendovi sovra un leggier nembo
di candida farina, una bevanda
uscir ne fece di cotal mistura,
che apprestata e libata, ai due guerrieri
la sete estinse e rinfrancò le forze.
Diersi, ciò fatto, a ricrear parlando
gli affaticati spirti; e sulla soglia
ecco apparir Patròclo, e soffermarsi
in sembianza di nume il giovinetto.
Nel vederlo levossi il vecchio in piedi
dal suo lucido seggio, e l'introdusse
presol per mano, e di seder pregollo.
Egli all'invito resistea, dicendo:
Di seder non m'è tempo, egregio veglio,
né obbedirti poss'io. Tremendo, iroso
è colui che mi manda a interrogarti
del guerrier che ferito hai qui condotto.
Or io mel so per me medesmo, e in lui
ravviso il duce Macaon. Ritorno
dunque ad Achille relator di tutto.
Sai quanto, augusto veglio, ei sia stizzoso
e a colpar pronto l'innocente ancora.
Disse, e il gerenio cavalier rispose:
E donde avvien che de' feriti Achivi
sente Achille pietà? Né ancor sa quanta
pel campo s'innalzò nube di lutto.
Piagati altri da lungi, altri da presso
nelle navi languiscono i più prodi.
Di saetta ferito è Dïomede,
d'asta l'inclito Ulisse e Agamennóne,
Euripilo di strale nella coscia,
e di strale egli pur questo che vedi
da me condotto. Il prode Achille intanto
niuna si prende né pietà né cura
degl'infelici Achivi. Aspetta ei forse
che mal grado di noi la fiamma ostile
arda al lido le navi, e che noi tutti
l'un su l'altro cadiam trafitti e spenti?
Ahi che la possa mia non è più quella
ch'agili un tempo mi facea le membra!
Oh quel fior m'avess'io d'anni e di forza,
ch'io m'ebbi allor che per rapiti armenti
tra noi surse e gli Elèi fiera contesa!
Io predai con ardita rappresaglia
del nemico le mandre, e l'elïese
Ipirochìde Itimonèo distesi.
Combattea de' suoi tauri alla difesa
l'uom forte, e un dardo di mia mano uscito
lui tra' primi percosse, e al suo cadere
l'agreste torma si disperse in fuga.
Noi molta preda n'adducemmo e ricca:
di buoi cinquanta armenti, ed altrettante
di porcelli, d'agnelle e di caprette,
distinte mandre, e cento oltre cinquanta
fulve cavalle, tutte madri, e molte
col poledro alla poppa. Ecco la preda
che noi di notte ne menammo in Pilo.
Gioì Nelèo vedendo il giovinetto
figlio guerrier di tante spoglie opimo.
Venuto il giorno, la sonora voce
de' banditor chiamò tutti cui fosse
qualche compenso dagli Elèi dovuto.
Di Pilo i capi congregârsi, e grande
sendo il dovere degli Elèi, fu tutta
scompartita la preda, e rintegrate
l'antiche offese. Perciocché la forza
d'Ercole avendo desolata un giorno
la nostra terra, e i più prestanti uccisi,
e di dodici figli di Nelèo
prodi guerrier rimasto io solo in Pilo
con altri pochi oppressi, i baldanzosi
Elèi di nostre disventure alteri
n'insultâr, ne fêr danno. Or dunque in serbo
tenne il vecchio per sé di tauri intero
un armento trascelto, e un'ampia greggia
di ben trecento pecorelle, insieme
co' mandriani; giusta ricompensa
di quattro egregi corridor, mandati
in un col carro a conquistargli un tripode
nell'olimpica polve, e dall'elèo
rege rapiti, rimandando spoglio
de' bei corsieri il doloroso auriga.
Di questi oltraggi il vecchio padre irato
larga preda si tolse, e al popol diede,
giusta il dovuto, a ripartirsi il resto.
Mentre intenti ne stiamo a queste cose,
e offriam per tutta la città solenni
sacrifici agli Eterni, ecco nel terzo
giorno gli Elèi con tutte de' lor fanti
e cavalli le forze in campo uscire,
ed ambedue con essi i Molïoni,
giovinetti ancor sori ed inesperti
negl'impeti di Marte. Su l'Alfèo
in arduo colle assisa è una cittade
Trïoessa nomata, ultima terra
dell'arenosa Pilo. Desïosi
di porla al fondo la cingean d'assedio.
Ma come tutto superaro il campo,
frettolosa e notturna a noi discese
dall'Olimpo Minerva, ad avvisarne
di pigliar l'armi; e congregò le turbe
per la cittade, non già lente e schive,
ma tutte accese del desìo di guerra.
Non mi assentiva il genitor Nelèo
l'uscir con gli altri armato; e perché destro
nel fiero Marte ancor non mi credea,
occultommi i destrieri. Ed io pedone
v'andai scorto da Pallade, e tra' nostri
cavalier mi distinsi in quella pugna.
Sul fiume Minïèo che presso Arena
si devolve nel mar, noi squadra equestre
posammo ad aspettar l'alba divina,
finché n'avesse la pedestre aggiunti.
Riunito l'esercito, movemmo
ben armati ed accinti, e sul merigge
d'Alfèo giungemmo all'onde sacre. Quivi
propizïammo con opime offerte
l'onnipossente Giove; al fiume un toro
svenammo, un altro al gran Nettunno, e intatta
a Palla una giovenca. Indi pel campo
preso a drappelli della sera il cibo,
tutti ne demmo, ognun coll'armi indosso,
lungo il fiume a dormir. Stringean frattanto
d'assedio la cittade i forti Elèi
d'espugnarla bramosi. Ma di Marte
ebber tosto davanti una grand'opra.
Brillò sul volto della terra il sole,
e noi Minerva supplicando e Giove
appiccammo la zuffa. Aspro fu il cozzo
delle due genti, ed io primiero uccisi
(e i corsieri gli tolsi) il bellicoso
Mulio, gener d'Augìa, del quale in moglie
la maggior figlia possedea, la bionda
Agamède, cui nota era, di quante
l'almo sen della terra erbe produce,
la medica virtù. Questo io trafissi
coll'asta, e lo distesi, e, dell'ucciso
salito il cocchio, mi cacciai tra' primi.
Visto il duce cader de' cavalieri
che gli altri tutti di valor vincea,
si sgomentaro i generosi Elèi,
e fuggîr d'ogni parte. Io come turbo
mi serrai loro addosso, e di cinquanta
carri fei preda, e intorno a ciascheduno
mordean la polve dal mio ferro ancisi
due combattenti. E messi a morte avrei
gli Attòridi pur anco, i due medesmi
Molïoni, se fuor della battaglia
non li traea, coprendoli di nebbia,
il gran rege Nettunno. Al nostro ardire
alta vittoria allor Giove concesse.
Perocché per lo campo, tutto sparso
di scudi e di cadaveri, tant'oltre
gl'inseguimmo uccidendo, e raccogliendo
le bell'armi nemiche, che spingemmo
fino ai buprasii solchi i corridori,
fin all'olenio sasso, ed alla riva
d'Alèsio, al luogo che Calon si noma.
Qui fêr alto per cenno di Minerva
i vincitori, e qui l'estremo io spensi.
Da Buprasio frattanto i nostri prodi
riconduceano a Pilo i polverosi
carri, e dar laude si sentìa da tutti
a Giove in cielo, ed a Nestorre in terra.
Tal nelle pugne apparve il valor mio.
Ma del valor d'Achille il solo Achille
godrassi, e quando consumati ahi! tutti
vedrà gli Achivi, piangerà, ma indarno.
Caro Patròclo, nel pensier richiama
di Menèzio i precetti, onde il buon veglio
t'accompagnava il giorno che da Ftia
ti spediva all'Atride Agamennóne.
Fummo presenti, e gli ascoltammo interi
il divo Ulisse ed io Nestorre, entrambi
al regal tetto di Pelèo venuti
a far eletta di guerrieri achei.
Ivi l'eroe Menèzio e te vedemmo
d'Achille al fianco. Il cavalier Pelèo,
venerando vegliardo, entro il cortile
al fulminante Giove ardea le pingui
cosce d'un tauro, e sull'ardenti fibre
negro vino da nappo aureo versava.
Voi vi stavate preparando entrambi
le sacre carni, e noi giungemmo in quella
sul limitar. Stupì, levossi Achille,
per man ne prese, e n'introdusse, in seggio
ne collocò, ne pose innanzi i doni
che il santo dritto dell'ospizio chiede.
Ristorati di cibo e di bevanda,
io parlai primamente, e v'esortava
l'uno e l'altro a seguirne; e il bramavate
voi fortemente. E quai de' due canuti
fûro allora i conforti? Al figlio Achille
raccomandò Pelèo l'oprar mai sempre
da prode, e a tutti di valor star sopra.
Ma volto a te l'Attòride Menèzio,
Figlio, il vecchio dicea, ti vince Achille
di sangue, e tu lui d'anni; egli di forza,
tu di consiglio. Con prudenti avvisi
dunque il governa e l'ammonisci, e all'uopo
t'obbedirà. Tal era il suo precetto;
tu l'obblïasti. Or via, l'adempi adesso,
parla all'amico bellicoso, e tenta
süaderlo. Chi sa? Qualche buon Dio
animerà le tue parole, e l'alma
toccherà di quel fiero. Al cor va sempre
l'ammonimento d'un diletto amico.
Ché s'ei paventa in suo segreto un qualche
vaticinio, se alcuno a lui da Giove
la madre ne recò, te mandi almeno
co' Mirmidóni a confortar gli Achivi
nella battaglia, e l'armi sue ti ceda.
Forse ingannati dall'aspetto i Teucri
ti crederan lui stesso, e fuggiranno,
e gli egri Achei respireranno: è spesso
di gran momento in guerra un sol respiro.
E voi freschi guerrieri agevolmente
respingerete lo stanco nemico
dalle tende e dal mare alla cittade.
Sì disse il saggio, e tutto si commosse
il cor nel petto di Patròclo. Ei corse
lungo il lido ad Achille, e giunto all'alta
capitana d'Ulisse, ove nel mezzo
ai santi altari si tenea ragione
e parlamento, d'Evemone il figlio
Eurìpilo scontrò, che di saetta
ferito nella coscia e vacillante
dalla pugna partìa. Largo il sudore
gli discorrea dal capo e dalle spalle,
e molto sangue dalla ria ferita,
ma intrepida era l'alma. Il vide e n'ebbe
pietade il forte Menezìade, e a lui
lagrimando si volse: Oh sventurati
duci Achei! così dunque, ohimè! lontani
dai cari amici e dalla patria terra
de' vostri corpi sazïar di Troia
dovevate le belve? Eroe divino
Eurìpilo, rispondi: Sosterranno
gli Achei la possa dell'immane Ettorre,
o cadran spenti dal suo ferro? - Oh diva
stirpe, Patròclo, (Eurìpilo rispose)
nullo è più scampo per gli Achei, se scampo
non ne danno le navi. I più gagliardi
tutti giaccion feriti, e ognor più monta
de' Troiani la forza. Or tu cortese
conservami la vita. Alla mia nave
guidami, e svelli dalla coscia il dardo,
con tepid'onda lavane la piaga
e su vi spargi i farmaci salubri
de' quali è grido che imparata hai l'arte
dal Pelìde, e il Pelìde da Chirone
de' Centauri il più giusto. Or tu m'aita,
ché Podalirio e Macaon son lungi;
questi, credo, in sua tenda, anch'ei piagato
è di medica man necessitoso;
l'altro co' Teucri in campo si travaglia.
Qual fia dunque la fin di tanti affanni?
soggiunse di Menèzio il forte figlio,
e che faremo, Eurìpilo? Gran fretta
mi sospinge ad Achille a riportargli
del guardïano degli Achei Nestorre
una risposta: ma pietà non vuole
che in questo stato io t'abbandoni. - Il cinse
colle braccia, ciò detto, e nella tenda
il menò, l'adagiò sopra bovine
pelli dal servo acconciamente stese,
indi col ferro dispiccò dall'anca
l'acerbissimo strale, e con tepenti
linfe la tabe ne lavò. Vi spresse
poi colle palme il lenïente sugo
d'un'amara radice. Incontanente
calmossi il duolo, ristagnossi il sangue,
ed asciutta si chiuse la ferita.

 

Libro XII

 

Così dentro alle tende medicava
d'Eurìpilo la piaga il valoroso
Menezìade. Frattanto alla rinfusa
pugnan Teucri ed Achei; né scampo a questi
è più la fossa omai, né l'ampio muro
che l'armata cingea. L'avean gli Achivi
senza vittime eretto a custodire
i navigli e le prede. Edificato
dunque malgrado degli Dei, gran tempo
non durò. Finché vivo Ettore fue,
e irato Achille, e Troia in piedi, il muro
saldo si stette; ma de' Teucri estinte
l'alme più prodi, e degli Achei pur molte,
e al decim'anno Ilio distrutto, e il resto
degli Argivi tornato al patrio lido,
decretâr del gran muro la caduta
Nettunno e Apollo, l'impeto sfrenando
di quanti fiumi dalle cime idèe
si devolvono al mar, Reso, Granìco,
Rodio, Careso, Eptàporo ed Esèpo
e il divino Scamandro e Simoenta
che volge sotto l'onde agglomerati
tanti scudi, tant'elmi e tanti eroi.
Di questi rivoltò Febo le bocche
contro l'alta muraglia, e vi sospinse
nove giorni la piena. Intanto Giove,
perché più ratto l'ingoiasse il mare,
incessante piovea. Nettunno istesso
precorrea le fiumane, e col tridente
e coll'onda atterrò le fondamenta
che di travi e di sassi v'avean posto
i travagliosi Achivi; infin che tutta
al piano l'adeguò lungo la riva
dell'Ellesponto. Smantellato il muro,
fe' di quel tratto un arenoso lido,
e tornò le bell'acque al letto antico.
Di Nettunno quest'era e in un d'Apollo
l'opra futura. Ma la pugna intorno
a quel valido muro or ferve e mugge.
Cigolar delle torri odi percosse
le compàgi, e gli Achei dentro le navi
chiudonsi domi dal flagel di Giove,
e paventosi dell'ettoreo braccio,
impetuoso artefice di fuga;
perocché pari a turbine l'eroe
sempre combatte. E qual cinghiale o bieco
leon cui fanno cacciatori e cani
densa corona, di sue forze altero
volve dintorno i truci occhi, né teme
la tempesta de' dardi né la morte,
ma generoso si rigira e guarda
dove slanciarsi fra gli armati, e ovunque
urta, s'arretra degli armati il cerchio;
tal fra l'armi s'avvolge il teucro duce,
i suoi spronando a valicar la fossa.
Ma non l'ardìan gli ardenti corridori
che mettean fermi all'orlo alti nitriti,
dal varco spaventati arduo a saltarsi
e a tragittarsi: perocché dintorno
s'aprìan profondi precipizi, e il sommo
margo d'acuti pali era munito,
di che folto v'avean contro il nemico
confitto un bosco gli operosi Achei,
tal che passarvi non potean le rote
di volubile cocchio. Ma bramosi
ardean d'entrarvi e superarlo i fanti.
Fattosi innanzi allor Polidamante
ad Ettore sì disse: Ettore, e voi
duci troiani e collegati, udite.
Stolto ardire è il cacciar dentro la fossa
gli animosi cavalli. E non vedete
il difficile passo e la foresta
d'acute travi, che circonda il muro?
Di niuna guisa ai cavalier non lice
calarsi in quelle strette a far conflitto,
senza periglio di mortal ferita.
Se il Tonante in suo sdegno ha risoluta
degli Achei la ruina e il nostro scampo,
ben io vorrei che questo intervenisse
qui tosto, e che dal caro Argo lontani
perdesser tutti coll'onor la vita.
Ma se voltano fronte, e dalle navi
erompendo con impeto, nel fondo
ne stringono del fosso, allor, cred'io,
niuno in Troia di noi nunzio ritorna
salvo dal ferro de' conversi Achei.
Diam dunque effetto a un mio pensier. Sul fosso
ogni auriga rattenga i corridori,
e noi pedoni, corazzati e densi
tutti in punto seguiam l'orme d'Ettorre.
Non sosterranno il nostro urto gli Achivi,
se l'ora estrema del lor fato è giunta.
Disse; e ad Ettore piacque il saggio avviso.
Balzò dunque dal carro incontanente
tutto nell'armi, e balzâr gli altri a gara,
visto l'esempio di quel divo. Ognuno
fe' precetto all'auriga di sostarsi
co' destrieri alla fossa in ordinanza;
ed essi in cinque battaglion divisi
seguiro i duci. Andò la prima squadra
con Ettore e col buon Polidamante,
ed era questa il fiore e il maggior nerbo
de' combattenti, desïosi tutti
di spezzar l'alto muro, e su le navi
portar la pugna: terzo condottiero
li seguìa Cebrïon, messo in sua vece
alla custodia dell'ettoreo carro
altro men prode auriga. Erano i duci
della seconda Paride, Alcatòo
ed Agenorre. Della terza il divo
Dëifobo ed Elèno ed Asio, il prode
d'Irtaco figlio, cui d'Arisba a Troia
portarono e dall'onda Selleente
due destrier di gran corpo e biondo pelo.
Capitan della quarta era d'Anchise
l'egregia prole, Enea, co' due d'Antènore
pugnaci figli Archìloco e Acamante.
Degl'incliti alleati è condottiero
Sarpedonte, con Glauco e Asteropèo,
da lui compagni del comando assunti
come i più forti dopo sé, tenuto
il più forte di tutti. In ordinanza
posti i cinque drappelli, e di taurine
targhe coperti, mossero animosi
contro gli Achei, sperando entro le navi
precipitarsi alfin senza ritegno.
Mentre tutti e Troiani ed alleati
al consiglio obbedìan dell'incolpato
Polidamante, il duce Asio sol esso
lasciar né auriga né corsier non volle,
ma vêr le navi li sospinse. Insano!
Que' corsieri, quel cocchio, ond'egli esulta,
nol torranno alla morte, e dalle navi
in Ilio no nol torneran. La nera
Parca già il copre, e all'asta lo consacra
del chiaro Deucalìde Idomenèo.
Alla sinistra del naval recinto
ove carri e cavalli in gran tumulto
venìan cacciando i fuggitivi Achei,
spins'egli i suoi corsier verso la porta,
non già di sbarre assicurata e chiusa,
ma spalancata e da guerrier difesa
a scampo de' fuggenti. Il coraggioso
flagellò drittamente i corridori
a quella volta, e con acute grida
altri il seguìan, sperandosi che rotti,
senza far testa, nelle navi in salvo
precipitosi fuggirìan gli Achivi.
Stolta speranza! Custodìan la porta
due fortissimi eroi, germi animosi
de' guerrieri Lapiti. Era l'un d'essi
Polipète, figliuol di Piritòo,
l'altro il feroce Leontèo. Sublimi
stavan quivi costor, sembianti a due
eccelse querce in cima alla montagna,
che ferme e colle lunghe ampie radici
abbracciando la terra, eternamente
sostengono la piova e le procelle;
così fidati nelle man robuste,
ben lungi dal voltar per tema il tergo,
voltan anzi la fronte i due guerrieri,
d'Asio aspettando la gran furia. Ed esso
coll'Asiade Acamante, e con Oreste
e Jameno e Toone ed Enomào
sollevando gli scudi, il forte muro
van con fracasso ad assalir. Ma fermi
sull'ingresso i due prodi altrui fan core
alla difesa delle navi. Alfine
visti i Teucri avventarsi alla muraglia
d'ogni parte, e fuggir con alto grido
di spavento gli Achivi, impeto fece
l'ardita coppia: e fiero anzi le porte
un conflitto attaccâr, come silvestri
verri ch'odon sul monte avvicinarsi
il fragor della caccia: impetuosi
fulminando a traverso, a sé dintorno
rompon la selva, schiantano la rosta
dalle radici, e sentir fanno il suono
del terribile dente, infine che colti
d'acuto strale perdono la vita;
di questi due così sopra i percossi
petti sonava il luminoso acciaro,
e così combattean, nelle gagliarde
destre fidando, e nel valor di quelli
che di sopra dai merli e dalle torri
piovean nembi di sassi alla difesa
delle tende, dei legni e di se stessi.
Cadean spesse le pietre come spessa
la grandine cui vento impetuoso
di negre nubi agitator riversa
sull'alma terra; né piovean gli strali
sol dalle mani achive, ma ben anco
dalle troiane, e al grandinar de' sassi
smisurati mettean roco un rimbombo
gli elmi percossi e i risonanti scudi.
Fremendo allor si batté l'anca il figlio
d'Irtaco, e disse disdegnoso: O Giove
e tu pur ti se' fatto ora l'amico
della menzogna? Chi pensar potea
contro il nerbo di nostre invitte mani
tal resistenza dagli Achei? Ma vélli
che come vespe maculose in erti
nidi nascoste, a chi dà lor la caccia
s'avventano feroci, e per le cave
case e pe' figli battagliar le vedi:
così costor, benché due soli, addietro
dar non vonno che morti o prigionieri.
Così parlava, né perciò di Giove
si mutava il pensier, che al solo Ettorre
dar la palma volea. Aspro degli altri
all'altre porte intanto era il conflitto.
Ma dura impresa mi sarìa dir tutte,
come la lingua degli Dei, le cose.
Perocché quanto è lungo il saldo muro
tutto è vampo di Marte. Alta costringe
necessità, quantunque egri, gli Achei
a pugnar per le navi; e degli Achei
tutti eran mesti in cielo i numi amici.
Qui cominciâr la pugna i due Lapiti.
Vibrò la lancia il forte Polipète,
e Damaso colpì tra le ferrate
guance dell'elmo. L'elmo non sostenne
la furïosa punta che, spezzati
i temporali, gli allagò di sangue
tutto il cerèbro, e morto lo distese:
indi all'Orco Pilon spinse ed Ormeno.
Né la strage è minor di Leontèo,
d'Antìmaco figliuolo anzi di Marte.
Sul confin della cintola ei percote
Ippomaco coll'asta: indi cavata
dal fodero la daga, per lo mezzo
della turba si scaglia, e pria d'un colpo
tasta Antifonte che supin stramazza;
poi rovescia Menon, Jameno, Oreste,
tutti l'un sovra l'altro nella polve.
Mentre che Polipète e Leontèo
delle bell'armi spogliano gli uccisi,
la numerosa e di gran core armata
troiana gioventude, impazïente
di spezzar la muraglia, arder le navi,
Polidamante ed Ettore seguìa,
i quai repente all'orlo della fossa
irresoluti s'arrestâr dubbiando
di passar oltre: perocché sublime
un'aquila comparve, che sospeso
tenne il campo a sinistra. Il fero augello
stretto portava negli artigli un drago
insanguinato, smisurato e vivo,
ancor guizzante, e ancor pronto all'offese;
sì che volto a colei che lo ghermìa,
lubrico le vibrò tra il petto e il collo
una ferita. Allor la volatrice,
aperta l'ugna per dolor, lasciollo
cader dall'alto fra le turbe, e forte
stridendo sparve per le vie de' venti.
Visto in terra giacente il maculato
serpe, prodigio dell'Egìoco Giove,
inorridiro i Teucri, e fatto avanti
all'intrepido Ettòr Polidamante
sì prese a dir: Tu sempre, ancorché io porti
ottimi avvisi in parlamento, o duce,
hai pronta contro me qualche rampogna,
né pensi che non lice a cittadino
né in assemblea tradir né in mezzo all'armi
la verità, servendo all'augumento
di tua possanza. Dirò franco adunque
ciò che il meglio or mi sembra. Non si vada
coll'armi ad assalir le navi achee.
Il certo evento che n'attende è scritto
nell'augurio comparso alla sinistra
dell'esercito nostro, appunto in quella
che si volea travalicar la fossa,
dico il volo dell'aquila portante
nell'ugna un drago sanguinoso, immane
e vivo ancor. Com'ella cader tosto
lasciò la preda, pria che al caro nido
giungesse, e pasto la recasse a' suoi
dolci nati; così, quando n'accada
pur de' Greci atterrar le porte e il muro
e farne strage, non pensar per questo
di ritornarne con onor; ché indietro
molti Troiani lasceremo ancisi
dall'argolico ferro, combattente
per la tutela delle navi. Ognuno,
che ben la lingua de' prodigi intenda
e da' profani riverenza ottegna,
questo verace interpretar farìa.
Lo guatò bieco Ettorre, e gli rispose:
Polidamante, il tuo parlar non viemmi
grato all'orecchio, e una miglior sentenza
or dal tuo labbro m'attendea. Se parli
persuaso e davvero, io ti fo certo
che l'ira degli Dei ti tolse il senno,
poiché m'esorti ad obblïar di Giove
le giurate promesse, e all'ale erranti
degli augelli obbedir; de' quai non curo,
se volino alla dritta ove il Sol nasce,
o alla sinistra dove muor. Ben calmi
del gran Giove seguir l'alto consiglio,
ch'ei de' mortali e degli Eterni è il sommo
imperadore. Augurio ottimo e solo
è il pugnar per la patria. Perché tremi
tu dei perigli della pugna? Ov'anco
cadiam noi tutti tra le navi ancisi,
temer di morte tu non dei, ché cuore
tu non hai d'aspettar l'urto nemico,
né di pugnar. Se poi ti rimanendo
lontano dal conflitto, esorterai
con codarde parole altri a seguire
la tua viltà, per dio! che tu percosso
da questa lancia perderai la vita.
Si spinse avanti così detto, e gli altri
con alte grida lo seguiéno. Allora
il Folgorante dall'idèa montagna
un turbine destò, che drittamente
verso le navi sospingea la polve,
e agli Achivi rapìa gli occhi e l'ardire,
ad Ettorre il crescendo ed a' Troiani
che nel prodigio e nelle proprie forze
confidati assalîr l'alta muraglia
per diroccarla. E già divelti i merli
delle torri cadean, già le bertesche
si sfasciano, e le leve alto sollevano
gli sporgenti pilastri, eccelso e primo
fondamento alle torri. Intorno a questi
travagliansi i Troiani, ampia sperando
aprir la breccia. Né perciò d'un passo
s'arretrano gli Achei, ma di taurine
targhe schermo facendo alle bastite,
ferìan da quelle chi venìa di sotto.
Animosi dall'una all'altra torre
l'acheo valor svegliando ambo frattanto
scorrean gli Aiaci, e con parole or dure
or blande rampognando i neghittosi,
O compagni, dicean, quanti qui siamo
primi, secondi ed infimi (ché tutti
non siamo eguali nel pugnar, ma tutti
necessari), or gli è tempo, e lo vedete,
d'oprar le mani. Non vi sia chi pieghi
dunque alle navi per timor di vana
minaccia ostil, ma procedete avanti,
e l'un l'altro incoratevi, e mertate
che l'Olimpio Tonante vi conceda
di risospinger l'inimico, e rotto
inseguirlo fin dentro alle sue mura.
Sì sgridando, animâr l'acheo certame.
Come cadono spessi ai dì vernali
i fiocchi della neve, allorché Giove
versa incessante, addormentati i venti,
i suoi candidi nembi, e l'alte cime
delle montagne inalba e i campi erbosi,
e i pingui seminati e i porti e i lidi:
l'onda sola del mar non soffre il velo
delle fioccanti falde onde il celeste
nembo ricopre delle cose il volto;
tale allor densa di volanti sassi
la tempesta piovea quinci da' Teucri
scagliata e quindi dagli Achivi; e immenso
sorgea rumor per tutto il lungo muro.
Ma né i Troiani né l'illustre Ettorre
n'avrìan le porte spezzato e le sbarre,
se alfin contro gli Achei non incitava
Giove l'ardir del figlio Sarpedonte,
quale in mandra di buoi fiero lïone.
Imbracciossi l'eroe subitamente
il bel rotondo scudo, ricoperto
di ben condotto sottil bronzo, e dentro
v'avea l'industre artefice cucito
cuoi taurini a più doppi, e orlato intorno
d'aurea verga perenne il cerchio intero.
Con questo innanzi al petto, e nella destra
due lanciotti vibrando, incamminossi
qual montano lïon che, stimolato
da lunga fame e dal gran cor, l'assalto
tenta di pieno ben munito ovile;
e quantunque da' cani e da' pastori
tutti sull'armi custodito il trovi,
senza prova non soffre esser respinto
dal pecorile, ma vi salta in mezzo
e vi fa preda, o da veloce telo
di man pronta riceve aspra ferita:
tale il divino Sarpedon dal forte
suo cor quel muro ad assalir fu spinto
e a spezzarne i ripari. E volto a Glauco
d'Ippoloco figliuol, Glauco, gli disse,
perché siam noi di seggio, e di vivande
e di ricolme tazze innanzi a tutti
nella Licia onorati ed ammirati
pur come numi? Ond'è che lungo il Xanto
una gran terra possediam d'ameno
sito, e di biade fertili e di viti?
Certo acciocché primieri andiam tra' Licii
nelle calde battaglie, onde alcun d'essi
gridar s'intenda: Glorïosi e degni
son del comando i nostri re: squisita
è lor vivanda, e dolce ambrosia il vino,
ma grande il core, e nella pugna i primi.
Se il fuggir dal conflitto, o caro amico,
ne partorisse eterna giovinezza,
non io certo vorrei primo di Marte
i perigli affrontar, ned invitarti
a cercar gloria ne' guerrieri affanni.
Ma mille essendo del morir le vie,
né scansar nullo le potendo, andiamo:
noi darem gloria ad altri, od altri a noi.
Disse, né Glauco si ritrasse indietro,
né ritroso il seguì. Con molta mano
dunque di Licii s'avviâr. Li vide
rovinosi e diritti alla sua torre
affilarsi il Petìde Menestèo,
e sgomentossi. Girò gli occhi intorno
fra gli Achivi spïando un qualche duce
che lui soccorra e i suoi compagni insieme.
Scorge gli Aiaci che indefessi e fermi
sostenean la battaglia, e avean dappresso
Teucro pur dianzi della tenda uscito.
Ma non potea far loro a verun modo
le sue grida sentir, tanto è il fragore
di che l'aria rimbomba alle percosse
degli scudi, degli elmi e delle porte
tutte a un tempo assalite, onde spezzarle
e spalancarle. Immantinente ei dunque
manda ad Aiace il banditor Toota,
e, Va, gli dice, illustre araldo, vola,
chiama gli Aiaci, chiamali ambedue,
ché questo è il meglio in sì grand'uopo. Un'alta
strage qui veggo già imminente. I duci
del licio stuol con tutta la lor possa
qua piombano, e mostrâr già in altro incontro
ch'elli son nelle zuffe impetuosi.
S'ambo gli eroi ch'io chiedo, in gran travaglio
si trovano di guerra, almen ne vegna
il forte Aiace Telamònio, e il segua
Teucro coll'arco di ferir maestro.
Corse l'araldo obbediente, e ratto
per la lunga muraglia traversando
le file degli Achei, giunse agli Aiaci,
e con preste parole, Aiaci, ei disse,
incliti duci degli Argivi, il caro
nobile figlio di Petèo vi prega
d'accorrere veloci, ed aitarlo
alcun poco nel rischio in che si trova.
Prègavi entrambi per lo meglio. Un'alta
strage gli è sopra: perocché di tutta
forza si vanno a rovesciar sovr'esso
i licii capitani, e di costoro
l'impeto è noto nel pugnar. Se voi
siete in gran briga voi medesmi, almeno
vien tu, forte figliuol di Telamone,
e tu, Teucro, signor d'arco tremendo.
Tacque, ed il grande Telamònio figlio
al figlio d'Oilèo si volse e disse:
Tu, Aiace, e tu forte Licomede
qui restatevi entrambi, ed infiammate
l'acheo coraggio alla battaglia. Io volo
colà allo scontro del nemico, e data
la chiesta aita, subito ritorno.
Partì l'eroe, ciò detto, ed il germano
Teucro il seguiva, e Pandïon portante
l'arco di Teucro. Costeggiando il muro
alla torre arrivâr di Menestèo:
ed entrâr nella zuffa, appunto in quella
che a negro turbo simiglianti i duci
animosi de' Licii avean de' merli
già vinto il sommo. Si scontrâr gli eroi
fronte a fronte, e levossi alto clamore.
Primo l'Aiace Telamònio uccise
il magnanimo Epìcle, un caro amico
di Sarpedon. Giacea sull'ardua cima
della muraglia un aspro enorme sasso,
tal che niun de' presenti, anco sul fiore
delle forze, il potrebbe agevolmente
a due man sollevar. Ma lieve in alto
levollo Aiace, e lo scagliò. L'orrendo
colpo diruppe il bacinetto, e tutte
l'ossa del capo sfracellò. Dall'alta
torre il percosso a notator simìle
cadde, e l'alma fuggì. Teucro di poi
di strale a Glauco il nudo braccio impiaga
mentre il muro assalisce, e lo costrigne
la pugna abbandonar. Glauco d'un salto
giù dagli spaldi gittasi furtivo,
onde nessuno degli Achei s'avvegga
di sua ferita, e villanìa gli dica.
Ben se n'accorse Sarpedonte, ed alta
dell'amico al partir doglia il trafisse.
Ma non lentossi dalla pugna, e giunto
colla lancia il Testòride Alcmeone,
gliela ficca nel petto, e a sé la tira.
Segue il trafitto l'asta infissa, e cade
boccone, e l'armi risonâr sovr'esso.
Colla man forte quindi il licio duce
un merlo afferra, a sé lo tragge, e tutto
lo dirocca. Snudossi al suo cadere
la superna muraglia, e larga a molti
fece la strada. Allor ristretti insieme
mossero contra Sarpedonte i due
Telamonìdi, e Teucro d'uno strale
al petto il saettò. Raccolse il colpo
il lucente fermaglio dell'immenso
scudo, ché Giove dal suo figlio allora
allontanò la Parca, e non permise
che davanti alle navi egli cadesse.
L'assalse Aiace ad un medesmo tempo,
e allo scudo il ferì. Tutto passollo
la fiera punta, ed aspramente il caldo
guerrier represse. Dagli spaldi adunque
recede alquanto ei sì, ma non del tutto,
ché il cor pur anco gli porgea speranza
della vittoria, e al suo fedel drappello
rivoltosi, gridò: Licii guerrieri,
perché l'impeto vostro si rallenta?
Benché forte io mi sia, solo poss'io
atterrar questo muro, ed alle navi
aprir la strada? A me v'unite or dunque,
ché forza unita tutto vince. - Ei disse,
e vergognosi rispettando i Licii
le regali rampogne, s'addensaro
dintorno al saggio condottier. Dall'altro
lato gli Argivi nell'interno muro
rinforzan le falangi, e d'ambe parti
cresce il travaglio della dura impresa.
Perocché né il valor degli animosi
Licii a traverso dell'infranto muro
alle navi potea farsi la strada,
né i saettanti Achei dall'occupata
muraglia i Licii discacciar: ma quale
in poder che comune abbia il confine,
fan due villan, la pertica alla mano,
del limite baruffa, e poca lista
di terra è tutto della lite il campo:
così dei merli combattean costoro,
e sovra i merli contrastati un fiero
spezzar si fea di scudi e di brocchieri
su gli anelanti petti; e molti intorno
cadean gli uccisi; altri dal crudo acciaro
nel voltarsi trafitti il tergo ignudo;
altri, ed erano i più, da parte a parte
trapassati le targhe. Da per tutto
torri e spaldi rosseggiano di sangue
e troiano ed acheo; né fra gli Achei
nullo ancor segno si vedea di fuga.
Siccome onesta femminetta, a cui
procaccia il vitto la conocchia, in mano
tien la bilancia, e vi sospende e pesa
con rigorosa trutina la lana,
onde i suoi figli sostentar di scarso
alimento; così de' combattenti
equilibrata si tenea la pugna,
finché l'ora pur venne in che dovea
spinto da Giove superar primiero
Ettore la muraglia. Alza ei repente
la terribile voce, ed, Accorrete,
grida, o forti Troiani, urtate il muro,
spezzatelo, gittate alfin le fiamme
vendicatrici nella classe achea.
L'udiro i Teucri, ed incitati e densi
avventârsi ai ripari, e sovra il muro
montâr coll'aste in pugno. Appo le porte
un immane giacea macigno acuto:
non l'avrìan mosso agevolmente due
de' presenti mortali anche robusti
per carreggiarlo. A questo diè di piglio
Ettore; ed alto sollevollo, e solo
senza fatica l'agitò; ché Giove
in man del duce lo rendea leggiero.
E come nella manca il mandrïano
lieve sostien d'un arïète il vello,
insensibile peso; a questa guisa
Ettore porta sollevato in alto
l'enorme sasso, e va dirittamente
contro l'assito che compatto e grosso
delle porte munìa la doppia imposta,
da due forti sbarrata internamente
spranghe traverse, ed uno era il serrame.
Fattosi appresso, ed allargate e ferme
saldamente le gambe, onde con forza
il colpo liberar, percosse il mezzo.
Al fulmine del sasso sgangherârsi
i cardini dirotti; orrendamente
muggîr le porte, si spezzâr le sbarre,
si sfracellò l'assito, e d'ogni parte
le schegge ne volâr; tale fu il pondo
e l'impeto del sasso che di dentro
cadde e posò. Pel varco aperto Ettorre
si spinse innanzi simigliante a scura
ruinosa procella. Folgorava
tutto nell'armi di terribil luce;
scotea due lance nelle man; gli sguardi
mettean lampi e faville, e non l'avrìa,
quando ei fiero saltò dentro le porte,
rattenuto verun che Dio non fosse.
Alle sue schiere allor si volse, e a tutte
comandò di varcar l'achea trinciera.
Obbediro i Troiani; immantinente
altri il muro salîr, altri innondaro
le spalancate porte. Al mar gli Achivi
fuggono, e immenso ne seguìa tumulto.

 

Libro XIII

 

Poiché Giove appressati ebbe alle navi
con Ettore i Troiani, ivi in travaglio
incessante lasciolli: e volti indietro
i fulgid'occhi a riguardar si pose
del Trace di cavalli agitatore
la contrada e de' Misii a stretta pugna
valorosi guerrieri e de' famosi
Ippomolghi, giustissimi mortali
che di latte nudriti a lunga etade
producono i lor dì: né più di Troia
dava un guardo alle mura, in sé pensando
che nessun Dio discendere de' Teucri
o de' Greci in aita oso sarebbe.
Né invan si stava alla vedetta intanto
il re Nettunno che su l'alte assiso
selvose cime della tracia Samo
contemplava di là l'aspro conflitto;
e tutto l'Ida e Troia e degli Achei
le folte antenne si vedea davanti.
Ivi uscito dell'onde egli sedea,
e del cader de' Greci impietosito
contro Giove fremea d'alto disdegno.
Ratto spiccossi dall'alpestre vetta
e discese. Tremâr le selve e i monti
sotto il piede immortal dell'incedente
irato Enosigèo. Tre passi ei fece,
e al quarto giunse alla sua meta in Ege,
ove d'auro corruschi in fondo al mare
sorgono eccelsi i suoi palagi eterni.
Qui venuto i veloci oro-criniti
eripedi cavalli al cocchio aggioga.
In aurea vesta si ravvolge tutta
la divina persona, ed impugnato
l'aureo flagello di gentil lavoro
monta il carro, e leggier vola su l'onda.
Dagl'imi gorghi uscite a lui dintorno,
conoscendo il re lor, l'ampie balene
esultano, e per gioia il mar si spiana.
Così rapide volano le rote
che dell'asse né pur si bagna il bronzo;
e gli agili cavalli a tutto corso
verso le navi achee portano il Dio.
Fra Tènedo e fra l'aspra Imbro nell'imo
s'apre dell'alto sale ampia spelonca.
Qui giunto il nume i corridor sostenne,
e dal temo gli sciolse, e ristorati
d'ambrosio cibo, gli allacciò di salde
auree pastoie d'insolubil nodo,
onde attendean lì fermi il redituro
re lor che al campo degli Achei s'indrizza.
Una fiamma sembianti o una procella,
affollati, indefessi, e d'alte grida
l'aria empiendo i Troiani e furïando
seguon d'Ettore i passi, il cor ripieni
della speranza d'occupar le navi,
e tra le navi sterminar gli Achei.
Ma di Calcante presa la sembianza
e la gran voce, raccendea Nettunno
gli argolici guerrieri; e pria rivolto
agli Aiaci gridava: Ah vi ricordi
che il campo achivo col valor si salva,
non col freddo timor. Non io de' Teucri,
che in folla superâr l'alta muraglia,
le ardite mani agli altri posti or temo,
ove a tutti terran fronte gli Achei;
ma qui tem'io d'assai qualche sinistro,
qui dove questo inviperito Ettorre,
che del gran Giove si millanta figlio,
guida i Teucri, e s'avventa come fiamma.
Ma se in mente a voi pone un qualche iddio
di contrastargli, e di dar core altrui,
certo mi fo che lungi dalle navi
respingerete il suo furor, foss'anco
lo stesso Giove che gl'infonde ardire.
Così parla Nettunno, e collo scettro
toccandoli ambidue, per le lor membra
una divina vigorìa diffuse,
che tutta alleggerendo la persona
alle man polso aggiunse, ed ali al piede;
e ciò fatto, sparì colla prestezza
di veloce sparvier, che nella valle
visto un augello, da scoscesa rupe
si precipita a piombo su la preda.
Aiace d'Oilèo s'accorse il primo
del portento; e al figliuol di Telamone
di subito converso, Amico, ei disse,
colui che ne parlò non egli al certo
è l'indovino augurator Calcante,
ma qualche dell'Olimpo abitatore
che ne prese le forme, e ne comanda
di pugnar per le navi. Agevolmente
si riconosce un nume, ed io da tergo
lui conobbi all'incesso appunto in quella
che si partiva, e me l'avvisa il core
che di battaglia più che mai bramoso
mi ferve in petto sì, che mani e piedi
brillar mi sento del desìo di pugna.
E a me, risponde il gran Telamonìde,
a me pur brilla intorno a questa lancia
l'audace destra, e il cor mi cresce in seno,
e l'impulso de' piè sento di sotto
sì, che pur solo d'azzuffarmi anelo
coll'indomito Ettorre. - Era di questi
tale il discorso, e tal dell'armi il caldo
desir che in petto avea lor posto il nume.
Nettunno intanto degli Achei ridesta
l'ultime file, che scorate e stanche
dal marzïal travaglio appo i navigli
prendean respiro, e di gran duol cagione
era loro il veder che l'alto muro
avean varcato con tumulto i Teucri.
Piovea lor dalle ciglia a quella vista
un largo pianto, di scampar perduta
ogni speranza. Ma col pronto arrivo
le ravvivò Nettunno; e pria Leìto
e Teucro e Dëipìro e Penelèo
e Merïone e Antìloco e Toante,
tutti eroi bellicosi, inanimando,
Oh vergogna! esclamò, così combatte
or dell'argiva gioventude il fiore?
nel valor delle vostre armi io sperava
salve le navi: ma se voi la fiera
pugna cessate, il dì supremo è questo
della nostra caduta. Oh cielo! oh indegno
spettacolo ch'io veggo, e ch'io non mai
possibile credea! fino alle navi
irrompere i Troiani, essi che dianzi
non eran osi né un momento pure
far fronte ai Greci, e ne fuggìan la possa
come timide cerve, che vaganti
per la foresta, e imbelli e senza core
son di linci, di lupi e leopardi
l'ingorde canne a satollar serbate.
Or ecco che lontan dalla cittade
fino alle navi la battaglia spingono
colpa del duce Atride e noncuranza
de' guerrier che con esso incolloriti,
anzi che a scampo delle navi armarsi,
trucidar vi si fanno. E nondimeno
benché l'Atride eroe veracemente
sia di ciò tutto la cagion, per l'onta
ch'egli fece al Pelìde, a noi non lice
a verun patto abbandonar la pugna.
Via, s'emendi l'error: le generose
alme i lor falli a riparar son preste;
né voi, sendo i più forti, onestamente
il valor vostro rallentar potete;
ned io col vile che pugnar ricusa
so corrucciarmi, ma con voi mi sdegno
altamente, con voi che fatti or molli
ed ignavi e codardi un maggior danno
vi preparate. In sé ciascuno adunque
il pudor svegli e del disnor la tema.
Grande è il certame che s'accese: il prode
Ettore è quegli che le navi assalta,
e le porte già ruppe e l'alta sbarra.
Da questi di Nettunno acri conforti
incoraggiate le falangi achee
si strinsero agli Aiaci in sì bel cerchio,
che stupito n'avrìa Marte e la stessa
Minerva de' guerrieri eccitatrice.
Questo fior di gagliardi il duro assalto
de' Troiani e d'Ettòr fermo attendea,
come siepe stipando ed appoggiando
scudo a scudo, asta ad asta, ed elmo ad elmo
e guerriero a guerrier; sì che gli eccelsi
cimier su i coni rilucenti insieme
confondean l'onda delle chiome equine.
Così densati procedean di punta
contra il nemico questi forti, ognuno
nella robusta mano arditamente
bilanciando il suo telo, e di dar dentro
tutti vogliosi. Fur primieri i Teucri
stretti insieme a far impeto precorsi
dall'intrepido Ettòr, pari a veloce
rovinoso macigno che torrente
per gran pioggia cresciuto da petrosa
rupe divelse e spinse al basso; ei vola
precipite a gran salti, e si fa sotto
la selva risonar; né il corso allenta
finché giunto alla valle ivi si queta
immobile. Così pel campo Ettorre
seminando la strage, infino al mare
penetrar minacciava, e senza intoppo
fra le navi cacciarsi e fra le tende.
Ma come a fronte ei giunse della densa
falange s'arrestò, vano vedendo
di spezzarla ogni mezzo: e di rincontro
l'appuntâr colle lance e colle spade
sì fieri i figli degli Achei, che a forza
l'allontanâr. Respinto ei diede addietro,
ed alto a' suoi gridò: Troiani, e Licii
e Dardani, deh voi fermo tenete;
ché, benché denso, lo squadron nemico
non sosterrammi a lungo, e all'urto io spero
della mia lancia piegherà, se invano
non eccitommi il più possente Iddio,
l'altitonante di Giunon marito.
Di ciascuno destâr la lena e il core
queste parole. Allor di Priamo il figlio
con grande ardir Dëìfobo si mosse,
e davanti portandosi lo scudo
che tutto il ricopriva, a lento passo
s'avanzò. Merïon di mira il prese
colla fulgida lancia, e in pieno il colse
nello scudo taurin, ma di forarlo
non gli successe, ché alla prima falda
l'asta si franse. Paventando il telo
del bellicoso Merïon, dal petto
discostossi Dëìfobo il brocchiero,
e l'argolico eroe vista spezzarsi
la lancia, e tolta la vittoria, irato
si ritrasse fra' suoi, quindi lunghesso
le navi ei corse alla sua tenda in cerca
d'un riposto lancion. La pugna intanto
cresce, ed immenso si solleva il grido.
Il Telamònio Teucro innanzi a tutti
Imbrio distese, acerrimo guerriero,
cui Mentore di ricche equestri razze
possessor generò. Tenea costui
pria dell'arrivo degli Achei suo seggio
in Pedèo, disposata la leggiadra
Medesicaste, del troiano Sire
spuria figliuola. Ma venuti i Greci
rivenne ad Ilio ei pure, e fra' Troiani
distinto di valor nelle regali
case abitava, e il re tenealo in pregio
del par che i figli. A costui l'asta infisse
sotto l'orecchio il buon Telamonìde,
e tosto ne la svelse. Imbrio cadéo
a frassino simìl, che su la cima
d'una montagna da lontan veduta
reciso dalla scure al suolo abbassa
le sue tenere chiome; così cadde
riverso, e l'armi gli sonâr dintorno.
Di rapirle bramoso immantinente
Teucro accorse: ma pronto in lui diresse
la fulgid'asta Ettòr. L'altro che a tempo
del colpo s'avvisò, scansollo alquanto,
ed in sua vece lo raccolse in petto
il figliuol dell'Attoride Cteato
Amfimaco, che appunto in quel momento
entrava nella mischia. Strepitoso
ei cadde, e sopra gli tonò l'usbergo.
A levar del magnanimo caduto
dalla fronte il bell'elmo Ettore vola,
ma d'Aiace l'aggiunse il fulminato
splendido telo, che l'ettoreo petto
non offese egli, no (ché tutto quanto
era nel ferro orribilmente chiuso),
ma di tal forza gli percosse il colmo
dello scudo, che pur lo risospinse,
sì che scostarsi fu mestier dall'uno
cadavere e dall'altro, ed agli Achivi
abbandonarli. Amfimaco fra' suoi
fu ritratto da Stichio e Menestèo
Atenèi condottieri; Imbrio da' forti
Aiaci, simiglianti a due leoni
che tolta al dente di gagliardi cani
una capra talor, fra i densi arbusti
la portano del bosco alta da terra
nell'orrende mascelle. A questa guisa
sublime fra le braccia i due guerrieri
d'Imbrio la salma ne portaro, e a lui,
trattegli l'armi, il figlio d'Oilèo,
della morte d'Amfimaco sdegnoso,
mozza la testa fe' volar dal busto;
indi fra i Teucri la gittò rotata
come lubrico globo, e al piè d'Ettorre
la travolse sanguigna nella polve.
Non fu senz'alto di Nettun disdegno
d'Amfimaco la morte al Dio nipote.
Risoluto in suo cor de' Teucri il danno,
fra le navi e le tende il corruccioso
nume avvïossi ad animar gli Achivi.
Scontrollo Idomenèo, che appunto in quella
un amico lasciava a lui poc'anzi
fuor della pugna dai compagni addutto
e ferito al ginocchio. Ai medicanti
commessane la cura il re cretese
da quella tenda si partìa, pur sempre
desideroso di battaglia. Ed ecco
(preso il volto e la voce di Toante
d'Andremone figliuol, che di Pleurone
e dell'eccelsa Calidon signore
agli Etoli imperava, e al par d'un nume
lo riverìa la gente), ecco Nettunno
farglisi innanzi, e dire: Idomenèo
consiglier de' Cretesi, ove n'andaro
le minacciate ai Teucri alte minacce
da' figli degli Achei? - Nullo qui manca
al suo dover, rispose il gnossio duce,
nullo, per mio sentire, e sappiam tutti
pugnar. Nessun da vil tema è preso,
nessun fiaccato da desidia fugge
l'affanno marzïal. Ma del possente
Giove quest'è la fantasia, che lungi
dalla patria perire inonorati
qui debbano gli Achei. Ma tu che fosti
sempre un forte, o Toante, e altrui se' uso
destar coraggio, se allentar lo vedi,
segui a farlo, e rinfranca ogni guerriero.
Possa da Troia, replicò Nettunno,
non si far più ritorno, e qui de' cani
rimanersi sollazzo, ognun che cerchi
in questo giorno abbandonar la pugna.
Va, ti rïarma, e vieni, e tenteremo,
benché due soli, di far tale un fatto
ch'utile torni. La congiunta forza
pur degl'imbelli è di momento, e noi
ancor co' prodi guerreggiar sappiamo.
Disse, e mischiossi il Dio nel travaglioso
mortal conflitto. Rïentrò veloce
nella sua tenda Idomenèo, di belle
armi vestissi tutto quanto, e tolte
due lance s'avvïò, simile in vista
alla corrusca folgore che Giove
vibra dall'alto a sgomentar le genti,
e di lucidi solchi il ciel lampeggia;
così splendea l'acciaro intorno al petto
del frettoloso eroe. Lungi di poco
dalla tenda scontrollo il suo fedele
Merïon, che venìa d'altr'asta in cerca.
Figlio di Molo, Idomenèo gli disse,
ove corri sì ratto? e perché lasci,
diletto amico Merïon, la pugna?
Se' tu forse ferito, e qualche punta
ti tormenta di strale? od a recarmi
qualche avviso ne vieni? Andiam, ch'io stesso
non di riposi, ma di pugna ho brama.
Vengo, rispose Merïon, d'un'asta
a provedermi, Idomenèo, se alcuna
te ne rimase al padiglion. La mia
alla scudo la ruppi del feroce
Dëìfobo. - Non una, il re riprese,
ma venti, se le brami, alla parete
ne troverai poggiate entro la tenda,
tutte belle e troiane e da me tolte
ad uccisi nemici. Io li combatto
sempre dappresso, e così d'aste io feci
e d'elmetti e di scudi ombelicati
e di lucidi usberghi un tanto acquisto.
Ed io pur nella tenda e nella nave
ho molte spoglie de' Troiani in serbo,
soggiunse Merïon; ma lungi or sono.
E neppur io mi spero in obblïanza
aver posto il valor; ché anch'io ne' campi
della gloria so starmi in mezzo ai primi,
quando di Marte la tenzon si desta.
Forse al più degli Achei mal noto in guerra
è il mio valor, ma tu il conosci, io spero.
Sì, lo conosco, Idomenèo riprese,
ma che ridirlo or tu? L'agguato è il campo
ove in sua chiarità splende il coraggio,
e dal codardo si discerne il prode.
Color cangia il codardo, e il cor mal fermo
non gli permette di tenersi immoto
un solo istante; mancagli il ginocchio,
sul calcagno s'accascia, e immaginando
vicino il suo morir, l'alma nel seno
palpita e trema dibattendo i denti.
Ma collocato nell'insidia il forte
né cor cangia né volto, e della zuffa
il momento sospira. E a noi tenuti
tra' più gagliardi, se l'andar ne tocchi
d'un agguato al periglio, a noi pur anco
e del tuo braccio e del tuo cor palese
si farìa la virtù. Se nella pugna
fia che ti colga un qualche telo, al certo
il tergo no ma piagheratti il petto,
e diritto corrente all'inimico,
e tra' primieri avvolto, e nel più denso
della battaglia. Ma non più parole;
onde a caso qualcun sopravvenendo
di vanitosi cianciatori a dritto
non ci getti rampogna. Orsù, t'affretta
nella tenda, e una forte asta ti piglia.
Disse, e l'altro volò, prese veloce
una ferrata lancia, e la battaglia
anelando, raggiunse Idomenèo.
Qual s'avanza al conflitto il sanguinoso
nume dell'armi, e suo diletto figlio
l'accompagna il Terror che audace e forte
anco i più fermi fa tremar; l'orrenda
coppia lasciati della Tracia i lidi
va degli Efìri a guerreggiar le genti
o i magnanimi Flegii, e non ascolta
più quei che questi, ancor dubbiando a cui
la vittoria invïar; tali nel ferro
lampeggianti procedono alla pugna,
condottieri di prodi, Idomenèo
e Merïone, che primier dicea:
Da qual parte in battaglia entrar t'aggrada,
o Deucalìde valoroso? a destra
o pur nel centro? o sosterrem più tosto
la sinistra? Gli è quivi, a mio parere,
che di soccorso ai nostri è più mestiero.
Il centro ha buoni difensor, rispose
il re di Creta, ha l'uno e l'altro Aiace
e il più prestante saettier de' Greci
Teucro, gagliardo combattente insieme
a piè fermo. Daran questi ad Ettorre,
per audace ch'ei sia, molto travaglio
nella fervida mischia, e costar caro
gli faranno il tentar di superarne
l'invitta forza, e i minacciati legni
colle fiamme assalir, se pur lo stesso
Giove non scenda colle proprie mani
a gittarvi gl'incendii. A mortal uomo
che sia di frutto cereal nudrito,
e cui possa del ferro o delle pietre
il colpo vïolar, non fia che mai
il grande Aiace Telamònio ceda,
non allo stesso violento Achille
che di corso bensì, ma fior nol vince
nel pugnar di piè fermo. Or noi del campo
rivolgiamci alla manca, e vediam tosto
se darem gloria ad altri, od altri a noi.
Volâr, ciò detto, alla prefissa meta.
I Troiani, veduto Idomenèo
come vampa di foco alla lor volta
col suo scudier venirne, orrendo ei pure
di scintillanti arnesi, inanimando
sé medesmi a vicenda, ad incontrarli
mossero tutti di conserto. Allora
surse avanti alle poppe aspro conflitto.
A quella guisa che ne' caldi giorni,
quando copre le vie la molta polve,
s'alza turbo di vento che solleva
sibilando di sabbia una gran nube;
tali ardendo nel cor di porsi a morte
co' ferri acuti, s'attaccâr le schiere.
Irto era tutto il campo (orrida vista!)
di lunghe aste impugnate, e il ferreo lampo
degli usberghi, degli elmi e degli scudi
tutti in confuso folgoranti e tersi
facea barbaglio agli occhi; e stato ei fôra
ben audace quel cor che vista avesse
tranquillo e lieto la crudel contesa.
Così divisi di favor li due
possenti figli di Saturno, acerbe
ordìan gravezze ai combattenti eroi.
Di qua Giove ai Troiani e al forte Ettorre
la vittoria desìa; non ch'egli intero
voglia lo scempio della gente achea,
ma sol quanto a innalzar del grande Achille
basti la gloria ed onorar la madre:
di là furtivo da' suoi gorghi uscito
Nettunno infiamma colla dìa presenza
degli Argivi il coraggio, e del vederli
domi dai Teucri doloroso freme
contro Giove di sdegno. Una è d'entrambi
l'origine divina e il nascimento:
ma nacque Giove il primo, e più sapea.
Quindi il minor fratello alla scoperta
oso non era d'aitarli, e solo
celatamente ed in sembianza umana
infondea loro ardire. A questo modo
l'un nume e l'altro agli uni e agli altri iniqua
d'aspre discordie ordiro una catena
che né spezzare si potea né sciorre,
e che stese di molti al suol la forza.
Quantunque sparso di canizie il crine,
con vigor fresco allora Idomenèo,
fatto ai Greci coraggio, i Teucri assalse,
e sbaragliolli, ucciso Otrïonèo.
Di Càbeso poc'anzi era costui
venuto al grido della guerra, e a sposa
la più bella chiedea, senza dotarla,
delle fanciulle prïamèe, Cassandra;
e l'alta impresa di scacciar da Troia
lor malgrado gli Achivi impromettea.
Gli avea di questo intenzïon già data
il re vecchio e l'assenso, ed animato
dalle promesse il vantator pugnava
arditamente, ed incedea superbo.
Colla fulgida lancia Idomenèo
l'adocchiò, lo colpì, gl'infisse il telo
in mezzo all'epa dalle piastre invano
del torace difesa. Alto fragore
diè cadendo il guerriero, e l'insultando
il vincitor sì disse: Otrïonèo,
se tutte che tu festi al re troiano
alte promesse adempirai, su tutti
i mortali pur io terrotti in pregio.
Priamo la figlia ti promise, e noi
altra sposa t'offriam, la più leggiadra
delle figlie d'Atride, e lei qui tosto
farem d'Argo venir, a questo patto
che tu di Troia ad espugnar n'aiti
la superba città. Dunque ne segui,
onde alle navi contrattar le nozze,
e suoceri n'avrai larghi e cortesi.
Sì dicendo, per mezzo alla battaglia
strascinollo d'un piede. A vendicarlo
avanzossi pedon nanzi al suo carro
Asio, e anelanti al tergo gli guidava
il fido auriga i corridor. Mentr'egli
a ferir d'un bel colpo Idomenèo
tutto intende il suo cor, questi il prevenne
e la lancia gli spinse nella gola
sotto il mento, e passolla. Asio cadéo
siccome quercia o pioppo od alto pino
cui sul monte tagliâr con raffilate
bipenni i fabbri a nautic'uso. Ei giacque
lungo a terra disteso innanzi al cocchio,
e digrignava i denti, e colle mani
strignea rabbioso la cruenta polve.
Smarrì l'auriga il cor, né per sottrarsi
alla man de' nemici addietro osava
dar volta al cocchio. Il giunse in quello stato
Antìloco coll'asta, e in mezzo al ventre
lo trivellò, che nulla lo difese
l'interzata lorica. Ei dal bel carro
riversossi anelante, ed ai cavalli
dato di piglio il vincitor, dai Teucri
li sospinse agli Achei. D'Asio caduto
Dëìfobo dolente colla picca
si strinse addosso al re di Creta, e trasse.
Previde il colpo, e curvo Idomenèo
sotto il grand'orbe si raccolse tutto
dello scudo taurin che di fulgente
ferro il contorno e doppia avea la guiggia.
Riparato da questo egli la punta
schivò dell'asta ostil che sorvolando
veloce delibò nel suo trascorso
lo scudo, e secco risonar lo fece.
Né indarno uscì dalla man forte il telo,
ma l'Ippaside Ipsènore percosse
sotto i precordi, e l'atterrò. Gran vanto
si diè sul morto l'uccisor, gridando:
Asio non giace inulto, e alle tremende
porte scendendo di Pluton mi spero
fia del compagno, ch'io gli do, contento.
Contristò degli Achei quel vanto i petti,
d'Antìloco su gli altri il bellicoso
cor ne fu tocco; né lasciò per questo
in abbandon l'amico, anzi accorrendo
lo coprì dello scudo, e lo protesse
sì che Alastorre e Mecistèo, due cari
dall'estinto compagni, in su le spalle
recarselo potero ed alle navi
trasportarlo, mettendo alti lamenti.
Non rallentava Idomenèo frattanto
il magnanimo core, e vie più sempre
l'infiammava la brama o di coprire
qualche Troiano dell'eterna notte,
o far di sua caduta egli medesmo
risonante il terren, sol che de' Greci
allontani l'eccidio. Era fra' Teucri
un caro figlio d'Esïèta, il prode
Alcatòo, già consorte alla maggiore
delle figlie d'Anchise Ippodamìa,
che al genitor carissima e alla madre
onoranda matrona, ogni compagna
vincea di volto e di prudenza, esperta
in tutte l'arti di Minerva; ond'ella
d'un de' più chiari fra gli eroi fu sposa
di quanti Ilio n'avea nel suo gran seno.
Ma sotto la cretense asta domollo
Nettunno; e prima gli annebbiò le luci,
poi per le belle membra gli diffuse
tale un torpor, che né fuggirsi addietro
né scansarsi potea, ma immoto e ritto
come colonna o pianta alto chiomata
stavasi; e tale lo colpì nel petto
d'Idomenèo la lancia, e la lorica,
della persona inutile difesa,
gli traforò. Diè un rauco e sordo suono
il lacerato usbergo; strepitoso
Alcatòo cadde, e il battere del core
fe' la cima tremar dell'asta infissa,
ch'ivi alfin tutta si quetò. Superbo
del glorïoso colpo Idomenèo
alto sclamò: Dëìfobo, e' ti sembra
che ben s'adegui con tre morti il conto
d'un solo? Inane fu il tuo vanto, o folle.
Viemmi a fronte e vedrai qual io mi vegna
qui rampollo di Giove. Ei primo ceppo
Minosse generò giusto di Creta
conservator, Minosse il generoso
Deucalïone, e questi me nell'ampia
Creta di molto popolo signore;
ed ora a Troia mi portâr le navi
a te fatale e al padre e a tutti i Teucri.
Stette all'acre parlar fra due sospeso
Dëìfobo, se in cerca retroceda
d'un valoroso che l'aiuti, o s'egli
si cimenti pur solo. In tal pensiero
ir d'Anchise al figliuol gli parve il meglio,
e negli estremi lo trovò del campo
stante e il cor roso di perpetuo cruccio,
perché lui, che tra' prodi avea gran fama,
inonorato il re troian lasciava.
Venne a lui dunque, e così disse: Enea
chiaro de' Teucri capitan: se cura
de' congiunti ti tocca, il tuo cognato
esanime soccorri. Andiam, la morte
vendichiam d'Alcatòo che un dì marito
di tua sorella t'educò bambino,
e ch'or d'Idomenèo l'asta ti spense.
Si commosse l'eroe racceso il petto
del desìo della pugna, ed alla volta
d'Idomenèo volò. Né già si volse
come fanciullo in fuga il re cretese,
ma fermo stette ad aspettarlo. E quale
cinghial che sente le sue forze, aspetta
in solitario loco alla montagna
de' cacciator la turba: alto sul dosso
arriccia il pelo, e una terribil luce
lampeggiando dagli occhi i denti arruota,
di sbaragliar le torme impazïente
degli uomini e de' cani: in tal sembianza
fermo si stava Idomenèo, l'assalto
aspettando d'Enea. Pur volto a' suoi,
Ascàlafo chiamonne ed Afarèo
e Dëipìro e Merïone e Antìloco
mastri di guerra, e gl'incitò con queste
ratte parole: Amici, a darmi assalto
corre il figlio d'Anchise: egli è di stragi
operator gagliardo, e ciò che forma
il maggior nerbo, ha pur degli anni il fiore.
Io son qui solo, né del par la fresca
gioventù mi sorride. Ove ciò fosse,
con questo cor qui tosto glorïoso
o lui mia morte, o me la sua farebbe.
Disse, e tutti gli fur concordi al fianco
con gl'inclinati scudi. Enea dall'altra
parte eccitando i suoi compagni appella
Dëìfobo a soccorso e Pari e il divo
Agènore, che tutti eran con esso
condottieri de' Teucri, e li seguìa
molta man di guerrieri, a simiglianza
di pecorelle che dal prato al fonte
van su la traccia del lanoso duce,
e ne gode il pastor; tale d'Enea
pel seguace squadron l'alma gioisce.
Colle lungh'aste intorno ad Alcatòo
s'azzuffâr questi e quelli. Intorno ai petti
orribilmente risonava il ferro
de' combattenti, e due guerrier famosi
d'Anchise il figlio e il regnator di Creta
pari a Marte ambedue con dispietato
ferro a vicenda di ferirsi han brama.
Trasse primiero Enea, ma visto il colpo,
l'avversario schivollo, e tremolante
al suol s'infisse la dardania punta
invan fuggita dalla man robusta.
Idomenèo percosse a mezzo il ventre
Enòmao. Spezzò l'asta l'incavo
della corazza, e gl'intestini incise,
sì ch'egli cadde nella polve, e strinse
colle pugna il sabbion. Svelse dal morto
la lancia il vincitor, ma le bell'armi
rapirgli non poteo, ché degli strali
l'opprimea la tempesta, e non avea
salde al correr le gambe e al ripigliarsi
l'asta scagliata, ed a schivar l'ostile.
Quindi a piè fermo ei ben sapea per anco
la morte allontanar, ma dal conflitto
mal nel bisogno sottraealo il piede.
Dëìfobo che caldo il cor di rabbia
sempre in lui mira, vistolo ritrarsi
a lenti passi, gli avventò, ma indarno
pur questa volta, il telo che veloce
via trasvolando Ascàlafo raggiunse
prole di Marte, e all'omero il trafisse.
Ei cadde, e steso brancicò la polve:
né del caduto figlio allor veruna
ebbe notizia il vïolento Iddio,
che dal comando di Giove impedito
stava in quel punto su le vette assiso
dell'Olimpo, e il coprìa d'oro una nube
misto agli altri Immortali a cui vietato
era dell'armi il sanguinoso ludo.
Una pugna crudel sul corpo intanto
d'Ascàlafo incomincia. Al morto invola
Dëìfobo il bell'elmo; e Merïone
tale sul braccio al rapitor disserra
di lancia un colpo, che di man gli sbalza
risonante al terren l'aguzzo elmetto.
E qui di nuovo Merïon scagliossi
come fiero avoltoio, e dal nemico
braccio sconfitta dell'astil la punta
si ritrasse tra' suoi. Corse al ferito
il suo german Polìte, e per traverso
l'abbracciando il cavò dal rio conflitto,
ed in parte venuto ove l'auriga
lungi dall'armi co' cavalli il cocchio
in pronto gli tenea, questi il portaro
gemente, afflitto e per la fresca piaga
tutto sangue la mano alla cittade.
Cresce intanto la pugna e al ciel ne vanno
immense grida. Enea d'asta colpisce
nella gola Afarèo Caletorìde
che l'investìa di fronte. Riversossi
dall'altra parte il capo, e n'andâr seco
l'elmo e lo scudo, e lui la morte avvolse.
Visto Toone che volgea le terga,
Antìloco l'assalta, e al fuggitivo
netta incide la vena che pel dosso
quanto è lungo scorrendo al collo arriva,
netta l'incide, e resupino ei casca
nella sabbia, stendendo a' suoi compagni
ambe le mani. Gli fu ratto addosso
Antìloco, e dell'armi il dispogliando
gli occhi ai Teucri tenea, che d'ogni parte
serrandolo, il lucente ampio pavese
gli tempestan di dardi, e mai veruno
di tanti teli disfiorar del figlio
di Nestore il gentil corpo potea,
ché da tutti il guardava attentamente
l'Enosigèo Nettunno. Ed il guerriero,
non che ritrarsi dai nemici, sempre
coll'asta in moto s'avvolgea fra loro
pronto a ferir da lungi e da vicino.
Mentre in cor volge nuovi danni, il vede
l'Asïade Adamante, e in lui repente
impeto fatto colla lancia il fere
a mezza targa. Preservò del Greco
la vita il nume dalle chiome azzurre,
e spezzò le nemica asta che mezza
rimase infissa nello scudo a guisa
d'adusto palo, e mezza giacque a terra.
Diede addietro a tal vista il feritore
salvandosi fra' suoi. Ma Merïone
spinse l'asta nel ventre al fuggitivo
fra l'umbilico e il pube, ove del ferro
è mortal la ferita, e lo confisse.
Cadde il confitto su la lancia, e tutto
si contorcea qual bue, cui di ritorte
funi annodato su pel monte a forza
strascinano i bifolchi, e tale anch'egli
si dibattea; ma il suo penar fu breve:
ché tosto accorse Merïone, e svelta
l'asta dal corpo, l'acchetò per sempre.
Grande e battuta su le tracie incudi
alza Eleno la spada, ed alla tempia
Dëìpiro fendendo gli dirompe
l'elmo, e dal capo glielo sbalza in terra.
Ruzzolò risonante la celata
fra le gambe agli Achivi, e fu chi tosto
la raccolse: ma negra eterna notte
Dëìpiro coperse. Addolorato
del morto amico il buon minore Atride,
contro il regale eroe che a morte il mise,
minaccioso avanzossi, alto squassando
l'acuta lancia; ed Eleno a rincontro
l'arco tese. Affrontârsi ambo i guerrieri,
bramosi di vibrar quegli la picca,
questi lo strale. Saettò primiero
di Priamo il figlio, e colpì l'altro al petto
nel cavo del torace. Il rio quadrello
via volò di risalto, e a quella guisa
che per l'aia agitato in largo vaglio
al soffiar dell'auretta ed alle scosse
del vagliator sussulta della bruna
fava o del cece l'arido legume;
dall'usbergo così di Menelao
resultò risospinto il dardo acerbo.
Di risposta l'Atride al suo nemico
ferì la man che il liscio arco strignea,
e all'arco stesso la confisse. In salvo
retrocesse fra' suoi tosto il ferito,
cui penzolava dalla man l'infisso
frassìneo telo. Glielo svelse alfine
il generoso Agènore, e la piaga
destramente fasciò d'una lanosa
fionda che pronta il suo scudier gli avea.
Al trïonfante Atride si converse
Pisandro allor di punta, e negro fato
a cader lo spigneva in rio certame
sotto i tuoi colpi, o Menelao. Venuti
ambo all'assalto, gittò l'asta in fallo
il figliuolo d'Atrèo. Colse Pisandro
lo scudo ostil, ma non passollo il telo
dalla targa respinto e nell'estrema
parte spezzato; nondimen gioinne
colui nel core, e vincitor si tenne.
Tratto il fulgido brando, allor l'Atride
avventossi al nemico, e questi all'ombra
dello scudo impugnò ferrata e bella
una bipenne, nel polito e lungo
manico inserta di silvestre olivo.
Mossero entrambi ad un medesmo tempo.
Al cono dell'elmetto irto d'equine
chiome sotto il cimier Pisandro indarno
la scure dechinò; l'altro lui colse
nella fronte, e del naso alla radice.
Crepitò l'osso infranto, e sanguinosi
gli cascâr gli occhi nella polve al piede.
Incurvossi cadendo, e Menelao
d'un piè calcato dell'ucciso il petto,
l'armi n'invola, e glorïoso esclama:
Ecco la via per cui de' bellicosi
Dànai le navi lascerete alfine,
perfidi Teucri ognor di sangue ingordi.
Vi fu poco l'aver, malvagi cani,
con altra fellonia, con altre offese
vïolati i miei lari, e del tonante
Giove ospital sprezzata la tremenda
ira che un giorno svellerà dal fondo
l'alta vostra città; poco il rapirmi
una giovine sposa e assai ricchezza
da nulla ingiuria offesi, anzi a cortese
ospizio accolti e accarezzati. Or anco
desìo vi strugge di gittar nel mezzo
delle navi le fiamme, e degli achivi
eroi far scempio. Ma verrà chi ponga
vostro malgrado a furor tanto il freno.
Giove padre, per certo uomini e Dei
di saggezza tu vinci, e nondimeno
da te vien tutto sì nefando eccesso,
da te de' Teucri difensor, di questa
sempre d'oltraggi e d'ingiustizie amica
razza iniqua che mai delle rie zuffe
di Marte non si sbrama. Il cor di tutte
cose alfin sente sazietà, del sonno,
della danza, del canto e dell'amore,
piacer più cari che la guerra; e mai
sazi di guerra non saranno i Teucri?
Tolse l'armi, ciò detto, a quell'estinto
di sangue asperse; e come in man rimesse
l'ebbe dei suoi, di nuovo all'inimico
volse la faccia nelle prime file.
Fiero l'assalse allor di Pilimène
il figlio Arpalïon, che il suo diletto
padre alla guerra accompagnò di Troia
per non mai più redire al patrio lido.
S'avanzò, fulminò l'asta nel colmo
dello scudo d'Atride; e senza effetto
visto il suo colpo, s'arretrò salvando
fra' suoi la vita, e d'ogni parte attento
guatando che nol giunga asta nemica.
Ed ecco dalla man di Merïone
una freccia volar che al destro clune
colse il fuggente, e sotto l'osso accanto
alla vescica penetrò diritto.
Caduto sul ginocchio egli nel mezzo
de' cari amici spirando giacea
steso al suol come verme, e in larga vena
il sangue sul terren facea ruscello.
Gli fur dintorno con pietosa cura
i generosi Paflagoni, e lui
collocato sul carro alla cittade
conducean dolorando. Iva con essi
tutto in lagrime il padre, e dell'ucciso
figlio nessuna il consolò vendetta.
Pel morto Arpalïon forte crucciossi
Paride, che cortese ospite l'ebbe
fra' Paflagoni un tempo, e dalla cocca
sfrenò di ferrea punta una saetta.
Era un certo Euchenòr, dell'indovino
Poliìde figliuol, uom prode e ricco
e di Corinto abitator, che appieno
del reo suo fato istrutto, avea di Troia
veleggiato alle rive. A lui sovente
detto aveva il buon veglio Poliìde
che d'atro morbo nel paterno tetto,
o di ferro troiano egli morrebbe
fra le argoliche navi: e più che morte,
di tetra infermità l'aspro martìre
e degli Achei lo spregio egli temette.
Di Paride lo stral colse costui
sotto l'orecchio alla mascella, e tosto
l'abbandonò la vita, ed un orrendo
perpetuo buio gli coprì le luci.
In questa guisa ardea la pugna, e ancora
il diletto di Giove alto guerriero
Ettore intesa non avea la strage
che di sue genti segue alla sinistra
della battaglia, e che omai piega il volo
la vittoria agli Achei; tale è l'impulso,
tale il nerbo e l'ardir di che furtivo
li soccorre Nettunno. A quella parte
stavasi Ettorre, ov'egli avea da prima
le porte a forza superato e il muro,
e rotte degli Achei le dense file.
Ivi d'Aiace e di Protesilao
coronavan le navi al secco il lido;
e perché da quel lato era più basso
edificato il muro, ivi più forte
de' cavalli e de' fanti era la pugna.
Ftii, Beozi, Locresi, e colle lunghe
lor tuniche gl'Ionii e i chiari Epei
ivi eran tutti, e tutti a tener lungi
dalle navi d'Ettorre la rovina
opravano le mani; e tanti insieme
a rintuzzar dell'infiammato eroe
non bastano la furia. Il fior d'Atene
stassi alle prime file, ed il Petìde
Menestèo li conduce, aiutatori
Stichio, Fida e Bïante. È degli Epei
duce Megete e Dracio ed Amfïone;
de' Ftii Medonte e il pugnator Podarce,
Podarce nato del Filàcio Ificlo,
Medonte d'Oilèo bastarda prole
e d'Aiace fratel, che dal paterno
suolo esulando in Fìlace abitava,
messo a morte il german della matrigna
Erïopide d'Oilèo mogliera.
Degli eletti di Ftia questi alla testa
giunti ai Beozi difendean le navi.
Aiace d'Oilèo mai sempre al fianco
del Telamònio combattea. Siccome
due negri buoi d'una medesma voglia
nella dura maggese il forte aratro
traggono, e al ceppo delle corna intorno
largo rompe il sudor, mentre dal solo
giogo divisi per lo solco eguali
stampano i passi, e dietro loro il seno
si squarcia della terra; a questa immago
pugnavano congiunti i duo guerrieri.
Molta e gagliarda gioventù seguiva
il Telamònio; e quando la fatica
e il sudor lo fiaccava, i suoi compagni
il grave scudo ne prendean. Ma i Locri,
a cui poco durar solea l'ardire
nella pugna a piè fermo, d'Oilèo
l'audace figlio non seguìan. Costoro
non elmi avean d'equino crine ondanti,
né tondi scudi, né frassìnee lance,
ma d'archi solo armati e di ben torte
lanose fionde ad Ilio il seguitaro,
e da quest'archi e queste fionde in campo
scagliavano la morte, e de' Troiani
le falangi rompean. Per questo modo,
mentre gli Aiaci nella prima fronte
di bell'arme precinti alla ruina
del fiero Ettòr fann'argine, al lor tergo
nascosti i Locri saettando sempre
e frombolando, le ordinanze tutte
turban de' Teucri omai smarriti e rotti.
D'alta strage percossi allora i Troi
da navi e tende si sarìan ritratti
al ventoso Ilïon, se non volgea
all'animoso Ettòr queste parole
Polidamante: Ettorre, ai saggi avvisi
tu mal presti l'orecchio. E perché Giove
alto ti diede militar favore,
vuoi tu forse per questo agli altri ir sopra
di prudenza e consiglio? Ad un sol tempo
tutto aver tu non puoi. Di Giove il senno
largisce a questi la virtù guerriera,
l'arte a quei della danza, ad altri il suono
e il canto delle muse, ad altri in petto
pon la saggezza che i mortai governa
e le città conserva; e sànne il prezzo
chi la possiede. Or io dirò l'avviso
che mi sembra il miglior. Per tutto, il vedi,
ti cinge il fuoco della guerra. I Teucri,
con magnanimo ardir passato il muro,
parte coll'armi già dan volta, e parte
pugnano ancor, ma pochi incontro a molti,
e spersi tutti fra le navi. Or dunque
tu ti ritraggi alquanto, e tutti aduna
qui del campo i migliori, e delle cose
consultata la somma, si decida
se delle navi ritentar si debba
l'assalto, ove pur voglia un qualche iddio
darne alfin la vittoria, o se più torni
l'abbandonarle illesi. Il cor mi turba
un timor che non paghi oggi il nemico
il debito di ieri. In quelle navi
posa un guerrier terribile, che all'armi
per mia credenza desterassi in breve.
Piacque ad Ettorre il salutar consiglio,
e d'un salto gittandosi dal carro
gridò: Polidamante, i più gagliardi
tu qui dunque rattien, ch'io là ne vado
a raddrizzar la pugna, e dato ai nostri
buon ordine, farò pronto ritorno.
Disse, e ratto partì con elevato
capo, sembiante ad un'eccelsa rupe,
e volando chiamava alto de' Teucri
e delle schiere collegate i duci,
che tosto, udita dell'eroe la voce,
alla volta correan del Pantoìde
Polidamante del valore amico.
Di Dëìfobo intanto e del regale
Eleno e dell'Asïade Adamante
e dell'Irtacid'Asio iva per tutto
qua e là tra i primi combattenti Ettorre
dimandando e cercando. Alfin gli avvenne
di ritrovarli, ma non tutti illesi
né tutti in vita, ché domati alcuni
dal ferro acheo giacean nanti alle poppe
cadaveri deformi, altri tra il muro
languìan feriti di diverso colpo.
Dell'orrendo conflitto alla sinistra
vide egli poscia della bella Argiva
lo sposo rapitor che i suoi compagni
confortava alla pugna. Gli fu sopra,
e acerbe gli tonò queste parole:
Ahi funesto di donne ingannatore,
che di bello non porti altro che il viso,
Dëìfobo dov'è? dove son l'armi
d'Eleno, d'Asio, d'Adamante? dove
Otrïonèo? Dal sommo ecco già tutto
il grand'Ilio precipita, e te pure
l'ultimo danno, o sciagurato, aspetta.
E il bel drudo a rincontro: Ettore, a torto
tu mi rampogni. In altri tempi io forse
un trascurato mi mostrai, non oggi.
La madre un vile non mi fe'. Dal punto
che il conflitto attaccasti appo le navi,
da quel punto qui fermo e senza posa
con gli Achei mi travaglio. I valorosi
di che tu chiedi, caddero. Due soli
Dëìfobo ed Elèno ambi alla mano
feriti si partîr, sottratti a morte
certo da Giove. Or dove il cor ti dice,
guidami: io pronto seguirotti, e quanto
potran mie forze, ti farò, mi spero,
il mio valor palese. Oltre sua possa,
benché abbondi il voler, nessuno è forte.
Piegâr quei detti del fratello il core,
e di conserva entrambi ove più ferve
la mischia s'avvïâr. Pugnano quivi
e Cebrïone e il buon Polidamante
e il divin Polifète e Falce e Ortèo,
e i tre d'Ippozïon gagliardi figli
Palmi, Mori ed Ascanio, dal gleboso
suol d'Ascania venuti il dì precesso,
e spinti all'armi dal voler de' numi.
Come di venti impetuosi un turbo
dal tuon di Giove generato piomba
su la campagna, e con fracasso orrendo
sovra il mar si diffonde: immensi e spessi
bollono i flutti di canuta spuma,
e con fiero mugghiar l'un l'altro incalza
al risonante lido: a questa guisa
in ristretti drappelli, e gli uni agli altri
succedenti i Troiani e scintillanti
tutti nell'armi ne venìan su l'orme
de' condottieri, e precorreali Ettorre
non minor del terribile Gradivo.
Un tessuto di cuoi tondo brocchiero
di molte piastre rinforzato il prode
tiensi davanti, ed alle tempie intorno
tutto lampeggia l'agitato elmetto.
Sicuro all'ombra del suo gran pavese
passo passo ei s'avanza, e d'ogni parte
forar si studia le nemiche file,
e sgominarle. Ma de' petti achei
non si turba il coraggio, e mossi Aiace
i larghi passi a provocarlo il primo:
Accòstati, gli disse: e che pretendi
tu fier spavaldo? sgomentar gli Achivi?
Non siam nell'arte marzïal fanciulli,
e chi ne doma non se' tu, ma Giove
con funesto flagello. Se le navi
strugger ti speri, a rintuzzarti pronte
e noi pur anco abbiam le mani, e tutta
struggeremo noi pria la tua superba
cittade. A te predìco io poi che l'ora
non è lontana, che tu stesso in fuga
manderai preghi a Giove e a tutti i Divi
che sian di penna di sparvier più ratti
i corridori, che, diffuse al vento
le belle chiome, porteranti a Troia
entro un nembo di polve. - Avea quel fiero
ciò detto appena, che alla dritta in alto
un'aquila comparve. Alzâr le grida
fatti più franchi a quell'augurio i Greci,
ma non fu tardo alla risposta Ettorre:
Stupida massa di carname, Aiace
millantator, che parli? Eterno figlio
così foss'io di Giove e dell'augusta
Giuno, e onorato al par di Palla e Febo,
come m'accerto che funesto a tutti
vi sarà questo giorno: e tu fra' morti
tu medesmo cadrai, se di mia lancia
avrai l'ardire d'aspettar lo scontro.
Rotto da questa e qui disteso il tuo
vizzo corpaccio di sua pingue polpa
gli augei di Troia farà sazi e i cani.
Così detto, s'avanza, e con immenso
urlo animosi gli van dopo i Teucri.
Dall'altro lato memori gli Achivi
della virtù guerriera, e del più scelto
fiore di Troia intrepidi all'assalto,
misero anch'essi un alto grido; e d'ambi
gli eserciti il clamor ferìa le stelle
e i raggianti di Giove almi soggiorni.

 

Libro XIV

 

De' combattenti udì l'alto fracasso
Nestore in quella che una colma tazza
accostava alle labbra; e d'Esculapio
rivolto al figlio: Oh, che mai fia, diss'egli,
divino Macaon? Presso alle navi
dell'usato maggiori odo le grida
de' giovani guerrieri. Alla vedetta
vado a saperne la cagion. Tu siedi
intanto, e bevi il rubicondo vino,
mentre i caldi lavacri t'apparecchia
la mia bionda Ecamède, onde del sangue,
di che vai sozzo, dilavar la gruma.
Del suo figliuol si tolse in questo dire
il brocchier che giacea dentro la tenda,
il fulgido brocchier di Trasimède
che il paterno portava. Indi una salda
asta d'acuta cuspide impugnata
fuor della tenda si sofferma, e vede
miserando spettacolo: cacciati
in fuga i Greci, e alle lor spalle i Teucri
inseguenti e furenti, e la muraglia
degli Achei rovesciata. Come quando
il vasto mar s'imbruna, e presentendo
de' rauchi venti il turbine vicino,
tace l'onda atterrita, ed in nessuna
parte si volve, finché d'alto scenda
la procella di Giove; in due pensieri
così del veglio il cor pendea diviso,
se fra i rapidi carri de' fuggenti
Dànai si getti, o se alla volta ei corra
del duce Atride Agamennón. Lo meglio
questo gli parve, e s'avvïò. Seguìa
la mutua strage intanto, e intorno al petto
de' combattenti risonava il ferro
dalle lance spezzato e dalle spade.
Fuor delle navi gli si fêro incontro
i re feriti Ulisse e Dïomede
e Agamennón. Di questi a fior di lido
stavan lungi dall'armi le carene.
L'altre, che prime lo toccâr, dedotte
più dentro alla pianura, eran le navi
a cui dintorno fu costrutto il muro;
perocché il lido, benché largo, tutte
non potea contenerle, ed acervate
stavan le schiere. Statuiti adunque
l'uno appo l'altro, come scala, i legni
tutto empieano del lido il lungo seno
quanto del mare ne chiudean le gole.
Scossi al trambusto, che s'udìa, que' duci,
e di saper lo stato impazïenti
della battaglia, ne venìan conserti,
alle lance appoggiati, e gravi il petto
d'alta tristezza. Terror loro accrebbe
del veglio la comparsa, e Agamennóne
elevando la voce: O degli Achei
inclita luce, Nestore Nelìde,
perché lasci la pugna, e qui ne vieni?
Temo, ohimè! che d'Ettòr non si compisca
la minacciata nel troian consesso
fiera parola di non far ritorno
nella città, se pria spenti noi tutti,
tutte in faville non mettea le navi.
Ecco il detto adempirsi. Eterni Dei!
Dunque in ira son io, come ad Achille,
a tutto il campo acheo, sì che non voglia
più pugnar dell'armata alla difesa?
Ahi! pur troppo l'evento è manifesto,
Nestor rispose, né disfare il fatto
lo stesso tonator Giove potrebbe.
Il muro, che de' legni e di noi stessi
riparo invitto speravam, quel muro
cadde, il nemico ne combatte intorno
con ostinato ardire e senza posa:
né, come che tu l'occhio attento volga,
più ti sapresti da qual parte il danno
degli Achivi è maggior, tanto son essi
alla rinfusa uccisi, e tanti i gridi
di che l'aria risuona. Or noi qui tosto,
se verun più ne resta util consiglio,
consultiamo il da farsi. Entrar nel forte
della mischia non io però v'esorto,
ché mal combatte il battaglier ferito.
Saggio vegliardo, replicò l'Atride,
poiché fino alle tende hanno i nemici
spinta la pugna, e più non giova il vallo
né della fossa né dell'alto muro,
a cui tanto sudammo, e invïolato
schermo il tenemmo delle navi e nostro,
chiaro ne par che al prepossente Giove
caro è il nostro perir su questa riva
lungi d'Argo, infamati. Il vidi un tempo
proteggere gli Achei; lui veggo adesso
i Troiani onorar quanto gli stessi
beati Eterni, e incatenar le nostre
forze e l'ardir. Mia voce adunque udite.
Le navi, che ne stanno in secco al primo
lembo del lido, si sospingan tutte
nel vasto mare, e tutte sieno in alto
sull'àncora fermate insin che fitta
giunga la notte, dal cui velo ascosi
varar potremo il resto, ove pur sia
che ne dian tregua dalla pugna i Teucri.
Non è biasmo fuggir di notte ancora
il proprio danno, ed è pur sempre il meglio
scampar fuggendo, che restar captivo.
Lo guatò bieco Ulisse, e gli rispose:
Atride, e quale ti fuggì dal labbro
rovinosa parola? Imperadore
fossi oh! tu di vigliacchi, e non di noi,
di noi che Giove dalla verde etade
infino alla canuta agli ardui fatti
della guerra incitò, finché ciascuno
vi perisca onorato. E così dunque
puoi tu de' Teucri abbandonar l'altera
città che tanti già ne costa affanni?
Per dio! nol dire, dagli Achei non s'oda
questo sermone, della bocca indegno
d'uom di senno e scettrato, e, qual tu sei,
di tante schiere capitano. Io primo
il tuo parer condanno. Arde la pugna,
e tu comandi che nel mar lanciate
sien le navi? Ciò fôra un far più certo
de' Troiani il vantaggio, e più sicuro
il nostro eccidio: perocché gli Achivi
in quell'opra assaliti, anzi che fermi
sostener l'inimico, al mar terranno
rivolto il viso, a' Teucri il tergo: e allora
vedrai funesto, o duce, il tuo consiglio.
Rispose Agamennón: La tua pungente
rampogna, Ulisse, mi ferì nel core.
Ma mia mente non è che lor malgrado
traggan le navi in mar gli Achivi; e s'ora
altri sa darne più pensato avviso,
sia giovine, sia veglio, io l'avrò caro.
Chi darallo n'è presso (il bellicoso
Tidìde ripigliò), né fia mestieri
cercarlo a lungo, se ascoltar vorrete,
né, perché d'anni inferïor vi sono,
con disdegno spregiarmi. Anch'io mi vanto
figlio d'illustre genitor, del prode
Tidèo, di Cadmo nel terren sepolto.
Portèo tre figli generò dell'alta
Calidone abitanti e di Pleurone,
Agrio, Mela ed Enèo, tutti d'egregio
valor, ma tutti li vincea di molto
il cavaliero Enèo padre al mio padre.
Ivi egli visse; ma da' numi astretto
a gir vagando il padre mio, sua stanza
pose in Argo, e d'Adrasto a moglie tolse
una figlia; e signor di ricchi alberghi
e di campi frugiferi per molte
file di piante ombrosi, e di fecondo
copioso gregge, a tutti ancor gli Argivi
ei sovrastava nel vibrar dell'asta.
Conte vi sono queste cose, io penso,
tutte vere; e sapendomi voi quindi
nato di sangue generoso, a vile
non terrete il mio retto e franco avviso.
Orsù, crudel necessità ne spinge.
Al campo adunque, tuttoché feriti;
e perché piaga a piaga non s'aggiunga,
fuor di tiro si resti, ma propinqui
sì, che possiamo gl'indolenti almeno
incitar coll'aspetto e colla voce.
Piacque il consiglio, e s'avvïâr precorsi
dal re supremo Agamennón. Li vide
Nettunno, e tolte di guerrier canuto
le sembianze, e per mano preso l'Atride,
fe' dal labbro volar queste parole:
Atride, or sì che degli Achei la strage
e la fuga gioir fa la crudele
alma d'Achille, poiché tutto l'ira
gli tolse il senno. Oh possa egli in mal punto
perire, e d'onta ricoprirlo un Dio!
Ma tutti a te non sono irati i numi,
e de' Teucri vedrai di nuovo i duci
empir di polve il piano, e dalle tende
e dalle navi alla città fuggirsi.
Disse, e corse, e gridò quanto di nove
o dieci mila combattenti alzarse
potrìa, nell'atto d'azzuffarsi, il grido:
tanto fu l'urlo che dal vasto petto
l'Enosigèo mandò. Risurse in seno
degli Achei la fortezza a quella voce,
e il desìo di pugnar senza riposo.
Su le vette d'Olimpo in aureo trono
sedea Giuno, e di là visto il divino
suo cognato e fratel che in gran faccenda
per la pugna scorrea, gioinne in core.
Sovra il giogo maggior scòrse ella poscia
dell'irrigua di fonti Ida seduto
l'abborrito consorte; e in suo pensiero
l'augusta Diva a ruminar si mise
d'ingannarlo una via. Calarsi all'Ida
in tutto il vezzo della sua persona,
infiammarlo d'amor, trarlo rapito
di sua beltà nelle sue braccia, e dolce
nelle palpebre e nell'accorta mente
insinuargli il sonno, ecco il partito
che le parve il miglior. Tosto al regale
suo talamo s'avvìa, che a lei l'amato
figlio Vulcano fabbricato avea
con salde porte, e un tal serrame arcano
che aperto non l'avrebbe iddio veruno.
Entrovvi: e chiusa la lucente soglia,
con ambrosio licor tutto si terse
pria l'amabile corpo, e d'oleosa
essenza l'irrigò, divina essenza
fragrante sì che negli eterni alberghi
del Tonante agitata e cielo e terra
d'almo profumo rïempìa. Ciò fatto,
le belle chiome al pettine commise,
e di sua mano intorno all'immortale
augusto capo le compose in vaghi
ondeggianti cincinni. Indi il divino
peplo s'indusse, che Minerva avea
con grand'arte intessuto, e con aurate
fulgide fibbie assicurollo al petto.
Poscia i bei fianchi d'un cintiglio a molte
frange ricinse, e ai ben forati orecchi
i gemmati sospese e rilucenti
suoi ciondoli a tre gocce. Una leggiadra
e chiara come sole intatta benda
dopo questo la Diva delle Dive
si ravvolse alla fronte. Al piè gentile
alfin legossi i bei coturni, e tutte
abbigliate le membra uscì pomposa,
ed in disparte Venere chiamata,
così le disse: Mi sarai tu, cara,
d'una grazia cortese? o meco irata,
perch'io gli Achivi, e tu li Teucri aiti,
negarmela vorrai? - Parla, rispose
l'alma figlia di Giove: il tuo desire
manifestami intero, o veneranda
Saturnia Giuno. Mi comanda il core
di far tutto (se il posso, e se pur lice)
il tuo voler, qual sia. - Dammi, riprese
la scaltra Giuno, l'amoroso incanto
che tutti al dolce tuo poter suggetta
i mortali e gli Dei. Dell'alma terra
ai fini estremi a visitar men vado
l'antica Teti e l'Oceàn de' numi
generator, che présami da Rea,
quando sotto la terra e le profonde
voragini del mar di Giove il tuono
precipitò Saturno, mi nudriro
ne' lor soggiorni, e m'educâr con molta
cura ed affetto. A questi io vado, e solo
per ricomporne una difficil lite
ond'ei da molto a gravi sdegni in preda
e di letto e d'amor stansi divisi.
Se con parole ad acchetarli arrivo
e a rannodarne i cuori, io mi son certa
che sempre avranmi e veneranda e cara.
E l'amica del riso Citerèa,
Non lice, replicò, né dêssi a quella
che del tonante Iddio dorme sul petto,
far di quanto ella vuol niego veruno.
Disse; e dal seno il ben trapunto e vago
cinto si sciolse, in che raccolte e chiuse
erano tutte le lusinghe. V'era
d'amor la voluttà, v'era il desire
e degli amanti il favellìo segreto,
quel dolce favellìo ch'anco de' saggi
ruba la mente. In man gliel pose, e disse:
Prendi questo mio cinto in che si chiude
ogni dolcezza, prendilo, e nel seno
lo ti nascondi, e tornerai, lo spero,
tutte ottenute del tuo cor le brame.
L'alma Giuno sorrise, e di contento
lampeggiando i grand'occhi in quel sorriso,
lo si ripose in seno. Alle paterne
stanze Ciprigna incamminossi: e Giuno
frettolosa lasciò l'olimpie cime,
e la Pïeria sorvolando e i lieti
emazii campi, le nevose vette
varcò de' tracii monti, e non toccava
col piè santo la terra. Indi dell'Ato
superate le rupi, all'estuoso
Ponto discese, e nella sacra Lenno,
di Toante città, rattenne il volo.
Ivi al fratello della Morte, al Sonno
n'andò, lo strinse per la mano, e disse:
Sonno, re de' mortali e degli Dei,
s'unqua mi festi d'un desìo contenta,
or n'è d'uopo, e saprotti eterno grado.
Tosto ch'io l'abbia fra mie braccia avvinto,
m'addormenta di Giove, amico Dio,
le fulgide pupille: ed io d'un seggio
d'auro incorrotto ti farò bel dono,
che lavoro sarà maraviglioso
del mio figlio Vulcan, col suo sgabello
su cui si posi a mensa il tuo bel piede.
Saturnia Giuno, veneranda Dea,
rispose il Sonno, agevolmente io posso
ogni altro iddio sopir, ben anche i flutti
del gran fiume Oceàn di tutte cose
generatore; ma il Saturnio Giove
né il toccherò né il sopirò, se tanto
non comanda egli stesso. I tuoi medesmi
cenni di questo m'assennâr quel giorno
ch'Ercole il suo gran figlio, Ilio distrutto,
navigava da Troia. Io su la mente
dolce mi sparsi dell'Egìoco Giove,
e l'assopii. Tu intanto in tuo segreto
macchinando al suo figlio una ruina,
di fieri venti sollevasti in mare
una negra procella, e lui svïando
dal suo cammin, spingesti a Coo, da tutti
i suoi cari lontano. Arse di sdegno
destatosi il Tonante, e per l'Olimpo
scompigliando i Celesti, in cerca andava
di me fra tutti, e avrìa dal ciel travolto
me meschino nel mar, se l'alma Notte,
de' numi domatrice e de' mortali,
non mi campava fuggitivo. Ei poscia
per lo rispetto della bruna Diva
placossi. E salvo da quel rischio appena
vuoi che con esso a perigliarmi io torni?
Di periglio che parli? e di che temi?
gli rispose Giunon; forse t'avvisi
che al par del figlio, per cui sdegno il prese,
Giove i Teucri protegga? Or via, mi segui,
ch'io la minore delle Grazie in moglie
ti darò, la vezzosa Pasitèa,
di cui so che sei vago e sempre amante.
Giuralo per la sacra onda di Stige,
tutto in gran giubilìo ripiglia il Sonno;
e l'alma terra d'una man, coll'altra
tocca del mar la superficie, e quanti
stansi intorno a Saturno inferni Dei
testimoni ne sian, che mia consorte
delle Grazie farai la più fanciulla,
la gentil Pasitèa cui sempre adoro.
Disse; e conforme a quel desir giurava
la bianca Diva, e i sotterranei numi
tutti invocava che Titani han nome.
Fatto il gran sacramento, abbandonaro
d'Imbro e di Lenno le cittadi, e cinti
di densa nebbia divorâr la via.
D'Ida altrice di belve e di ruscelli
giunti alla falda, uscîr della marina
alla punta Lettèa. Preser leggieri
del monte la salita, e della selva
sotto i lor passi si scotea la cima.
Ivi il Sonno arrestossi, e per celarsi
di Giove agli occhi un alto abete ascese,
che sovrana innalzava al ciel la cima.
Quivi s'ascose tra le spesse fronde
in sembianza d'arguto augel montano
che noi Cimindi, e noman Calci i numi.
Con sollecito piede intanto Giuno
il Gàrgaro salìa. La vide il sommo
delle tempeste adunatore, e pronta
al cor gli corse l'amorosa fiamma,
siccome il dì che de' parenti al guardo
sottrattisi gustâr commisti insieme
la furtiva d'amor prima dolcezza.
Si fece incontro alla consorte, e disse:
Giuno, a che vieni dall'Olimpo, e senza
cocchio e destrieri? - E a lui la scaltra: Io vado
dell'alma terra agli ultimi confini
a visitar de' numi il genitore
Oceano e Teti, che ne' loro alberghi
con grande cura m'educâr fanciulla.
Vado a comporne la discordia: ei sono
e di letto e d'amor per ire acerbe
da gran tempo divisi. Alle radici
d'Ida lasciati ho i miei destrier che ratta
su la terra e sul mar mi porteranno.
Or qui vengo per te, ché meco irarti
non dovessi tu poi se taciturna
del vecchio iddio n'andassi alla magione.
Altra volta v'andrai, Giove rispose:
Or si gioisca in amoroso amplesso;
ché né per donna né per Dea giammai
mi si diffuse in cor fiamma sì viva:
non quando per la sposa Issïonèa,
che Piritòo, divin senno, produsse,
arsi d'amor, non quando alla gentile
figlia d'Acrisio generai Persèo,
prestantissimo eroe, né quando Europa
del divin Radamanto e di Minosse
padre mi fece. Né le due di Tebe
beltà famose Sèmele ed Alcmena,
d'Ercole questa genitrice, e quella
di Bacco dei mortali allegratore;
né Cerere la bionda, né Latona,
né tu stessa giammai, siccome adesso,
mi destasti d'amor tanto disìo.
E l'ingannevol Diva: Oh che mai parli,
importuno! Ascoltar vuoi tu d'amore
le fantasie qui d'Ida in su le vette
dove tutto si scorge? E se qualcuno
degli Dei ne mirasse, e agli altri Eterni
conto lo fêsse, rïentrar nel cielo
con che fronte ardirei? Ciò fôra indegno.
Pur se vera d'amor brama ti punge,
al talamo n'andiam, che il tuo diletto
figlio Vulcan ti fabbricò di salde
porte; e quivi di me fa il tuo volere.
Né d'uom mortale né d'iddio veruno
lo sguardo ne vedrà, Giove riprese.
Diffonderotti intorno un'aurea nube
tal che per essa né del Sol pur anco
la vista passerà quantunque acuta.
Disse, ed in grembo alla consorte il figlio
di Saturno s'infuse: e l'alma terra
di sotto germogliò novelle erbette
e il rugiadoso loto e il fior di croco
e il giacinto, che in alto li reggea
soffice e folto. Qui corcârsi, e densa
li ricopriva una dorata nube
che lucida piovea dolce rugiada.
Sul Gargaro così queto dormìa
Giove in braccio alla Dea, preda d'amore
e del soave Sonno che veloce
corse alle navi ad avvisarne il nume
scotitor della Terra; e a lui venuto,
con presto favellar, T'affretta, ei disse,
a soccorrer gli Achivi, o re Nettunno,
e almen per poco vincitor li rendi
finché Giove si dorme. Io lo ricinsi
d'un tener sopor mentre ingannato
dalla consorte in seno le riposa.
Sparve il Sonno, ciò detto, e de' mortali
su l'altere città l'ali distese.
Allor Nettunno d'aitar bramoso
più che prima gli Achei, diessi nel mezzo
alle file di fronte, alto gridando:
Achivi, lascerem di Priamo al figlio
noi dunque il vanto di novel trïonfo,
e la gloria d'averne arse le navi?
Ei certo lo si crede, e vampo mena,
perché d'Achille neghittosa è l'ira.
Ma d'Achille non fia molto il bisogno,
se noi far opra delle man sapremo,
e alternarci gli aiuti. Or su, concordi
seguiam tutti il mio detto. I più sicuri
e grandi scudi, che nel campo sièno,
imbracciamo, e copriam de' più lucenti
elmi le teste, e le più lunghe picche
strette in pugno, marciam: io vi precedo,
né per forte ch'ei sia l'audace Ettorre,
l'impeto nostro sosterrà. Chïunque
è guerrier valoroso, e di leggiero
scudo si copre, al men valente il ceda,
e allo scudo maggior sottentri ei stesso.
Obbedîr tutti al cenno. I re medesmi
Tidìde, Ulisse e Agamennón, sprezzate
le lor ferite, in ordinanza a gara
ponean le schiere, e via dell'armi il cambio
per le file facean; le forti al forte,
al peggior le peggiori. E poiché tutti
di lucido metallo la persona
ebber coverta, s'avvïâr. Nettunno
li precorrea, nella robusta mano
sguäinata portandosi una lunga
orrenda spada che parea di Giove
la folgore, e mettea nel cor paura.
Misero quegli che la scontra in guerra!
Dall'altra parte il troian duce i suoi
pone ei pure in procinto, e senza indugio
l'illustre Ettorre ed il ceruleo Dio,
l'uno i Greci incorando e l'altro i Teucri
una fiera attaccâr pugna crudele.
Gonfiasi il mare, e i padiglioni innonda
e gli argivi navigli, e con immenso
clamor si viene delle schiere al cozzo.
Non così la marina onda rimugge
dal tracio soffio flagellata al lido;
non così freme il foco alla montagna
quando va furibondo a divorarsi
l'arida selva; né d'eccelsa quercia
rugge sì fiero fra le chiome il vento,
come orrende de' Teucri e degli Achei
nell'assalirsi si sentìan le grida.
Contro Aiace, che voltagli la fronte,
scaglia Ettorre la lancia, e lo colpisce
ove del brando e dello scudo il doppio
balteo sul petto si distende; e questo
dal colpo lo salvò. Visto uscir vano
Ettore il telo, di rabbia fremendo
in securo fra' suoi si ritraea.
Mentr'ei recede, il gran Telamonìde
ad un sasso, de' molti che ritegno
delle navi giacean sparsi pel campo
de' combattenti al piè, dato di piglio,
l'avventò, lo rotò come palèo,
e sul girone dello scudo al petto
l'avversario ferì. Con quel fragore
che dal foco di Giove fulminata
giù ruina una quercia, e grave intorno
del grave zolfo si diffonde il puzzo:
l'arator, che cadersi accanto vede
la folgore tremenda, imbianca e trema:
così stramazza Ettòr; l'asta abbandona
la man, ma dietro gli va scudo ed elmo,
e rimbombano l'armi sul caduto.
V'accorsero con alti urli gli Achei,
strascinarlo sperandosi, e di strali
lo tempestando; ma nessun ferirlo
potéo, ché ratti gli fêr serra intorno
i più valenti, Enea, Polidamante,
Agènore, e de' Licii il condottiero
Sarpedonte con Glauco, e nulla in somma
de' suoi l'abbandonò, ch'altri gli scudi
gli anteposero, e lunge altri dall'armi
l'asportâr su le braccia a' suoi veloci
destrier che fuori della pugna a lui
tenea pronti col cocchio il fido auriga.
Volâr questi, e portâr l'eroe gemente
verso l'alta città; ma giunti al guado
del vorticoso Xanto, ameno fiume
generato da Giove, ivi dal carro
posârlo a terra, gli spruzzâr di fresca
onda la fronte, ed ei rinvenne, e aperte
girò le luci intorno, e sui ginocchi
suffulto vomitò sangue dal petto.
Ma di nuovo all'indietro in sul terreno
riversossi; e coll'alma ancor dal colpo
doma oscurârsi all'infelice i lumi.
Gli Achei, veduto uscir dal campo Ettorre,
si fêr più baldi addosso all'inimico,
e primo Aiace d'Oilèo d'assalto
Satnio ferì, che Naïde gentile
ad Enopo pastor lungo il bel fiume
Satnïoente partorito avea.
Lo colpì coll'acuta asta il veloce
Oilìde nel lombo; ei resupino
si versò nella polve, e intorno a lui
più che mai fiera si scaldò la zuffa.
A vendicar l'estinto oltre si spinge
Polidamante, e tale a Protenorre,
figliuol d'Arëilìco, un colpo libra,
che tutto la gagliarda asta gli passa
l'omero destro. Ei cadde, e il suol sanguigno
colla palma ghermì. Sovra il caduto
menò gran vanto il vincitor, gridando:
Dalla man del magnanimo Pantìde
non uscì, parmi, indarno il telo, e certo
lo raccolse nel corpo un qualche Acheo
che appoggiato a quell'asta or scende a Pluto.
Ferì gli Achivi di dolor quel vanto;
più che tutti ferì l'alma del grande
Telamonìde, al cui fianco caduto
era quel prode. E tosto al borïoso,
che indietro si traea, la folgorante
asta scagliò. Polidamante a tempo
schivò la morte con un salto obliquo;
e ricevella (degli Dei tal era
l'aspro decreto) l'antenòreo figlio
Archìloco. Lo colse il fatal ferro
alla vertebra estrema, ove nel collo
s'innesta il capo, e ne precise il doppio
tendine. Ei cadde, e del meschin la testa,
colla bocca davanti e le narici,
prima a terra n'andò, che la persona.
Alto allora a quel colpo Aiace esclama:
Polidamante, oh! guarda, e dinne il vero,
non val egli Protènore quest'altro
ch'io qui posi a giacer? Ned ei mi sembra
mica de' vili, né d'ignobil seme,
ma d'Antènore un figlio, o suo germano;
sì n'ha l'impronta della razza in viso.
Così parlava infinto, conoscendo
ben ei l'ucciso. Addolorârsi i Teucri;
ma del fratello vindice Acamante
a Pròmaco beòzio, che l'estinto
traea pe' piedi, fulminò di lancia
tale un sùbito colpo, che lo stese.
Alto allor grida l'uccisor superbo:
O voi guerrieri da balestra, e forti
sol di minacce! e voi pur anco, Argivi,
morderete la polve, e non saremo
noi soli al lutto. Dalla mia man domo
mirate di che sonno or dorme il vostro
Pròmaco, e paga del fratello mio
tosto lo sconto! Perciò preghi ognuno
di lasciar dopo sé vendicatore
di sua morte un fratel nel patrio tetto.
Destò quel vanto negli Achei lo sdegno:
sovra ogni altro crucciossi il bellicoso
Penelèo. Si scagliò questi con ira
contro Acamante che del re l'assalto
non attese; ed il colpo a lui diretto
Ilïonèo percosse, unica prole
di Forbante che ricco era di molto
gregge; e Mercurio, che d'assai l'amava,
di dovizie fra' Troi l'avea cresciuto.
Il colse Penelèo sotto le ciglia
dell'occhio alla radice, e la pupilla
schizzandone passar l'asta gli fece
via per l'occhio alla nuca. Ilïonèo
assiso cadde colle man distese:
ma stretta Penelèo l'acuta spada,
gli recise le canne, e il mozzo capo,
coll'elmo e l'asta ancor nell'occhio infissa,
gli mandò nella polve. Indi l'alzando
languente in cima alla picca e cadente
come lasso papavero, ai nemici
lo mostra, e altero esclama: In nome mio
dite, o Teucri, del chiaro Ilïonèo
ai genitor, che per la casa innalzino
il funebre ulular, da che né pure
di Pròmaco, figliuol d'Alegenorre,
la consorte potrà del caro aspetto
del marito gioir quando da Troia
farem ritorno alle paterne rive.
Sì disse, e tutti impallidîr di tema,
e col guardo ciascun giva cercando
di salvarsi una via. Celesti Muse,
or voi ne dite chi primier le spoglie
cruente riportò, poi che agli Achivi
fe' piegar la vittoria il re Nettunno.
Primiero Aiace Telamònio uccise
de' forti Misii il duce Irzio Girtìde;
Antìloco spogliò Falce e Mermèro:
da Merïon fu spento Ippozïone
con Mori: a Protoone e Perifete
Teucro diè morte: Menelao nel ventre
Iperènore colse, e dalla piaga
tutte ad un tempo uscîr le lacerate
intestina e la vita. Altri più molti
ne spense Aiace d'Oilèo; ché nullo
ratto al paro di lui gli spaventati
fuggitivi inseguìa, quando ne' petti
della fuga il terror Giove mettea.

 

Libro XV

 

Ma poiché il vallo superaro e il fosso,
con molta di lor strage, i fuggitivi
nel viso smorti di terror fermârsi
ai vôti cocchi; e Giove in quel momento
sull'Ida risvegliossi accanto a Giuno.
Surse, stette, e gli Achei vide e i Troiani,
questi incalzati, e quei coll'aste a tergo
incalzanti, e tra loro il re Nettunno.
Vide altrove prostrato Ettore, e intorno
stargli i compagni addolorati, ed esso
del sentimento uscito, e dall'anelo
petto a gran pena traendo il respiro
nero sangue sboccar; ché non l'avea
certo il più fiacco degli Achei percosso.
Pietà sentinne nel vederlo il padre
de' mortali e de' numi, e con obliquo
terribil occhio guatò Giuno, e disse:
Scaltra malvagia, la sottil tua frode
dalla pugna cessar fe' il divo Ettorre,
e i Troiani fuggir. Non so perch'io
or non t'afferri, e col flagel non faccia
a te prima saggiar del dolo il frutto.
E non rammenti il dì ch'ambe le mani
d'aureo nodo infrangibile t'avvinsi,
e alla celeste volta con due gravi
incudi al piede penzolon t'appesi?
Fra l'atre nubi nell'immenso vôto
tu pendola ondeggiavi, e per l'eccelso
Olimpo ne fremean di rabbia i Numi,
ma sciorti non potean; ché qual di loro
afferrato io m'avessi, giù dal cielo
l'avrei travolto semivivo in terra.
Né ciò tutto quetava ancor la bile
che mi bollìa nel cor, quando, commosse
d'Ercole a danno le procelle e i venti,
tu pel mar l'agitasti, e macchinando
la sua rovina lo svïasti a Coo,
donde io salvo poi trassi il travagliato
figlio, e in Argo il raddussi. Ora di queste
cose ben io farò che ti sovvegna,
onde svezzarti dagl'inganni, e tutto
il pro mostrarti de' tuoi falsi amplessi.
Raccapricciò d'orror la veneranda
Giuno a que' detti; e, Il ciel, la terra attesto
(diessi a gridare) e il sotterraneo Stige,
che degli Eterni è il più tremendo giuro,
ed il sacro tuo capo, e l'illibato
d'ogni spergiuro marital mio letto:
se agli Achivi soccorse e nocque ai Teucri
il re Nettunno, non fu mio consiglio,
ma del suo cor spontaneo moto, e pièta
de' mal condotti Argivi. Esorterollo
anzi io stessa a recarsi, ovunque il chiami,
terribile mio sire, il tuo comando.
Sorrise Giove, e replicò: Se meco
nel senato de' numi, augusta Giuno,
in un solo voler consentirai,
consentiravvi (e sia diversa pure
la sua mente) ben tosto anco Nettunno.
Or tu, se brami che per prova io vegga
sincero il tuo parlar, rimonta in cielo,
e qua m'invìa sull'Ida Iri ed Apollo.
Iri nel campo degli Achei discesa
a Nettunno farà l'alto precetto
d'abbandonar la pugna, e di tornarsi
ai marini soggiorni. Apollo all'armi
Ettore desterà, novello in petto
spirandogli vigor, sì che sanato
d'ogni dolore fra gli Achei di nuovo
sparga la vile paurosa fuga,
e gl'incalzi così che fra le navi
cadan, fuggendo, del Pelìde Achille.
Questi allor nella pugna il suo diletto
Patroclo manderà, che morta in campo
molta nemica gioventù col divo
mio figlio Sarpedon, morto egli stesso
cadrà, prostrato dall'ettòrea lancia.
Dell'ucciso compagno irato Achille
spegnerà l'uccisore, e da quel punto
farò che sempre sian respinti i Teucri,
finché per la divina arte di Palla
il superbo Ilïon prendan gli Achei.
Né l'ire io deporrò, né che veruno
degli Dei qui l'argive armi soccorra
sosterrò, se d'Achille in pria non veggo
adempirsi il desìo. Così promisi,
e le promesse confermai col cenno
del mio capo quel dì che i miei ginocchi
Teti abbracciando, d'onorar pregommi
coll'eccidio de' Greci il suo gran figlio.
Disse, e la Diva dalle bianche braccia
obbedïente dall'idèa montagna
all'Olimpo salì. Colla prestezza
con che vola il pensier del vïatore,
che scorse molte terre le rïanda
in suo secreto, e dice: Io quella riva,
io quell'altra toccai: colla medesma
rattezza allor la veneranda Giuno
volò dall'Ida sull'eccelso Olimpo,
e sopravvenne agl'Immortali, accolti
nelle stanze di Giove. Alzârsi i numi
tutti al vederla, e coll'ambrosie tazze
l'accolsero festosi. Ella, negletta
ogni altra offerta, la man porse al nappo
appresentato dalla bella Temi
che primiera a incontrar corse la Dea,
così dicendo: Perché riedi, o Giuno?
Tu ne sembri atterrita. Il tuo consorte
n'è forse la cagion? - Non dimandarlo,
Giuno rispose. Quell'altero e crudo
suo cor tu stessa già conosci, o Diva.
Presiedi ai nostri almi convivii, e tosto
qui con tutti i Celesti udrai di Giove
gli aspri comandi che per mio parere
de' mortali fra poco e degli Dei
le liete mense cangeranno in lutto.
Tacque, e s'assise. Contristârsi in cielo
i Sempiterni; e Giuno un cotal riso
a fior di labbro aprì, ma su le nere
ciglia la fronte non tornò serena.
Ruppe alfin disdegnosa in questi detti:
Oh, noi dementi! Inetta è la nostr'ira
contra Giove, o Celesti, e il faticarci
con parole a frenarlo o colla forza
è vana impresa. Assiso egli sull'Ida
né gli cale di noi né si rimove
dal suo proposto, ché gli Eterni tutti
di fortezza ei si vanta e di possanza
immensamente superar. Soffrite
quindi in pace ogni mal che più gli piaccia
inviarvi a ciascuno. E a Marte, io credo,
il suo già tocca: Ascàlafo, il più caro
d'ogni mortale al poderoso iddio
che proprio sangue lo confessa, è spento.
Si batté colle palme la robusta
anca Gradivo, e in suon d'alto dolore
gridò: Del cielo cittadini eterni,
non mi vogliate condannar, s'io scendo
l'ucciso figlio a vendicar, dovesse
steso fra' morti il fulmine di Giove
là tra il sangue gittarmi e tra la polve.
Disse; e alla Fuga impose e allo Spavento
d'aggiogargli i destrieri; e di fiammanti
armi egli stesso si vestiva. E allora
di ben altro furor contro gli Dei
di Giove acceso si sarebbe il core,
se per tutti i Celesti impaurita
non si spiccava dal suo trono, e ratta
fuor delle soglie non correa Minerva
a strappargli di fronte il rilucente
elmo, e lo scudo dalle spalle: e a forza
toltagli l'asta dalla man gagliarda,
la ripose, e il garrì: Cieco furente,
tu se' perduto. Per udir non hai
tu più dunque gli orecchi, e in te col senno
spento è pure il pudor? Dell'alma Giuno,
ch'or vien da Giove, non intendi i detti?
Vuoi tu forse, insensato, esser costretto
a ritornarti doloroso al cielo,
fatto di molti mali un rio guadagno,
e creata a noi tutta alta sciagura?
Perciocché, de' Troiani e degli Achei
abbandonate le contese, ei tosto
risalendo all'Olimpo, in iscompiglio
metterà gl'Immortali, ed afferrando
l'un dopo l'altro, od innocenti o rei,
noi tutti punirà. Del figlio adunque
la vendetta abbandona, io tel comando:
ch'altri di lui più prodi o già periro
o periranno. Involar tutta a morte
de' mortali la schiatta è dura impresa.
Sì dicendo, al suo seggio il vïolento
Dio ricondusse. Fuor dell'auree soglie
Giuno intanto a sé chiama Apollo ed Iri
la messaggiera, e lor presta sì parla:
Ite, Giove l'impon, veloci all'Ida;
arrivati colà fissate il guardo
in quel volto, e ne fate ogni volere.
Ciò detto, indietro ritornò l'augusta
Giuno, e di nuovo si compose in trono.
Quei mossero volando, e su l'altrice
di fontane e di belve Ida discesi,
di Saturno trovâr l'onniveggente
figlio sull'erto Gàrgaro seduto;
e circonfusa intorno il coronava
un'odorosa nube. Essi del grande
di nembi adunator giunti al cospetto,
fermârsi: e satisfatto egli del pronto
loro obbedir della consorte ai detti,
ad Iri in prima il favellar rivolto,
Va, disse, Iri veloce, e al re Nettunno
nunzia verace il mio comando esponi.
Digli che il campo ei lasci e la battaglia,
e al ciel si torni o al mar. Se il cenno mio
ribelle sprezzerà, pensi ben seco
se, benché forte, s'avrà cor che basti
a sostener l'assalto mio: ricordi
che primo io nacqui, e che di forza il vinco,
quantunque egli osi a me vantarsi eguale,
a me che tutti fo tremar gli Dei.
Obbedì la veloce Iri, e discese
dalle montagne idèe. Come sospinta
da fiato d'aquilon serenatore
dalle nubi talor vola la neve
o la gelida grandine: a tal guisa
d'Ilio sui campi con rapido volo
Iri calossi, e al divo Enosigèo
fattasi innanzi, così prese a dire:
Ceruleo Nume, messaggiera io vegno
dell'Egìoco signore. Ei ti comanda
d'abbandonar la pugna, e di far tosto
o agli alberghi celesti o al mar ritorno.
Se sprezzi il cenno, ed obbedir ricusi,
minaccia di venirne egli medesmo
teco a battaglia. Ti consiglia quindi
d'evitar le sue mani; e ti ricorda
ch'ei d'etade è maggiore e di fortezza,
quantunque egual vantarti oso tu sia
a lui che mette agli altri Dei terrore.
Arse d'ira Nettunno, e le rispose:
Ch'ei sia possente il so; ma sue parole
sono superbe, se forzar pretende
me suo pari in onor. Figli a Saturno
tre germani siam noi da Rea produtti,
primo Giove, io secondo, e terzo il sire
dell'Inferno Pluton. Tutte divise
fur le cose in tre parti, e a ciascheduno
il suo regno sortì. Diede la sorte
l'imperio a me del mar, dell'ombre a Pluto,
del cielo a Giove negli aerei campi
soggiorno delle nubi. Olimpo e Terra
ne rimaser comuni, e il sono ancora.
Non farò dunque il suo voler; si goda
pur la sua forza, ma si resti cheto
nel suo regno, né tenti or colla destra
come un vile atterrirmi. Alle fanciulle,
ai bamboli suoi figli il terror porti
di sue minacce, e meglio fia. Tra questi
almen si avrà chi a forza l'obbedisca.
Dio del mar, la veloce Iri soggiunse,
questa dunque vuoi tu che a Giove io rechi
dura e forte risposta? E raddolcirla
in parte almeno non vorrai? De' buoni
pieghevole è la mente; e chi primiero
nacque ha ministre, tu lo sai, l'Erinni.
Tu parli, o Diva, il ver, l'altro riprese:
e gran ventura è messaggier che avvisa
ciò che più monta. Ma di sdegno avvampa
il cor quand'egli minaccioso oltraggia
me suo pari di grado e di destino.
Pur questa volta porrò freno all'ira,
e cederò. Ma ben vo' dirti io pure
(e dal cor parte la minaccia mia),
se Giove, a mio dispetto e di Minerva
e di Giuno e d'Ermete e di Vulcano,
risparmierà dell'alto Ilio le torri,
né atterrarle vorrà, né darne intera
la vittoria agli Achei, sappia che questo
fia tra noi seme di perpetua guerra.
Lasciò, ciò detto, il campo e in mar s'ascose,
e ne sentiro la partenza in petto
i combattenti Achei. Si volse allora
Giove ad Apollo, e disse: Or vanne, o caro,
al bellicoso Ettòr. Lo scotitore
della terra evitando il nostro sdegno
fe' ritorno nel mar. Se ciò non era,
della pugna il rimbombo avrìa ferito
anche l'orecchio degl'inferni Dei
stanti intorno a Saturno. Ad ambedue
me' però torna che schivato egli abbia,
fatto più senno, di mie mani il peso;
perché senza sudor la non sarìa
certo finita. Or tu la fimbrïata
Egida imbraccia, e forte la percoti,
e spaventa gli Achei. Cura ti prenda,
o Saettante, dell'illustre Ettorre,
e tal ne' polsi valentìa gli metti,
ch'egli fino alle navi e all'Ellesponto
cacci in fuga gli Achivi. Allor la via
troverò che i fuggenti abbian respiro.
Obbedì pronto Apollo, e dall'idèa
cima disceso, simile a veloce
di colombi uccisor forte sparviero
de' volanti il più ratto, al generoso
Prïamide n'andò. Dal suol già surto
e risensato il nobile guerriero
sedea, ripresa degli astanti amici
la conoscenza: perocché, dal punto
che in lui di Giove s'arrestò la mente,
l'anelito cessato era e il sudore.
Stettegli innanzi il Saettante, e disse:
Perché lungi dagli altri e sì spossato,
Ettore siedi? e che dolor ti opprime?
E a lui con fioca e languida favella
di Priamo il figlio: Chi se' tu che vieni,
ottimo nume, a interrogarmi? Ignori
che il forte Aiace, mentre che de' suoi
alle navi io facea strage, mi colse
d'un sasso al petto, e tolsemi le forze?
Già l'alma errava su le labbra; e certo
di veder mi credetti in questo giorno
l'ombre de' morti e la magion di Pluto.
Fa cor, riprese il Dio: Giove ti manda
soccorritore ed assistente il sire
dell'aurea spada, Apolline. Son io
che te finor protessi e queste mura.
Or via, sveglia il valor de' numerosi
squadroni equestri, ed a spronar gli esorta
verso le navi i corridori. Io poscia
li precedendo spianerò lor tutta
la strada, e fugherò gli achivi eroi.
Disse, ed al duce una gran forza infuse.
Come destrier di molto orzo in riposo
alle greppie pasciuto, e nella bella
uso a lavarsi correntìa del fiume,
rotti i legami, per l'aperto corre
insuperbito, e con sonante piede
batte il terren; sul collo agita il crine,
alta estolle la testa, e baldanzoso
di sua bellezza, al pasco usato ei vola
ove amor d'erbe il chiama e di puledre:
tale, udita del Dio la voce, Ettorre
move rapidi i passi, inanimando
i cavalieri. Ma gli Achei, siccome
veltri e villani che un cornuto cervo
inseguono, o una damma a cui fa schermo
alto dirupo o densa ombra di bosco,
poiché lor vieta di pigliarla il fato;
se a lor grida s'affaccia in su la via
un barbuto leon colle sbarrate
mascelle orrende, incontanente tutti,
benché animosi, volgono le terga:
così agli Achei, che stretti infino allora
senza posa inseguito aveano i Teucri
colle lance ferendo e colle spade,
visto aggirarsi tra le file Ettorre,
cadde a tutti il coraggio. Allor si mosse
Toante Andremonìde, il più gagliardo
degli etòli guerrieri. Era costui
di saetta del par che di battaglia
a piè fermo perito, e degli Achivi
pochi in arringhe lo vincean, se gara
fra giovani nascea nella bell'arte
del diserto parlar. - Numi! qual veggo
gran prodigio? (dicea questo Toante)
Dalla Parca scampato, e di bel nuovo
risurto Ettorre! E speravam noi tutti
che per le man d'Aiace egli giacesse.
Certo qualcuno de' Celesti i giorni
preservò di costui, che molti al suolo
degli Achivi già stese, e molti ancora
ne stenderà, mi credo; ché non senza
l'altitonante Giove egli sì franco
alla testa de' Teucri è ricomparso.
Tutti adunque seguiamo il mio consiglio.
La turba ai legni si raccosti; e noi,
quanti del campo achivo i più valenti
ci vantiamo, stiam fermi e coll'alzate
aste vediam di repulsarlo. Io spero
che quantunque animoso, ei nella calca
entrar non ardirà di scelti eroi.
Disse, e tutti obbedîr volonterosi.
Ambo gli Aiaci e Teucro e Idomenèo
e Merïone e il marzïal Megète
convocando i migliori, in ordinanza
contro i Teucri ed Ettòr poser la pugna.
Verso le navi intanto s'avvïava
de' men forti la turba. Allor primieri
e serrati fêr impeto i Troiani.
Li precede a gran passi camminando
l'eccelso Ettorre, e lui precede Apollo,
che di nebbia i divini omeri avvolto
l'irta di fiocchi, orrenda, impetuosa
egida tiene, di Vulcano a Giove
ammirabile dono, onde tonando
i mortali atterrir. Con questa al braccio
guidava i Teucri il Dio contro gli Achei
che stretti insieme n'attendean lo scontro.
Surse allor d'ambe parti un alto grido.
Dai nervi le saette, e dalle mani
vedi l'aste volar, altre nel corpo
de' giovani guerrieri, altre nel mezzo,
pria che il corpo saggiar, piantarsi in terra
di sangue sitibonde. Infin che immota
tenne l'egida Apollo, egual fu d'ambe
parti il ferire ed il cader. Ma come
dritto guardando l'agitò con forte
grido sul volto degli Achei, gelossi
ne' lor petti l'ardire e la fortezza.
Qual di bovi un armento o un pieno ovile
incustodito, all'improvviso arrivo
di due belve notturne si scompiglia;
così gli Achivi costernârsi; e Apollo
fra lor spargeva lo spavento, i Teucri
esaltando ed Ettorre. Allor turbata
l'ordinanza, seguìa strage confusa.
Ettore Stichio uccide e Arcesilao,
questi a' Beozi capitano, e quegli
un compagno fedel del generoso
Menestèo. Per le man poscia d'Enea
Jaso cade e Medonte. Era Medonte
del divino Oilèo bastardo figlio
e d'Aiace fratel: ma morto avendo
un diletto german della matrigna
Erïopìde d'Oilèo mogliera,
dalla paterna terra allontanato
in Filace abitava. Attico duce
era Jaso, e figliuol detto venìa
del Bucolide Sfelo. A Mecistèo
Polidamante nelle prime file
tolse la vita; ad Echïon Polìte,
ed Agenore a Clònio. A Dëijòco,
tra quei di fronte in fuga volto, al tergo
vibra Paride l'asta e lo trafigge.
Mentre l'armi rapìan questi agli uccisi,
giù nell'irto di pali orrendo fosso
precipitando i fuggitivi Achei
d'ogni parte correan, dalla crudele
necessità sospinti, entro il riparo
della muraglia: ed alto alle sue schiere
gridava Ettorre di lasciar le spoglie
sanguinolente, e sul navile a gitto
piombar: Qualunque scorgerò ristarsi
dalle navi lontan, di propria mano
l'ucciderò, né morto il metteranno
su la pira i fratei né le sorelle,
ma innanzi ad Ilio strazieranlo i cani.
Sì dicendo, sonar fe' su le groppe
de' cavalli il flagello e li sospinse
per le file, animando ogni guerriero.
Dietro al lor duce minacciosi i Teucri
con immenso clamor drizzaro i cocchi.
Iva Apollo davanti, e col leggiero
urto del piede lo ciglion del cupo
fosso abbattendo il riversò nel mezzo,
e ad immago di ponte un'ampia strada
spianovvi, e larga come d'asta il tiro,
quando a far di sue forze esperimento
un lanciator la scaglia. Essi a falangi
su questa via versavansi, ed Apollo
sempre alla testa, sollevando in alto
l'egida orrenda, degli Achivi il muro
atterrava con quella agevolezza
che un fanciullo talor lungo la riva
del mar per giuoco edifica l'arena,
e per giuoco co' piedi e colle mani
poco poi la rovescia e la rimesce.
Tale fu, Febo arcier, l'opra in che tanto
sudâr gli Achivi, dispergesti, e loro
del gelo della fuga empiesti il petto.
Così spinti fermârsi appo le navi,
e a vicenda incuorandosi, e le mani
ai numi alzando, ognun porgea gran voti.
Ma più che tutti, degli Achei custode,
il Gerènio Nestorre allo stellato
cielo le palme sollevando orava:
Giove padre, se mai nelle feconde
piagge argive o di tauri o d'agnellette
sacrifici offerendo ti pregammo
di felice ritorno, e tu promessa
ne festi e cenno, or deh! il ricorda, e lungi,
dio pietoso, ne tieni il giorno estremo,
né voler sì da' Troi domi gli Achivi.
Così pregava. L'udì Giove, e forte
tuonò. Ma i Teucri dell'Egìoco Sire
udito il segno si scagliâr più fieri
contro gli Achivi, ed incalzâr la pugna.
Come del mar turbato un vasto flutto
da furia boreal cresciuto e spinto
rugge e sormonta della nave i fianchi;
tali i Teucri con alti urli saliro
la muraglia, e, cacciati entro i cavalli,
coll'aste incominciâr sotto le poppe
un conflitto crudel, questi su i cocchi,
quei sul bordo de' legni colle lunghe,
che dentro vi giacean, stanghe commesse,
ed al bisogno di naval battaglia
accomodate colle ferree teste.
Finché fuor del navile intorno al muro
arse de' Teucri e degli Achei la pugna,
del valoroso Eurìpilo si stette
Patroclo nella tenda, e ragionando
il ricreava, e sull'acerba piaga
dell'amico, a placarne ogni dolore,
obblivïosi farmaci spargea.
Ma tosto che mirò su l'arduo muro
saliti a furia i Teucri, e l'urlo surse
degli Achivi e la fuga, in lai proruppe,
e battendosi l'anca, Ohimè! diss'egli
in suono di lamento, una feroce
mischia là veggo. Non mi lice, Eurìpilo,
all'uopo che pur n'hai, teco indugiarmi
più lungamente: assisteratti il servo;
io ne volo ad Achille onde eccitarlo
alla pugna. Chi sa? forse un propizio
nume darammi che mia voce il tocchi;
degli amici il pregar va dolce al core.
Così detto, volò. Gli Achivi intanto
fermi de' Teucri sostenean l'assalto;
ma dalle navi non sapean, quantunque
di numero minori, allontanarli;
né i Troiani potean romper de' Greci
le stipate falangi, e insinuarsi
tra le navi e le tende. E a quella guisa
che in man di fabbro da Minerva istrutto,
il rigo una naval trave pareggia;
così de' Teucri egual si diffondea
e degli Achei la pugna; ed altri a questa
nave attacca la zuffa, ed altri a quella.
Ma contro Aiace dispiccato Ettorre,
intorno ad un sol legno ambo gli eroi
travagliansi, né questi era possente
a fugar quello e il combattuto pino
incendere, né quegli a tener lunge
questo, ché un nume ve l'avea condotto.
Colpì coll'asta il Telamònio allora
Caletore di Clìzio in mezzo al petto,
mentre alle navi già venìa col foco.
Rimbombò nel cadere, e dalla mano
cascògli il tizzo. Come vide Ettorre
riverso nella polve anzi alla poppa
il consobrino, alzò la voce, e i suoi
animando gridò: Licii, Troiani,
Dardani bellicosi, ah dalla pugna
non ritraete in questo stremo il piede!
Deh non patite che di Clìzio il figlio,
da valoroso nel pugnar caduto,
sia dell'armi dispoglio. - E sì dicendo,
Aiace saettò colla fulgente
lancia, ma in fallo; e Licofron percosse
di Mastore figliuol che reo di sangue
dalla sacra Citera esule venne
al Telamònio, e v'ebbe asilo, e poscia
suo scudiero il seguì. Lo giunse il ferro
nella testa, da presso al suo signore,
sul confin dell'orecchia: e dalla poppa
resupino il travolse nella polve.
Raccapriccionne Aiace, e a Teucro disse:
Caro fratel, n'è spento il fido amico
Mastoride che noi ne' nostri tetti
da Citera ramingo in pregio avemmo
quanto i diletti genitor: l'uccise
Ettore. Dove or son le tue mortali
frecce, e quell'arco tuo, dono d'Apollo?
L'udì Teucro, e veloce a lui ne venne
coll'arco e la faretra, e via ne' Troi
dardeggiando ferì di Pisenorre
Clito illustre figliuol, caro al Pantìde
Polidamante a cui de' corridori
reggea le briglie. Or, mentre che bramoso
di mertarsi d'Ettorre e de' Troiani
e la grazia e la lode, ove dell'armi
lo scompiglio è maggior spinge i cavalli,
malgrado il presto suo girarsi il giunse
l'inevitabil suo destin; ché il dardo
lagrimoso gli entrò dentro la nuca.
Cadde il trafitto; s'arretrâr turbati
i destrieri scotendo il vôto cocchio
orrendamente. Ma v'accorse pronto
di Panto il figlio, che parossi innanzi
ai frementi corsieri; e ad Astinòo
di Protaon fidandoli, con molto
raccomandar lo prega averli in cura
e seguirlo vicin. Ciò fatto, il prode
riede alla zuffa, e tra i primier si mesce.
Pose allor Teucro un altro dardo in cocca
alla mira d'Ettorre: e qui finita
tutta alle navi si sarìa la pugna,
se al fortissimo eroe togliea l'acerbo
quadrel la vita. Ma lo vide il guardo
della mente di Giove, che d'Ettorre
custodìa la persona, e privo fece
di quella gloria il Telamònio Teucro:
ché il Dio, nell'atto del tirar, gli ruppe
del bell'arco la corda, onde svïossi
il ferreo strale, e l'arco di man cadde.
Inorridito si rivolse Teucro
al suo fratello, e disse: Ohimè! precise
della nostra battaglia un Dio per certo
tutta la speme, un Dio che dalla mano
l'arco mi scosse, e il nervo ne diruppe
pur contorto di fresco, e ch'io medesmo
gli adattai questa mane, onde il frequente
scoccar de' dardi sostener potesse.
O mio diletto, gli rispose Aiace,
poiché l'arco ti franse un Dio, nemico
dell'onor degli Achivi, al suolo il lascia
con esso le saette; e l'asta impugna
e lo scudo, e co' Teucri entra in battaglia,
ed agli altri fa core; onde, se prese
esser denno le navi, almen non sia
senza fatica la vittoria. Ad altro
non pensiam dunque che a pugnar da forti.
Corse Teucro alla tenda, e vi ripose
l'arco, e preso un brocchier che avea di quattro
falde il tessuto, un elmo irto d'equine
chiome al capo si pose; e orribilmente
n'ondeggiava la cresta. Indi una salda
lancia impugnata, a cui d'acuto ferro
splendea la punta, s'avvïò veloce,
e raggiunse il fratello. Intanto Ettorre,
viste cader di Teucro le saette,
le sue schiere incuorando, alto gridava:
Teucri, Dardani, Licii, ecco il momento
d'esser prodi, e mostrar fra queste navi
il valor vostro, amici. Infrante ha Giove
d'un gran nemico (con quest'occhi il vidi)
le funeste quadrella. Agevolmente
si palesa del Dio l'alta possanza,
sia ch'esalti il mortal, sia che gli piaccia
abbassarne l'orgoglio, e l'abbandoni:
siccome appunto degli Achivi or doma
la baldanza, e le nostre armi protegge.
Pugnate adunque fortemente, e stretti
quelle navi assalite. Ognun che colto
o di lancia o di stral trovi la morte,
del suo morir s'allegri. È dolce e bello
morir pugnando per la patria, e salvi
lasciarne dopo sé la sposa, i figli
e la casa e l'aver, quando gli Achei
torneran navigando al patrio lido.
Fur quei detti una fiamma ad ogni core.
Dall'una parte i suoi conforta anch'esso
Aiace, e grida: Argivi, o qui morire,
o le navi salvar. Se fia che alfine
il nemico le pigli, a piè tornarvi
forse sperate alla natìa contrada?
E non udite di che modo Ettorre
d'incenerirle tutte impazïente
i suoi guerrieri istiga? Egli per certo
non alla tresca, ma di Marte al fiero
ballo gl'invita. Né partito adunque
né consiglio sicuro altro che questo,
menar le mani, e di gran cor. Gli è meglio
pure una volta aver salute o morte,
che a poco a poco in lungo aspro conflitto
qui consumarci invendicati e domi
per mano, oh scorno! di peggior nemico.
Rincorossi ciascuno, e allor la strage
d'ambe le parti si confuse. Ettorre
Schedio uccide, figliuol di Perimede,
condottier de' Focensi. Uccide Aiace
Laodamante, generosa prole
d'Antenore, e di fanti capitano.
Polidamante al suol stende il cillènio
Oto, compagno di Megète, e duce
de' magnanimi Epei. Visto Megète
cader l'amico, scagliasi diritto
su l'uccisor; ma questi obliquamente
chinando il fianco andar fe' vôto il colpo,
ché in quella zuffa non permise Apollo
del figliuolo di Panto la caduta,
e l'asta di Megète in mezzo al petto
di Cresmo si piantò, che orrendamente
rimbombò nel cader. Corse a spogliarlo
dell'armi il vincitor; ma gli si spinse
contra il gagliardo vibrator di picca
Dolope che di Lampo era germoglio,
di Lampo prestantissimo guerriero
Laomedontìde. Impetuoso ei corse
sopra Megète, e lo ferì nel mezzo
dello scudo; ma il cavo e grosso usbergo
l'asta sostenne, quell'usbergo istesso
che d'Efira di là dal Selleente
un dì Fileo portò, dono d'Eufete,
ospite suo. Con questo egli più volte
campò se stesso nelle pugne, ed ora
con questo a morte si sottrasse il figlio
che non fu tardo alle risposte. Al sommo
del ferrato e chiomato elmo ei percosse
l'assalitor coll'asta, e dispicconne
l'equina cresta, che così com'era
di purpureo color fulgida e fresca
tutta gli cadde nella polve. Or mentre
ei qui stassi con Dolope alle strette,
e vittoria ne spera, ecco venirne
a rapirgli la palma il bellicoso
minore Atride, che furtivo al fianco
di Dolope s'accosta, e via nel tergo
l'asta gli caccia. Trapassògli il petto
la furïosa punta oltre anelando:
boccon cadde il trafitto, e gli fur sopra
tosto que' due per dispogliarlo. Allora
il teucro duce incoraggiando tutti
i congiunti, si volse a Melanippo
d'Icetaon. Pasceva egli in Percote,
pria dell'arrivo degli Achei, le mandre.
Ma giunti questi ad Ilio, ei pur vi venne,
e risplendea fra' Teucri, ed abitava
col re medesmo che l'avea per figlio.
Lo punse Ettorre, e disse: E così dunque
ci starem neghittosi, o Melanippo?
E non ti senti il cor commosso al diro
caso del morto consobrin? Non vedi
lo studio che color dansi dintorno
a Dolope per l'armi? Orsù mi segui:
non è più tempo di pugnar da lungi
con questi Argivi. Sterminarli è d'uopo,
o veder Troia al fondo, ed allagate
per lor di sangue cittadin le vie.
Così detto, il precede, e l'altro il segue
in sembianza d'un Dio. Ma volto a' suoi
il gran Telamonìde, Amici, ei grida,
siate valenti, in cor v'entri la fiamma
della vergogna, e l'un dell'altro abbiate
tema e rispetto nella forte mischia.
De' prodi erubescenti i salvi sono
più che gli uccisi. Chi si volge in fuga,
corre all'infamia insieme ed alla morte.
Sì disse, e tutti per sé pur già pronti
alla difesa, si stampâr nel core
que' detti, e fêr dell'armi un ferreo muro
alle navi; ma Giove era co' Teucri.
Prese allor Menelao con questi accenti
d'Antìloco a spronar la gagliardia:
Antìloco, tu se' del nostro campo
il più giovin guerriero e il più veloce,
e niun t'avanza di valor. Trascorri
dunque, e di sangue ostil tingi il tuo ferro.
Così l'accese e si ritrasse; e quegli
fuor di schiera balzando, e d'ogn'intorno
guatandosi vibrò l'asta lucente.
Visto quell'atto, si scansaro i Teucri,
ma il colpo in fallo non andò, ché colse
Melanippo nel petto alla mammella,
mentre animoso s'avanzava. Ei cadde
risonando nell'armi, e ratto a lui
Antìloco avventossi. A quella guisa
che il veltro corre al caprïol ferito,
cui, mentre uscìa dal covo, il cacciatore
di stral raggiunse, e sciolsegli le forze:
così sovra il tuo corpo, o Melanippo,
a spogliarti dell'armi il bellicoso
Antìloco si spinse. Il vide Ettorre,
e volò per la mischia ad assalirlo.
Non ardì l'altro, benché pro' guerriero,
aspettarne lo scontro, e si fuggìo
siccome lupo misfattor, che ucciso
presso l'armento il cane od il bifolco,
si rinselva fuggendo anzi che densa
lo circuisca dei villan la turba;
così diè volta sbigottito il figlio
di Nestore per mezzo alle saette
che alle sue spalle con immenso strido
i Troiani piovevano ed Ettorre;
né diè sosta al fuggir, né si converse
che giunto fra' compagni a salvamento.
Qui fu che i Teucri un furïoso assalto
diero alle navi, ed adempîr di Giove
il supremo voler, che vie più sempre
lor forza accresce, ed agli Achei la scema;
togliendo a questi la vittoria, e quelli
incoraggiando, perché tutto s'abbia
Ettor l'onore di gittar ne' curvi
legni le fiamme, e tutto sia di Teti
adempito il desìo. Quindi il veggente
nume il momento ad aspettar si stava
che il guardo gli ferisse alfin di qualche
incesa nave lo splendor, perch'egli
da quel punto volea che de' Troiani
cominciasse la fuga, e degli Achei
l'alta vittoria. In questa mente il Dio
sproni aggiungeva al cor d'Ettorre, e questi
furïando parea Marte che crolla
la grand'asta in battaglia, o di vorace
fuoco la vampa che ruggendo involve
una folta foresta alla montagna.
Manda spume la bocca, e sotto il torvo
ciglio lampeggia la pupilla: ai moti
del pugnar, la celata orrendamente
si squassa intorno alle sue tempie, e Giove
il proteggea dall'alto, e di lui solo
tra tanti eroi volea far chiaro il nome
a ricompensa di sua corta vita.
Perocché già Minerva il dì supremo,
che domar lo dovea sotto il Pelìde,
gl'incalzava alle spalle. Ove più dense
egli vede le file, e de' più forti
folgoreggiano l'armi, oltre si spigne
di sbaragliarle impazïente, e tutte
ne ritenta le vie; ma tuttavolta
gli esce vano il desìo, ché stretti insieme
resistono gli Achei siccome aprico
immane scoglio che nel mar si sporge,
e de' venti sostiene e del gigante
flutto la furia che si spezza e mugge:
tali a piè fermo sostenean gli Achei
l'urto de' Teucri. Finalmente Ettorre
scintillante di foco nella folta
precipitossi. Come quando un'onda
gonfia dal vento assale impetuosa
un veloce naviglio, e tutto il manda
ricoperto di spuma: il vento rugge
orribilmente nelle vele, e trema
ai naviganti il cor, ché dalla morte
non son divisi che d'un punto solo:
così tremava degli Achivi il petto;
ed Ettore parea crudo lïone
che in prato da palude ampia nudrito
un pingue assalta numeroso armento.
Ben egli il suo pastor vorrìa da morte
le giovenche campar; ma non esperto
a guerreggiar col mostro, or tra le prime
s'aggira ed or tra l'ultime; alfin l'empio
vi salta in mezzo, ed una ne divora,
e ne van l'altre impaurite in fuga:
così davanti ad Ettore ed a Giove
fuggìan percossi da divin terrore
tutti allora gli Achei. Restovvi il solo
Micenèo Perifète, amata prole
di quel Coprèo che un giorno al grande Alcide
venne dei duri d'Euristèo comandi
apportatore. Di malvagio padre
illustre figlio risplendea di tutte
virtù fornito Perifète, ed era
e nel corso e nell'armi e ne' consigli
tra' Micenèi pregiato e de' primieri.
Ed or qui diede di sua morte il vanto
alla lancia d'Ettòr. Ché mentre indietro
si volta nel fuggir, nell'orlo inciampa
dello scudo, che lungo insino al piede
dalle saette il difendea. Da questo
impedito il guerrier cadde supino,
e dintorno alle tempie in suono orrendo
la celata squillò. V'accorse Ettorre,
e l'asta in petto gli piantò, né alcuno
aitarlo potea de' mesti amici,
del teucro duce paurosi anch'essi.
Abbandonato delle navi il primo
ordin gli Achivi, come ria gli sforza
necessitade e l'incalzante ferro
de' Troiani, riparansi al secondo
alla marina più propinquo; e quivi
nanzi alle tende s'arrestâr serrati
senza sbandarsi (ché vergogna e tema
li ratteneano) e alzando un incessante
grido a vicenda si mettean coraggio.
Anzi a tutti il buon Nestore, l'antico
guardïan degli Achivi, ad uno ad uno
pe' genitor li supplica: Deh siate,
siate forti, o miei cari, e di pudore
il cor v'infiammi la presenza altrui.
Della sua donna ognuno e de' suoi figli
e del suo tetto si rammenti; ognuno
si proponga de' padri, o spenti o vivi,
i bei fatti al pensiero: io qui per essi
che son lungi vi parlo, e vi scongiuro
di tener fermo e non voltarvi in fuga.
Rincorârsi a que' detti: allor repente
sgombrò Minerva la divina nube,
che il lor guardo abbuiava, e una gran luce
dintorno balenò. Vider le navi,
videro il campo e la battaglia e il prode
Ettore e tutti i suoi guerrier, sì quelli
che in riserbo tenea, sì quei che fanno
pugna alle navi. Non soffrì d'Aiace
il magnanimo cor di rimanersi
con gli altri Achivi indietro, ed impugnata
una gran trave da naval conflitto
con caviglie connessa, e ventidue
cubiti lunga, la scotea, per l'alte
de' navigii corsìe lesto balzando
a lunghi passi, simigliante a sperto
equestre saltator che giunti insieme
quattro scelti destrier gli sferza e spigne
per le pubbliche vie: maravigliando
stassi la turba, ed ei sicuro e ritto
dall'un passando all'altro il salto alterna
sui volanti cavalli; a tal sembianza
alternava l'eroe gl'immensi passi
per le coperte delle navi, e al cielo
la sua voce giugnea sempre gridando
terribilmente, e confortando i suoi
delle tende e de' legni alla difesa.
E né pur esso di rincontro Ettorre
tra' Teucri in turba si riman; ma quale
aquila falba che uno stormo invade
o di cigni o di gru che lungo il fiume
van pascolando; a questa guisa il prode
di schiera uscito avventasi di punta
contra una nave di cerulea prora.
Lo stesso Giove colla man possente
il sospinge da tergo, e gli altri incita,
e un novello vi desta aspro certame.
Detto avresti che fresca allora allora
s'attaccava la mischia, e che indefesse
eran le braccia: l'impeto è cotanto
de' combattenti con opposti affetti.
Nella credenza di perirvi tutti
pugnavano gli Achei; nella lusinga
di sterminarli i Teucri, ed in faville
mandar le navi. Ed in cotal pensiero
gli uni e gli altri mescean la zuffa e l'ire.
Ettore intanto colla destra afferra
d'una nave la poppa. Era la bella
veloce nave che di Troia al lido
Protesilao guidò senza ritorno.
Per questa si facea di Teucri e Achei
un orrido macello, e questi e quelli
d'un cor medesmo, non con archi e dardi
fan pugna da lontan, ma con acute
mannaie a corpo a corpo, e con bipenni
e con brandi e con aste a doppio taglio,
e con tersi coltelli di forbito
ebano indutti e di gran pomo; ed altri
ne cadean dalle spalle, altri dal pugno
de' guerrieri, e scorrea sangue la terra.
Dell'afferrata poppa Ettor tenendo
forte il timone colle man, gridava:
Foco, o Teucri, accorrete, e combattete;
ecco il dì che di tutti il conto adegua,
il dì che Giove nelle man ci mette
queste navi, a Ilïon contra il volere
venute degli Dei, queste che tanti
ne recâr danni per codardi avvisi
de' nostri padri che mi fean divieto
di portar qui la guerra. Ma se Giove
confuse allor le nostre menti, or egli,
egli stesso n'incalza all'alta impresa.
Disse, e i Teucri maggior contro gli Argivi
impeto fêro. Degli strali allora
più non sostenne Aiace la ruina,
ma giunta del morir l'ora credendo,
lasciò la sponda del naviglio, e indietro
retrocesse alcun poco ad uno scanno
sette piè di lunghezza. E qui piantato
osservava il nemico, e sempre oprando
l'asta, i Troiani, che di faci ardenti
già s'avanzano armati, allontanava,
e sempre alzava la terribil voce:
Dànai di Marte alunni, amici eroi,
non ponete in obblìo vostra prodezza.
Sperate forse di trovarvi a tergo
chi ne soccorra, od un più saldo muro
che ne difenda? Non abbiam vicina
città munita che ne salvi, e nuove
falangi ne fornisca. In mezzo a fieri
inimici noi siam, chiusi dal mare,
lungi dal patrio suol. Nell'armi adunque,
non nella fuga, ogni salute è posta.
Così dicendo, colla lunga lancia
furïoso inseguìa qualunque osava
da Ettore sospinto avvicinarsi
colle fiamme alle navi. E di costoro
dodici dall'acuta asta trafitti
pose a giacer davanti alle carene.

 

Libro XVI

 

E così questi combattean la nave.
Presentossi davanti al fiero Achille
Patroclo intanto un caldo rio versando
di lagrime, siccome onda di cupo
fonte che in brune polle si devolve
da rupe alpestre. Riguardollo, e n'ebbe
pietà il guerriero piè-veloce, e disse:
Perché piangi, Patròclo? Bamboletta
sembri che dietro alla madre correndo
torla in braccio la prega, e la rattiene
attaccata alla gonna, ed i suoi passi
impedendo piangente la riguarda
finch'ella al petto la raccolga. Or donde
questo imbelle tuo pianto? Ai Mirmidóni
o a me medesmo d'una ria novella
sei forse annunziator? Forse di Ftia
la ti giunse segreta? E pur la fama
vivo ne dice ancor Menèzio, e vivo
tra i Mirmidón l'Eàcide Pelèo,
d'ambo i quali d'assai grave a noi fôra
certo la morte. O per gli Achei tu forse
le tue lagrime versi, e li compiagni
là tra le fiamme delle navi ancisi,
e dell'onta puniti che mi fêro?
Parla, m'apri il tuo duol, meco il dividi.
E tu dal cor rompendo alto un sospiro
così, Patròclo, rispondesti: O Achille,
o degli Achei fortissimo Pelìde,
non ti sdegnar del mio pianto. Lo chiede
degli Achei l'empio fato. Oimè, che quanti
eran dianzi i miglior, tutti alle navi
giaccion feriti, quale di saetta,
qual di fendente. Di saetta il forte
Tidìde Dïomede, e di fendente
l'inclito Ulisse e Agamennón; trafitta
ei pur di freccia Eurìpilo ha la coscia.
Intorno a lor di farmaci molt'opra
fan le mediche mani, e le ferite
ristorando ne vanno. E tu resisti
inesorato ancora? O Achille! oh mai
non mi s'appigli al cor, pari alla tua,
l'ira, o funesto valoroso! E s'oggi
sottrar nieghi gli Achivi a morte indegna,
chi fia che poscia da te speri aita?
Crudel! né padre a te Pelèo, né madre
Tetide fu: te il negro mare o il fianco
partorì delle rupi, e tu rinserri
cuor di rupe nel sen. Se doloroso
ti turba un qualche oracolo la mente;
se di Giove alcun cenno a te la madre
veneranda recò, me tosto almeno
invìa nel campo; e al mio comando i forti
Mirmidoni concedi, ond'io, se puossi,
qualche raggio di speme ai travagliati
compagni apporti. E questo ancor mi assenti,
ch'io, delle tue coperto armi le spalle,
m'appresenti al nemico, onde ingannato
dalla sembianza, in me comparso ei creda
lo stesso Achille, e fugga, e l'abbattuto
Acheo respiri. Nella pugna è spesso
una via di salute un sol respiro;
e noi di forze intégri agevolmente
ricaccerem la stanca oste alle mura
dalle navi respinta e dalle tende.
Così l'eroe pregò. Folle! ché morte
perorava a se stesso e reo destino.
E a lui gemendo di corruccio Achille:
Che dicesti, o Patròclo? In questo petto
terror d'udite profezie non passa,
né di Giove alcun cenno a me la diva
madre recò. Ma il cor mi rode acerba
doglia in pensando che rapirmi il mio
un mio pari s'ardisce, e del concesso
premio spogliarmi prepotente. È questo,
questo il tormento, il dispetto, la rabbia
onde l'alma è angosciata. Una donzella
di valor ricompensa, a me prescelta
da tutto il campo, e da me pria coll'asta
conquistata per mezzo alla ruina
di munita città, questa alle mie
mani ha ritolta l'orgoglioso Atride,
come a vil vagabondo. Ma le andate
cose sien poste nell'obblìo; ché l'ira
viver non debbe eterna. Io certo avea
fatto un severo nel mio cor decreto
di non porla, se prima non giugnesse
alle mie navi de' pugnanti il grido
e la pugna. Ma tu le mie ti vesti
armi temute, e alla battaglia guida
i bellicosi Tessali; ché fosco
di Teucri e fiero un nugolo vegg'io
circondar già le navi, e al lido stringersi
in poco spazio i Greci, e su lor tutta
Troia versarsi, audace fatta e balda
perché vicino balenar non vede
dell'elmo mio la fronte. Oh fosse meco
stato re giusto Agamennón! Ben io
t'affermo che costoro avrìan fuggendo
de' lor corpi ricolme allor le fosse.
Or ecco che n'han chiuso essi d'assedio:
perocché nella man di Dïomede,
a tener lunge dagli Achei la morte,
l'asta più non infuria, né d'Atride
la voce ascolto io più dall'abborrita
bocca scoppiante; ma sol quella intorno
dell'omicida Ettorre mi rimbomba
animante i Troiani. E questi alzando
liete grida guerriere il campo tutto
tengon già vincitori. E nondimeno
va, ti scaglia animoso, e dalle navi
quella peste allontana, né patire
che le si strugga il fuoco, e ne sia tolta
del desïato ritornar la via.
Ma, quale in mente la ti pongo, avverti
de' miei detti alla somma, e m'obbedisci,
se vuoi che gloria me ne torni, e grande
dai Greci onore, e che la bella schiava
con doni eletti alfin mi sia renduta.
Cacciati i Teucri, fa ritorno: e s'anco
l'altitonante di Giunon marito
ti prometta vittoria, incauta brama
di pugnar senza me con quei gagliardi
non ti seduca, né voler ch'io colga
di ciò vergogna e disonor: né spinto
dall'ardor della pugna alle fatali
dardanie mura avvicinar le schiere
della strage de' Teucri insuperbito;
onde non scenda dall'Olimpo un qualche
Immortale a tuo danno. Essi son cari,
non obblïarlo, al saettante Apollo.
Posti in salvo i navili, immantinente
dunque dà volta, e lascia ambo a vicenda
struggersi i campi. Oh Giove padre! oh Pallade!
e tu di Delo arciero Iddio, deh fate
che nessun possa né Troian né Greco
schivar morte, nessuno; onde del sacro
ilïaco muro la caduta sia
di noi due soli preservati il vanto.
Mentre seguìan tra lor queste parole
Aiace omai cedea l'arena oppresso
da gran selva di strali. Rintuzzava
le sue forze il voler di Giove e il nembo
delle teucre saette. Il rilucente
elmo percosso un suon mettea che orrendo
gl'intronava le tempie, ed incessante
sovra i chiavelli il martellar cadea.
Langue spossata la sinistra spalla
dall'assiduo maneggio affaticata
del versatile scudo. E tuttavolta
né la calca premente, né de' colpi
la tempesta il potea mover di loco.
Scuotegli i fianchi più affannato e spesso
l'anelito: il sudor discorre a rivi
per le membra, né puote a niuna guisa
pigliar respiro il valoroso. Intanto
d'ogni parte l'orror cresce e il periglio.
Muse dell'alto Olimpo abitatrici,
or voi ne dite per che modo il primo
fuoco alle navi degli Achei s'apprese.
Di frassino una grave asta scotea
Aiace. A questa avvicinato Ettorre
tal trasse un colpo della grande spada
che netta la tagliò là dove al tronco
si commette la punta. Invan vibrava
il Telamònio eroe l'asta privata
della sua cima, che lontan cadendo
risonò sul terren. Raccapricciossi
il magnanimo, e vide ivi d'un nume
manifesta la man; vide che avverso
l'Altitonante del pugnar le vie
tutte gli avea precise, e decretata
de' Teucri all'armi la vittoria. Ei dunque
lunge dai dardi si ritrasse; e ratto
i Troi gittaro nella nave il foco,
che tosto le si apprese, e d'ogni lato
l'inestinguibil fiamma si diffuse.
Si batté l'anca per dolore Achille,
vista la vampa divorante; e, Sorgi,
mio Patroclo, gridò: sorgi. Alle navi
l'impeto io veggo della fiamma ostile.
Deh che il nemico non le prenda, e tutti
ne precluda gli scampi: su via, tosto
armati; ché i miei forti io ti raduno.
Disse: e Patròclo si vestìa dell'armi
folgoranti. Alle gambe primamente
i bei schinieri si ravvolse adorni
d'argentee fibbie. La corazza al petto
poscia si mise del veloce Achille
screzïata di stelle. Indi la spada
di bei chiovi d'argento aspra e lucente
dall'omero sospese. Indi lo scudo
saldo e grande imbracciò: la valorosa
fronte nell'elmo imprigionò, su cui
d'equine chiome orrendamente ondeggia
una cresta. Alfin prese, atte al suo pugno,
valide lance; ed unica d'Achille
l'asta non prese, immensa, grave e salda
cui nullo palleggiar Greco potea,
tranne il braccio achillèo: massiccia antenna
sulle cime del Pèlio un dì recisa
dal buon Chirone, ed a Pelèo donata,
perché fosse in sua man strage d'eroi.
Comanda ei quindi che i cavalli al cocchio
subito aggioghi Automedon, guerriero
cui dopo Achille rompitor di squadre
sovra ogni altro ei pregiava: ed in battaglia
nel sostener gl'impetuosi assalti
del nemico, ad Achille era il più fido.
Rotti adunque gl'indugi, Automedonte
i veloci corsieri al giogo addusse
Balio e Xanto che un vento eran nel corso,
e partoriti a Zefiro gli avea
l'Arpia Podarge un dì ch'ella pascendo
iva nel prato lungo la corrente
dell'Oceàn. Dall'una banda ei poscia
Pedaso aggiunse, corridor gentile,
cui seco Achille un dì dalla disfatta
città d'Eezïon s'avea condotto;
e quantunque mortale iva del paro
co' destrieri immortali. Intanto Achille
su e giù scorrendo per le tende, tutti
di tutto punto i Mirmidóni armava.
Quai crudivori lupi il cor ripieni
di molta gagliardia, prostrato avendo
sul monte un cervo di gran corpo e corna,
sel trangugiano a brani, e sozze a tutti
rosseggiano di sangue le mascelle:
quindi calano in branco ad una bruna
fonte a lambir colle minute lingue
il nereggiante umor, carne ruttando
mista col sangue: il cor ne' petti audaci
s'allegra, e il ventre ne va gonfio e teso:
tali dintorno al bellicoso amico
del gran Pelìde intrepidi si affollano
i mirmidonii capitani; e in mezzo
a lor s'aggira il marzïale Achille
i cavalli animando e i battaglieri.
Cinquanta eran le prore che veloci
avea condotte a Troia il caro a Giove
Tessalo prence, e carca iva ciascuna
di cinquanta guerrieri. A cinque duci
n'avea dato il comando, ed ei la somma
potestà ne tenea. Guida la prima
squadra Menèstio, scintillante il petto
di varïato usbergo. Era costui
prole di Sperchio, fiume che da Giove
l'origine vantava; e di Pelèo
la bella figlia Polidora a Sperchio
partorito l'avea, donna mortale
commista con un Dio. Ma lui la fama
nel popolo dicea prole di Boro,
di Perierèo figliuol, che tolta in moglie
l'avea solenne e di gran dote ornata.
Guidava la seconda il marzio Eudoro
generato di furto, a cui fu madre
la figlia di Filante Polimela,
danzatrice leggiadra. Innamorossi
in lei Mercurio un dì che alle cantate
danze la vide della Dea che gode
del romor delle cacce e d'aureo strale;
la vide, e della casa alle superne
stanze salito giacquesi furtivo
il pacifico Iddio colla fanciulla,
e lei fe' madre d'un illustre figlio,
d'Eudoro, egregio nella pugna al pari
che rapido nel corso. E poiché tratto
fuor l'ebbe dal materno alvo Ilitìa
curatrice de' parti, e l'almo ei vide
raggio del Sol, la genitrice al prode
Attòride Echeclèo passò consorte,
di largo dono nuzïal dotata.
Nudrì poscia il fanciullo ed allevollo
l'avo Filante con paterna cura,
e di figlio diletto in loco il tenne.
Capitan della terza era il valente
Memalide Pisandro, il più perito
de' Mirmidóni nel vibrar dell'asta
dopo il compagno del Pelìde Achille.
La quarta il veglio cavalier Fenice,
e conducea la quinta Alcimedonte,
di Laerce buon figlio. Or poiché tutti
gli ebbe schierati co' lor duci Achille,
gravi ed alte parlò queste parole:
Mirmidoni, di voi nullo mi ponga
le minacce in obblìo, che, mentre immoti
su le navi la mia ira vi tenne,
fêste a' Troiani, me accusando tutti,
e dicendo: Implacabile Pelìde,
certo di bile ti nudrìo la madre:
crudel, che tieni a lor dispetto inerti
nelle navi i tuoi prodi. A Ftia deh almeno
redir ne lascia su le nostre prore,
da che nel cor ti cadde una tant'ira.
Questi biasmi in accolta a me sovente
mormoraste, o guerrieri. Or ecco è giunto
del gran conflitto che bramaste il giorno.
All'armi adunque; e chi cuor forte in petto
si chiude, a danno de' Troiani il mostri.
Sì dicendo, destò d'ogni guerriero
e la forza e l'ardir. Strinser più densa
tosto le schiere l'ordinanza, uditi
del lor sire gli accenti. E in quella guisa
che industre architettor l'una su l'altra
le pietre ammassa, e insieme le commette
acconciamente a costruir d'eccelso
palagio la muraglia all'urto invitta
del furente aquilon: non altramente
addensati venìan gli elmi e gli scudi.
Scudo a scudo, elmo ad elmo, e uomo ad uomo
s'appoggia; e al moto delle teste vedi
l'un coll'altro toccarsi i rilucenti
cimieri e l'onda delle chiome equine:
sì de' guerrier serrate eran le file.
Iva il paro d'eroi dinanzi a tutti
Patroclo e Automedonte, ambo d'un core
e d'una brama di dar dentro ei primi.
Con altra cura intanto alla sua tenda
avvïossi il Pelìde, ed un forziere
aprì di vago lavorìo, cui Teti
gli avea riposto nella nave e colmo
di tuniche e di clamidi del vento
riparatrici, e di vellosi strati.
Quivi una tazza in serbo egli tenea
di pregiato artificio, a cui null'altro
labbro mai non attinse il rubicondo
umor del tralcio, e fuor che a Giove, ei stesso
non libava con questa ad altro iddio.
Fuor la trasse dell'arca, e con lo zolfo
la purgò primamente: indi alla schietta
corrente la lavò. Lavossi ei pure
le mani, e il vino rosseggiante attinse.
Ritto poscia nel mezzo al suo recinto
libando, e gli occhi sollevando al cielo,
a Giove, che il vedea, fe' questo prego:
Dio che lungi fra' tuoni hai posto il trono,
Giove Pelasgo, regnator dell'alta
agghiacciata Dodona, ove gli austeri
Selli che han l'are a te sacrate in cura,
d'ogni lavacro schivi al fianco letto
fan del nudo terreno, i voti miei
già tu benigno un'altra volta udisti,
e dalle piaghe degli Achei vendetta
dell'onor mio prendesti. Or tu pur questa
fïata, o padre, le mie preci adempi.
Io qui fermo mi resto appo le navi;
ma in mia vece alla pugna ecco spedisco
con molti prodi il mio diletto amico.
Deh vittoria gl'invìa, tonante Iddio,
l'ardir gli afforza in petto, onde s'avvegga
Ettore se pugnar sappia pur solo
il mio compagno, o allor soltanto invitta
la sua destra infierir, quando al tremendo
lavor di Marte lo conduce Achille.
Ma dalle navi achee lungi rimosso
l'ostil furore, a me deh tosto il torna
con tutte l'armi e co' suoi forti illeso.
Sì disse orando, e il sapiente Giove
parte del prego udì, parte ne sperse.
Udì che dalle navi alfin respinta
fosse la pugna, e non udì che salvo
dalla pugna tornasse il caro amico.
Libato a Giove e supplicato, Achille
rïentrò, rinserrò nell'arca il sacro
nappo: e di nuovo della tenda uscito
ritto all'ingresso si fermò bramoso
di mirar de' Troiani e degli Achei
la terribile mischia. E questi al cenno
dell'ardito Patròclo in ordinati
squadroni, e tutti di gran cor precinti
già piombano su i Teucri, e si dispiccano
come rabide vespe, entro i lor nidi
lungo la strada stimolate all'ira
da procaci fanciulli, a cui diletta
travagliarle incessanti a loro usanza.
Stolti! ché a sé fan danno ed all'ignaro
passeggiero innocente. Le sdegnose
che ne' piccioli petti han grande il core,
sbucano in frotta, e alla difesa volano
de' cari parti. Coll'ardir di queste
si versâr dalle navi i Mirmidóni.
N'era immenso il fracasso, e di Menèzio
confortandoli il figlio alto gridava:
Commilitoni del Pelìde Achille,
siate valenti; della vostra possa
ricordatevi, amici, e combattiamo
per la gloria di lui, forti campioni
del più forte de' Greci. Il suo fallire
vegga il superbo Atride, e dell'oltraggio
fatto al maggiore degli eroi si penta.
Sprone alle forze e al cor di ciascheduno
fur le parole. Si serrâr, scagliârsi
sul nemico ad un punto; e si sentiva
terribilmente rimbombar le navi
al gridar degli Achei. Ma come i Teucri
di Menèzio mirâr l'inclito figlio
esso e l'auriga Automedonte al fianco
folgoranti nell'armi, a tutti il core
tremò: le schiere scompigliârsi, ognuna
nella credenza che il Pelìde avesse
deposta l'ira, e l'amistà ripresa.
Studia ognuno la fuga, ognun procaccia
la sua salvezza. Allor Patròclo il primo
la fulgida vibrò lancia nel mezzo
dove più densa intorno all'alta poppa
del buon Protesilao ferve la calca:
e Pirecmo ferì, che dalle vaste
rive dell'Assio e d'Amidone avea
seco i peonii cavalier condutti.
Gli mise il colpo alla diritta spalla,
e quei riverso e gemebondo cadde
nella polve. Si volse al suo cadere
il peonio drappello in presta fuga,
e tutto si sbandò, morto il suo duce
prestantissimo in guerra. Repulsati
i nemici, l'eroe spense le vampe;
ma il naviglio restò mezz'arso e monco.
E qui fuggire e sgominarsi i Teucri,
e gli Achivi inseguirli, e via pe' banchi
delle navi cacciarli in gran tumulto.
Siccome allor che dall'eccelsa vetta
di gran monte le nubi atre disgombra
il balenante Giove, appaion tutte
subitamente le vedette e gli alti
gioghi e le selve, e immenso s'apre il cielo:
così respinta l'ostil fiamma, aprissi
de' Dànai il core e respirò. Ma tregua
non si fece alla zuffa; ancor non tutti
davan le spalle agl'incalzanti Achei
gli ostinati Troiani: e tuttavolta
resistendo, cedean forzati e lenti
gli occupati navigli. Allor diffusa
in maggior spazio la battaglia, ognuno
de' dànai duci un inimico uccise.
Fu Patroclo il primier che con acuto
cerro percosse Arëilìco al fianco
nel voltarsi che fea. Lo passa il ferro,
frange l'osso; e boccon cade il meschino.
Trafisse Menelao Toante al petto
scoperto dello scudo, e freddo il fece.
Il figliuol di Filèo, visto a rincontro
venirsi Anficlo d'assaltarlo in atto,
il previen, lo colpisce ove più ingrossa
della gamba la polpa. Infrange i nervi
la ferrea punta, e a lui le luci abbuia.
E voi l'armi d'ostil sangue non vile
Antìloco tingeste e Trasimède
valorosi Nestoridi. Coll'asta
Antìloco passò d'Antìmio il fianco,
e il distese boccon. Màride irato
per l'ucciso fratello innanzi al caro
cadavere si pianta, e contra Antìloco
la picca abbassa. Ma di lui più ratto
Trasimède il prevenne, e non indarno
volò la punta. All'omero lo giunse,
i muscoli segò del braccio estremo,
e netto l'osso ne recise. Ei cadde
fragoroso, e l'avvolse eterna notte.
Da due germani i due germani uccisi
così n'andaro a Dite, ambo valenti
di Sarpedon compagni, ambo famosi
lanciatori, figliuoi d'Amisodaro
che la Chimera, insuperabil mostro
di molte genti esizio, un dì nudriva.
Aiace d'Oilèo sovra Cleòbolo
correndo impetuoso il piglia vivo
nella calca impacciato, e via sul collo
l'enorme daga calando lo scanna.
Si tepefece per lo sangue il ferro;
e la purpurea morte e il vïolento
fato le luci gli occupò per sempre.
S'azzuffâr Lico e Penelèo: ma in fallo
trasser ambo le lance. Allor più fieri
dier mano al brando. Del chiomato elmetto
Lico il cono percosse: ma la spada
si franse all'elsa. All'avversario il ferro
assestò Penelèo sotto l'orecchio,
e tutto ve l'immerse. Penzolava
in giù la testa dispiccata, e sola
tenea la pelle. Così cadde e giacque.
Merïon velocissimo correndo
Acamante raggiunse appunto in quella
che il cocchio ei monta, e al destro omero il fere.
Ruinò quel percosso dalla biga,
e morte gli tirò su gli occhi il velo.
Idomenèo la lancia nella bocca
d'Erimanto cacciò. La ferrea cima
apertasi la via sotto il cerèbro
rïuscì per la nuca, spezzò l'osso
del gorgozzule, e sgangherògli i denti;
talché di sangue s'empîr gli occhi, e sangue
soffiò dal naso e dalle fauci aperte.
Così concio il coprì l'ombra di morte.
E questi fûro i condottieri achei
che spensero ciascuno un inimico.
Qual su capri ed agnelle i lupi piombano
sterminatori, allor che per inospita
balza neglette dal pastor si sbrancano;
appena le adocchiâr, che ratti avventansi
alle misere imbelli e ne fan strazio:
non altrimenti si vedeva i Dànai
dar sopra i Teucri che del core immemori
con orribile strepito fuggivano.
Nel folto della mischia il grande Aiace
sempre ad Ettòr volgea l'asta e la mira.
Ma quel mastro di guerra ricoperto
il largo petto di taurino scudo
all'acuto stridor delle saette
e al sibilo dell'aste attento bada,
ben s'accorgendo alla contraria parte
già piegar la vittoria: e tuttavolta
teneasi saldo alla salvezza intento
degli amati compagni. Alfin, siccome
per l'etere sereno al cielo ascende
su dal monte una nube allor che Giove
tenebrosa solleva la tempesta:
non altrimenti dalle navi i Teucri
dier volta urlando, e non avea ritegno
il ritrarsi e il fuggir. Lo stesso Ettorre,
via coll'armi dai rapidi destrieri
trasportato in mal punto, la difesa
abbandona de' suoi che la profonda
fossa accalca e impedisce. Ivi sossopra
molti destrier precipitando spezzano
e timoni e tirelle, e conquassati
lascian là dentro co' lor duci i carri.
E Patroclo gl'incalza, ed incitando
fieramente i compagni, alla suprema
ruina anela de' Troiani. E questi
d'alte grida e di fuga empion già tutte
sbaragliati le vie. Saliva al cielo
vorticosa di polve una procella:
spaventati i cavalli a tutta briglia
correan dal mare alla cittade; e dove
maggior vede l'eroe turba e scompiglio
minaccioso gridando a quella volta
drizza la biga. Traboccar dai cocchi
vedi sotto le ruote i fuggitivi,
e i vôti cocchi sobbalzando volano
risonanti. Varcâr d'un salto il fosso
gl'immortali destrieri oltre anelando,
i destrier che a Pelèo diero gli Dei
preclaro dono. E tuttavia l'eroe
contra Ettòr li flagella, desïoso
pur d'arrivarlo e di ferir. Ma lui
traean già lunge i corridor veloci.
Come d'autunno procelloso nembo
tutta inonda la terra, allor che Giove
densissime dal ciel versa le piogge
quando contra i mortali arma il suo sdegno,
i quai, cacciata la giustizia in bando
e la vendetta degli Dei schernita,
vïolente nel fòro e nequitose
proferiscon sentenze: allor furenti
sboccan ne' campi i fiumi; giù dal monte
precipitando le sonanti piene
squarcian le ripe, e nel purpureo mare
devolvonsi mugghiando, e dal cultore
corrompono la speme e la fatica:
così gementi corrono e sbuffanti
i troiani cavalli. Intanto rotte
le prime schiere, di Menèzio il figlio
le ricaccia, le stringe alla marina,
lor tagliando il ritorno al desïato
Ilio; e tra il mare e il Xanto e l'alto muro
incalzava, uccideva e vendicava
molte morti d'eroi. E primamente
ferì d'asta Pronòo che mal di scudo
coprìasi il petto. Lo trafisse; e quegli
giù cadendo, nell'armi risonò.
Poi d'Enòpo il figliuol Tèstore assalse
impetuosamente. Iva costui
sovra elegante cocchio, la persona
curvo ed in atto di raccor le briglie,
che smarrito nel cor s'avea lasciato
dalle mani fuggir. Gli si fe' sopra
l'eroe coll'asta, e tal gli spinse un colpo
su la destra mascella, che la siepe
sprofondògli dei denti. A questo modo
infilzato nell'asta sollevollo
dalla conca del cocchio, e il trasse a terra.
Quale il buon pescator sovra sporgente
scoglio seduto colla lenza, armata
di fulgid'amo, fuor dell'onda estragge
enorme pesce; a cotal guisa il Greco
fuor del cocchio tirò colla lucente
asta il confitto boccheggiante, e poscia
lo scrollò dalla picca, e lungi al suolo
lo gittò sanguinoso e senza vita.
Quindi Erìalo, che contro gli venìa,
giunge d'un sasso al mezzo della fronte,
e in due, chiusa nel forte elmo, la spacca.
Boccon versossi nella sabbia, e morte
lo si recinse e gli rapìo la vita.
Indi Erimante, Anfòtero ed Epalte
e il figliuol di Damàstore Tlepòlemo,
l'Argèade Polimèlo ed Echio e Piro
e con Evippo Ifèo tutti in un mucchio
rovesciò, rassegnò morti alla terra.
Ma Sarpedonte visto de' compagni
per le man di Patròclo un tale e tanto
scempio, i suoi Licii rincorando, e insieme
rampognando, Oh vergogna! o Licii, ei grida,
dove, o Licii, fuggite? Ah per gli Dei
rivolate alla pugna! Io di costui
corro allo scontro, per saper chi sia
questo fiero campion che vi diserta,
che sì nuoce ai Troiani, e già di molti
forti disciolse le ginocchia. - Disse,
e via d'un salto a terra in tutto punto
si lanciò dalla biga. Ed a rincontro
come Patroclo il vide, ei pur nell'armi
si spiccò dalla sua. Qual due grifagni
ben unghiati avoltoi forte stridendo
sovra un erto dirupo si rabbuffano,
tal vennero quei due gridando a zuffa.
Li vide, e tocco di pietade il figlio
dell'astuto Saturno, in questi detti
a Giunon si rivolse: Ohimè, diletta
sorella e sposa! Sarpedon, ch'io m'aggio
de' mortali il più caro, è sacro a morte
pel ferro di Patròclo. Irresoluta
fra due pensieri la mia mente ondeggia,
se vivo il debba liberar da questo
lagrimoso conflitto, e a' suoi tornarlo
nell'opulenta Licia; o consentire
che qui lo domi la tessalic'asta.
E a lui grave i divini occhi girando
l'alma Giuno così: Che parli, o Giove?
che pretendi? Un mortale, un destinato
da gran tempo alla Parca, or della negra
diva ritorlo alla ragion? Fa pure,
fa pur tuo senno: ma degli altri Eterni
non isperar l'assenso. Anzi ti aggiungo,
e tu poni nel cor le mie parole:
se vivo e salvo alle paterne case
renderai Sarpedon, bada che poscia
del par non voglia più d'un altro iddio
alla pugna sottrarre il proprio figlio;
ché molti sotto alle dardanie mura
stan nell'armi a sudar figli di numi,
a cui porresti una grand'ira in seno.
Ché s'ei t'è caro e lo compiagni, il lascia
nella mischia perir domo dall'asta
del figliuol di Menèzio: ma deserto
dall'alma il corpo, al dolce Sonno imponi
ed alla Morte, che alla licia gente
il portino. I fratelli ivi e gli amici
l'onoreranno di funereo rito
e di tomba e di cippo, alle defunte
anime forti onor supremo e caro.
Disse; e al consiglio di Giunon s'attenne
degli uomini il gran padre e degli Dei,
e sangue piovve per onor del caro
figlio cui lungi dalle patrie arene
ne' frigii campi avrìa Patroclo ucciso.
Già l'uno all'altro si fa sotto e sono
alle prese. Patròclo a Trasimèlo,
di Sarpedonte valoroso auriga,
trapassò l'anguinaglia, e lo distese.
Mosse secondo Sarpedonte, e in fallo
la grand'asta vibrò, che trasvolando
la destra spalla a Pèdaso trafisse.
Si riversò sbuffando in su l'arena
il trafitto cavallo, e dal ferino
petto l'alma si sciolse gemebonda.
Visto il compagno corridor disteso
gli altri due costernârsi, e a calci, a salti
diersi; il timone cigolò; confuse
implicârsi le briglie. Ma riparo
l'intrepido vi mise Automedonte,
che rapido insorgendo, e via dal fianco
sguäinata la lunga acuta spada
tagliò netto al giacente le tirelle,
e fu l'opra d'un punto. Entrambi allora
rassettârsi i corsieri, e raddrizzârsi
al cenno della briglia obbedïenti.
E qui di nuovo alla crudel tenzone
si spinsero i campioni, e pur di nuovo
errò dell'asta Sarpedonte il tiro,
che via sovresso l'omero sinistro
di Patroclo trascorse e non l'offese.
Gli fe' risposta il Tessalo, né vano
il suo telo volò, ché dove è cinto
da' suoi ripari il cor gli aperse il petto.
Qual rovina una quercia o pioppo o pino
cui sul monte tagliò con affilata
bipenne il fabbro a nautico bisogno,
tal Sarpedonte rovinò. Giacea
steso innanzi alla biga, e colle mani
ghermìa la polve del suo sangue rossa,
e fremendo gemea pari a superbo
tauro, onor dell'armento e d'aureo pelo,
che da lïon, che il giunge alla sprovvista,
sbranato cade, e sotto la mascella
del vincitore mugolando spira.
Tale del licio condottier prostrato
dal tessalico ferro in sul morire
era il gemito e l'ira. E Glauco il suo
dolce amico per nome a sé chiamato,
Caro Glauco, gli disse, or t'è mestieri
buon guerriero mostrarti, e oprar le mani
audacemente. Tu dell'aspra pugna
se magnanimo sei, l'incarco assumi:
corri, vola, e de' Licii i capitani
alla difesa del mio corpo accendi.
Difendilo tu stesso, e per l'amico
combatti: infamia ti deriva eterna
se me dell'armi mie spoglia il nemico,
me pel certame delle navi ucciso;
tien saldo adunque e pugna, e di coraggio
tutte infiamma le squadre. - In questo dire
le narici affilò, travolse i lumi,
e la morte il coprì. Col piede il petto
calcògli il vincitor, l'asta ne trasse,
e il polmon la seguìa, sì che dal seno
il ferro a un tempo gli fu svelto e l'alma.
A' suoi sbuffanti corridori intanto
scioltisi e in atto di fuggir, lasciando
del lor signore il cocchio, i Mirmidoni
parârsi innanzi, e gli arrestâr. Ma Glauco
dell'amico alla voce il cor compunto
di profondo dolor sospira e geme,
ché mal può dargli la richiesta aita.
L'impedisce la piaga al braccio infissa
dallo strale di Teucro allor che Glauco,
de' suoi volando alla difesa, assalse
l'alta muraglia degli Achei. Compresso
si tenea colla manca il braccio offeso
l'infelice, ed orando al saettante
nume di Delo, O re divino, ei disse,
o che di Licia, o che di Troia or bèi
tua presenza le rive, odi il mio prego;
ché dovunque tu sia puoi d'un dolente
qual, lasso! mi son io, la voce udire.
Di che grave ferita e di che doglia
trafitto io porti questo braccio il vedi;
né il sangue ancor mi si ristagna, e tale
incessante m'opprime una gravezza
l'omero tutto, che dell'asta al peso
mal reggo, e mal poss'io coll'inimico
avventurarmi alla battaglia. Intanto
di Giove il figlio Sarpedonte giace
fortissimo guerriero, e l'abbandona
ahi! pure il padre. Ma tu, Dio pietoso,
quest'acerba mia piaga or mi risana:
deh! placane il dolor, forza m'aggiungi,
sì che i Licii compagni inanimando,
io gli sproni al conflitto, e a me medesmo
pugnar sia dato per l'estinto amico.
Sì disse orando, ed esaudillo il nume:
della piaga sedò tosto il tormento,
stagnonne il sangue, e gagliardia gli crebbe.
Sentì del Dio la man, fe' lieto il core
l'esaudito guerrier: de' Licii in prima
a incitar corre d'ogni parte i duci
alla difesa dell'estinto: move
quindi a gran passi fra' Troiani, e chiama
Polidamante e Agènore, ed Enea
anco ed Ettorre, e in rapide parole
lor fattosi davanti, Ettore, ei grida,
tu dimentichi i prodi che per te
dalla patria lontani e dagli amici
spendono l'alma, e tu lor nieghi aita.
Giace de' Licii il condottiero, il giusto
forte lor prence Sarpedon. Gradivo
sotto Patròclo l'atterrò: correte,
v'infiammi, amici, una giust'ira il petto;
non patite, per dio! che i Mirmidóni
lo spoglino dell'armi, e villania
facciano al morto vendicando i Dànai
da noi spenti. - Sì disse, e ricoperse
dolor profondo le dardanie fronti;
ché un gran sostegno, benché stranio, egli era
d'Ilio, e molta seguìa gagliarda gente
lui fortissimo in guerra. Difilati
mosser dunque e serrati i teucri duci
contra il nemico, ed Ettore, fremente
del morto Sarpedon, li precorrea.
D'altra parte Patròclo, anima ardita,
sprona l'acheo valor. Gli Aiaci in prima,
già per sé caldi di coraggio, infiamma
con questi detti: Aiaci, ora vi caglia
di far testa a costoro, e vi mostrate
quali un tempo già foste, anzi migliori.
Il campion che primiero la bastita
saltò de' Greci, Sarpedonte è steso.
Oh se fargli pur onta e strascinarlo
e spogliarlo dell'armi ne si desse!
E stramazzargli accanto un qualcheduno
de' suoi compagni a disputarlo accinti!
Disse, e diè nel desìo de' due guerrieri.
Quinci e quindi le schiere inanimate
Troiani e Licii, Mirmidóni e Achei
sovra l'estinto s'azzuffâr mettendo
orrende grida; e con fragore immenso
risonavano l'armi. Un fiero buio
su l'aspra pugna allor Giove diffuse,
onde costasse molta strage il corpo
dell'amato figliuol. Primi i Troiani
respinsero gli Achei, spento Epigèo.
Del magnanimo Agàcle era costui
illustre figlio, e fra gli audaci Tessali
audacissimo. A lui di Budio un giorno
l'alma terra obbedìa. Ma spento avendo
un suo valente consobrino, ei supplice
a Pelèo rifuggissi ed alla diva
consorte: e questi a guerreggiar co' Teucri
d'Ilio ne' campi lo spedîr compagno
dell'omicida Achille. Or qui costui
già l'animose mani al combattuto
cadavere mettea, quando d'un sasso
Ettore il giunse nella fronte, e tutta
in due gliela spezzò dentro l'elmetto.
Cadde prono sul morto l'infelice,
e chiuse i lumi nell'eterna notte.
Addolorato dell'ucciso amico
dritto tra' primi pugnator scagliossi
di Menèzio il buon figlio: e qual veloce
sparvier che gracci paventosi e storni
sparpaglia per lo cielo e li persegue;
tal nel denso de' Licii e de' Troiani
irrompesti, o Patròclo, alla vendetta
del caduto compagno. A Stenelao,
caro figliuol d'Itemenèo, percosse
d'un rude sasso la cervice, e i nervi
ne lacerò. Piegâr, ciò visto, addietro
i combattenti della fronte: ei pure
piegò l'illustre Ettorre; e quanto è il tratto
di stral che in giostra o in omicida pugna
vibra un buon gittator, tanto i Troiani
dier volta addietro dall'Acheo repulsi.
Il primo che converse ardito il viso
fu de' Licii scudati il capitano
Glauco; e a Batìcle, di Calcon diletto
magnanimo figliuol, tolse la vita.
In Grecia egli era possessor di molte
splendide case, e per dovizia il primo
fra i Tessali tenuto. A lui si volse
il Licio all'improvvista, e il giavellotto
gli ficcò nelle coste appunto in quella
che costui l'inseguiva ed era in atto
già d'afferrarlo. Ei cadde, e un fragor cupo
dieder l'armi sovr'esso. Alla caduta
dell'egregio guerriero alto dolore
gli Achei comprese ed alta gioia i Teucri,
che stretti a Glauco s'avanzâr più baldi.
Né si smarrîr gli Achivi, ma di punta
si spinsero allo scontro. E Merïone
Laogono prostese, audace figlio
d'Enètore che in Ida era di Giove
sacerdote, e qual nume il popol tutto
lo riveriva. Merïon lo colse
tra il confin dell'orecchio e della gota,
e tosto l'alma uscì dal corpo, e lui
un'orrenda ravvolse ombra di morte.
Incontro all'uccisor la ferrea lancia
Enea diresse, e a lui che sotto l'orbe
del gran pavese procedea securo,
assestarla sperò. Ma quei del colpo
avvistosi, e piegata la persona
l'asta schivò che sibilante e lunga
andò di retro a conficcarsi in terra.
Ne tremolò la coda, e quivi tutta
perdé l'impeto e l'ira che la spinse.
Come fitto nel suolo, e indarno uscito
Enea si vide dalla mano il telo;
Per certo, o Merïon, disse rabbioso,
un assai destro saltator tu sei:
ma questa lancia mia, se t'aggiungea,
t'avrìa ferme le gambe eternamente.
E Merïone di rimando: Enea,
forte sei, ma ti fia duro la possa
prostrar d'ognuno che al tuo scontro vegna,
ché mortal se' tu pure: e s'io con questa
in pieno ti corrò, con tutto il nerbo
delle tue mani e la tua gran baldanza
la palma a me darai, lo spirto a Pluto.
Disse: e Patròclo con rampogna acerba
garrendolo: Perché cianci sì vano
tu che sei valoroso, o Merïone?
Per contumelie, amico, unqua non fia
che l'inimico quell'esangue ceda,
ma col far che più d'un morda il terreno.
Orsù, lingua in consiglio, e braccio in guerra,
tregua alle ciance, e mano al ferro. - E dette
queste cose, s'avanza, e l'altro il segue.
Quale è il romor che fanno i legnaiuoli
in montana foresta, e lunge il suono
va gli orecchi a ferir, tale il rimbombo
per la vasta pianura si solleva
di celate, di scudi e di loriche,
altre di duro cuoio, altre di ferro,
ripercosse dall'aste e dalle spade:
ned occhio il più scernente affigurato
avrìa l'illustre Sarpedon: tant'era
negli strali, nel sangue e nella polve
sepolto tutto dalla fronte al piede.
Senza mai requie al freddo corpo intorno
facean tutti baruffa: e quale è il zonzo
con che soglion le mosche a primavera
assalir susurrando entro il presepe
i vasi pastorali, allor che pieni
sgorgan di latte; di costor tal era
la giravolta intorno a quell'estinto.
Fissi intanto tenea nell'aspra pugna
Giove gli sguardi lampeggianti, e seco
sul fato di Patròclo omai maturo
severamente nell'eterno senno
consultando venìa, se il grande Ettorre
là sul giacente Sarpedon l'uccida,
e dell'armi lo spogli; o se preceda
al suo morire di molt'altri il fato.
E questo parve lo miglior pensiero,
che del Pelìde Achille il bellicoso
scudier ricacci col lor duce i Teucri
alla cittade, e molte vite estingua.
Però d'Ettore al cor tale egli mise
una vil tema, che montato il cocchio
ratto in fuga si volse, ed alla fuga
i Troiani esortò, chiaro scorgendo
inclinarsi di Giove a suo periglio
le fatali bilance. Allor piè fermo
neppur de' Licii lo squadron non tenne,
ma tutti si fuggîr visto il trafitto
re lor giacente sotto monte orrendo
di cadaveri: tante su lui caddero
anime forti quando della pugna
a Giove piacque esasperar gli sdegni.
Così le corruscanti arme gli Achivi
trasser di dosso a Sarpedonte, e altero
alle navi invïolle il vincitore.
Allor l'eterno adunator de' nembi
ad Apollo così: Scendi veloce,
Febo diletto, e da quell'alto ingombro
d'armi sottraggi Sarpedonte, e terso
dall'atro sangue altrove il porta, e il lava
alla corrente, e lui d'ambrosia sparso
d'immortal veste avvolgi: indi alla Morte
ed al Sonno gemelli fa precetto
che all'opime di Licia alme contrade
il portino veloci, ove di tomba
e di colonna, onor de' morti, egli abbia
da' fratelli conforto e dagli amici.
Disse: e al paterno cenno obbedïente
calossi Apollo dall'idèa montagna
sul campo sanguinoso, e in un baleno
di sotto ai dardi Sarpedon levando,
e lontano il recando alla corrente
tutto lavollo, e l'irrigò d'ambrosia,
e di stola immortal lo ricoperse;
quindi al Sonno comanda ed alla Morte
d'indossarlo e portarselo veloci:
e quei subitamente ebber deposto
nella licia contrada il sacro incarco.
In questo mentre di Menèzio il figlio
i cavalli e l'auriga inanimando
ai Licii dava e ai Dardani la caccia.
Stolto! ché in danno gli tornò dassezzo.
Se d'Achille obbedìa saggio al comando,
schivato ei certo della Parca avrebbe
il decreto fatal: ma più possente
e di Giove il voler, che de' mortali.
Arbitro della tema ei mette in fuga
i più forti a suo senno, e allor pur anco
ch'egli medesmo a battagliar li sprona,
lor toglie la vittoria; e questo ei fece
d'audacia empiendo di Patròclo il petto.
Or qual prima, qual poi spingesti a Pluto,
quando alla morte ti chiamâr gli Dei,
magnanimo guerrier? Fur primi Adresto,
Autònoo, Echeclo, ed Epistorre e Pèrimo
prole di Mega, e Melanippo; quindi
Elaso e Mulio con Pilarte; e come
stese questi al terren, gli altri non fûro
lenti alla fuga. E per Patròclo allora
(ch'ei dirotto nell'ira innanzi a tutti
furïava coll'asta) avrìan di Troia
consumato gli Achei l'alto conquisto;
ma Febo Apollo lo vietò calato
su l'erta d'una torre, alto disastro
meditando al guerriero, e scampo ai Teucri.
Tre volte il cavalier dell'arduo muro
su gli sproni montò; tre volte il nume
colla destra immortal lo risospinse,
forte picchiando sul lucente scudo.
Ma come più feroce al quarto assalto
l'eroe spiccossi, minacciollo irato
con fiera voce il saettante iddio:
Addietro, illustre baldanzoso, addietro:
alla tua lancia non concede il fato
espugnar la città de' generosi
Teucri, né a quella pur del grande Achille
sì più forte di te. - Questo sol disse:
ed il guerriero retrocesse e l'ira
schivò del nume che da lungi impiaga.
Avea frattanto su le porte Scee
de' suoi fuggenti corridori Ettorre
rattenuta la foga, e in cor dubbiava
se spronarli dovesse entro la mischia
novellamente, e rinfrescar la pugna
o chiamando a raccolta entro le mura
l'esercito ridurre. A lui nel mezzo
di questo dubbio appresentossi Apollo,
tolte d'Asio le forme. Era d'Ettorre
zio cotest'Asio ad Ecuba germano,
e nondimeno ancor di giovinezza
fresco e di forze, di Dimante figlio,
che del frigio Sangario in su le rive
tenea suo seggio. La costui sembianza
presa, il nume sì disse: Ettor, perché
cessi dall'armi? È d'un tuo pari indegna
questa desidia. Di vigor vincessi
io te quanto tu me! ben io pentirti
farei del tuo riposo. Orsù, converti
contra Patròclo que' destrieri, e trova
d'atterrarlo una via: fa che l'onore
di questa morte Apollo ti conceda.
Disse; e di nuovo il Dio nel travaglioso
conflitto si confuse. In sé riscosso
Ettore al franco Cebrïon fe' cenno
di sferzargli i destrieri alla battaglia:
ed Apollo per mezzo ai combattenti
scorrendo occulto seminava intanto
tra gli Achei lo scompiglio e la paura,
e fea vincenti col lor duce i Teucri.
Sdegnoso Ettorre di ferir sul volgo
de' nemici, spingea solo in Patròclo
i gagliardi cavalli, e ad incontrarlo
diè il Tessalo dal cocchio un salto in terra
coll'asta nella manca, e colla dritta
un macigno afferrò aspro che tutto
empiagli il pugno, e lo scagliò di forza.
Fallì la mira il colpo, ma d'un pelo;
né però vano uscì, ché nella fronte
l'ettòreo auriga Cebrïon percosse,
tutto al governo delle briglie intento,
Cebrïon che nascea del re troiano
valoroso bastardo. Il sasso acuto
l'un ciglio e l'altro sgretolò, né l'osso
sostenerlo poteo. Divelti al piede
gli schizzâr gli occhi nella sabbia, ed esso,
qual suole il notator, fece cadendo
dal carro un tòmo, e l'agghiacciò la morte.
E tu, Patròclo, con amari accenti
lo schernisti così: Davvero è snello
questo Troiano: ve' ve' come ei tombola
con leggiadria! Se in pelago pescoso
capitasse costui, certo saprebbe
saltando in mar, foss'anche in gran fortuna,
dallo scoglio spiccar conchiglie e ricci
da saziarne molte epe: sì lesto
saltò pur or dal carro a capo in giuso.
Oh gli eccellenti notator che ha Troia!
Sì dicendo, avventossi a Cebrïone
come fiero lïon che disertando
una greggia, piagar si sente il petto,
e dal proprio valor morte riceve.
Ma ratto contra a quel furor si slancia
Ettore dalla biga; e i due superbi
incomincian col ferro a disputarsi
l'esangue Cebrïon. Qual due lïoni
che per gran fame e per gran cor feroci
s'azzuffano d'un monte in su la cima
per la contesa d'una cerva uccisa;
non altrimenti i due mastri di guerra,
l'intrepido Patròclo e il grande Ettorre,
ardono entrambi del crudel desìo
di trucidarsi. Il teucro eroe la testa
del cadavere afferra, e lo ghermisce
il Tessalo d'un piede, e la sua presa
né quei né questi di lasciar fa stima.
Allor Troiani e Achivi una battaglia
appiccâr disperata: e qual gareggiano
d'Euro e di Noto i forti fiati a svellere
nelle selve montane il faggio e il frassino
ed il ruvido cornio; e questi all'aere
dibattendo le lunghe e larghe braccia
con immenso ruggito le confondono,
finché li vedi fracassarsi, e opprimere
fragorosi la valle: a questa immagine
l'un su l'altro scagliandosi combattono
Troiani e Dànai del fuggir dimentichi.
Dintorno a Cebrïon folta conficcasi
una selva d'acute aste e d'aligeri
dardi guizzanti dalle cocche; assidua
d'enormi sassi una tempesta crepita
su gli ammaccati scudi; ed ei nel vortice
della polve giacea grande cadavere
in grande spazio, eternamente, ahi misero!
dei cari in vita equestri studi immemore.
Finché del sole ascesero le rote
verso il mezzo del ciel, d'ambe le parti
uscìano i colpi con egual ruina,
e la gente cadea. Ma quando il giorno
su le vie dechinò dell'occidente,
prevalse il fato degli Achei che alfine
dall'acervo dei teli, e dalla serra
de' Troiani involâr di Cebrïone
la salma, e l'armi gli rapîr di dosso.
Qui fu che pieno di crudel talento
urtò Patròclo i Troi. Tre volte il fiero
con gridi orrendi gli assalì, tre volte
spense nove guerrier; ma come il quarto
impeto fece, e parve un Dio, la Parca
del viver tuo raccolse il filo estremo,
miserando garzon, ché ad incontrarti
venìa tremendo nella mischia Apollo:
né camminar tra l'armi alla sua volta
l'eroe lo vide, ché una folta nebbia
le divine sembianze ricoprìa.
Vennegli a tergo il nume, e colla grave
palma sul dosso tra le late spalle
gli dechinò sì forte una percossa,
che abbacinossi al misero la vista
e girò l'intelletto. Indi dal capo
via saltar gli fe' l'elmo il Dio nemico,
e l'elmo al suolo rotolando fece
sotto il piè de' corsieri un tintinnìo,
e si bruttaro del cimier le creste
di sangue e polve; né di polve in pria
insozzar quel cimiero era concesso
quando l'intatto capo e la leggiadra
fronte copriva del divino Achille.
Ma in quel giorno fatal Giove permise
che d'Ettore passasse in su le chiome
vicino anch'esso al fato estremo. Allora
tutta a Patròclo nella man si franse
la ferrea, lunga, ponderosa e salda
smisurata sua lancia, e sul terreno
dalla manca gli cadde il gran pavese
rotto il guinzaglio. Di sua man l'usbergo
sciolsegli alfine di Latona il figlio,
e l'infelice allor del tutto uscìo
di sentimento; gli tremaro i polsi,
ristette immoto, sbalordito, e in quella
tra l'una spalla e l'altra lo percosse
coll'asta da vicin di Panto il figlio
l'audace Euforbo, un Dardano che al corso
e in trattar lancia e maneggiar destrieri
la pari gioventù vincea d'assai.
La prima volta che sublime ei parve
su la biga a imparar dell'armi il duro
mestier, venti guerrieri al paragone
riversò da' lor cocchi; ed or fu il primo
che ti ferì, Patròclo, e non t'uccise.
Anzi dal corpo ricovrando il ferro
si fuggì pauroso, e nella turba
si confuse il fellon, che di Patròclo
benché piagato e già dell'armi ignudo
non sostenne la vista. Da quel colpo
e più dall'urto dell'avverso Dio
abbattuto l'eroe si ritirava
fra' suoi compagni ad ischivar la morte.
Ed Ettore, veduto il suo nemico
retrocedente e già di piaga offeso,
tra le file vicino gli si strinse,
nell'imo cassò immerse l'asta e tutta
dall'altra parte rïuscir la fece.
Risonò nel cadere, ed un gran lutto
per l'esercito achivo si diffuse.
Come quando un lïone alla montagna
cinghial di forze smisurate assalta,
e l'uno e l'altro di gran cor fan lite
d'una povera fonte, al cui zampillo
venìano entrambi ad ammorzar la sete;
alfin la belva dai robusti artigli
stende anelo il nemico in su l'arena:
tal di Menèzio al generoso figlio
de' Teucri struggitor tolse la vita
il troian duce, e al moribondo eroe
orgoglioso insultando, Ecco, dicea,
ecco, o Patròclo, la città che dianzi
atterrar ti credesti, ecco le donne
che ti sperasti di condur captive
alla paterna Ftia. Folle! e non sai
che a difesa di queste anco i cavalli
d'Ettòr son pronti a guerreggiar co' piedi?
E che fra' Teucri bellicosi io stesso
non vil guerriero maneggiar so l'asta,
e preservarli da servil catena?
Tu frattanto qui statti orrido pasto
d'avoltoi. Che ti valse, o sventurato,
quel tuo sì forte Achille? Ei molti avvisi
ti diè certo al partire: O cavaliero
caro Patròclo, non mi far ritorno
alle navi se pria dell'omicida
Ettòr sul petto non avrai spezzato
il sanguinoso usbergo... Ei certo il disse,
e a te, stolto che fosti! il persuase.
E a lui così l'eroe languente: Or puoi
menar gran vampo, Ettorre, or che ti diero
di mia morte la palma Apollo e Giove.
Essi, non tu, m'han domo; essi m'han tratto
l'armi di dosso. Se pur venti a fronte
tuoi pari in campo mi venìan, qui tutti
questo braccio gli avrìa prostrati e spenti.
Ma me per rio destin qui Febo uccide
fra gl'Immortali, e tra' mortali Euforbo,
tu terzo mi dispogli. Or io vo' dirti
cosa che in mente collocar ben devi:
breve corso a te pur resta di vita:
già t'incalza la Parca, e tu cadrai
sotto la destra dell'invitto Achille.
Disse e spirò. Disciolta dalle membra
scese l'alma a Pluton la sua piangendo
sorte infelice e la perduta insieme
fortezza e gioventù. Sovra l'estinto
arrestatosi Ettorre, A che mi vai
profetando, dicea, morte funesta?
Chi sa che questo della bella Teti
vantato figlio, questo Achille a Dite
colto dall'asta mia non mi preceda?
Così dicendo, lo calcò d'un piede,
gli svelse il telo dalla piaga, e lungi
lui supino gittò. Poi ratto addosso
all'auriga d'Achille si disserra,
di ferirlo bramoso. Invan; ché altrove
gl'immortali sel portano corsieri,
che in bel dono a Pelèo diero gli Dei.