Libro I
Cantami,
o Diva, del Pelìde Achille
l'ira funesta che infiniti addusse
lutti agli
Achei, molte anzi tempo all'Orco
generose travolse alme d'eroi,
e di cani
e d'augelli orrido pasto
lor salme abbandonò (così di Giove
l'alto
consiglio s'adempìa), da quando
primamente disgiunse aspra contesa
il re
de' prodi Atride e il divo Achille.
E qual de' numi inimicolli? Il
figlio
di Latona e di Giove. Irato al Sire
destò quel Dio nel campo un
feral morbo,
e la gente perìa: colpa d'Atride
che fece a Crise sacerdote
oltraggio.
Degli Achivi era Crise alle veloci
prore venuto a riscattar la
figlia
con molto prezzo. In man le bende avea,
e l'aureo scettro
dell'arciero Apollo:
e agli Achei tutti supplicando, e in prima
ai due
supremi condottieri Atridi:
O Atridi, ei disse, o coturnati
Achei,
gl'immortali del cielo abitatori
concedanvi espugnar la
Prïameia
cittade, e salvi al patrio suol tornarvi.
Deh mi sciogliete la
diletta figlia,
ricevetene il prezzo, e il saettante
figlio di Giove
rispettate. - Al prego
tutti acclamâr: doversi il sacerdote
riverire, e
accettar le ricche offerte.
Ma la proposta al cor d'Agamennóne
non
talentando, in guise aspre il superbo
accommiatollo, e minaccioso
aggiunse:
Vecchio, non far che presso a queste navi
ned or né poscia più
ti colga io mai;
ché forse nulla ti varrà lo scettro
né l'infula del Dio.
Franca non fia
costei, se lungi dalla patria, in Argo,
nella nostra magion
pria non la sfiori
vecchiezza, all'opra delle spole intenta,
e a parte
assunta del regal mio letto.
Or va, né m'irritar, se salvo ir
brami.
Impaurissi il vecchio, ed al comando
obbedì. Taciturno
incamminossi
del risonante mar lungo la riva;
e in disparte venuto, al
santo Apollo
di Latona figliuol, fe' questo prego:
Dio dall'arco
d'argento, o tu che Crisa
proteggi e l'alma Cilla, e sei di
Tènedo
possente imperador, Smintèo, deh m'odi.
Se di serti devoti unqua il
leggiadro
tuo delubro adornai, se di giovenchi
e di caprette io t'arsi i
fianchi opimi,
questo voto m'adempi; il pianto mio
paghino i Greci per le
tue saette.
Sì disse orando. L'udì Febo, e scese
dalle cime d'Olimpo in
gran disdegno
coll'arco su le spalle, e la faretra
tutta chiusa. Mettean
le frecce orrendo
su gli omeri all'irato un tintinnìo
al mutar de' gran
passi; ed ei simìle
a fosca notte giù venìa. Piantossi
delle navi al
cospetto: indi uno strale
liberò dalla corda, ed un ronzìo
terribile mandò
l'arco d'argento.
Prima i giumenti e i presti veltri assalse,
poi le
schiere a ferir prese, vibrando
le mortifere punte; onde per tutto
degli
esanimi corpi ardean le pire.
Nove giorni volâr pel campo acheo
le divine
quadrella. A parlamento
nel decimo chiamò le turbe Achille;
ché gli pose
nel cor questo consiglio
Giuno la diva dalle bianche braccia,
de'
moribondi Achei fatta pietosa.
Come fur giunti e in un raccolti, in
mezzo
levossi Achille piè-veloce, e disse:
Atride, or sì cred'io volta
daremo
nuovamente errabondi al patrio lido,
se pur morte fuggir ne fia
concesso;
ché guerra e peste ad un medesmo tempo
ne struggono. Ma via;
qualche indovino
interroghiamo, o sacerdote, o pure
interprete di sogni
(ché da Giove
anche il sogno procede), onde ne dica
perché tanta con noi
d'Apollo è l'ira:
se di preci o di vittime neglette
il Dio n'incolpa, e se
d'agnelli e scelte
capre accettando l'odoroso fumo,
il crudel morbo
allontanar gli piaccia.
Così detto, s'assise. In piedi allora
di Testore
il figliuol Calcante alzossi,
de' veggenti il più saggio, a cui le
cose
eran conte che fur, sono e saranno;
e per quella, che dono era
d'Apollo,
profetica virtù, de' Greci a Troia
avea scorte le navi. Ei
dunque in mezzo
pien di senno parlò queste parole:
Amor di Giove, generoso
Achille,
vuoi tu che dell'arcier sovrano Apollo
ti riveli lo sdegno? Io
t'obbedisco.
Ma del braccio l'aita e della voce
a me tu pria, signor,
prometti e giura:
perché tal che qui grande ha su gli Argivi
tutti
possanza, e a cui l'Acheo s'inchina,
n'andrà, per mio pensar, molto
sdegnoso.
Quando il potente col minor s'adira,
reprime ei sì del suo
rancor la vampa
per alcun tempo, ma nel cor la cova,
finché prorompa alla
vendetta. Or dinne
se salvo mi farai. - Parla securo,
rispose Achille, e
del tuo cor l'arcano,
qual ch'ei si sia, di' franco. Per Apollo
che
pregato da te ti squarcia il velo
de' fati, e aperto tu li mostri a
noi,
per questo Apollo a Giove caro io giuro:
nessun, finch'io m'avrò
spirto e pupilla,
con empia mano innanzi a queste navi
oserà vïolar la tua
persona,
nessuno degli Achei; no, s'anco parli
d'Agamennón che sé medesmo
or vanta
dell'esercito tutto il più possente.
Allor fe' core il buon
profeta, e disse:
né d'obblïati sacrifici il Dio
né di voti si duol, ma
dell'oltraggio
che al sacerdote fe' poc'anzi Atride,
che francargli la
figlia ed accettarne
il riscatto negò. La colpa è questa
onde cotante ne
diè strette, ed altre
l'arcier divino ne darà; né pria
ritrarrà dal
castigo la man grave,
che si rimandi la fatal donzella
non redenta né
compra al padre amato,
e si spedisca un'ecatombe a Crisa.
Così forse
avverrà che il Dio si plachi.
Tacque, e s'assise. Allor l'Atride eroe
il
re supremo Agamennón levossi
corruccioso. Offuscavagli la grande
ira il
cor gonfio, e come bragia rossi
fiammeggiavano gli occhi. E tale ei
prima
squadrò torvo Calcante, indi proruppe:
Profeta di sciagure, unqua un
accento
non uscì di tua bocca a me gradito.
Al maligno tuo cor sempre fu
dolce
predir disastri, e d'onor vote e nude
son l'opre tue del par che le
parole.
E fra gli Argivi profetando or cianci
che delle frecce sue Febo
gl'impiaga,
sol perch'io ricusai della fanciulla
Crisëide il riscatto. Ed
io bramava
certo tenerla in signoria, tal sendo
che a Clitennestra pur, da
me condutta
vergine sposa, io la prepongo, a cui
di persona costei punto
non cede,
né di care sembianze, né d'ingegno
ne' bei lavori di Minerva
istrutto.
Ma libera sia pur, se questo è il meglio;
ché la salvezza io
cerco, e non la morte
del popol mio. Ma voi mi preparate
tosto il
compenso, ché de' Greci io solo
restarmi senza guiderdon non deggio;
ed
ingiusto ciò fôra, or che una tanta
preda, il vedete, dalle man mi
fugge.
O d'avarizia al par che di grandezza
famoso Atride, gli rispose
Achille,
qual premio ti daranno, e per che modo
i magnanimi Achei? Che
molta in serbo
vi sia ricchezza non partita, ignoro:
delle vinte città
tutte divise
ne fur le spoglie, né diritto or torna
a nuove parti
congregarle in una.
Ma tu la prigioniera al Dio rimanda,
ché più larga
n'avrai tre volte e quattro
ricompensa da noi, se Giove un
giorno
l'eccelsa Troia saccheggiar ne dia.
E a lui l'Atride: Non tentar,
quantunque
ne' detti accorto, d'ingannarmi: in questo
né gabbo tu mi fai,
divino Achille,
né persuaso al tuo voler mi rechi.
Dunque terrai tu la tua
preda, ed io
della mia privo rimarrommi? E imponi
che costei sia renduta?
Il sia. Ma giusti
concedanmi gli Achivi altra captiva
che questa adegui e
al mio desir risponda.
Se non daranla, rapirolla io stesso,
sia d'Aiace la
schiava, o sia d'Ulisse,
o ben anco la tua: e quegli indarno
fremerà d'ira
alle cui tende io vegna.
Ma di ciò poscia parlerem. D'esperti
rematori
fornita or si sospinga
nel pelago una nave, e vi s'imbarchi
coll'ecatombe
la rosata guancia
della figlia di Crise, e ne sia duce
alcun de' primi, o
Aiace, o Idomenèo,
o il divo Ulisse, o tu medesmo pure,
tremendissimo
Achille, onde di tanto
sacrificante il grato ministero
il Dio ne plachi
che da lunge impiaga.
Lo guatò bieco Achille, e gli rispose:
Anima
invereconda, anima avara,
chi fia tra i figli degli Achei sì vile
che
obbedisca al tuo cenno, o trar la spada
in agguati convegna o in ria
battaglia?
Per odio de' Troiani io qua non venni
a portar l'armi, io no;
ché meco ei sono
d'ogni colpa innocenti. Essi né mandre
né destrier mi
rapiro; essi le biade
della feconda popolosa Ftia
non saccheggiâr; ché
molti gioghi ombrosi
ne son frapposti e il pelago sonoro.
Ma sol per tuo
profitto, o svergognato,
e per l'onor di Menelao, pel tuo,
pel tuo
medesmo, o brutal ceffo, a Troia
ti seguitammo alla vendetta. Ed oggi
tu
ne disprezzi ingrato, e ne calpesti,
e a me medesmo di rapir minacci
de'
miei sudori bellicosi il frutto,
l'unico premio che l'Acheo mi diede.
Né
pari al tuo d'averlo io già mi spero
quel dì che i Greci l'opulenta
Troia
conquisteran; ché mio dell'aspra guerra
certo è il carco maggior; ma
quando in mezzo
si dividon le spoglie, è tua la prima,
ed ultima la mia,
di cui m'è forza
tornar contento alla mia nave, e stanco
di battaglia e di
sangue. Or dunque a Ftia,
a Ftia si rieda; ché d'assai fia meglio
al
paterno terren volger la prora,
che vilipeso adunator qui starmi
di
ricchezze e d'onori a chi m'offende.
Fuggi dunque, riprese
Agamennóne,
fuggi pur, se t'aggrada. Io non ti prego
di rimanerti. Al
fianco mio si stanno
ben altri eroi, che a mia regal persona
onor daranno,
e il giusto Giove in prima.
Di quanti ei nudre regnatori abborro
te più
ch'altri; sì, te che le contese
sempre agogni e le zuffe e le
battaglie.
Se fortissimo sei, d'un Dio fu dono
la tua fortezza. Or va,
sciogli le navi,
fa co' tuoi prodi al patrio suol ritorno,
ai Mirmìdoni
impera; io non ti curo,
e l'ire tue derido; anzi m'ascolta.
Poiché Apollo
Crisëide mi toglie,
parta. D'un mio naviglio, e da' miei fidi
io la
rimando accompagnata, e cedo.
Ma nel tuo padiglione ad involarti
verrò la
figlia di Brisèo, la bella
tua prigioniera, io stesso; onde
t'avvegga
quant'io t'avanzo di possanza, e quindi
altri meco uguagliarsi e
cozzar tema.
Di furore infiammâr l'alma d'Achille
queste parole. Due
pensier gli fêro
terribile tenzon nell'irto petto,
se dal fianco tirando
il ferro acuto
la via s'aprisse tra la calca, e in seno
l'immergesse
all'Atride; o se domasse
l'ira, e chetasse il tempestoso core.
Fra lo
sdegno ondeggiando e la ragione
l'agitato pensier, corse la mano
sovra la
spada, e dalla gran vagina
traendo la venìa; quando veloce
dal ciel
Minerva accorse, a lui spedita
dalla diva Giunon, che d'ambo i duci
egual
cura ed amor nudrìa nel petto.
Gli venne a tergo, e per la bionda
chioma
prese il fiero Pelìde, a tutti occulta,
a lui sol manifesta.
Stupefatto
si scosse Achille, si rivolse, e tosto
riconobbe la Diva a cui
dagli occhi
uscìan due fiamme di terribil luce,
e la chiamò per nome, e in
ratti accenti,
Figlia, disse, di Giove, a che ne vieni?
Forse d'Atride a
veder l'onte? Aperto
io tel protesto, e avran miei detti effetto:
ei col
suo superbir cerca la morte,
e la morte si avrà. - Frena lo sdegno,
la Dea
rispose dalle luci azzurre:
io qui dal ciel discesi ad acchetarti,
se
obbedirmi vorrai. Giuno spedimmi,
Giuno ch'entrambi vi difende ed ama.
Or
via, ti calma, né trar brando, e solo
di parole contendi. Io tel
predìco,
e andrà pieno il mio detto: verrà tempo
che tre volte maggior,
per doni eletti,
avrai riparo dell'ingiusta offesa.
Tu reprimi la furia,
ed obbedisci.
E Achille a lei: Seguir m'è forza, o Diva,
benché d'ira il
cor arda, il tuo consiglio.
Questo fia lo miglior. Ai numi è caro
chi de'
numi al voler piega la fronte.
Disse; e rattenne su l'argenteo pomo
la
poderosa mano, e il grande acciaro
nel fodero respinse, alle parole
docile
di Minerva. Ed ella intanto
all'auree sedi dell'Egìoco padre
sul cielo
risalì fra gli altri Eterni.
Achille allora con acerbi detti
rinfrescando
la lite, assalse Atride:
Ebbro! cane agli sguardi e cervo al core!
Tu non
osi giammai nelle battaglie
dar dentro colla turba; o negli
agguati
perigliarti co' primi infra gli Achei,
ché ogni rischio t'è morte.
Assai per certo
meglio ti torna di ciascun che franco
nella grand'oste
achea contro ti dica,
gli avuti doni in securtà rapire.
Ma se questa non
fosse, a cui comandi,
spregiata gente e vil, tu non saresti
del popol tuo
divorator tiranno,
e l'ultimo de' torti avresti or fatto.
Ma ben
t'annunzio, ed altamente il giuro
per questo scettro (che diviso un
giorno
dal montano suo tronco unqua né ramo
né fronda metterà, né mai
virgulto
germoglierà, poiché gli tolse il ferro
con la scorza le chiome,
ed ora in pugno
sel portano gli Achei che posti sono
del giusto a guardia
e delle sante leggi
ricevute dal ciel), per questo io giuro,
e invïolato
sacramento il tieni:
stagion verrà che negli Achei si svegli
desiderio
d'Achille, e tu salvarli
misero! non potrai, quando la spada
dell'omicida
Ettòr farà vermigli
di larga strage i campi: e allor di rabbia
il cor ti
roderai, ché sì villana
al più forte de' Greci onta facesti.
Disse; e
gittò lo scettro a terra, adorno
d'aurei chiovi, e s'assise. Ardea
l'Atride
di novello furor, quando nel mezzo
surse de' Pilii l'orator,
Nestorre
facondo sì, che di sua bocca uscièno
più che mel dolci
d'eloquenza i rivi.
Di parlanti con lui nati e cresciuti
nell'alma Pilo ei
già trascorse avea
due vite, e nella terza allor regnava.
Con prudenti
parole il santo veglio
così loro a dir prese: Eterni Dei!
Quanto lutto
alla Grecia, e quanta a Prìamo
gioia s'appresta ed a' suoi figli e a
tutta
la dardania città, quando fra loro
di voi s'intenda la fatal
contesa,
di voi che tutti di valor vincete
e di senno gli Achei! Deh
m'ascoltate,
ché minor d'anni di me siete entrambi;
ed io pur con eroi son
visso un tempo
di voi più prodi, e non fui loro a vile:
ned altri tali io
vidi unqua, né spero
di riveder più mai, quale un Drïante
moderator di
genti, e Piritòo,
Cèneo ed Essadio e Polifemo uom divo,
e l'Egìde Teseo
pari ad un nume.
Alme più forti non nudrìa la terra,
e forti essendo
combattean co' forti,
co' montani Centauri, e strage orrenda
ne fean. Con
questi, a lor preghiera, io spesso
partendomi da Pilo e dal lontano
Apio
confine, a conversar venìa,
e secondo mie forze anch'io pugnava.
Ma di
quanti mortali or crea la terra
niun potrìa pareggiarli. E nondimeno
da
quei prestanti orecchio il mio consiglio
ed il mio detto obbedïenza
ottenne.
E voi pur anco m'obbedite adunque,
ché l'obbedirmi or giova.
Inclito Atride,
deh non voler, sebben sì grande, a questi
tor la
fanciulla; ma ch'ei s'abbia in pace
da' Greci il dato guiderdon
consenti:
né tu cozzar con inimico petto
contra il rege, o Pelìde. Un re
supremo,
cui d'alta maestà Giove circonda,
uguaglianza d'onore unqua non
soffre.
Se generato d'una diva madre
tu lui vinci di forza, ei vince, o
figlio,
te di poter, perché a più genti impera.
Deh pon giù l'ira, Atride,
e placherassi
pure Achille al mio prego, ei che de' Greci
in sì ria guerra
è principal sostegno.
Tu rettissimo parli, o saggio antico,
pronto riprese
il regnatore Atride;
ma costui tutti soverchiar presume,
tutti a schiavi
tener, dar legge a tutti,
tutti gravar del suo comando. Ed io
potrei
patirlo? Io no. Se il fêro i numi
un invitto guerrier, forse pur anco
di
tanto insolentir gli diero il dritto?
Tagliò quel dire Achille, e gli
rispose:
Un pauroso, un vil certo sarei
se d'ogni cenno tuo ligio
foss'io.
Altrui comanda, a me non già; ch'io teco
sciolto di tutta
obbedienza or sono.
Questo solo vo' dirti, e tu nel mezzo
lo rinserra del
cor. Per la fanciulla
un dì donata, ingiustamente or tolta,
né con te né
con altri il brando mio
combatterà. Ma di quant'altre spoglie
nella nave
mi serbo, né pur una,
s'io la niego, t'avrai. Vien, se nol credi,
vieni
alla prova; e il sangue tuo scorrente
dalla mia lancia farà saggio
altrui.
Con questa di parole aspra tenzone
levârsi, e sciolto fu l'acheo
consesso.
Con Patroclo il Pelìde e co' suoi prodi
riede a sue navi nelle
tende; e Atride
varar fa tosto a venti remi eletti
una celere prora colla
sacra
ecatombe. Di Crise egli medesmo
vi guida e posa l'avvenente
figlia;
duce v'ascende il saggio Ulisse, e tutti
già montati correan
l'umide vie.
Ciò fatto, indisse al campo Agamennóne
una sacra lavanda: e
ognun devoto
purificarsi, e via gittar nell'onde
le sozzure, e del mar
lungo la riva
offrir di capri e di torelli intere
ecatombi ad Apollo. Al
ciel salìa
volubile col fumo il pingue odore.
Seguìan nel campo questi
riti. E fermo
nel suo dispetto e nella dianzi fatta
ria minaccia ad
Achille, intanto Atride
Euribate e Taltibio a sé chiamando,
fidi araldi e
sergenti, Ite, lor disse,
del Pelìde alla tenda, e m'adducete
la bella
figlia di Brisèo. Se il niega,
io ne verrò con molta mano, io stesso,
a
gliela tôrre: e ciò gli fia più duro.
Disse; e il cenno aggravando in via li
pose.
Del mar lunghesso l'infecondo lido
givan quelli a mal cuore, e
pervenuti
de' Mirmidóni alla campal marina
trovâr l'eroe seduto appo le
navi
davanti al padiglion: né del vederli
certo Achille fu lieto. Ambo al
cospetto
regal fermârsi trepidanti e chini,
né far motto fur osi né
dimando.
Ma tutto ei vide in suo pensiero, e disse:
Messaggeri di Giove e
delle genti,
salvete, araldi, e v'appressate. In voi
niuna è colpa con
meco. Il solo Atride,
ei solo è reo, che voi per la fanciulla
Brisëide qui
manda. Or va, fuor mena,
generoso Patròclo, la donzella,
e in man di
questi guidator l'affida.
Ma voi medesmi innanzi ai santi numi
ed innanzi
ai mortali e al re crudele
siatemi testimon, quando il dì splenda
che a
scampar gli altri di rovina il mio
braccio abbisogni. Perocché delira
in
suo danno costui, ned il presente
vede, né il poi, né il come a sua
difesa
salvi alle navi pugneran gli Achei.
Disse; e Patròclo del diletto
amico
al comando obbedì. Fuor della tenda
Brisëide menò, guancia
gentile,
ed agli araldi condottier la cesse.
Mentre ei fanno alle navi
achee ritorno,
e ritrosa con lor partìa la donna,
proruppe Achille in un
subito pianto,
e da' suoi scompagnato in su la riva
del grigio mar
s'assise, e il mar guardando
le man stese, e dolente alla diletta
madre
pregando, Oh madre! è questo, disse,
questo è l'onor che darmi il gran
Tonante
a conforto dovea del viver breve
a cui mi partoristi? Ecco, ei mi
lascia
spregiato in tutto: il re superbo Atride
Agamennón mi disonora; il
meglio
de' miei premi rapisce, e sel possiede.
Sì piangendo dicea. La
veneranda
genitrice l'udì, che ne' profondi
gorghi del mare si sedea
dappresso
al vecchio padre; udillo, e tosto emerse,
come nebbia,
dall'onda: accanto al figlio,
che lagrime spargea, dolce s'assise,
e colla
mano accarezzollo, e disse:
Figlio, a che piangi? e qual t'opprime
affanno?
Di', non celarlo in cor, meco il dividi.
Madre, tu il sai,
rispose alto gemendo
il piè-veloce eroe. Ridir che giova
tutto il già
conto? Nella sacra sede
d'Eezïon ne gimmo; la cittade
ponemmo a sacco, e
tutta a questo campo
fu condotta la preda. In giuste parti
la diviser gli
Achivi, e la leggiadra
Crisëide fu scelta al primo Atride.
Crise d'Apollo
sacerdote allora
con l'infula del nume e l'aureo scettro
venne alle navi a
riscattar la figlia.
Molti doni offerì, molte agli Achivi
porse preghiere,
ed agli Atridi in prima.
Invan; ché preghi e doni e sacerdote
e degli
Achei l'assenso ebbe in dispregio
Agamennón, che minaccioso e duro
quel
misero cacciò dal suo cospetto.
Partì sdegnato il veglio; e Apollo, a
cui
diletto capo egli era, il suo lamento
esaudì dall'Olimpo, e contra i
Greci
pestiferi vibrò dardi mortali.
Perìa la gente a torme, e d'ogni
parte
sibilanti del Dio pel campo tutto
volavano gli strali. Alfine un
saggio
indovin ne fe' chiaro in assemblea
l'oracolo d'Apollo. Io tosto il
primo
esortai di placar l'ire divine.
Sdegnossene l'Atride, e in piè
levato
una minaccia mi fe' tal che pieno
compimento sortì. Gli Achivi a
Crisa
sovr'agil nave già la schiava adducono
non senza doni a Febo; e
dalla tenda
a me pur dianzi tolsero gli araldi,
e menâr seco di Brisèo la
figlia,
la fanciulla da' Greci a me donata.
Ma tu che il puoi, tu al
figlio tuo soccorri,
vanne all'Olimpo, e porgi preghi a Giove,
s'unqua
Giove per te fu nel bisogno
o d'opera aitato o di parole.
Nel patrio
tetto, io ben lo mi ricordo,
spesso t'intesi glorïarti, e dire
che sola
fra gli Dei da ria sciagura
Giove campasti adunator di nembi,
il giorno
che tentâr Giuno e Nettunno
e Pallade Minerva in un con gli
altri
congiurati del ciel porlo in catene;
ma tu nell'uopo sopraggiunta, o
Dea,
l'involasti al periglio, all'alto Olimpo
prestamente chiamando il
gran Centìmano,
che dagli Dei nomato è Brïarèo,
da' mortali Egeóne, e di
fortezza
lo stesso genitor vincea d'assai.
Fiero di tanto onore alto ei
s'assise
di Giove al fianco, e n'ebber tema i numi,
che poser di legarlo
ogni pensiero.
Or tu questo rammentagli, e al suo lato
siedi, e gli
abbraccia le ginocchia, e il prega
di dar soccorso ai Teucri, e far che
tutte
fino alle navi le falangi achee
sien spinte e rotte e trucidate.
Ognuno
lo si goda così questo tiranno;
senta egli stesso il gran regnante
Atride
qual commise follìa quando superbo
fe' de' Greci al più forte un
tanto oltraggio.
E lagrimando a lui Teti rispose:
Ahi figlio mio! se con
sì reo destino
ti partorii, perché allevarti, ahi lassa!
Oh potessi ozioso
a questa riva
senza pianto restarti e senza offese,
ingannando la Parca
che t'incalza,
ed omai t'ha raggiunto! Ora i tuoi giorni
brevi sono ad un
tempo ed infelici,
ché iniqua stella il dì ch'io ti produssi
i talami
paterni illuminava.
E nondimen d'Olimpo alle nevose
vette n'andrò,
ragionerò con Giove
del fulmine signore, e al tuo desire
piegarlo tenterò.
Tu statti intanto
alle navi; e nell'ozio del tuo brando
senta l'Achivo de'
tuoi sdegni il peso.
Perocché ieri in grembo all'Oceàno
fra gl'innocenti
Etïopi discese
Giove a convito, e il seguîr tutti i numi.
Dopo la luce
dodicesma al cielo
tornerà. Recherommi allor di Giove
agli eterni palagi;
al suo ginocchio
mi gitterò, supplicherò, né vana
d'espugnarne il voler
speranza io porto.
Partì, ciò detto; e lui quivi di bile
macerato lasciò
per la fanciulla
suo mal grado rapita. Intanto a Crisa
colla sacra
ecatombe Ulisse approda.
Nel seno entrati del profondo porto,
le vele
ammaïnâr, le collocaro
dentro il bruno naviglio, e prestamente
dechinâr
colle gomone l'antenna,
e l'adagiâr nella corsìa. Co' remi
il naviglio
accostâr quindi alla riva;
e l'ancore gittate, e della poppa
annodati i
ritegni, ecco sul lido
tutta smontar la gente, ecco schierarsi
l'ecatombe
d'Apollo, e dalla nave
dell'onde vïatrice ultima uscire
Crisëide.
All'altar l'accompagnava
l'accorto Ulisse, ed alla man del caro
genitor la
ponea con questi accenti:
Crise, il re sommo Agamennón mi manda
a ti
render la figlia, e offrir solenne
un'ecatombe a Febo, onde gli
sdegni
placar del nume che gli Achei percosse
d'acerbissima piaga. - In
questo dire
l'amata figlia in man gli cesse; e il vecchio
la si raccolse
giubilando al petto.
Tosto dintorno al ben costrutto altare
in ordinanza
statuîr la bella
ecatombe del Dio; lavâr le palme,
presero il sacro farro,
e Crise alzando
colla voce la man, fe' questo prego:
Dio che godi trattar
l'arco d'argento,
tu che Crisa proteggi e la divina
Cilla, signor di
Tènedo possente,
m'odi: se dianzi a mia preghiera il campo
acheo gravasti
di gran danno, e onore
mi desti, or fammi di quest'altro voto
contento
appieno. La terribil lue,
che i Dànai strugge, allontanar ti piaccia.
Sì
disse orando, ed esaudillo il nume.
Quindi fin posto alle preghiere, e
sparso
il salso farro, alzar fêr suso in prima
alle vittime il collo, e le
sgozzaro.
tratto il cuoio, fasciâr le incise cosce
di doppio omento, e le
coprîr di crudi
brani. Il buon vecchio su l'accese schegge
le
abbrustolava, e di purpureo vino
spruzzando le venìa. Scelti garzoni
al
suo fianco tenean gli spiedi in pugno
di cinque punte armati: e come
fûro
rosolate le coste, e fatto il saggio
delle viscere sacre, il resto in
pezzi
negli schidoni infissero, con molto
avvedimento l'arrostiro, e
poscia
tolser tutto alle fiamme. Al fin dell'opra,
poste le mense, a
banchettar si diero,
e del cibo egualmente ripartito
sbramârsi tutti. Del
cibarsi estinto
e del bere il desìo, d'almo lïeo
coronando il cratere, a
tutti in giro
ne porsero i donzelli, e fe' ciascuno,
libagion colle tazze.
E così tutto
cantando il dì la gioventude argiva,
e un allegro peàna alto
intonando,
laudi a Febo dicean, che nell'udirle
sentìasi tocco di dolcezza
il core.
Fugato il sole dalla notte, ei diersi
presso i poppesi della nave
al sonno.
Poi come il cielo colle rosee dita
la bella figlia del mattino
aperse,
conversero la prora al campo argivo,
e mandò loro in poppa il
vento Apollo.
Rizzâr l'antenna, e delle bianche vele
il seno dispiegâr.
L'aura seconda
le gonfiava per mezzo, e strepitoso,
nel passar della nave,
il flutto azzurro
mormorava dintorno alla carena.
Giunti agli argivi
accampamenti, in secco
trasser la nave su la colma arena,
e lunghe vi
spiegâr travi di sotto
acconciamente. Per le tende poi
si dispersero tutti
e pe' navili.
Appo i suoi legni intanto il generoso
Pelìde Achille nel
segreto petto
di sdegno si pascea, né al parlamento,
scuola illustre
d'eroi, né alle battaglie
più comparìa; ma il cor struggea di doglia
lungi
dall'armi, e sol dell'armi il suono
e delle pugne il grido egli
sospira.
Rifulse alfin la dodicesma aurora,
e tutti di conserva al ciel
gli Eterni
fean ritorno, ed avanti iva il re Giove.
Memore allor del
figlio e del suo prego,
Teti emerse dal mare, e mattutina
in cielo al
sommo dell'Olimpo alzossi.
Sul più sublime de' suoi molti gioghi
in
disparte trovò seduto e solo
l'onniveggente Giove. Innanzi a lui
la Dea
s'assise, colla manca strinse
le divine ginocchia, e colla destra
molcendo
il mento, e supplicando disse:
Giove padre, se d'opre e di
parole
giovevole fra' numi unqua ti fui,
un mio voto adempisci. Il figlio
mio,
cui volge il fato la più corta vita,
deh, m'onora il mio figlio a
torto offeso
dal re supremo Agamennón, che a forza
gli rapì la sua donna,
e la si tiene.
Onoralo, ti prego, olimpio Giove,
sapientissimo Iddio; fa
che vittrici
sien le spade troiane, infin che tutto
e doppio ancora dagli
Achei pentiti
al mio figlio si renda il tolto onore.
Disse; e nessuna le
facea risposta
il procelloso Iddio; ma lunga pezza
muto stette, e sedea.
Teti il ginocchio
teneagli stretto tuttavolta, e i preghi
iterando venìa:
Deh, parla alfine;
dimmi aperto se nieghi, o se concedi;
nulla hai tu che
temer; fa ch'io mi sappia
se fra le Dee son io la più
spregiata.
Profondamente allora sospirando
l'adunator de' nembi le
rispose:
Opra chiedi odiosa che nemico
farammi a Giuno, e degli ontosi
suoi
motti bersaglio. Ardita ella mai sempre
pur dinanzi agli Dei vien
meco a lite,
e de' Troiani aiutator m'accusa.
Ma tu sgombra di qua, ché
non ti vegga
la sospettosa. Mio pensier fia poscia
che il desir tuo si
cómpia, e a tuo conforto
abbine il cenno del mio capo in pegno.
Questo
fra' numi è il massimo mio giuro,
né revocarsi, né fallir, né vana
esser
può cosa che il mio capo accenna.
Disse; e il gran figlio di Saturno i
neri
sopraccigli inchinò. Su l'immortale
capo del sire le divine
chiome
ondeggiaro, e tremonne il vasto Olimpo.
Così fermo l'affar si
dipartiro.
Teti dal ciel spiccò nel mare un salto;
Giove alla reggia
s'avviò. Rizzârsi
tutti ad un tempo da' lor troni i numi
verso il gran
padre, né veruno ardissi
aspettarne il venir fermo al suo seggio,
ma
mosser tutti ad incontrarlo. Ei grave
si compose sul trono. E già
sapea
Giuno il fatto del Dio; ch'ella veduto
in segreti consigli avea con
esso
la figlia di Nerèo, Teti la diva
dal bianco piede. Con parole
acerbe
così dunque l'assalse: E qual de' numi
tenne or teco consulta, o
ingannatore?
Sempre t'è caro da me scevro ordire
tenebrosi disegni, né ti
piacque
mai farmi manifesto un tuo pensiero.
E degli uomini il padre e
degli Dei
le rispose: Giunon, tutto che penso
non sperar di saperlo. Ardua
ten fôra
l'intelligenza, benché moglie a Giove.
Ben qualunque dir cosa si
convegna,
nullo, prima di te, mortale o Dio
la si saprà. Ma quel che lungi
io voglio
dai Celesti ordinar nel mio segreto,
non dimandarlo né
scrutarlo, e cessa.
Acerbissimo Giove, e che dicesti?
Riprese allor la
maestosa il guardo
veneranda Giunon: gran tempo è pure
che da te nulla
cerco e nulla chieggo,
e tu tranquillo adempi ogni tuo senno.
Or grave un
dubbio mi molesta il core,
che Teti, del marin vecchio la figlia,
non ti
seduca; ch'io la vidi, io stessa,
sul mattino arrivar, sederti
accanto,
abbracciarti i ginocchi; e certo a lei
di molti Achivi tu
giurasti il danno
appo le navi, per onor d'Achille.
E a rincontro il
signor delle tempeste:
Sempre sospetti, né celarmi io posso,
spirto
maligno, agli occhi tuoi. Ma indarno
la tua cura uscirà, ch'anzi più
sempre
tu mi costringi a disamarti, e questo
a peggio ti verrà. S'al ver
t'apponi,
che al ver t'apponga ho caro. Or siedi, e taci,
e m'obbedisci;
ché giovarti invano
potrìan quanti in Olimpo a tua difesa
accorresser
Celesti, allor che poste
le invitte mani nelle chiome io t'abbia.
Disse; e
chinò la veneranda Giuno
i suoi grand'occhi paurosa e muta,
e in cor
premendo il suo livor s'assise.
Di Giove in tutta la magion le fronti
si
contristâr de' numi, e in mezzo a loro
gratificando alla diletta
madre
Vulcan l'inclito fabbro a dir sì prese:
Una malvagia intolleranda
cosa
questa al certo sarà, se voi cotanto,
de' mortali a cagion, piato
movete,
e suscitate fra gli Dei tumulto.
De' banchetti la gioia ecco
sbandita,
se la vince il peggior. Madre, t'esorto,
benché saggia per te;
vinci di Giove,
vinci del padre coll'ossequio l'ira,
onde a lite non
torni, e del convito
ne conturbi il piacer; ch'egli ne puote,
del fulmine
signore e dell'Olimpo,
dai nostri seggi rovesciar, se il voglia;
perocché
sua possanza a tutte è sopra.
Or tu con care parolette il molci,
e tosto
il placherai. - Surse, ciò detto,
ed all'amata genitrice un tondo
gemino
nappo fra le mani ei pose,
bisbigliando all'orecchio: O madre mia,
benché
mesta a ragion, sopporta in pace,
onde te con quest'occhi io qui non
vegga,
te, che cara mi sei, forte battuta;
ché allor nessuna con dolor mio
sommo
darti aìta io potrei. Duro egli è troppo
cozzar con Giove. Altra
fiata, il sai,
volli in tuo scampo venturarmi. Il crudo
afferrommi d'un
piede, e mi scagliò
dalle soglie celesti. Un giorno intero
rovinai per
l'immenso, e rifinito
in Lenno caddi col cader del sole,
dalli Sinzii
raccolto a me pietosi.
Disse; e la Diva dalle bianche braccia
rise, e in
quel riso dalla man del figlio
prese il nappo. Ed ei poscia agli altri
Eterni,
incominciando a destra, e dal cratere
il nèttare attignendo, a
tutti in giro
lo mescea. Suscitossi infra' Beati
immenso riso nel veder
Vulcano
per la sala aggirarsi affaccendato
in quell'opra. Così, fino al
tramonto,
tutto il dì convitossi, ed egualmente
del banchetto ogni Dio
partecipava.
Né l'aurata mancò lira d'Apollo,
né il dolce delle Muse
alterno canto.
Ratto, poi che del Sol la luminosa
lampa si spense, a' suoi
riposi ognuno
ne' palagi n'andò, che fabbricati
a ciascheduno avea con
ammirando
artifizio Vulcan l'inclito zoppo.
E a' suoi talami anch'esso,
ove qual volta
soave l'assalìa forza di sonno,
corcar solea le membra, il
fulminante
Olimpio s'avvïò. Quivi salito
addormentossi il nume, ed al suo
fianco
giacque l'alma Giunon che d'oro ha il trono.
Libro
II
Tutti
ancora dormìan per l'alta notte
i guerrieri e gli Dei; ma il dolce
sonno
già le pupille abbandonato avea
di Giove che pensoso in suo
segreto
divisando venìa come d'Achille,
con molta strage delle vite
argive,
illustrar la vendetta. Alla divina
mente alfin parve lo miglior
consiglio
invïar all'Atride Agamennóne
il malefico Sogno. A sé lo
chiama,
e con presto parlar, Scendi, gli dice,
scendi, Sogno fallace, alle
veloci
prore de' Greci, e nella tenda entrato
d'Agamennón, quant'io
t'impongo, esponi
esatto ambasciator. Digli che tutte
in armi ei ponga
degli Achei le squadre,
che dell'iliaco muro oggi è decreta
su nel ciel la
caduta; che discordi
degli eterni d'Olimpo abitatori
più non sono le
menti; che di Giuno
cessero tutti al supplicar; che in somma
l'estremo
giorno de' Troiani è giunto.
Disse; ed il Sogno, il divin cenno
udito,
avvïossi e calossi in un baleno
su l'argoliche navi. Entra
d'Atride
nel queto padiglione, e immerso il trova
nella dolcezza di
nettareo sonno.
Di Nestore Nelìde il volto assume,
di Nestore, cui sovra
ogni altro duce
Agamennóne riveriva, e in queste
forme sul capo del gran
re sospesa,
così la diva visïon gli disse:
Tu dormi, o figlio del
guerriero Atrèo?
Tutta dormir la notte ad uom sconviensi
di supremo
consiglio, a cui son tante
genti commesse e tante cure. Attento
dunque
m'ascolta. A te vengh'io celeste
nunzio di Giove, che lontano ancora
su te
veglia pietoso. Egli precetto
ti fa di porre tutti quanti in
arme
prontamente gli Achei. Tempo è venuto
che l'ampia Troia in tua man
cada: i numi
scesero tutti, intercedente Giuno,
in un solo volere, e alla
troiana
gente sovrasta l'infortunio estremo
preparato da Giove. Or tu ben
figgi
questo avviso nell'alma, e fa che seco
non lo si porti, col
partirsi, il sonno.
Sparve ciò detto; e delle udite cose,
di che contrario
uscir dovea l'effetto,
pensoso lo lasciò. Prender di Troia
quel dì stesso
le mura egli sperossi,
né di Giove sapea, stolto! i disegni,
né qual aspro
pugnar, né quanta il Dio
di lagrime cagione e di sospiri
ai Troiani e agli
Achivi apparecchiava.
Si riscuote dal sonno, e la divina
voce dintorno gli
susurra ancora.
Sorge, e del letto su la sponda assiso
una molle s'avvolge
alla persona
tunica intatta, immacolata; gittasi
il regal manto indosso;
il piè costringe
ne' bei calzari; il brando aspro e lucente
d'argentee
borchie all'omero sospende,
l'invïolato avito scettro impugna,
ed alle
navi degli Achei cammina.
Già sul balzo d'Olimpo alta ascendea
di Titon la
consorte, annunziatrice
dell'alma luce a Giove e agli altri Eterni;
quando
con chiara voce i banditori
per comando d'Atride a parlamento
convocaro
gli Achei, che frettolosi
accorsero e frequenti. Ma raccolse
de' magnanimi
duci Agamennóne
prima il senato alla nestorea nave,
e raccolti che fûro,
in questi accenti
il suo prudente consultar propose:
M'udite, amici. Nella
queta notte
una divina visïon m'apparve,
che te, Nestore padre, alla
statura,
agli atti, al volto somigliava in tutto.
Sul mio capo librossi, e
così disse:
Figlio d'Atrèo, tu dormi? A sommo duce
cui di tanti guerrieri
e tante cure
commesso è il pondo, non s'addice il sonno.
M'odi adunque:
mandato a te son io
da Giove che dal ciel di te pensiero
prende e pietate.
Ei tutte ti comanda
armar le truppe de' chiomati Achei,
ché di Troia il
conquisto oggi è maturo;
poiché di Giuno il supplicar compose
la discordia
de' numi, e grave ai Teucri
danno sovrasta per voler di Giove.
Tu di Giove
il comando in cor riponi.
Sparve, ciò detto, e quel mio dolce
sonno
m'abbandonò. La guisa or noi di porre
gli Achivi in arme esaminiam.
Ma pria
giovi con finto favellar tentarne,
fin dove lice, i sentimenti. Io
dunque
comanderò che su le navi ognuno
si disponga alla fuga, e sparsi ad
arte
voi l'impedite con opposti accenti.
Così detto s'assise. In piè
rizzossi
dell'arenosa Pilo il regnatore
Nestore, e saggio ragionando
disse:
O amici, o degli Achei principi e duci,
s'altro qualunque Argivo un
cotal sogno
detto n'avesse, un menzogner l'avremmo,
e spregeremmo: ma lo
vide il sommo
capo del campo. A risvegliar si corra
dunque l'acheo valore.
- E sì dicendo
usciva il vecchio dal consiglio, e tutti
surti in piè lo
seguìan gli altri scettrati
del re supremo ossequiosi. Intanto
il popolo
accorrea. Quale dai fori
di cava pietra numeroso sbuca
lo sciame delle
pecchie, e succedendo
sempre alle prime le seconde, volano
sui fior di
aprile a gara, e vi fan grappolo
altre di qua affollate, altre di là;
così
fuor delle navi e delle tende
correan per l'ampio lido a
parlamento
affollate le turbe, e le spronava
l'ignea Fama, di Giove
ambasciatrice.
Si congregaro alfin. Tumultuoso
brulicava il consesso, ed
al sedersi
di tante genti il suol gemea di sotto.
Ben nove araldi
d'acchetar fean prova
quell'immenso frastuono, alto gridando:
Date fine ai
clamori, udite i regi,
udite, Achivi, del gran Dio gli alunni.
Sostârsi
alfine: ne' suoi seggi ognuno
si compose, e cessò l'alto fragore.
Allor
rizzossi Agamennón stringendo
lo scettro, esimia di Vulcan fatica.
Diè
pria Vulcano quello scettro a Giove,
e Giove all'uccisor d'Argo
Mercurio;
questi a Pelope auriga, esso ad Atrèo;
Atrèo morendo al
possessor di pingui
greggi Tieste, e da Tieste alfine
nella destra passò
d'Agamennóne,
che poi sovr'Argo lo distese, e sopra
isole molte. A questo
il grande Atride
appoggiato, sì disse: Amici eroi,
Dànai, di Marte
bellicosi figli,
in una dura e perigliosa impresa
Giove m'avvolse, Iddio
crudel, che prima
mi promise e giurò delle superbe
iliache mura la
conquista, e in Argo
glorioso il ritorno. Or mi delude
indegnamente, e
dopo tante in guerra
vite perdute, di tornar m'impone
inonorato alle
paterne rive.
Del prepotente Iddio questo è il talento,
di lui che
nell'immensa sua possanza
già di molte città l'eccelse rocche
distrusse, e
molte struggeranne ancora.
Ma qual onta per noi appo i futuri
che contra
minor oste un tale e tanto
esercito di forti una sì lunga
guerra
guerreggi; e non la cómpia ancora?
Certo se tutti convocati insieme
salda
pace a giurar Teucri ed Achivi,
e di questi e di quei levato il conto,
ad
ogni dieci Achivi un Teucro solo
mescer dovesse di lïeo la spuma,
molte
decurie si vedrìan chiedenti
con labbro asciutto il mescitor:
cotanto
maggior de' Teucri cittadini estimo
il numero de' nostri. Ma li
molti
da diverse città raccolti e scesi
in lor sussidio bellicosi
amici
duro intoppo mi fanno, e a mio dispetto
mi vietano espugnar d'Ilio
le mura.
Già del gran Giove il nono anno si volge
da che giungemmo, e già
marciti i fianchi
son delle navi, e logore le sarte;
e le nostre consorti
e i cari figli
desïando ne stanno e richiamando
nelle vedove case. E noi
l'impresa
che a queste sponde ne condusse, ancora
consumar non sapemmo. Al
vento adunque,
diamo al vento le vele, io vel consiglio,
alla dolce
fuggiam terra natìa
di concorde voler, ché disperata
delle mura troiane è
la conquista.
Mosse quel dire delle turbe i petti,
e fremea l'adunanza, a
quella guisa
che dell'icario mare i vasti flutti
si confondono allor che
Noto ed Euro
della nube di Giove il fianco aprendo
a sollevar li vanno
impetuosi.
E come quando di Favonio il soffio
denso campo di biade urta, e
passando
il capo inchina delle bionde spiche;
tal si commosse il
parlamento, e tutti
alle navi correan precipitosi
con fremito guerrier.
Sotto i lor piedi
s'alza la polve, e al ciel si volve oscura.
I navigli
allestir, lanciarli in mare,
espurgarne le fosse, ed i puntelli
sottrarre
alle carene era di tutti
la faccenda e la gara. Arde ogni petto
del sacro
amore delle patrie mura,
e tutto di clamori il cielo eccheggia.
E degli
Achei quel dì sarìa seguìto,
contro il voler de' fati, il dipartire,
se
con questo parlar non si volgea
Giuno a Minerva: O dell'Egìoco
Padre
invincibile figlia, così dunque,
il mar coprendo di fuggenti
vele,
al patrio lido rediran gli Achivi?
Ed a Priamo l'onore, ai Teucri il
vanto
lasceran tutto dell'argiva Elèna
dopo tante per lei, lungi dal
caro
nido natìo, qui spente anime greche?
Deh scendi al campo acheo,
scendi, ed adopra
lusinghiero parlar, molci i soldati,
frena la fuga, né
patir che un solo
de' remiganti pini in mar sia tratto.
Obbediente la
cerulea Diva
dalle cime d'Olimpo dispiccossi
velocissima, e tosto fu sul
lido.
Ivi Ulisse trovò, senno di Giove,
occupato non già del suo
naviglio,
ma del dolor che il preme, e immoto in piedi.
Gli si fece
davanti la divina
Glaucopide dicendo: O di Laerte
generoso figliuol,
prudente Ulisse,
così dunque n'andrete? E al patrio suolo
navigherete, e
lascerete a Priamo
di vostra fuga il vanto, ed ai Troiani
d'Argo la donna,
e invendicato il sangue
di tanti, che per lei qui lo versaro,
bellicosi
compagni? A che ti stai?
T'appresenta agli Achei, rompi gl'indugi,
dolci
adopra parole e li trattieni,
né consentir che antenna in mar si
spinga.
Così disse la Dea. Ne riconobbe
l'eroe la voce, e via gittato il
manto,
che dopo lui raccolse il banditore
Eurìbate itacense, a correr
diessi;
e incontrato l'Atride Agamennóne,
ratto ne prende il regal
scettro, e vola
con questo in pugno tra le navi achee;
e quanti ei trova o
duci o re, li ferma
con parlar lusinghiero; e, Che fai, dice,
valoroso
campione? A te de' vili
disconvien la paura. Or via, ti resta,
pregoti, e
gli altri fa restar. La mente
ben palese non t'è d'Agamennóne;
egli tenta
gli Achei, pronto a punirli.
Non tutti han chiaro ciò che dianzi in
chiuso
consesso ei disse. Deh badiam, che irato
non ne percuota
d'improvvisa offesa.
Di re supremo acerba è l'ira, e Giove,
che al trono
l'educò, l'onora ed ama.
S'uom poi vedea del vulgo, e lo
cogliea
vociferante, collo scettro il dosso
batteagli; e, Taci, gli garrìa
severo,
taci tu tristo, e i più prestanti ascolta
tu codardo, tu imbelle,
e nei consigli
nullo e nell'armi. La vogliam noi forse
far qui tutti da
re? Pazzo fu sempre
de' molti il regno. Un sol comandi, e quegli
cui
scettro e leggi affida il Dio, quei solo
ne sia di tutti correttor
supremo.
Così l'impero adoperando Ulisse
frena le turbe, e queste a
parlamento
dalle navi di nuovo e dalle tende
con fragore accorrean, pari a
marina
onda che mugge e sferza il lido, ed alto
ne rimbomba l'Egeo. Queto
s'asside
ciascheduno al suo posto: il sol Tersite
di gracchiar non si
resta, e fa tumulto
parlator petulante. Avea costui
di scurrili indigeste
dicerìe
pieno il cerèbro, e fuor di tempo, e senza
o ritegno o pudor le
vomitava
contro i re tutti; e quanto a destar riso
infra gli Achivi gli
venìa sul labbro,
tanto il protervo beffator dicea.
Non venne a Troia di
costui più brutto
ceffo; era guercio e zoppo, e di contratta
gran gobba al
petto; aguzzo il capo, e sparso
di raro pelo. Capital nemico
del Pelìde e
d'Ulisse, ei li solea
morder rabbioso: e schiamazzando allora
colla
stridula voce lacerava
anche il duce supremo Agamennóne,
sì che tutti di
sdegno e di corruccio
fremean; ma il tristo ognor più forti alzava
le
rampogne e gridava: E di che dunque
ti lagni, Atride? che ti manca? Hai
pieni
di bronzo i padiglioni e di donzelle,
delle vinte città spoglie
prescelte
e da noi date a te primiero. O forse
pur d'auro hai fame, e
qualche Teucro aspetti
che d'Ilio uscito lo ti rechi al piede,
prezzo del
figlio da me preso in guerra,
da me medesmo, o da qualch'altro Acheo?
O
cerchi schiava giovinetta a cui
mescolarti in amore alla spartita?
Eh via,
che a sommo imperador non lice
scandalo farsi de' minori. Oh vili,
oh
infami, oh Achive, non Achei! Facciamo
vela una volta; e qui costui si
lasci
qui lui solo a smaltir la sua ricchezza,
onde a prova conosca se
l'aita
gli è buona o no delle nostr'armi. E dianzi
nol vedemmo pur noi
questo superbo
ad Achille, a un guerrier che sì l'avanza
di fortezza, for
onta? E dell'offeso
non si tien egli la rapita schiava?
Ma se d'Achille il
cor di generosa
bile avvampasse, e un indolente vile
non si fosse egli
pur, questo sarìa
stato l'estremo de' tuoi torti, Atride.
Così contra il
supremo Agamennóne
impazzava Tersite. Gli fu sopra
repente il figlio di
Laerte, e torvo
guatandolo gridò: Fine alle tue
faconde ingiurie,
ciarlator Tersite.
E tu sendo il peggior di quanti a Troia
con gli Atridi
passâr, tu audace e solo
non dar di cozzo ai re, né rimenarli
su quella
lingua con villane aringhe,
né del ritorno t'impacciar, ché il fine
di
queste cose al nostro sguardo è oscuro,
né sappiam se felice o
sventurato
questo ritorno riuscir ne debba.
Ma di tue contumelie al sommo
Atride
so ben io lo perché: donato il vedi
di molti doni dagli achivi
eroi,
per ciò ti sbracci a maledirlo. Or io
cosa dirotti che vedrai
compiuta.
Se com'oggi insanir più ti ritrovo,
caschimi il capo dalle
spalle, e detto
di Telemaco il padre io più non sia,
mai più, se non
t'afferro, e delle vesti
tutto nudo, da questo almo consesso
non ti caccio
malconcio e piangoloso.
Sì dicendo, le terga gli percuote
con lo scettro e
le spalle. Si contorce
e lagrima dirotto il manigoldo
dell'aureo scettro
al tempestar, che tutta
gli fa la schiena rubiconda; ond'egli
di dolor
macerato e di paura
s'assise, e obbliquo riguardando intorno
col dosso
della man si terse il pianto.
Rallegrò quella vista i mesti Achivi,
e
surse in mezzo alla tristezza il riso;
e fu chi vòlto al suo vicin
dicea:
Molte in vero d'Ulisse opre vedemmo
eccellenti e di guerra e di
consiglio,
ma questa volta fra gli Achei, per dio!
fe' la più bella delle
belle imprese,
frenando l'abbaiar di questo cane
dileggiator. Che sì, che
all'arrogante
passò la frega di dar morso ai regi!
Mentre questo dicean,
levossi in piedi
e collo scettro di parlar fe' cenno
l'espugnatore di
cittadi Ulisse.
In sembianza d'araldo accanto a lui
la fiera Diva dalle
luci azzurre
silenzio a tutti impose, onde gli estremi
del par che i primi
udirne le parole
potessero, ed in cor pesarne il senno.
Allora il saggio
diè principio: Atride,
questi Achivi di te vonno far oggi
il più infamato
de' mortali. Han posto
le promesse in obblìo fatte al partirsi
d'Argo alla
volta d'Ilïon, giurando
di non tornarsi che Ilïon caduto.
Guardali: a
guisa di fanciulli, a guisa
di vedovelle sospirar li senti,
e a vicenda
plorar per lo desìo
di riveder le patrie mura. E in vero
tal qui si pate
traversìa, che scusa
il desiderio de' paterni tetti.
Se a navigante da
vernal procella
impedito e sbattuto in mar che freme,
pur di un mese è
crudel la lontananza
dalla consorte, che pensar di noi
che già vedemmo del
nono anno il giro
su questo lido? Compatir m'è forza
dunque agli Achivi,
se a mal cor qui stanno.
Ma dopo tanta dimoranza è turpe
vôti di gloria
ritornar. Deh voi,
deh ancor per poco tollerate, amici,
tanto indugiate
almen, che si conosca
se vero o falso profetò Calcante.
In cuor riposte ne
teniam noi tutti
le divine parole, e voi ne foste
testimoni, voi sì quanti
la Parca
non aveste crudel. Parmi ancor ieri
quando le navi achee di lutto
a Troia
apportatrici in Aulide raccolte,
noi ci stavamo in cerchio ad una
fonte
sagrificando sui devoti altari
vittime elette ai Sempiterni,
all'ombra
d'un platano al cui piè nascea di pure
linfe il zampillo. Un
gran prodigio apparve
subitamente. Un drago di sanguigne
macchie spruzzato
le cerulee terga,
orribile a vedersi, e dallo stesso
re d'Olimpo spedito,
ecco repente
sbucar dall'imo altare, e tortuoso
al platano avvinghiarsi.
Avean lor nido
in cima a quello i nati tenerelli
di passera feconda,
latitanti
sotto le foglie: otto eran elli, e nona
la madre. Colassù
l'angue salito
gl'implumi divorò, miseramente
pigolanti. Plorava i dolci
figli
la madre intanto, e svolazzava intorno
pietosamente; finché ratto il
serpe
vibrandosi afferrò la meschinella
all'estremo dell'ala, e lei che
l'aure
empiea di stridi, nella strozza ascose.
Divorata co' figli anco la
madre,
del vorator fe' il Dio che lo mandava
nuovo prodigio; e lo converse
in sasso.
Stupidi e muti ne lasciò del fatto
la meraviglia, e a noi, che
dell'orrendo
portento fra gli altari intervenuto
incerti ci stavamo e
paventosi,
Calcante profetò: Chiomati Achivi,
perché muti così? Giove ne
manda
nel veduto prodigio un tardo segno
di tardo evento, ma d'eterno
onore.
Nove augelli ingoiò l'angue divino,
nov'anni a Troia ingoierà la
guerra,
e la città nel decimo cadrà.
Così disse il profeta, ed ecco
omai
tutto adempirsi il vaticinio. Or dunque
perseverate, generosi
Achei,
restatevi di Troia al giorno estremo.
Levossi a questo dire un alto
grido,
a cui le navi con orribil eco
rispondean, grido lodator del
saggio
parlamento d'Ulisse. Ed incalzando
quei detti il vecchio cavalier
Nestorre,
Oh vergogna, dicea; sul vostro labbro
parole intesi di fanciulli
a cui
nulla cal della guerra. Ove n'andranno
i giuramenti, le promesse e i
tanti
consigli de' più saggi e i tanti affanni,
le libagioni degli Dei, la
fede
delle congiunte destre? Dissipati
n'andran col fumo dell'altare?
Achei,
noi contendiamo di parole indarno,
e in vane induge il tempo si
consuma,
che dar si debbe a salutar riparo.
Tien fermo, Atride, il tuo
coraggio, e fermo
su gli Achei nelle pugne alza lo scettro:
ed in
proposte, che d'effetto vote
cadran mai sempre, marcir lascia i pochi
che
in disparte consultano se in Argo
redir si debba, pria che falsa o vera
si
conosca di Giove la promessa.
Io ti fo certo che il saturnio figlio,
il
giorno che di Troia alla ruïna
sciolser gli Achivi le veloci antenne,
non
dubbio cenno di favor ne fece
balenando a diritta. Alcun non sia
dunque
che parli del tornarsi in Argo,
se prima in braccio di troiana sposa
non
vendica d'Elèna il ratto e i pianti.
Se taluno pur v'ha che voglia a
forza
di qua partirsi, di toccar si provi
il suo naviglio, e troverà
primiero
la meritata morte. Tu frattanto
pria ti consiglia con te stesso,
o sire,
indi cogli altri, né sprezzar l'avviso
ch'io ti porgo. Dividi i
tuoi guerrieri
per curie e per tribù, sì che a vicenda
si porga aita una
tribù con l'altra,
l'una con l'altra curia. A questa guisa,
obbedendo agli
Achei, ti fia palese
de' capitani a un tempo e de' soldati
qual siasi il
prode e quale il vil; ché ognuno
con emula virtù pel suo
fratello
combatterà. Conoscerai pur anco
se nume avverso, o codardìa de'
tuoi,
o poca d'armi maestrìa ti tolga
delle dardanie mura la
conquista.
Saggio vegliardo, gli rispose Atride,
in tutti della guerra i
parlamenti
nanzi a tutti tu vai. Piacesse a Giove,
a Minerva piacesse e al
santo Apollo,
ch'altri dieci io m'avessi infra gli Achei
a te pari in
consiglio; ed atterrata
cadrìa ben tosto la città troiana.
Ma me l'Egìoco
Giove in alti affanni
sommerse, e incauto mi sospinse in vane
gare e
contese. Di parole avemmo
gran lite Achille ed io d'una fanciulla,
ed io
fui primo all'ira. Ma se fia
che in amistà si torni, un sol momento
non
tarderà di Troia il danno estremo.
Or via, di cibo a ristorar le
forze
itene tutti per la pugna. Ognuno
l'asta raffili, ognun lo scudo
assetti,
di copioso alimento ognun governi
i corridor veloci, e
diligente
visiti il cocchio, e mediti il conflitto;
onde questo sia giorno
di battaglia
tutto e di sangue, e senza posa alcuna,
finché la notte non
estingua l'ire
de' combattenti. Di guerrier sudore
bagnerassi la soga
dello scudo
sui caldi petti, verrà manco il pugno
sovra il calce
dell'asta, e destrier molli
trarranno il cocchio con infranta
lena.
Qualunque io poscia scorgerò che lungi
dalla pugna si resti appo le
navi
neghittoso, non fia chi salvo il mandi
dalla fame de' cani e degli
augelli.
Così disse, e al finir di sue parole
mandâr gli Achivi un
altissimo grido
somigliante al muggir d'onda spezzata
all'alto lido ove il
soffiar la caccia
di furioso Noto incontro ai fianchi
di prominente
scoglio, flagellato
da tutti i venti e da perpetue spume.
Si levâr
frettolosi, si dispersero
per le navi, destâr per tutto il lido
globi di
fumo, ed imbandîr le mense.
Chi a questo dio sacrifica, chi a quello,
al
suo ciascun si raccomanda, e il prega
di camparlo da morte nella pugna.
Ma
il re de' prodi Agamennóne un pingue
toro quinquenne al più possente
nume
sagrifica, e convita i più prestanti:
Nestore primamente e
Idomenèo,
quindi entrambi gli Aiaci, e di Tidèo
l'inclito figlio, e sesto
il divo Ulisse.
Spontaneo venne Menelao, cui noto
era il travaglio del
fratello. E questi
fêr di sé stessi una corona intorno
alla vittima, e
preso il salso farro
nel mezzo Agamennóne orando disse:
Glorioso de' nembi
adunatore
Massimo Giove abitator dell'etra,
pria che il sole tramonti e
l'aria imbruni,
fa che fumanti al suol di Priamo io getti
gli alti palagi,
e d'ostil fiamma avvampi
le regie porte; fa che la mia lancia
squarci
l'usbergo dell'ettòreo petto,
e che dintorno a lui molti suoi fidi
boccon
distesi mordano la polve.
Disse; ed il nume l'olocausto accolse,
ma non il
voto, e a lui più lutto ancora
preparando venìa. Finito il prego
e sparso
il farro, ed incurvato all'ara
della vittima il collo, la scannaro,
la
discuoiaro, ne squartâr le cosce,
le rivestîr di doppio zirbo, e
sopra
poservi i crudi brani. Indi la fiamma
d'aride schegge alimentando, a
quella
cocean gli entragni nello spiedo infissi.
Adusti i fianchi, e fatto
delle sacre
viscere il saggio, lo restante in pezzi
negli schidon
confissero, ed acconcia-
-mente arrostito ne levaro il tutto.
Finita
l'opra, apparecchiâr le mense,
e a suo talento vivandò ciascuno.
Di cibo
sazi e di bevanda, prese
a così dire il cavalier Nestorre:
Re delle genti
glorioso Atride
Agamennón, si tolga ogni dimora
all'impresa che in pugno
il Dio ne pone.
Degli araldi la voce alla rassegna
chiami sul lido i
loricati Achei,
e noi scorriamo le raccolte squadre,
e di Marte destiam
l'ira e il desìo.
Assentì pronto il sire, ed al suo cenno
l'acuto grido
degli araldi diede
della pugna agli Achivi il fiero invito.
Corsero quelli
frettolosi; e i regi
di Giove alunni, che seguìan l'Atride,
li ponean
ratti in ordinanza. Errava
Minerva in mezzo, e le splendea sul
petto
incorrotta, immortal la prezïosa
Egida da cui cento eran
sospese
frange conteste di finissim'oro,
e valea cento tauri ogni
gherone.
In quest'arme la Diva folgorando
concitava gli Achivi, ed
accendea
l'ardir ne' petti, e li facea gagliardi
a pugnar fieramente e
senza posa.
Allor la guerra si fe' dolce al core
più che il volger le vele
al patrio nido.
Siccome quando la vorace vampa
sulla montagna una gran
selva incende,
sorge splendor che lungi si propaga;
così al marciar delle
falangi achive
mandan l'armi un chiaror che tutto intorno
di tremuli
baleni il cielo infiamma.
E qual d'oche o di gru volanti eserciti
ovver di
cigni che snodati il tenue
collo van d'Asio ne' bei verdi a pascere
lungo
il Caïstro, e vagolando esultano
su le larghe ale, e nel calar
s'incalzano
con tale un rombo che ne suona il prato;
così le genti achee
da navi e tende
si diffondono in frotte alla pianura
del divino Scamandro,
e il suol rimbomba
sotto il piè de' guerrieri e de' cavalli
terribilmente.
Nelle verdi lande
del fiume s'arrestâr gremìti e spessi
come le foglie e i
fior di primavera.
Conti lo sciame dell'impronte mosche
che ronzano in
april nella capanna,
quando di latte sgorgano le secchie,
chi contar degli
Achei desìa le torme
anelanti de' Teucri alla rovina.
Ma quale è de'
caprai la maestrìa
nel divider le greggie, allor che il pasco
le confonde
e le mesce, a questa guisa
in ordinate squadre i capitani
schieravano gli
Achivi alla battaglia.
Agamennón qual tauro era nel mezzo,
che nobile e
sovrana alza la fronte
sovra tutto l'armento e lo conduce:
e tal fra tanti
eroi Giove gl'infonde
e garbo e maestà, che Marte al cinto,
Nettunno al
petto, e il Folgorante istesso
negli sguardi somiglia e nella testa.
Muse
dell'alto Olimpo abitatrici,
or voi ne dite (ché voi tutte, o
Dive,
riguardate le cose e le sapete:
a noi nessuna è conta, e ne
susurra
di fuggitiva fama un'aura appena),
dite voi degli Achivi i
condottieri.
Della turba infinita io né parole
farò né nome, ché bastanti
a questo
non dieci lingue mi sarìan né dieci
bocche, né voce pur di ferreo
petto.
Di tutta l'oste ad Ilio navigata
divisar la memoria altri non
puote
che l'alme figlie dell'Egìoco Giove.
Sol dunque i duci, e sol le
navi io canto.
Erano de' Beozi i capitani
Arcesilao, Leìto e Penelèo
e
Protenore e Clonio, e traean seco
d'Iria i coloni e d'Aulide petrosa,
con
quei di Scheno e Scolo, e quei dell'erta
Eteono e di Tespia, e quei che
manda
la spazïosa Micalesso e Grea;
e quei che d'Arma la contrada
edùca,
ed Ilesio ed Erìtre ed Eleone
e Peteone ed Ila ed
Ocalèa.
Seguono i prodi della ben costrutta
Medeone e di Cope, e gli
abitanti
d'Eutresi e Tisbe di colombe altrice.
Di Coronèa vien dopo e
dell'erbosa
Alïarto e di Glissa e di Platèa
e d'Ipotebe dalle salde
mura
una gran torma: ed altri abbandonaro
le sacrate a Nettunno inclite
selve
d'Onchesto, e d'Arne i pampinosi colli;
altri il pian di Midèa;
altri di Nisa
gli almi boschetti, e gli ultimi confini
d'Antèdone. Di
questi eran cinquanta
le navi, e ognuna cento prodi e venti,
fior di
beozia gioventù, portava.
Dell'Orcomèno Minïèo gli eletti,
misti a quei
d'Aspledóne, hanno a lor duci
Ascalafo e Ialmeno, ambo di Marte
egregia
prole. Ne' secreti alberghi
d'Attore Azìde partorilli Astioche
vereconda
fanciulla, alle superne
stanze salita, e al forte iddio commista
in
amplesso furtivo. Eran di questi
trenta le navi che schierârsi al
lido.
Regge la squadra de' Focensi il cenno
di Schedio e d'Epistròfo,
incliti figli
del generoso Naubolìde Ifìto.
Invìa questi guerrier la
discoscesa
balza di Pito, e Ciparisso e Crissa,
gentil paese, e Daulide e
Panope.
D'Anemoria e di Jampoli van seco
gli abitatori, e quei che del
Cefiso
beon l'onde sacre, e quei che di Lilèa
domano i gioghi alle cefisie
fonti.
Son quaranta le prore al mar fidate
da questi prodi, e tutte in
ordinanza
de' Beozî disposte al manco lato.
Di Locride guidava i
valorosi
Aiace d'Oïlèo, veloce al corso.
Di tutta la persona egli è
minore
del Telamonio, né minor di poco;
ma picciolo quantunque e non
coperto
che di lino torace, ei tutti avanza
e Greci e Achivi nel vibrar
dell'asta.
Di Cino, di Callïaro e d'Opunte
lo seguono i deletti, e quei di
Bessa,
e quei che i colti dell'amena Augèe
e di Scarfe lasciâr, misti di
Tarfa
ai duri agresti, e quei di Tronio a cui
il Boagrio torrente i campi
allaga.
Venti e venti il seguìan preste carene
della locrese gioventù
venuta
di là dai fini della sacra Eubèa.
Ma gl'incoli d'Eubèa gli arditi
Abanti,
Eretrïensi, Calcidensi, e quelli
dell'aprica vitifera Istïea,
e
di Cerinto e in una i marinari,
e i montanari dell'alpestre Dio,
e quei di
Stira e di Caristo han duce
il bellicoso Elefenòr, figliuolo
di
Calcodonte, e sir de' prodi Abanti.
Snellissimi di piè portan
costoro
fiocchi di chiome su la nuca, egregi
combattitori, a maraviglia
sperti
nell'abbassar la lancia, e sul nemico
petto smagliati fracassar gli
usberghi.
E quaranta di questi eran le vele.
Della splendida Atene ecco
gli eroi,
popolo del magnanimo Erettèo
cui l'alma terra partorì.
Nudrillo
ed in Atene il collocò Minerva
alla sant'ombra de' suoi pingui
altari,
ove l'attica gente a statuito
giro di soli con agnelli e
tauri
placa la Diva. Guidator di questi
era il Petìde Menestèo. Non
vede
pari il mondo a costui nella scïenza
di squadronar cavalli e fanti.
Il solo
Nestor l'eguaglia, perché d'anni il vince.
Cinquanta navi ha seco.
Unîrsi a queste
sei altre e sei di Salamina uscite,
al Telamonio Aiace
obbedienti.
Seguìa l'eletta de' guerrier, cui d'Argo
mandava la pianura e
la superba
d'ardue mura Tirinto e le di cupo
golfo custodi Ermïone ed
Asìne.
Con essi di Trezene e della lieta
di pampini Epidauro e
d'Eïone
venìa la squadra; e dopo questa un fiero
di giovani drappello che
d'Egina
lasciò gli scogli e di Masete. A questi
tre sono i duci, il marzio
Dïomede,
Stènelo dell'altero Capanèo
diletta prole, e il somigliante a
nume
Eurïalo figliuol di Mecistèo
Talaionide. Ma del corpo
tutto
condottiero supremo è Dïomede.
E sono ottanta di costor le
antenne.
Ma ben cento son quelle a cui comanda
il regnatore Agamennóne
Atride.
Sua seguace è la gente che gl'invìa
la regale Micene e
l'opulenta
Corinto, e quella della ben costrutta
Cleone e quella che
d'Ornee discende,
e dall'amena Aretirèa. Né scarsa
fu de' suoi Sicïon,
seggio primiero
d'Adrasto. Anco Iperesia, anco l'eccelsa
Gonoessa e
Pellene ed Egio e tutte
le marittime prode, e tutta intorno
d'Elice la
campagna impoverîrsi
d'abitatori. E questa truppa è fiore
di gagliardi, e
la più di quante allora
schierârsi in campo. D'arme rilucenti
iva il duce
vestito, ed esultava
in suo segreto del vedersi il primo
fra tanti eroi; e
veramente egli era
il maggior di que' regi, e conducea
il maggior nerbo
delle forze achive.
Il concavo di balze incoronato
lacedemonio suol Sparta
e Brisèe,
e Fari e Messa di colombe altrice,
e Augìe la lieta e l'amiclèa
contrada,
Etila ed Elo al mar giacente e Laa,
queste tutte spedîr sovra
sessanta
prore i lor figli; e Menelao li guida
aïtante guerrier. Disgiunta
ei tiene
dalla fraterna la sua schiera, e forte
del suo proprio valor la
sprona all'armi,
di vendicar su i Teucri impazïente
l'onta e i sospir
della rapita Elèna.
Di novanta navigli capitano
veniva il veglio cavalier
Nestorre.
Di Pilo ei guida e dell'aprica Arene
gli abitanti e di Trio,
guado d'Alfèo,
e della ben fondata Epi, con quelli
a cui Ciparissente e
Anfigenìa
sono stanza, e Ptelèo ed Elo e Dorio,
Dorio famosa per l'acerbo
scontro
che col tracio Tamiri ebber le Muse
il giorno che d'Ecalia e dagli
alberghi
dell'ecaliese Eurìto ei fea ritorno.
Millantava costui che vinte
avrìa
al paragon del canto anco le Muse,
le Muse figlie dell'Egìoco
Giove.
Adirate le dive al burbanzoso
tolser la luce e il dolce canto e
l'arte
delle corde dilette animatrice.
Seguìa l'arcade schiera dalle
falde
del Cillene discesa e dai contorni
del tumulo d'Epìto, esperta
gente
nel ferir da vicino. Uscìa con essa
di campestri garzoni una
caterva,
che del Fenèo li paschi e il pecoroso
Orcomeno lasciâr. V'eran di
Ripe
e di Strazia i coloni e di Tegèa,
e quei d'Enispe tempestosa, e
quelli
cui dell'amena Mantinèa nutrisce
l'opima gleba e la stinfalia
valle
e la parrasia selva. Avean costoro
spiegate al vento di cinquanta e
dieci
navi le vele, che a varcar le negre
onde lor diè lo stesso rege
Atride
Agamennóne; perocché di studi
marinareschi all'Arcade non
cale.
D'intrepidi nell'arme e sperti petti
iva carca ciascuna, e la
reggea
d'Ancèo figliuolo il rege Agapenorre.
La squadra che consegue, e si
divide
quadripartita, ha quattro duci, e ognuno
a dieci navi accenna. Le
montaro
molti Epèi valorosi, e gli abitanti
di Buprasio e del sacro elèo
paese,
e di tutto il terren che tra il confine
di Mirsino ed Irmino si
racchiude,
e tra l'Olenia rupe e l'erto Alìsio.
Di Cteato figliuol
l'illustre Anfimaco
guida il primo squadron, Talpio il secondo
egregio
seme dell'Eurìto Attòride;
Dïore il terzo, generosa prole
d'Amarincèo. Del
quarto è correttore
il simigliante a nume Polisseno,
germe dell'Augeïade
Agastene.
Ai forti di Dulichio e delle sacre
Echinadi isolette, che
rimpetto
alle contrade elèe rompon l'opposto
pelago, a questi è condottier
Megete,
di sembiante guerrier pari a Gradivo.
Il generò Filèo diletto a
Giove,
buon cavalier che dai paterni un giorno
odii sospinto alla dulichia
terra
migrò fuggendo, e v'ebbe impero. Il figlio
quaranta prore ad Ilïon
guidava.
Dei prodi Cefaleni, abitatori
d'Itaca alpestre e di Nerito
ombroso,
di Crocilèa, di Samo e di Zacinto
e dell'aspra Egelìpe e
dell'opposto
continente, di tutti è duce Ulisse
vero senno di Giove; e lo
seguièno
dodici navi di vermiglio pinte.
Ne spinge in mar quaranta il
capitano
degli Etoli Toante, a cui fu padre
Andrèmone; e traea seco le
torme
di Pleurone, d'Oleno e di Pilene,
quelle dell'aspra Calidone e
quelle
di Calcide. E raccolta era in Toante
degli Etòli la somma
signorìa
da che la Parca i figli ebbe percosso
del magnanimo Enèo, posto
col biondo
Meleagro infelice ei pur sotterra.
Il gran mastro di lancia
Idomenèo
guida i Cretesi che di Gnosso usciro,
di Litto, di Mileto e della
forte
Gortina e dalla candida Licasto
e di Festo e di Rizio, inclite
tutte
popolose contrade, ed altri molti
dell'alma Creta abitator, di
Creta
che di cento città porta ghirlanda.
Di questi tutti Idomenèo
divide
col marzio Merïon la glorïosa
capitananza; e ottanta navi han
seco.
Nove da Rodi ne varâr gli alteri
Rodïani per l'isola partiti
in
triplice tribù: Lindo, Jaliso,
e il biancheggiante di terren
Camiro.
L'Eraclide Tlepòlemo è lor duce,
grande e robusto battaglier che
al forte
Ercole un giorno Astïochèa produsse,
cui d'Efira e dal fiume
Selleente
seco addusse l'eroe, poiché distrutto
v'ebbe molte cittadi e
molta insieme
gioventù generosa. Entro i paterni
fidi alberghi Tlepòlemo
cresciuto
di subitaneo colpo a morte mise
Licinnio, al padre avuncolo
diletto,
e canuto guerrier. Ratto costrusse
alquante navi l'uccisore, e
accolti
molti compagni, si fuggì per l'onde,
l'ira vitando e il minacciar
degli altri
figli e nipoti dell'erculeo seme.
Dopo error molti e stenti i
fuggitivi
toccâr di Rodi il lido, e qui divisi
tutti in tre parti posero
la stanza:
e il gran re de' mortali e degli Dei
li dilesse, e su lor
piovve la piena
d'infinita mirabile ricchezza.
Nirèo tre navi conducea da
Sima,
Nirèo d'Aglaia figlio e di Caropo,
Nirèo di quanti navigaro a
Troia
il più vago, il più bel, dopo il Pelìde
beltà perfetta. Ma un
imbelle egli era;
e turba lo seguìa di pochi oscuri.
Quei che tenean
Nisiro e Caso e Cràpato
e Coo seggio d'Euripilo, e le prode
dell'isole
Calidne, il cenno regge
d'Antifo e di Fidippo, ambo figliuoli
di Tessalo
Eraclìde. E trenta navi
aravano a costor l'onda marina.
Ditene adesso, o
Dive, i valorosi
d'Alo e d'Alope e del pelasgic'Argo
e di Trachine; né di
Ftia né d'Ellade,
di bellissime donne educatrice,
gli eroi tacete,
Mirmidon chiamati,
ed Elleni ed Achei. Sopra cinquanta
prore a costoro è
capitano Achille.
Ma di guerra in que' cor tace il pensiero,
ch'ei più non
hanno chi a pugnar li guidi.
Il divino Pelìde appo le navi
neghittoso si
giace, e della tolta
Briseide l'ira si smaltisce in petto,
bella di belle
chiome alma fanciulla
che in Lirnesso ei s'avea con molto
affanno
conquistata per mezzo alla ruïna
di Lirnesso e di Tebe, a morte
spinti
del bellicoso Eveno ambo i figliuoli
Epistrofo e Minete. Per
costei
languìa nell'ozio il mesto eroe; ma il giorno
del suo destarsi
all'armi era vicino.
Quei che Filàce e la fiorita Pìrraso,
terra a Cerere
sacra, e la feconda
di molto gregge Itóne, e quei che manda
la marittima
Antrone e di Ptelèo
l'erboso suol, reggea, mentre che visse,
il marzïal
Protesilao. Ma lui
la negra terra allor chiudea nel seno,
e la moglie in
Filàce derelitta
le belle gote lacerava, e tutta
vedova del suo re piangea
la casa.
Primo ei balzossi dalle navi, e primo
trafitto cadde dal dardanio
ferro:
ma senza duce non restò sua schiera,
ché Podarce or la guida,
esimio figlio
del Filacide Ificlo, che di pingui
lanose torme avea molta
ricchezza.
Del magnanimo ucciso era Podarce
minor germano; ma perché quel
grande
non pur d'anni il vincea, ma di prodezza,
l'egregio estinto duce
era pur sempre
di sua schiera il desìo. Di questa squadra
son quaranta le
navi in ordinanza.
Gli abitator di Fere, appo il bebèo
stagno, e quelli di
Bebe e di Glafira
e dell'alta Jaolco avean salpato
con undici navigli.
Eumelo è duce,
germe caro d'Admeto, e la divina
in fra le donne Alcesti il
partorìo,
delle figlie di Pelia la più bella.
Di Metone, Taumacia e
Melibèa
e dell'aspra Olizone era venuto
con sette prore un fier drappello,
e carca
di cinquanta gagliardi era ciascuna,
sperti di remo e d'arco e di
battaglia.
Famoso arciero li reggea da prima
Filottete; ma questi egro
d'acuti
spasmi ora giace nella sacra Lenno,
ove da tetra di pestifer
angue
piaga offeso gli Achei l'abbandonaro.
Ma dell'afflitto eroe
gl'ingrati Argivi
ricorderansi, e in breve. Intanto il fido
suo stuol si
strugge del desìo di lui,
ma non va senza duce. Lo governa
Medon cui
spurio figlio ad Oïlèo
eversor di città Rena produsse.
Que' poi che Tricca
e la scoscesa Itome
ed Ecalia tenean seggio d'Eurito,
han capitani
d'Esculapio i figli,
della paterna medic'arte entrambi
sperti assai,
Podalirio e Macaone.
Fan trenta navi di costor la schiera.
Ormenio,
Asterio e l'iperèe fontane,
e del Titano le candenti cime
i lor prodi
mandâr sotto il comando
del chiaro figlio d'Evemone Eurìpilo
da quaranta
carene accompagnato.
D'Argissa e di Girton, d'Orte e d'Elona
e della
bianca Oloossona i figli
procedono suggetti al fermo e forte
Polipete,
figliuol di Piritòo,
del sempiterno Giove inclito seme;
e generollo a
Piritòo l'illustre
Ippodamìa quel dì che dei bimembri
irti Centauri ei fe'
l'alta vendetta,
e li cacciò dal Pelio, e agli Eticesi
li confinò. Né solo
è Polipete,
ma seco è Leontèo, marzio germoglio
del Cenìde magnanimo
Corone.
e questa è squadra di quaranta antenne.
Venti da Cifo e due Gunèo
ne guida
d'Enïeni onerose e di Perebi,
franchi soldati, e di color che
intorno
alla fredda Dodona avean la stanza,
e di quelli che solcano gli
ameni
campi cui l'onda titaresia irriga,
rivo gentil che nel Penèo
devolve
le sue bell'acque, né però le mesce
con gli argenti penèi, ma vi
galleggia
come liquida oliva; ché di Stige
(giuramento tremendo) egli è
ruscello.
Ultimo vien di Tentredone il figlio
il veloce Protòo, duce ai
Magneti
dal bel Penèo mandati e dal frondoso
Pelio. Il seguìan quaranta
navi. E questi
fur dell'achiva armata i capitani.
Dimmi or, Musa, chi
fosse il più valente
di tanti duci e de' cavalli insieme
che gli Atridi
seguîr. Prestanti assai
eran le ferezïadi puledre
ch'Eumèlo maneggiava,
agili e ratte
come penna d'augello, ambe d'un pelo,
d'età pari e di dosso
a dritto filo.
Il vibrator del curvo arco d'argento
Febo educolle ne'
pïerii prati,
e portavan di Marte la paura
nelle battaglie. Degli eroi
primiero
era l'Aiace Telamonio, mentre
perseverò nell'ira il grande
Achille,
il più forte di tutti; e innanzi a tutti
ivan di pregio i
corridor portanti
l'incomparabil Tessalo. Ma questi
nelle ricurve navi si
giacea
inoperoso, e sempre spirante ira
contro l'Atride Agamennóne.
Intanto
lunghesso il mare al disco, all'asta, all'arco
i suoi guerrieri si
prendean diletto.
Ozïosi i cavalli appo i lor cocchi
pasceano l'apio
paludoso e il loto,
e i cocchi si giacean coperti e muti
nelle tende dei
duci, e i duci istessi,
del bellicoso eroe desiderosi,
givan pel campo
vagabondi e inerti.
Movean le schiere intanto in vista eguali
a un mar di
foco inondator, che tutta
divorasse la terra; ed alla pesta
de'
trascorrenti piedi il suol s'udìa
rimbombar. Come quando il
fulminante
irato Giove Inarime flagella
duro letto a Tifèo, siccome è
grido;
così de' passi al suon gemea la terra.
Mentre il campo traversano
veloci
gli Achei, col piè che i venti adegua, ai Teucri
Iri discese di
feral novella
apportatrice, e la spedìa di Giove
un comando. Tenean questi
consiglio
giovani e vecchi, congregati tutti
ne' regali vestiboli.
Mischiossi
tra lor la Diva, di Polìte assunta
l'apparenza e la voce. Era
Polìte
di Priamo un figlio che, del piè fidando
nella prestezza, stavasi
de' Teucri
esploratore al monumento in cima
dell'antico Esïeta, e vi
spïava
degli Achivi la mossa. In queste forme
trasse innanzi la Diva, e al
re conversa,
Padre, disse, che fai? Sempre a te piace
il molto sermonar
come ne' giorni
della pace; né pensi alla ruina
che ne sovrasta. Molte
pugne io vidi,
ma tali e tante non vid'io giammai
ordinate falangi.
Numerose
al pari delle foglie e dell'arene
procedono nel campo a dar
battaglia
sotto Troia. Tu dunque primamente,
Ettore, ascolta un mio
consiglio, e il poni
ad effetto. Nel sen di questa grande
città diversi di
diverse lingue
abbiam guerrieri di soccorso. Ognuno
de' lor duci si ponga
alla lor testa,
e tutti in punto di pugnar li metta.
Conobbe Ettorre della
Dea la voce,
e di subito sciolse il parlamento.
Corresi all'armi, si
spalancan tutte
le porte, e folti sboccano in tumulto
fanti e cavalli.
Alla città rimpetto
solitario nel piano ergesi un colle
a cui s'ascende
d'ogni parte. È detto
da' mortai Batïèa, dagl'immortali
tomba
dell'agilissima Mirinna;
ivi i Teucri schierârsi e i collegati.
Capitan
de' Troiani è il grande Ettorre,
d'eccelso elmetto agitator. Lo segue
de'
più forti guerrier schiera infinita
coll'aste in pugno di ferir
bramose.
Ai Dardani comanda il valoroso
figliuol d'Anchise Enea cui la
divina
Venere in Ida partorì, commista
Diva immortale ad un mortal; ned
egli
solo comanda, ma ben anco i due
Antenòridi Archìloco e Acamante
in
tutte guise di battaglia esperti.
Quei che dell'Ida alle radici
estreme
hanno stanza in Zelèa ricchi Troiani
la profonda beventi acqua
d'Asepo,
Pandaro guida, licaonio figlio,
cui fe' dono dell'arco Apollo
istesso.
Della città d'Apesio e d'Adrastèa,
di Pitïèa la gente e
dell'eccelsa
ferèa montagna han duci Adrasto ed Anfio
corazzato di lino,
ambo rampolli
di Merope Percosio. Era costui
divinator famoso, ed a' suoi
figli
non consentìa l'andata all'omicida
guerra. Ma i figli non l'udir;
ché nero
a morir li traea fato crudele.
Mandâr Percote e Prazio e Sesto e
Abido
e la nobile Arisba i lor guerrieri,
ed Asio li conduce, Asio
figliuolo
d'Irtaco, e prence che d'Arisba venne
da fervidi portato alti
cavalli
alla riviera sellentèa nudriti.
Dalla pingue Larissa i
furibondi
lanciatori pelasghi Ippòtoo mena
con Pilèo, bellicosi ambo
germogli
del pelasgico Leto Teutamìde.
Acamante e l'eroe duce Piròo
i
Traci conducean quanti ne serra
l'estuoso Ellesponto; ed i Cicòni
del
giavellotto vibratori, Eufemo
del Ceade Trezeno alto nipote;
poi Pirecme i
Peòni a cui sul tergo
suonan gli archi ricurvi, e gli spedisce
la rimota
Amidone, e l'Assio, fiume
di larga correntìa, l'Assio di cui
non si spande
ne' campi onda più bella.
Dall'èneto paese ov'è la razza
dell'indomite
mule, conducea
di Pilemene l'animoso petto
i Paflagoni, di Citoro e
Sèsamo
e di splendide case abitatori
lungo le rive del Partenio
fiume,
e d'Egiàlo e di Cromna e dell'eccelse
balze eritine. Li seguìa la
squadra
degli Alizoni d'Alibe discesi,
d'Alibe ricca dell'argentea
vena.
Duci a questi eran Hodio ed Epistròfo,
e Cromi ai Misii e l'indovino
Ennòmo.
Ma con gli augurii il misero non seppe
schivar la Parca. Sotto
l'asta ei cadde
del Pelìde, quel dì che di nemica
strage vermiglio lo
Scamandro ei fece.
Forci ed Ascanio dëiforme al campo
dall'Ascania traean
le frigie torme
di commetter battaglia impazïenti.
Di Pilemene i figli
Antifo e Mestle,
alla gigèa palude partoriti,
ai Meonii eran duci, a
quelli ancora
che alla falda del Tmolo ebber la vita.
Quindi i Carii di
barbara favella
di Mileto abitanti e del frondoso
monte de' Ftiri e del
meandrio fiume
e dell'erte di Mìcale pendici.
Anfimaco a costor con Naste
impera,
figli di Nomïon, Naste un prudente,
Anfimaco un insano. Iva alla
pugna
carco d'oro costui come fanciulla:
stolto! ché l'oro allontanar non
seppe
l'atra morte che il giunse allo Scamandro.
Ivi il ferro achilleo lo
stese, e l'oro
preda del forte vincitor rimase.
Venìan di Licia alfine, e
dai rimoti
gorghi del Xanto i Licii, e li guidava
l'incolpabile Glauco e
Sarpedonte.
Libro
III
Poiché
sotto i lor duci ambo schierati
gli eserciti si fur, mosse il troiano
come
stormo d'augei, forte gridando
e schiamazzando, col romor che mena
lo
squadron delle gru, quando del verno
fuggendo i nembi l'oceàn sorvola
con
acuti clangori, e guerra e morte
porta al popol pigmeo. Ma taciturni
e
spiranti valor marcian gli Achivi,
pronti a recarsi di conserto aita.
Come
talor del monte in su la cima
di Scirocco il soffiar spande la nebbia
al
pastore odiosa, al ladro cara
più che la notte, né va lunge il guardo
più
che tiro di pietra: a questa guisa
si destava di polve una procella
sotto
il piè de' guerrieri che veloci
l'aperto campo trascorrean. Venuti
di poco
spazio l'un dell'altro a fronte
gli eserciti nemici, ecco Alessandro
nelle
prime apparir file troiane
bello come un bel Dio. Portava indosso
una
pelle di pardo, ed il ricurvo
arco e la spada; e due dardi guizzando
ben
ferrati ed aguzzi, iva de' Greci
sfidando i primi a singolar conflitto.
Il
vide Menelao dinanzi a tutti
venir superbo a lunghi passi; e quale
il cor
s'allegra di lïon che visto
un cervo di gran corpo o caprïolo,
spinto da
fame a divorarlo intende,
e il latrar de' molossi, e degli audaci
villan
robusti il minacciar non cura;
tale alla vista del Troian leggiadro
esultò
Menelao. Piena sperando
far sopra il traditor la sua vendetta,
balza
armato dal cocchio: e lui scorgendo
venir tra' primi, in cor turbossi il
drudo,
e della morte paventoso in salvo
si ritrasse tra' suoi. Qual chi
veduto
in montana foresta orrido serpe
risalta indietro, e per la balza
fugge
di paura tremante e bianco in viso,
tal fra le schiere de' superbi
Teucri,
l'ira temendo del figliuol d'Atreo,
l'avvenente codardo
retrocesse.
Ettore il vide, e con ripiglio acerbo
gli fu sopra gridando:
Ahi sciagurato!
ahi profumato seduttor di donne,
vile del pari che
leggiadro! oh mai
mai non fossi tu nato, o morto fossi
anzi ch'esser
marito, ché tal fôra
certo il mio voto, e per te stesso il meglio,
più che
carco d'infamia ir mostro a dito.
Odi le risa de' chiomati Achei,
che al
garbo dell'aspetto un valoroso
ti suspicâr da prima, e or sanno a
prova
che vile e fiacca in un bel corpo hai l'alma.
E vigliacco qual sei
tu il mar varcasti
con eletti compagni? e visitando
straniere genti tu
dall'apia terra
donna d'alta beltà, moglie d'eroi,
rapir potesti, e il
padre e Troia e tutti
cacciar nelle sciagure, agl'inimici
farti bersaglio,
ed infamar te stesso?
Perché fuggi? perché di Menelao
non attendi lo
scontro? Allor saprai
di qual prode guerrier t'usurpi e godi
la florida
consorte: né la cetra
ti varrà né il favor di Citerea,
né il vago aspetto
né la molle chioma,
quando cadrai riverso nella polve.
Oh fosser meno
paurosi i Teucri!
ché tu n'andresti già, premio al mal fatto,
d'un
guarnello di sassi rivestito.
Ed il vago a rincontro: Ettore, il veggo,
a
ragion mi rampogni, ed io t'escuso.
Ma quel duro tuo cor scure
somiglia
che ben tagliente una navale antenna
fende, vibrata da gagliardi
polsi,
e nerbo e lena al fenditor raddoppia.
Non rinfacciarmi di Ciprigna
i doni,
ché, qualunque pur sia, gradito e bello
sempre è il dono d'un Dio;
né il conseguirlo
è nel nostro volere. Or se t'aggrada
ch'io scenda a
duellar, fa che l'achee
squadre e le teucre seggansi tranquille,
e me nel
mezzo e Menelao mettete
d'Elena armati a terminar la lite,
e di tutto il
tesor di ch'ella è ricca.
Qual si vinca di noi s'abbia la donna
con tutto
insieme il suo regal corredo,
e via la meni alle sue case; e tutti
su le
percosse vittime giurando
amistà, voi di Troia abiterete
l'alma terra
securi, e quelli in Argo
faran ritorno e nell'Acaia in braccio
alle vaghe
lor donne. - A questo dire
brillò di gioia Ettorre, ed elevando
l'asta
brandita e procedendo in mezzo,
di sostarsi fe' cenno alle sue
schiere.
Tutte fêr alto: ma gl'infesti Achei
a saettar si diero alla sua
mira
e dardi e sassi, infin che forte alzando
la voce Agamennón: Cessate,
ei grida,
cessate, Argivi; non vibrate, Achei,
ch'egli par che parlarne il
bellicoso
Ettore brami. - Riverenti tutti
cessâr le offese, e si fur
queti. Allora
fra questo campo e quello Ettor sì disse:
Troiani, Achivi,
dal mio labbro udite
ciò che parla Alessandro, esso per cui
fra noi surta
ed accesa è tanta guerra.
Egli vuol che de' Teucri e degli Achei
quete
stian l'armi, e sia da solo a solo
col bellicoso Menelao decisa
d'Elena la
querela, e in un di quanta
ricchezza le pertien. Quegli de' due
che
rimarrassi vincitor, si prenda
la bella donna, e in sua magion
l'adduca
col tutto che possiede: e sia tra noi
con saldi patti l'amistà
giurata.
Disse; e tutti ammutîr. Ma non già muto
si restò Menelao, che
doloroso,
Me pur, gridava, me me pure udite,
ché il primo offeso mi son
io. Fra' Greci
bramo io pur diffinita e fra' Troiani
questa lite una volta
e le sofferte
molte sventure per la mia ragione
e per l'oltraggio
d'Alessandro. Or quello
perisca di noi due, che dalla Parca
è dannato a
perire; e voi con pace
vi separate. Una negr'agna adunque
svenate, o
Teucri, all'alma Terra, e un agno
di bianco pelo al Sole: un terzo a
Giove
offrirassi da noi. Ma venga all'ara
la maestà di Prïamo, e la
pace
giuri egli stesso su le sacre fibre
(ché spergiuri per prova e senza
fede
io conosco i suoi figli), onde protervo
nessun di Giove i giuramenti
infranga.
Incostante, com'aura, è per natura
de' giovani il pensier; ma
dove il senno
intervien de' canuti, a cui presenti
son le passate e le
future cose,
ivi è felice d'ambe parti il fine.
Sì disse; e rallegrò
Teucri ed Achei
la dolce speme di finir la guerra.
Schieraro i cocchi e ne
smontâr: svestiti
quindi dell'armi, le adagiâr su l'erba,
l'une appresso
dell'altre, e breve spazio
separava le schiere. Alla cittade
due
banditori, a trarne i sacri agnelli
e a chiamar ratti il padre, Ettore
invìa:
invìa del pari il rege Agamennóne
alle navi Taltibio, onde la
terza
ostia n'adduca; e obbediente ei corse.
Scese intanto dal cielo
ambasciatrice
Iri ad Elèna dalle bianche braccia,
della cognata Laodice
assunto
il sembiante gentil, di Laodice
che pregiata del prence
Elicaone,
d'Antènore figliuolo, era consorte,
e tra le figlie prïamee
tenuta
la più vaga. Trovolla che tessea
a doppia trama una splendente e
larga
tela, e su quella istorïando andava
le fatiche che molte a sua
cagione
soffrìano i Teucri e i loricati Achei.
La Diva innanzi le si fece,
e disse:
Sorgi, sposa diletta, a veder vieni
de' Troiani e de' Greci un
ammirando
spettacolo improvviso. Essi che dianzi
di sangue ingordi
lagrimosa guerra
si fean nel campo, or fatto han tregua, e queti
seggonsi
e curvi su gli scudi in mezzo
alle lunghe lor picche al suol
confitte.
Alessandro frattanto e Menelao
per te coll'asta in singolar
certame
combatteranno, e tu verrai chiamata
del prode vincitor cara
consorte.
Con questo ragionar la Dea le mise
un subito nel cor dolce
desìo
del primiero marito e della patria
e de' parenti. Ond'ella in bianco
velo
prestamente ravvolta, e di segrete
tenere stille rugiadosa il
ciglio,
della stanza n'usciva; e non già sola,
ma due donzelle la seguìan,
Climene
per grand'occhi lodata, e di Pitteo
Etra la figlia. Delle porte
Scee
giunser tosto alla torre, ove seduto
Priamo si stava, e con lui Lampo
e Clizio,
Pantòo, Timete, Icetaone e i due
spegli di senno Ucalegonte e
Antènore,
del popol senïori, che dell'armi
per vecchiezza deposto avean
l'affanno,
ma tutti egregi dicitor, sembianti
alle cicade che agli arbusti
appese
dell'arguto lor canto empion la selva.
Come vider venire alla lor
volta
la bellissima donna i vecchion gravi
alla torre seduti, con
sommessa
voce tra lor venìan dicendo: In vero
biasmare i Teucri né gli
Achei si denno
se per costei sì dïuturne e dure
sopportano fatiche. Essa
all'aspetto
veracemente è Dea. Ma tale ancora
via per mar se ne torni, e
in nostro danno
più non si resti né de' nostri figli.
Dissero; e il rege
la chiamò per nome:
Vieni, Elena, vien qua, figlia diletta,
siedimi
accanto, e mira il tuo primiero
sposo e i congiunti e i cari amici.
Alcuna
non hai colpa tu meco, ma gli Dei,
che contra mi destâr le
lagrimose
arme de' Greci. Or drizza il guardo, e dimmi
chi sia quel grande
e maestoso Acheo
di sì bel portamento? Altri l'avanza
ben di statura, ma
non vidi al mondo
maggior decoro, né mortale io mai
degno di tanta
riverenza in vista:
Re lo dice l'aspetto. - E la più bella
delle donne
così gli rispondea:
Suocero amato, la presenza tua
di timor mi rïempie e
di rispetto.
Oh scelta una crudel morte m'avessi,
pria che l'orme del tuo
figlio seguire,
il marital mio letto abbandonando
e i fratelli e la cara
figlioletta
e le dolci compagne! Al ciel non piacque;
e quindi è il pianto
che mi strugge. Or io
di ciò che chiedi ti farò contento.
Quegli è
l'Atride Agamennón di molte
vaste contrade correttor supremo,
ottimo re,
fortissimo guerriero,
un dì cognato a me donna impudica,
s'unqua fui degna
che a me tale ei fosse.
Disse; ed in lui maravigliando il vecchio
fisse il
guardo e sclamò: Beato Atride,
cui nascente con fausti occhi miraro
la
Parca e la Fortuna, onde il comando
di fior tanto d'eroi ti fu
sortito!
Sovviemmi il giorno ch'io toccai straniero
la vitifera Frigia. Un
denso io vidi
popolo di cavalli agitatore
dell'inclito Migdon schiere e
d'Otrèo,
che poste del Sangario alla riviera
avean le tende, ed io co'
miei m'aggiunsi
lor collegato, e fui del numer uno
il dì che a pugna le
virili Amàzzoni
discesero. Ma tante allor non fûro
le frigie torme no
quante or l'achee.
Visto un secondo eroe, di nuovo il vecchio
la donna
interrogò: Dinne chi sia
quell'altro, o figlia. Egli è di tutto il
capo
minor del sommo Agamennón, ma parmi
e del petto più largo e della
spalla.
Gittate ha l'armi in grembo all'erba, ed egli
come arïète si
ravvolve e scorre
tra le file de' prodi; e veramente
parmi di greggia
guidator lanoso
quando per mezzo a un branco si raggira
di candide
belanti, e le conduce.
Quegli è l'astuto laerziade Ulisse,
la donna
replicò, là nell'alpestre
suol d'Itaca nudrito, uom che ripieno
di molti
ingegni ha il capo e di consigli.
Donna, parlasti il ver, soggiunse il
saggio
Antènore. Spedito a dimandarti
col forte Menelao qua venne un
tempo
ambasciatore Ulisse, ed io fui loro
largo d'ospizio e d'accoglienze
oneste,
e d'ambo studïai l'indole e il raro
accorgimento. Ma venuto il
giorno
di presentarsi nel troian senato,
notai che, stanti l'uno e l'altro
in piedi,
il soprastava Menelao di spalla;
ma seduti, apparìa più augusto
Ulisse.
Come poi la favella e de' pensieri
spiegâr la tela, ognor succinto
e parco
ma concettoso Menelao parlava;
ch'uom di molto sermone egli non
era,
né verbo in fallo gli cadea dal labbro,
benché d'anni minor. Quando
poi surse
l'itaco duce a ragionar, lo scaltro
stavasi in piedi con lo
sguardo chino
e confitto al terren, né or alto or basso
movea lo scettro,
ma tenealo immoto
in zotica sembianza, e un dispettoso
detto l'avresti, un
uom balzano e folle.
Ma come alfin dal vasto petto emise
la sua gran voce,
e simili a dirotta
neve invernal piovean l'alte parole,
verun mortale non
avrebbe allora
con Ulisse conteso; e noi ponemmo
la maraviglia di quel suo
sembiante.
Qui vide un terzo il re d'eccelso e vasto
corpo, ed inchiese:
Chi quell'altro fia
che ha membra di gigante, e va sovrano
degli omeri e
del capo agli altri tutti? -
Il grande Aiace, rispondea racchiusa
nel
fluente suo vel la dìa Lacena,
Aiace, rocca degli Achei.
Quell'altro
dall'altra banda è Idomenèo: lo vedi?
ritto in piè fra'
Cretensi un Dio somiglia,
e de' Cretensi gli fan cerchio i duci.
Spesso ad
ospizio nelle nostre case
l'accolse Menelao, ben lo ravviso,
e ravviso con
lui tutti del greco
campo i primi, e potrei di ciascheduno
dir anco il
nome: ma li due non veggo
miei germani gemelli, incliti duci,
Càstore di
cavalli domatore,
e il valoroso lottator Polluce.
Forse di Sparta non son
ei venuti;
o venuti, di sé nelle battaglie
niegan far mostra, del mio
scorno ahi! forse
vergognosi, e dell'onta che mi copre.
Così parlava, né
sapea che spenti
il diletto di Sparta almo terreno
lor patrio nido li
chiudea nel grembo.
Venìan recando i banditori intanto
dalla città le
sacre ostie di pace,
due trascelti agnelletti, e della terra
giocondo
frutto generoso vino
chiuso in otre caprigno. Il messaggiero
Idèo recava
un fulgido cratere
ed aurati bicchier. Giunto al cospetto
del re vegliardo
sì l'invita e dice:
Sorgi, figliuol laomedonteo; nel campo
ti chiamano de'
Teucri e degli Achei
gli ottimati a giurar l'ostie percosse
d'un accordo.
Alessandro e Menelao
disputeransi colle lunghe lancie
l'acquisto della
sposa; e questa e tutte
sue dovizie daransi al vincitore.
Noi patteggiando
un'amistà fedele
Ilio securi abiteremo, e in Argo
daran volta gli Achei.
Sì disse; e strinse
il cor del vecchio la pietà del figlio.
A' suoi
sergenti nondimen comanda
d'aggiogargli i destrieri, e quelli al
cenno
pronti obbediro. Montò Priamo, e indietro
tratte le briglie, fe' su
l'alto cocchio
salirsi al fianco Antènore. Drizzaro
fuor delle Scee nel
campo i corridori.
De' Troi giunti al cospetto e degli Achei
scesero a
terra, e fra l'un campo e l'altro
procedean venerandi. Ad
incontrarli
tosto rizzossi Agamennón, rizzossi
l'accorto Ulisse; e i
risplendenti araldi
tutto venìan frattanto apparecchiando
dell'accordo il
bisogno, e nel cratere
mescean le sacre spume. Indi de' regi
dieder
l'acqua alle mani; e Agamennóne
tratto il coltello che alla gran
vagina
della spada portar solea sospeso,
de' consecrati agnei recise il
ciuffo:
e quinci in giro e quindi distributo
fu dagli araldi il sacro pelo
ai duci,
de' quai nel mezzo Agamennón, levando
e la voce e le man,
supplice disse:
Giove, d'Ida signor, massimo padre,
e sovra ogni altro
glorioso Iddio,
Sole che tutto vedi e tutto ascolti,
alma Tellure
genitrice, e voi
fiumi, e voi che punite ogni spergiuro
laggiù nel morto
regno, inferni Dei,
siate voi testimoni e in un custodi
del patto che
giuriam. Se a Menelao
darà morte Alessandro, egli in sua possa
Elena e
tutto il suo tesor si tegna;
e noi spedito promettiam ritorno
su
l'ondivaghe prore al patrio lido.
Ma se avverrà che Menelao di vita
spogli
Alessandro, i Teucri allor la donna
ne renderanno e l'aver suo con
ella,
pagando ammenda che convegna, e tale
che ne passi il ricordo anco ai
futuri.
Se Priamo e i figli suoi, spento Alessandro,
negheran di pagarla,
io qui coll'arme
sosterrò mia ragione, e rimarrovvi
finché punito il
mancator ne sia.
Disse; e col ferro degli agnelli incise
le mansuete gole,
e palpitanti
sul terren li depose e senza vita.
Ciò fatto, il sacro di
Lïeo licore
dal cratere attignendo, agl'Immortali
fean colle tazze
libagioni e voti;
e qualche Teucro e qualche Acheo s'intese
in questo
mentre così dire: O sommo
augustissimo Giove, e voi del cielo
Dii tutti
quanti, udite: A chi primiero
rompa l'accordo, sia Troiano o Greco,
possa
il cerèbro distillarsi, a lui
ed a' suoi figli, al par di questo vino,
e
adultera la moglie ir d'altri in braccio.
Così pregâr: ma chiuse a cotal
voto
Giove l'orecchio. Il re dardanio allora,
Uditemi, dicea, Teucri ed
Achei:
alla cittade io riedo. A qual de' due
troncar debba la Parca il
vital filo
sol Giove e gli altri Sempiterni il sanno.
Ma contemplar del
fiero Atride a fronte
un amato figliuol, vista sì cruda
gli occhi d'un
padre sostener non ponno.
Sì dicendo, sul cocchio le sgozzate
vittime pose
il venerando veglio,
e ascesovi egli stesso, e tratte al petto
le
pieghevoli briglie, al par con seco
fe' Antènore salire, e via con esso
al
ventoso Ilïon si ricondusse.
Ettore allora primamente e Ulisse
misurano la
lizza. Indi le sorti
scosser nell'elmo a chi primier dovesse
l'asta
vibrar. L'un campo intanto e l'altro
le mani alzando supplicava al
cielo,
e qualche labbro bisbigliar s'udìa:
Giove padre, che grande e
glorïoso
godi in Ida regnar, quello de' due,
che tra noi fu cagion di sì
gran lite,
fa che spento precipiti alla cupa
magion di Pluto, ed una salda
a noi
amistà ne concedi e patti eterni.
Fra questo supplicar l'elmo
squassava
Ettòr, guardando addietro: ed ecco uscire
di Paride la sorte.
Allor s'assise
al suo posto ciascun, vicino a' suoi
scalpitanti destrieri
e alle giacenti
armi diverse. Della ben chiomata
Elena intanto l'avvenente
sposo
Alessandro di fulgida armatura
tutto si veste. E pria di bei
schinieri
che il morso costrignea d'argentea fibbia,
cinse le tibie.
Quindi una lorica
del suo germano Licaon, che fatta
al suo sesto parea, si
pose al petto:
all'omero sospese il brando, ornato
d'argentei chiovi; un
poderoso scudo
di grand'orbe imbracciò; chiuse la fronte
nel ben temprato
e lavorato elmetto,
a cui d'equine chiome in su la cima
alta una cresta
orribilmente ondeggia.
Ultima prese una robusta lancia
che tutto empieagli
il pugno. In questo mentre
del par s'armava il bellicoso Atride.
Di lor
tutt'arme accinti i due guerrieri
s'appresentâr nel mezzo, e si
guataro
biechi. Al vederli stupor prese e tema
i Dardani e gli Achei. L'un
contra l'altro
l'aste squassando al mezzo dell'arena
s'avvicinâr sdegnosi;
ed il Troiano
primier la lunga e grave asta vibrando
la rotella colpì del
suo nemico,
ma non forolla, ché la buona targa
rintuzzonne la punta. Allor
secondo
coll'asta alzata Menelao si mosse
così pregando: Dammi, o padre
Giove,
sovra costui che m'oltraggiò primiero,
dammi sovra il fellon piena
vendetta.
Tu sotto i colpi di mia destra il doma
sì che il postero tremi,
e a non tradire
l'ospite apprenda che l'accolse amico.
Disse, e l'asta
avventò, la conficcò
dell'avversario nel rotondo scudo.
Penetrò fulminando
la ferrata
punta il pavese rilucente, e tutta
trapassò la corazza,
lacerando
la tunica sul fianco a fior di pelle.
Incurvossi il Troiano, ed
il mortale
colpo schivò. L'irato Atride allora
trasse la spada, ed erto un
gran fendente
gli calò ruïnoso in su l'elmetto.
Non resse il brando, ché
in più pezzi infranto
gli lasciò la man nuda; ond'ei gemendo
e gli occhi
alzando dispettoso al cielo,
Crudel Giove, gridava, il più crudele
di
tutti i numi! Io mi sperai punire
di questo traditor l'oltraggio: ed
ecco
che in pugno, oh rabbia! mi si spezza il ferro,
e gittai l'asta
indarno e senza offesa.
Così fremendo, addosso all'inimico
con furor si
disserra: alla criniera
dell'elmo il piglia, e tragge a tutta forza
verso
gli Achivi quel meschino, a cui
la delicata gola soffocava
il trapunto
guinzaglio che le barbe
annodava dell'elmo sotto il mento.
E l'avrìa
strascinato, e a lui gran lode
venuta ne sarìa; ma del periglio
fatta
Venere accorta i nodi sciolse
del bovino guinzaglio, e il vôto
elmetto
seguì la mano del traente Atride.
Aggirollo l'eroe, e fra le
gambe
lo scagliò degli Achei, che festeggianti
il raccolsero. Allor di
porlo a morte
risoluto l'Atride, alto coll'asta
di nuovo l'assalì. Di
nuovo accorsa
lo scampò Citerea, che agevolmente
il poté come Diva: lo
ravvolse
di molta nebbia, e fra il soave olezzo
dei profumati talami il
depose.
Ella stessa a chiamar quindi la figlia
corse di Leda, e la trovò
nell'alta
torre in bel cerchio di dardanie spose.
Prese il volto e le
rughe d'un'antica
filatrice di lane, che sfiorarne
ad Elena solea di molte
e belle
nei paterni soggiorni, e sommo amore
posto le avea. Nella costei
sembianza
la Dea le scosse la nettarea veste,
e, Vieni, le dicea, vieni;
ti chiama
Alessandro che già negli odorati
talami stassi, e su i trapunti
letti
tutto risplende di beltà divina
in sì gaio vestir, che lo
diresti
ritornarsi non già dalla battaglia,
ma invïarsi alla danza, o
dalla danza
riposarsi. Sì disse, e il cor nel seno
le commosse. Ma quando
all'incarnato
del bellissimo collo, e all'amoroso
petto, e degli occhi al
tremolo baleno
riconobbe la Dea, coglier sentissi
di sacro orrore, e
ritrovate alfine
le parole, sclamò: Trista! e che sono
queste malizie? Ad
alcun'altra forse
di Meonia o di Frigia alta cittade
vuoi tu condurmi
affascinata in braccio
d'alcun altro tuo caro? Ed or che vinto
il suo
rival, me d'odio carca a Sparta
e perdonata Menelao radduce,
sei tu venuta
con novelli inganni
ad impedirlo? E ché non vai tu stessa
e goderti quel
vile? Obblìa per lui
l'eterea sede, né calcar più mai
dell'Olimpo le vie:
statti al suo fianco,
soffri fedele ogni martello, e il cova
finché t'alzi
all'onor di moglie o ancella;
ch'io tornar non vo' certo (e fôra
indegno)
a sprimacciar di quel codardo il letto,
argomento di scherno alle
troiane
spose, e a me stessa d'infinito affanno.
E irata a lei la Dea: Non
irritarmi,
sciagurata! non far ch'io t'abbandoni
nel mio disdegno, e tanto
io sia costretta
ad abborrirti alfin quanto t'amai;
e t'amai certo a
dismisura. Or io
negli argolici petti e ne' troiani
metterò, se mi tenti,
odii sì fieri,
che di mal fato perirai tu pure.
L'alma figlia di Leda a
questo dire
tremò, si chiuse nel suo bianco velo,
e cheta cheta in via si
pose, a tutte
le Troadi celata, e precorreva
a' suoi passi la Dea. Poiché
venute
fur d'Alessandro alle splendenti soglie,
corser di qua di là le
scaltre ancelle
ai donneschi lavori, ed ella intanto
bellissima saliva e
taciturna
ai talami sublimi. Ivi l'amica
del riso Citerea le trasse
innanzi
di propria mano un seggio, e di rimpetto
ad Alessandro il collocò.
S'assise
la bella donna, e con amari accenti,
garrì, senza mirarlo, il suo
marito:
E così riedi dalla pugna? Oh fossi
colà rimasto per le mani
anciso
di quel gagliardo un dì mio sposo! E pure
e di lancia e di spada e
di fortezza
ti vantasti più volte esser migliore.
Fa cor dunque, va, sfida
il forte Atride
alla seconda singolar tenzone.
Ma t'esorto, meschino, a ti
star queto,
né nuovo ritentar d'armi periglio
col tuo rivale, se la vita
hai cara.
Non mi ferir con aspri detti, o donna,
le rispose Alessandro. Fu
Minerva
che vincitor fe' Menelao, sol essa.
Ma lui del pari vincerò pur
io,
ch'io pure al fianco ho qualche Diva. Or via
pace, o cara, e ne sia
pegno un amplesso
su queste piume; ché giammai sì forte
per te le vene non
scaldommi Amore,
quel dì né pur che su veloci antenne
io ti rapìa di
Sparta, e tuo consorte
nell'isola Crenea ti giacqui in braccio.
No, non
t'amai quel dì quant'ora, e quanto
di te m'invoglia il cor dolce
desìo.
Disse; ed al letto s'avvïaro, ei primo,
ella seconda; e l'un
dell'altro in grembo
su i mollissimi strati si confuse.
Come irato lïon
l'Atride intanto
di qua di là si ravvolgea cercando
il leggiadro rival; né
lui fra tanta
turba di Teucri e d'alleati alcuno
significar sapea, né lo
sapendo
l'avrìa di certo per amor celato;
ché come il negro ceffo della
morte
abborrito da tutti era costui.
Fattosi innanzi allora
Agamennóne,
Teucri, Dardani, ei disse, e voi di Troia
alleati, m'udite.
Vincitore
fu, lo vedeste, Menelao. Voi dunque
Elena ne rendete, e tutta
insieme
la sua ricchezza, e d'un'ammenda inoltre
ne rintegrate che
convegna, e tale
che memoria ne passi anco ai nepoti.
Disse; e tutto gli
plause il campo acheo.
Libro
IV
Nell'auree
sale dell'Olimpo accolti
intorno a Giove si sedean gli Dei
a consulta. Fra
lor la veneranda
Ebe versava le nettaree spume,
e quelli a gara con
alterni inviti
l'auree tazze vôtavano mirando
la troiana città. Quand'ecco
il sommo
Saturnio, inteso ad irritar Giunone,
con un obliquo paragon
mordace
così la punse: Due possenti Dive
aiutatrici ha Menelao,
l'Argiva
Giuno e Minerva Alalcomènia. E pure
neghittose in disparte ambo
si stanno
sol del vederlo dilettate. Intanto
fida al fianco di Paride
l'amica
del riso Citerea lungi respinge
dal suo caro la Parca; e dianzi,
in quella
ch'ei morto si tenea, servollo in vita.
Rimasta è al forte
Menelao la palma;
ma l'alto affar non è compiuto, e a noi
tocca il
condurlo, e statuir se guerra
fra le due genti rinnovar si debba,
od in
pace comporle. Ove la pace
tutti appaghi gli Dei, stia Troia, e in
Argo
con la consorte Menelao ritorni.
Strinser, fremendo a questo dir, le
labbia
Giuno e Minerva, che vicin sedute
venìan de' Teucri macchinando il
danno.
Quantunque al padre fieramente irata
tacque Minerva e non fiatò. Ma
l'ira
non contenne Giunone, e sì rispose:
Acerbo Dio, che parli? A far di
tante
armate genti accolta, alla ruïna
di Priamo e de' suoi figli, ho
stanchi i miei
immortali corsieri; e tu pretendi
frustrar la mia fatica,
ed involarmi
de' miei sudori il frutto? Eh ben t'appaga;
ma di noi tutti
non sperar l'assenso.
Feroce Diva, replicò sdegnoso
l'adunator de' nembi,
e che ti fêro,
e Priamo e i Priamìdi, onde tu debba
voler sempre di Troia
il giorno estremo?
La tua rabbia non fia dunque satolla
se non atterri
d'Ilïon le porte,
e sull'infrante mura non ti bevi
del re misero il sangue
e de' suoi figli
e di tutti i Troiani? Or su, fa come
più ti talenta, onde
fra noi sorgente
d'acerbe risse in avvenir non sia
questo dissidio: ma
riponi in petto
le mie parole. Se desìo me pure
prenderà d'atterrar
qualche a te cara
città, non porre a' miei disdegni inciampo,
e liberi li
lascia. A questo patto
Troia io pur t'abbandono, e di mal cuore;
ché, di
quante città contempla in terra
l'occhio del sole e dell'eteree
stelle,
niuna io m'aggio più cara ed onorata
come il sacro Ilïone e Priamo
e tutta
di Priamo pur la bellicosa gente:
perocché l'are mie per lor di
sacre
opìme dapi abbondano mai sempre,
e di libami e di profumi,
onore
solo alle dive qualità sortito.
Compose a questo dir la
veneranda
Giuno gli sguardi maestosi, e disse:
Tre cittadi sull'altre a me
son care
Argo, Sparta, Micene; e tu le struggi
se odiose ti sono. A lor
difesa
né man né lingua moverò; ché quando
pure impedir lo ti volessi,
indarno
il tentarlo uscirìa, sendo d'assai
tu più forte di me. Ma dritto
or parmi
che tu vano non renda il mio disegno,
ch'io pur son nume, e a te
comune io traggo
l'origine divina, io dell'astuto
Saturno figlia, e in
alto onor locata,
perché nacqui sorella e perché moglie
son del re degli
Dei. Facciam noi dunque
l'un dell'altro il volere, e il seguiranno
gli
altri Eterni. Or tu ratto invìa Minerva
fra i due commossi eserciti, onde
spinga
i Troiani ad offendere primieri,
rotto l'accordo, i baldanzosi
Achei.
Assentì Giove al detto, ed a Minerva,
Scendi, disse, veloce, e fa
che i Teucri
primi offendan gli Achei, turbando il patto.
A Minerva, per
sé già desïosa,
sprone aggiunse quel cenno. In un baleno
dall'Olimpo calò.
Quale una stella
cui portento a' nocchieri o a numerose
schiere d'armati
scintillante e chiara
invìa talvolta di Saturno il figlio;
tale in vista
precipita dall'alto
Minerva in terra, e piantasi nel mezzo.
Stupîr Teucri
ed Achivi all'improvvisa
visïone, e talun disse al vicino:
Arbitro della
guerra oggi vuol Giove
per certo rinnovar fra un campo e l'altro
l'acerba
pugna, o confermar la pace.
La Dea mischiossi tra la folta intanto
delle
turbe troiane, e la sembianza
di Laòdoco assunta (un valoroso
d'Antènore
figliuol) si pose in traccia
del dëiforme Pandaro. Trovollo
stante in
piedi nel mezzo al clipeato
stuolo de' forti che l'avea seguìto
dalle rive
d'Esepo. Appropinquossi
a lui la Diva, e disse: Inclito germe
di Licaon,
vuoi tu ascoltarmi? Ardisci,
vibra nel petto a Menelao la punta
d'un
veloce quadrello. E grazia e lode
te ne verrà dai Dardani e dal
prence
Paride in prima, che d'illustri doni
colmeratti, vedendo il suo
rivale
montar sul rogo, dal tuo stral trafitto.
Su via dunque, dardeggia
il burbanzoso
Atride, e al licio saettante Apollo
prometti che, tornato al
patrio tetto
nella sacra Zelèa, darai di scelti
primogeniti agnelli
un'ecatombe.
Così disse Minerva, e dello stolto
persuase il pensier. Diè
mano ei tosto
al bell'arco, già spoglia di lascivo
capro agreste. L'aveva
egli d'agguato,
mentre dal cavo d'una rupe uscìa,
colto nel petto, e su la
rupe steso
resupino. Sorgevano alla belva
lunghe sedici palmi su
l'altera
fronte le corna. Artefice perito
le polì, le congiunse, e di
lucenti
anelli d'oro ne fregiò le cime.
Tese quest'arco, e dolcemente a
terra
Pandaro l'adagiò. Dinanzi a lui
protendono le targhe i fidi
amici,
onde assalito dagli Achei non vegna,
pria ch'egli il marzio Menelao
percuota.
Scoperchiò la faretra, ed un alato
intatto strale ne cavò,
sorgente
di lagrime infinite. Indi sul nervo
l'adattando promise al licio
Apollo
di primonati agnelli un'ecatombe
ritornato in Zelèa. Tirò di
forza
colla cocca la corda, alla mammella
accostò il nervo, all'arco il
ferro, e fatto
dei tesi estremi un cerchio, all'improvviso
l'arco e il
nervo fischiar forte s'udiro,
e lo strale fuggì desideroso
di volar fra le
turbe. Ma non fûro
immemori di te, tradito Atride,
in quel punto gli Dei.
L'armipotente
figlia di Giove si parò davanti
al mortifero telo, e dal tuo
corpo
lo devïò sollecita, siccome
tenera madre che dal caro volto
del
bambino che dorme un dolce sonno,
scaccia l'insetto che gli ronza
intorno.
Ella stessa la Dea drizzò lo strale
ove appunto il bel cinto era
frenato
dall'auree fibbie, e si stendea davanti
qual secondo torace. Ivi
l'acerbo
quadrello cadde, e traforando il cinto
nel panzeron s'infisse e
nella piastra
che dalle frecce il corpo gli schermìa.
Questa gli valse
allor d'assai, ma pure
passolla il dardo, e ne sfiorò la pelle,
sì che
tosto diè sangue la ferita.
Come quando meonia o caria donna
tinge d'ostro
un avorio, onde fregiarne
di superbo destriero le mascelle;
molti d'averlo
cavalieri han brama;
ma in chiusa stanza ei serbasi bel dono
a qualche
sire, adornamento e pompa
del cavallo ed in un del cavaliero:
così di
sangue imporporossi, Atride,
la tua bell'anca, e per lo stinco
all'imo
calcagno corse la vermiglia riga.
Raccapricciossi a questa vista
il rege
Agamennón, raccapricciò lo stesso
marzïal Menelao; ma quando ei
vide
fuor della polpa l'amo dello strale,
gli tornò tosto il core, e si
rïebbe.
Per man tenealo intanto Agamennóne,
ed altamente fra i dolenti
amici
sospirando dicea: Caro fratello,
perché qui morto tu mi fossi, io
dunque
giurai l'accordo, te mettendo solo
per gli Achivi a pugnar contra i
Troiani,
contra i Troiani che l'accordo han rotto,
e a tradimento ti
ferîr? Ma vano
non andrà delle vittime il giurato
sangue, né i puri
libamenti ai numi,
né la fé delle destre. Il giusto Giove
può differire ei
sì, ma non per certo
obblïar la vendetta; e caro un giorno
colle lor
teste, colle mogli e i figli
ne pagheranno gli spergiuri il fio.
Tempo
verrà (di questo ho certo il core)
ch'Ilio e Priamo perisca, e tutta
insieme
la sua perfida gente. Dall'eccelso
etereo seggio scoterà
sovr'essi
l'egida orrenda di Saturno il figlio
di tanta frode irato; e non
cadranno
vôti i suoi sdegni. Ma d'immenso lutto
tu cagion mi sarai, dolce
fratello,
se morte tronca de' tuoi giorni il corso.
Sorgerà negli Achei
vivo il desìo
del patrio suolo, e d'onta carco in Argo
io tornerommi, e
lasceremo ai Teucri,
glorïoso trofeo, la tua consorte.
Putride intanto
nell'iliaca terra
l'ossa tue giaceran, senz'aver dato
fine all'impresa, e
il tumulo del mio
prode fratello un qualche Teucro altero
calpestando,
dirà: Possa i suoi sdegni
satisfar così sempre Agamennóne,
siccome or
fece, senza pro guidando
l'argoliche falangi a questo lido,
d'onde
scornato su le vote navi
alla patria tornò, qui derelitto
l'illustre
Menelao. Sì fia ch'ei dica;
e allor mi s'apra sotto i piè la terra.
Ti
conforta, rispose il biondo Atride,
né co' lamenti spaventar gli
Achivi.
In mortal parte non ferì l'acuto
dardo: di sopra il ricamato
cinto
mi difese, e di sotto la corazza
e questa fascia che di ferrea
lama
buon fabbro foderò. - Sì voglia il cielo,
diletto Menelao, l'altro
riprese.
Intanto tratterà medica mano
la tua ferita, e farmaco
porravvi
atto a lenire ogni dolor. - Si volse
all'araldo, ciò detto, e,
Va, soggiunse,
vola, o Taltibio, e fa che ratto il figlio
d'Esculapio,
divin medicatore,
Macaon qua ne vegna, e degli Achei
al forte duce Menelao
soccorra,
cui di freccia ferì qualche troiano
o licio saettier che sé di
gloria,
noi di lutto coprì. - Disse, e l'araldo
tra le falangi achee corse
veloce
in traccia dell'eroe. Ritto lo vide
fra lo stuolo de' prodi che da
Tricca
altrice di corsier l'avea seguìto:
appressossi, e con rapide
parole,
Vien, gli disse, t'affretta, o Macaone;
Agamennón ti chiama: il
valoroso
Menelao fu di stral colto da qualche
licio arciero o troiano che
superbo
va del nostro dolor. Corri, e lo sana.
Al tristo annunzio si
commosse il figlio
d'Esculapio; e veloci attraversando
il largo campo
acheo, fur tosto al loco
ove al ferito dëiforme Atride
facean cerchio i
migliori. Incontanente
dal balteo estrasse Macaon lo strale,
di cui
curvârsi nell'uscir gli acuti
ami: disciolse ei quindi il vergolato
cinto
e il torace colla ferrea fascia
sovrapposta; e scoperta la
ferita,
succhionne il sangue, e destro la cosparse
dei lenitivi farmaci
che al padre,
d'amor pegno, insegnati avea Chirone.
Mentre questi alla
cura intenti sono
del bellicoso Atride, ecco i Troiani
marciar di nuovo
con gli scudi al petto,
e di nuovo gli Achei l'armi vestire
di battaglia
bramosi. Allor vedevi
non assonnarsi, non dubbiar, né pugna
schivar
l'illustre Agamennón; ma ratto
volar nel campo della gloria. Il carro
e i
fervidi destrier tratti in disparte
lascia all'auriga Eurimedonte,
figlio
del Piraìde Tolomèo; gl'impone
di seguirlo vicin, mentre pel
campo
ordinando le turbe egli s'aggira,
onde accorrergli pronto ove
stanchezza
gli occupasse le membra. Egli pedone
scorre intanto le file, e
quanti all'armi
affrettarsi ne vede, ei colla voce
fortemente gl'incuora,
e grida: Argivi,
niun rallenti le forze: il giusto Giove
bugiardi non
aiuta: chi primiero
l'accordo vïolò, pasto vedrassi
di voraci avoltoi,
mentre captive
le dilette lor mogli in un co' figli
noi nosco condurremo,
Ilio distrutto.
Quanti poi ne scorgea ritrosi e schivi
della battaglia,
con irati accenti
li rabbuffando, O Argivi, egli dicea,
o guerrier da
balestra, o vitupèri!
Non vi prende vergogna? A che vi state
istupiditi
come zebe, a cui,
dopo scorso un gran campo, la stanchezza
ruba il piede e
la lena? E voi del pari
allibiti al pugnar vi sottraete.
Aspettate voi
forse che il nemico
alla spiaggia s'accosti ove ritratte
stan sul secco le
prore, onde si vegga
se Giove allor vi stenderà la mano?
Così imperando
trascorrea le schiere.
Venne ai Cretesi; e li trovò che all'armi
davan di
piglio intorno al bellicoso
Idomenèo. Per vigorìa di forze
pari a fiero
cinghiale Idomenèo
guidava l'antiguardia, e Merïone
la retroguardia. Del
vederli allegro
il sir de' forti Atride al re cretese
con questo dolce
favellar si volse:
Idomenèo, te sopra i Dànai tutti
cavalieri veloci in
pregio io tegno,
sia nella guerra, sia nell'altre imprese,
sia ne'
conviti, allor che ne' crateri
d'almo antico lïeo versan la spuma
i
supremi tra' Greci. Ove degli altri
chiomati Achivi misurato è il
nappo,
il tuo del par che il mio sempre trabocca,
quando ti prende di
bombar la voglia.
Or entra nella pugna, e tal ti mostra
qual dianzi ti
vantasti. - E de' Cretensi
a lui lo duce: Atride, io qual già
pria
t'impromisi e giurai, fido compagno
per certo ti sarò. Ma tu
rinfiamma
gli altri Achivi a pugnar senza dimora.
Rupper l'accordo i
Teucri, e perché primi
del patto vïolâr la santitate,
sul lor capo cadran
morti e ruïne.
Disse; e gioioso proseguì l'Atride
fra le caterve la
rivista, e venne
degli Aiaci alla squadra. In tutto punto
metteansi
questi, e li seguìa di fanti
un nugolo. Siccome allor che scopre
d'alto
loco il pastor nube che spinta
su per l'onde da Cauro s'avvicina,
e bruna
più che pece il mar vïaggia,
grave il seno di nembi; inorridito
ei la
guarda, ed affretta alla spelonca
le pecorelle; così negre ed orride
per
gli scudi e per l'aste si moveano
sotto gli Aiaci accolte le falangi
de'
giovani veloci al rio conflitto.
Allegrossi a tal vista Agamennóne,
e a'
lor duci converso in presti accenti,
Aiaci, ei disse, condottieri
egregi
de' loricati Achivi, io non v'esorto,
(ciò fôra oltraggio) a
inanimar le vostre
schiere; già per voi stessi a fortemente
pugnar le
stimolate. Al sommo Giove
e a Pallade piacesse e al santo Apollo,
che tal
coraggio in ogni petto ardesse,
e tosto presa ed adeguata al suolo
per le
man degli Achei Troia cadrebbe.
Così detto lasciolli, e procedendo
a
Nestore arrivò, Nestore arguto
de' Pilii arringator, che in ordinanza
i
suoi prodi metteva, e alla battaglia
li concitava. Stavangli dintorno
il
grande Pelagonte ed Alastorre,
e il prence Emone e Cromio, ed il
pastore
di popoli Biante. In prima ei pose
alla fronte coi carri e coi
cavalli
i cavalieri, e al retroguardo i fanti,
che molti essendo e
valorosi, il vallo
formavano di guerra. Indi nel mezzo
i codardi
rinchiuse, onde forzarli
lor mal grado a pugnar. Ma innanzi a tutto
porge
ricordo ai combattenti equestri
di frenar lor cavalli, e non
mischiarsi
confusamente nella folla. - Alcuno
non sia, soggiunse, che in
suo cor fidando
e nell'equestre maestrìa, s'attenti
solo i Teucri
affrontar di schiera uscito:
né sia chi retroceda; ché cedendo
si
sgagliarda il soldato. Ognun che sceso
dal proprio carro l'ostil carro
assalga,
coll'asta bassa investalo, ché meglio
sì pugnando gli torna. Con
quest'arte,
con questa mente e questo ardir nel petto
le città rovesciâr
gli antichi eroi.
Il canuto così mastro di guerra
le sue genti animava. In
lui fissando
gli occhi l'Atride, giubilonne, e tosto
queste parole gli
drizzò: Buon veglio,
oh t'avessi tu salde le ginocchia
e saldi i polsi
come hai saldo il core!
La ria vecchiezza, che a null'uom perdona,
ti
logora le forze: ah perché d'altro
guerrier non grava la crudel le
spalle!
perché de' tuoi begli anni è morto il fiore!
Ed il gerenio
cavalier rispose:
Atride, al certo bramerei pur io
quelle forze ch'io
m'ebbi il dì che morte
diedi all'illustre Ereutalion. Ma tutti
tutto ad un
tempo non comparte Giove
i suoi doni al mortal. Rideami allora
gioventude:
or mi doma empia vecchiezza.
Ma qual pur sono mi starò nel mezzo
de'
cavalieri nella pugna, e gli altri
gioverò di parole e di consiglio,
ché
questo è officio de' provetti. Dêssi
lasciar dell'aste il tiro ai
giovinetti
di me più destri e nel vigor securi.
Disse; e lieto l'Atride
oltrepassando
venne al Petìde Menestèo, perito
di cocchi guidator, ritto
nel mezzo
de' suoi prodi Cecròpii. Eragli accanto
lo scaltro Ulisse colle
forti schiere
de' Cefaleni, che non anco udito
di guerra il grido avean,
poiché le teucre
e l'argive falangi allora allora
cominciavan le mosse: e
questi in posa
aspettavan che stuolo altro d'Achei
impeto fêsse ne'
Troiani il primo,
e ingaggiasse battaglia. In quello stato
li sorprese
l'Atride; e corruccioso
fe' dal labbro volar questa rampogna:
Petìde
Menestèo, figlio non degno
d'un alunno di Giove, e tu d'inganni
astuto
fabbro, a che tremanti state
gli altri aspettando, e separati? A
voi
entrar conviensi nella mischia i primi,
perché primi io vi chiamo
anche ai conviti
ch'ai primati imbandiscono gli Achei.
Ivi il saìme
saporar vi giova
delle carni arrostite, e a piena gola
di soave lïeo
cioncar le tazze.
Or vi giova esser gli ultimi, e vi fôra
grato il veder
ben dieci squadre achee
innanzi a voi scagliarsi entro il conflitto.
Lo
guatò bieco Ulisse, e gli rispose:
Qual detto, Atride, ti fuggì di
bocca?
E come ardisci di chiamarne in guerra
neghittosi? Allorché contra i
Troiani
daran principio al rio marte gli Achei,
vedrai, se il brami e te
ne cal, vedrai
nelle dardanie file antesignane
di Telemaco il padre. Or
cianci al vento.
Veduto il cruccio dell'eroe, sorrise
l'Atride, e dolce
ripigliò: Divino
di Laerte figliuol, sagace Ulisse,
né sgridarti vogl'io,
né comandarti
fuor di stagione, ch'io ben so che in petto
volgi pensieri
generosi, e senti
ciò ch'io pur sento. Or vanne, e pugna; e s'ora
dal
labbro mi fuggì cosa mal detta,
ripareremla in altro tempo. Intanto
ne
disperdano i numi ogni ricordo.
Ciò detto, gli abbandona, e ad altri ei
passa;
e ritto in piedi sul lucente cocchio
il magnanimo figlio di
Tidèo
Diomede ritrova. Al fianco ha Stènelo,
prole di Capanèo. Si volse il
sire
Agamennóne a Diomede, e ratto
con questi accenti rampognollo: Ahi
figlio
del bellicoso cavalier Tidèo,
di che paventi? Perché guardi
intorno
le scampe della pugna? Ah! non solea
così Tidèo tremar; ma
precorrendo
d'assai gli amici, co' nemici ei primo
s'azzuffava. Ciascun
che ne' guerrieri
travagli il vide, lo racconta. In vero
né compagno io
gli fui né testimone,
ma udii che ogni altro di valore ei vinse.
Ben
coll'illustre Polinice un tempo
senz'armati in Micene ospite ei
venne,
onde far gente che alle sacre mura
li seguisse di Tebe, a cui già
mossa
avean la guerra; e ne fêr ressa e preghi
per ottenerne generosi
aiuti;
e volevam noi darli, e la domanda
tutta appagar; ma con infausti
segni
Giove da tanto ne distolse. Or come
gli eroi si fûro dipartiti e
giunti
dopo molto cammino al verdeggiante
giuncoso Asopo, ambasciatore a
Tebe
spedîr Tidèo gli Achivi. Andovvi, e molti
banchettanti Cadmei trovò
del forte
Eteòcle alle mense. In mezzo a loro,
quantunque estrano e solo,
il cavaliero
senza punto temer tutti sfidolli
al paragon dell'armi, e
tutti ei vinse,
col favor di Minerva. Irati i vinti
di cinquanta
guerrieri, al suo ritorno,
gli posero un agguato. Eran lor duci
l'Emonide
Meone, uom d'almo aspetto,
e d'Autofano il figlio Licofonte,
intrepido
campion. Tidèo gli uccise
tutti, ed un solo per voler de' numi,
il sol
Meone rimandonne a Tebe.
Tal fu l'etòlo eroe, padre di prole
miglior di
lingua, ma minor di fatti.
Non rispose all'acerbo il valoroso
Tidìde, e
rispettò del venerando
rege il rabbuffo; ma rispose il figlio
del chiaro
Capanèo, dicendo: Atride,
non mentir quando t'è palese il vero.
Migliori
assai de' nostri padri a dritto
noi ci vantiam. Noi Tebe e le sue
sette
porte espugnammo: e nondimen più scarsi
eran gli armati che guidammo
al sacro
muro di Marte, ne' divini auspìci
fidando e in Giove. Per
l'opposto quelli
peccâr d'insano ardire e vi periro.
Non pormi adunque in
onor pari i padri.
Gli volse un guardo di traverso il forte
Tidìde, e
ripigliò: T'accheta, amico,
ed obbedisci al mio parlar. Non io,
se il re
supremo Agamennóne istiga
alla pugna gli Achei, non io lo biasmo.
Fia sua
la gloria, se, domati i Teucri,
noi la sacra cittade espugneremo,
e suo,
se spenti noi cadremo, il lutto.
Dunque a dar prove di valor si
pensi.
Disse, e armato balzò dal cocchio in terra.
Orrendamente risonâr
sul petto
l'armi al re concitato, a tal che preso
n'avrìa spavento ogni
più fermo core.
Siccome quando al risonante lido,
di Ponente al soffiar,
l'uno sull'altro
del mar si spinge il flutto; e prima in alto
gonfiasi, e
poscia su la sponda rotto
orribilmente freme, e intorno agli erti
scogli
s'arriccia, li sormonta, e in larghi
sprazzi diffonde la canuta
spuma:
incessanti così l'una su l'altra
movon l'achee falangi alla
battaglia
sotto il suo duce ognuna; e sì gran turba
marcia sì cheta, che
di voce priva
la diresti al vederla; e riverenza
era de' duci quel
silenzio; e l'armi
di varia guisa, di che gìan vestiti
tutti in ischiera,
li cingean di lampi.
Ma simiglianti i Teucri a numeroso
gregge che dentro
il pecoril di ricco
padron, nell'ora che si spreme il
latte,
s'ammucchiano, e al belar de' cari agnelli
rispondono belando alla
dirotta;
così per l'ampio esercito un confuso
mettean schiamazzo i Teucri,
ché non uno
era di tutti il grido né la voce,
ma di lingue un mistìo,
sendo una gente
da più parti raccolta. A questi Marte,
a quei Minerva è
sprone, e quinci e quindi
lo Spavento e la Fuga, e del crudele
Marte suora
e compagna la Contesa
insazïabilmente furibonda,
che da principio piccola
si leva,
poi mette il capo tra le stelle, e immensa
passeggia su la terra.
Essa per mezzo
alle turbe scorrendo, e de' mortali
addoppiando gli
affanni, in ambedue
le bande sparse una rabbiosa lite.
Poiché l'un campo e
l'altro in un sol luogo
convenne, e si scontrâr l'aste e gli scudi,
e il
furor de' guerrieri, scintillanti
ne' risonanti usberghi, e delle
colme
targhe già il cozzo si sentìa, levossi
un orrendo tumulto. Iva
confuso
col gemer degli uccisi il vanto e il grido
degli uccisori, e il
suol sangue correa.
Qual due torrenti che di largo sbocco
devolvonsi dai
monti, e nella valle
per lo concavo sen d'una vorago
confondono le gonfie
onde veloci:
n'ode il fragor da lungi in cima al balzo
l'atterrito pastor:
tal dai commisti
eserciti sorgea fracasso e tema.
Primo Antiloco uccise un
valoroso
Teucro, alle mani nelle prime file,
il Taliside Echèpolo, il
ferendo
nel cono del chiomato elmo: s'infisse
la ferrea punta nella
fronte, e l'osso
trapanò: s'abbuiâr gli occhi al meschino,
che strepitoso
cadde come torre.
Ghermì pe' piedi quel caduto il prence
de' magnanimi
Abanti Elefenorre
figliuol di Calcodonte, e desïoso
di spogliarlo
dell'armi, lo traea
fuor della mischia: ma fallì la brama;
ché mentre il
morto ei dietro si strascina,
Agenore il sorprende, e a lui che
curvo
offrìa nudati di pavese i fianchi,
tale un colpo assestò, che gli
disciolse
le forze, e l'alma abbandonollo. Allora
tra i Troiani e gli
Achei surse una fiera
zuffa sovr'esso: s'affrontâr quai lupi,
e in mutua
strage si metteano a morte.
Qui fu che Aiace Telamonio il
figlio
d'Antemion percosse il giovinetto
Simoesio, cui scesa
dall'Idee
cime la madre partorì sul margo
del Simoenta, un giorno ivi
venuta
co' genitori a visitar la greggia;
e Simoesio lo nomâr dal
fiume.
Misero! Ché dei presi in educarlo
dolci pensieri ai genitor
diletti
rendere il merto non poteo: la lancia
d'Aiace il colse, e il viver
suo fe' breve.
Al primo scontro lo colpì nel petto
su la destra mammella,
e la ferrata
punta pel tergo riuscir gli fece.
Cadde il garzone nella
polve a guisa
di liscio pioppo su la sponda nato
d'acquidosa palude: a lui
de' rami
già la pompa crescea, quando repente
colla fulgida scure lo
recise
artefice di carri, e inaridire
lungo la riva lo lasciò del
fiume,
onde poscia foggiarne di bel cocchio
le volubili rote: così
giacque
l'Antemide trafitto Simoesio,
e tale dispogliollo il grande
Aiace.
Contro Aiace l'acuta asta diresse
d'infra le turbe allor di Priamo
il figlio
Antifo, e il colpo gli fallì; ma colse
nell'inguine il fedel
d'Ulisse amico
Leuco che già di Simoesio altrove
traea la salma; e accanto
al corpo esangue,
che di man gli cadea, cadde egli pure.
Forte adirato
dell'ucciso amico
si spinse Ulisse tra gl'innanzi, tutto
scintillante di
ferro, e più dappresso
facendosi, e dintorno il guardo attento
rivolgendo,
librò l'asta lucente.
Si misero a quell'atto in guardia i Teucri,
e lo
cansâr; ma quegli il telo a vôto
non sospinse, e ferì Democoonte,
Priamide
bastardo che d'Abido
con veloci puledre era venuto.
A costui fulminò
l'irato Ulisse
nelle tempie la lancia; e trapassolle
la ferrea punta.
Tenebrârsi i lumi
al trafitto che cadde fragoroso,
e cupo gli tonâr l'armi
sul petto.
Rinculò de' Troiani, al suo cadere,
la fronte, rinculò lo
stesso Ettorre;
dier gli Argivi alte grida, ed occupati
i corpi uccisi,
s'avanzâr di punta.
Dalla rocca di Pergamo mirolli
sdegnato Apollo, e
rincorando i Teucri
con gran voce gridò: Fermo tenete,
valorosi Troiani,
ed agli Achei
non cedete l'onor di questa pugna,
ché né pietra né ferro è
la lor pelle
da rintuzzar delle vostr'armi il taglio.
Non combatte qui,
no, della leggiadra
Tétide il figlio: non temete; Achille
stassi alle navi
a digerir la bile.
Così dall'alto della rocca il Dio
terribile sclamò. Ma
la feroce
Palla, di Giove glorïosa figlia,
discorrendo le file
inanimava
gli Achivi, ovunque li vedea rimessi.
Qui la Parca allacciò
l'Amarancìde
Dïore. Un'aspra e quanto cape il pugno
grossa pietra il
percosse alla diritta
tibia presso il tallone, e feritore
fu l'Imbraside
Piro che de' Traci
condottiero dall'Eno era venuto.
Franse ambidue li
nervi e la caviglia
l'improbo sasso, ed ei cadde supino
nella sabbia, e
mal vivo ambo le mani
ai compagni stendea. Sopra gli corse
il percussore,
e l'asta in mezzo all'epa
gli cacciò. Si versâr tutte per terra
le
intestina, e mortale ombra il coperse.
All'irruente Piro allor
l'Etòlo
Toante si rivolge; e lui nel petto
con la lancia ferendo alla
mammella
nel polmon gliela ficca. Indi appressato
gliela sconficca dalla
piaga; e in pugno
stretta l'acuta spada glie l'immerse
nella ventraia, e
gli rapìo la vita;
l'armi non già, ché intorno al morto Piro
colle
lungh'aste in pugno irti di ciuffi
affollârsi i suoi Traci, e il chiaro
Etòlo,
benché grande e gagliardo, allontanaro
sì che a forza respinto si
ritrasse.
Così l'uno appo l'altro nella polve
giacquero i due campioni, il
tracio duce,
e il duce degli Epei. Dintorno a questi
molt'altri prodi
ritrovâr la morte.
Chi da ferite illeso, e da Minerva
per man guidato, e
preservato il petto
dal volar degli strali, avvolto in mezzo
alla pugna si
fosse, avrìa le forti
opre stupito degli eroi, ché molti
e Troiani ed
Achivi nella polve
giacquer proni e confusi in quel
conflitto.
Libro
V
Allor
Palla Minerva a Dïomede
forza infuse ed ardire, onde fra tutti
gli Achei
splendesse glorïoso e chiaro.
Lampi gli uscìan dall'elmo e dallo
scudo
d'inestinguibil fiamma, al tremolìo
simigliante del vivo astro
d'autunno,
che lavato nel mar splende più bello.
Tal mandava dal capo e
dalle spalle
divin foco l'eroe, quando la Diva
lo sospinse nel mezzo ove
più densa
ferve la mischia. Era fra' Teucri un certo
Darete, uom ricco e
d'onoranza degno,
di Vulcan sacerdote, e genitore
di due prodi figliuoi
mastri di guerra
Fegèo nomati e Idèo. Precorsi agli altri
si fêr costoro
incontro a Dïomede,
essi sul cocchio, ed ei pedone: e a fronte
divenuti
così, scagliò primiero
la lung'asta Fegèo. L'asta al Tidìde
lambì l'omero
manco, e non l'offese.
Col ferrato suo cerro allor secondo
mosse il
Tidìde, né di mano indarno
il telo gli fuggì, ché tra le poppe
del nemico
s'infisse, e dalla biga
lo spiombò. Diede Idèo, visto quel colpo,
un salto
a terra, e in un col suo bel carro
smarrito abbandonò la pia
difesa
dell'ucciso fratel. Né avrìa schivato
perciò la morte; ma Vulcan di
nebbia
lo ricinse e servollo, onde non resti
il vecchio padre desolato al
tutto.
Tolse i destrieri il vincitore, e trarli
da' compagni li fece alle
sue navi.
Visti i due figli di Darete i Teucri
l'un freddo nella polve e
l'altro in fuga,
turbârsi; e la glaucopide Minerva
preso per mano il fero
Marte disse:
O Marte, Marte, esizïoso Iddio
che lordo ir godi d'uman
sangue e al suolo
adeguar le città, non lasceremo
noi dunque battagliar
soli tra loro
Teucri ed Achei, qualunque sia la parte
cui dar la palma
vorrà Giove? Or via
ritiriamci, evitiam l'ira del nume.
In questo favellar
trasse la scaltra
l'impetuoso Dio fuor del conflitto,
e su la riva riposar
lo fece
dell'erboso Scamandro. Allora i Dànai
cacciâr li Teucri in fuga; e
ognun de' duci
un fuggitivo uccise. Agamennóne
primier riversa il vasto
Hodio dal carro,
degli Alizóni condottiero, e primo
al fuggir. Gli piantò
l'asta nel tergo,
e fuor del petto uscir la fece. Ei cadde
romoroso, e
suonâr l'armi sovr'esso.
Dalla glebosa Tarne era venuto
Festo figliuol del
Mèone Boro. Il colse
Idomenèo coll'asta alla diritta
spalla nel punto che
salìa sul carro.
Cadde il meschin d'orrenda notte avvolto,
e i servi lo
spogliâr d'Idomenèo.
L'Atride Menelao di Strofio il figlio
Scamandrio
uccise, cacciator famoso
cui la stessa Dïana ammaestrava
le fere a saettar
quante ne pasce
montana selva. E nulla allor gli valse
la Diva amica degli
strali, e nulla
l'arte dell'arco. Menelao lo giunse
mentre innanzi gli
fugge, e tra le spalle
l'asta gli spinse, e trapassòglì il petto.
Boccon
cadde il trafitto, e cupamente
l'armi sovr'esso rimbombar s'udiro.
Prole
del fabbro Armònide, Fereclo
da Merïon fu spento. Era costui
per tutte
guise di lavori industri
maraviglioso, e a Pallade Minerva
caramente
diletto. Opra fur sua
di Paride le navi, onde principio
ebbe il danno de'
Teucri, e di lui stesso,
perché i decreti degli Dei non seppe.
L'inseguì,
lo raggiunse, lo percosse
nel destro clune Merïone, e sotto
l'osso vêr la
vescica uscì la punta.
Gli mancâr le ginocchia, e guaiolando
e cadendo il
coprì di morte il velo.
Mege uccise Pedèo, bastarda prole
d'Antènore, cui
l'inclita Teano,
gratificando al suo consorte, avea
con molta cura
nutricato al paro
dei diletti suoi figli. Si fe' sopra
a costui coll'acuta
asta il Filìde
Mege, e alla nuca lo ferì. Trascorse
tra i denti il ferro,
e gli tagliò la lingua.
Così concio egli cadde, e nella sabbia
fe'
tenaglia co' denti al freddo acciaro.
Ipsènore, figliuol del
generoso
Dolopïon, scamandrio sacerdote
riverito qual Dio, fugge
davanti
al chiaro germe d'Evemone Eurìpilo.
Eurìpilo l'insegue, e via
correndo
tal gli cala su l'omero un fendente
che il braccio gli recide.
Sanguinoso
casca il mozzo lacerto nella polve,
e la purpurea morte e il
violento
fato le luci gli abbuiâr. Di questi
tal nell'acerba pugna era il
lavoro.
Ma di qual parte fosse Dïomede,
se troiano od acheo, mal tu
sapresti
discernere, sì fervido ei trascorre
il campo tutto; simile alla
piena
di tumido torrente che cresciuto
dalle piogge di Giove, ed
improvviso
precipitando i saldi ponti abbatte
debil freno alle fiere onde,
e de' verdi
campi i ripari rovesciando, ingoia
con fragor le speranze e le
fatiche
de' gagliardi coloni: a questa guisa
sgominava il Tidìde e
dissipava
le caterve de' Troi, che sostenerne
non potean, benché molti, la
ruina.
Come Pandaro il vide sì furente
scorrere il campo, e tutte a sé
dinanzi
scompigliar le falangi, alla sua mira
curvò subito l'arco, e
l'irruente
eroe percosse alla diritta spalla.
Entrò pel cavo dell'usbergo
il crudo
strale, e forollo, e il sanguinò. Coraggio,
forte allora gridò
l'inclito figlio
di Licaon, magnanimi Troiani,
stimolate i cavalli,
ritornate
alla pugna. Ferito è degli Achei
il più forte guerrier, né credo
ei possa
a lungo tollerar l'acerbo colpo,
se vano feritor non mi
sospinse
qua dalla Licia il re dell'arco Apollo.
Così gridava il vantator.
Ma domo
non restò da quel colpo Dïomede,
che ritraendo il passo, e de'
cavalli
coprendosi e del cocchio, al suo fedele
Capaneìde si rivolse, e
disse:
Corri, Stènelo mio, scendi dal carro,
e dall'omero tosto mi
divelli
questo acerbo quadrel. - Diè un salto a terra
Stènelo e corse, e
l'aspro stral gli svelse
dall'omero trafitto. Per la maglia
dell'usbergo
spicciava il caldo sangue,
e imperturbato sì l'eroe pregava:
Invitta
figlia dell'Egìoco Giove,
se nelle ardenti pugne unqua a me fosti
del tuo
favor cortese e al mio gran padre,
odimi, o Dea Minerva, ed or di
nuovo
m'assisti, e al tiro della lancia mia
manda il mio feritor: dammi
ch'io spegna
questo ventoso nebulon che grida
ch'io del Sol non vedrò più
l'aurea luce.
Udì la Diva il prego, e a lui repente
e mani e piedi e tutta
la persona
agile rese, e fattasi vicina
e manifesta disse: Ti
rinfranca
Dïomede, e co' Troi pugna securo;
ch'io del tuo grande genitor
Tidèo
l'invitta gagliardìa ti pongo in petto,
e la nube dagli occhi ecco
ti sgombro
che la vista mortal t'appanna e grava,
onde tu ben discerna le
divine
e l'umane sembianze. Ove alcun Dio
qui ti venga a tentar, tu con
gli Eterni
non cimentarti, no; ma se in conflitto
vien la figlia di Giove
Citerea,
l'acuto ferro adopra, e la ferisci.
Sparve, ciò detto, la cerulea
Diva.
Allor diè volta e si mischiò tra' primi
combattenti il Tidìde, a
pugnar pronto
più che prima d'assai; ché in quel momento
triplice in petto
si sentì la forza.
Come lïon che, mentre il gregge assalta,
ferito dal
pastor, ma non ucciso,
vie più s'infuria, e superando tutte
resistenze si
slancia entro l'ovile:
derelitte, tremanti ed affollate
l'una addosso
dell'altra si riversano
le pecorelle, ed ei vi salta in mezzo
con ingordo
furor: tal dentro ai Teucri
diede il forte Tidìde. A prima giunta
Astìnoo
uccise ed Ipenòr: trafisse
l'uno coll'asta alla mammella; all'altro
la
paletta dell'omero percosse
con tale un colpo della grande spada,
che gli
spiccò dal collo e dalla schiena
l'omero netto. Dopo questi addosso
ad
Abante si spicca e a Poliido,
figli del veglio interprete di
sogni
Euridamante; ma il meschin non seppe
nella lor dipartenza a questa
volta
divinarne il destin, ch'ambi il Tidìde
li pose a morte e li spogliò.
Drizzossi
quindi a Xanto e Faon figli a Fenopo,
ambo a lui nati nell'età
canuta.
In amara vecchiezza il derelitto
genitor si struggea, ché d'altra
prole,
cui sua reda lasciar, lieto non era.
Gli spense ambo il Tidìde, e
lor togliendo
la cara vita, in aspre cure e in pianti
pose il misero
padre, a cui negato
fu il vederli tornar dalla battaglia
salvi al suo
seno; e di lui morto in lutto
ignoti eredi si partîr l'avere.
Due
Prïamidi, Cromio ed Echemóne,
venìano entrambi in un sol cocchio. A
questi
s'avventò Dïomede; e col furore
di lïon che una mandra al bosco
assalta
e di giovenca o bue frange la nuca;
così mal conci entrambi il
fier Tidìde
precipitolli dalla biga, e tolte
l'arme de' vinti, a' suoi
sergenti ei dienne
i destrieri onde trarli alla marina.
Come de' Teucri
sbarattar le file
videlo Enea, si mosse, e per la folta
e fra il rombo
dell'aste discorrendo
a cercar diessi il valoroso e chiaro
figlio di
Licaon, Pandaro. Il trova,
gli si appresenta e fa queste parole:
Pandaro,
dov'è l'arco? ove i veloci
tuoi strali? ov'è la gloria in che qui
nullo
teco gareggia, né verun si vanta
licio arcier superarti? Or su, ti
sveglia,
alza a Giove la mano, un dardo allenta
contro costui, qualunque
ei sia, che desta
cotanta strage, e sì malmena i Teucri,
de' quai già
molti e forti a giacer pose:
se pur egli non fosse un qualche nume
adirato
con noi per obblïati
sacrifizi: e de' numi acerba è l'ira.
Così d'Anchise
il figlio. E il figlio a lui
di Licaone: O delle teucre genti
inclito duce
Enea, se quello scudo
e quell'elmo a tre coni e quei destrieri
ben
riconosco, colui parmi in tutto
il forte Dïomede. E nondimeno
negar non
l'oso un immortal. Ma s'egli
è il mortale ch'io dico, il
bellicoso
figliuolo di Tidèo, tanto furore
non è senza il favor d'un
qualche iddio,
che di nebbia i celesti omeri avvolto
stagli al fianco, e
dal petto gli disvìa
le veloci saette. Io gli scagliai
dianzi un dardo, e
lo colsi alla diritta
spalla nel cavo del torace, e certo
d'averlo mi
credea sospinto a Pluto.
Pur non lo spensi: e irato quindi io temo
qualche
nume. Non ho su cui salire
or qui cocchio verun. Stolto! che in
serbo
undici ne lasciai nel patrio tetto
di fresco fatti e belli, e di
cortine
ricoperti, con due d'orzo e di spelda
ben pasciuti cavalli a
ciascheduno.
E sì che il giorno ch'io partii, gli eccelsi
nostri palagi
abbandonando, il veglio
guerriero Licaon molti ne dava
prudenti avvisi, e
mi facea precetto
di guidar sempre mai montato in cocchio
le troiane
coorti alla battaglia.
Certo era meglio l'obbedir; ma, folle!
nol feci, ed
ebbi ai corridor riguardo,
temendo che assueti a largo pasto
di pasto non
patissero difetto
in racchiusa città. Lasciàili adunque,
e pedon venni ad
Ilio, ogni fidanza
posta nell'arco, che giovarmi poscia
dovea sì poco.
Saettai con questo
due de' primi, l'Atride ed il Tidìde,
e ferii l'uno e
l'altro, e il vivo sangue
ne trassi io sì, ma n'attizzai più l'ira.
In mal
punto spiccai dunque dal muro
gli archi ricurvi il dì che al grande
Ettore
compiacendo qua mossi, e de' Troiani
il comando accettai. Ma se
redire,
se con quest'occhi riveder m'è dato
la patria, la consorte e la
sublime
mia vasta reggia, mi recida ostile
ferro la testa, se di propria
mano
non infrango e non getto nell'accese
vampe quest'arco inutile
compagno.
E al borïoso il duce Enea: Non dire,
no, questi spregi. Della
pugna il volto
cangerà, se ambedue sopra un medesmo
cocchio raccolti
affronterem costui,
e farem delle nostre armi periglio.
Monta dunque il
mio carro, e de' cavalli
di Troe vedi la vaglia, e come in campo
per ogni
lato sappiano veloci
inseguire e fuggir. Questi (se avvegna
che il Tonante
di nuovo a Dïomede
dia dell'armi l'onor), questi trarranno
salvi noi pure
alla cittade. Or via
prendi tu questa sferza e queste briglie,
ch'io de'
corsieri, per pugnar, ti cedo
il governo; o costui tu stesso affronta,
ché
de' corsieri sarà mia la cura.
Sì (riprese il figliuol di Licaone)
tien tu
le briglie, Enea, reggi tu stesso
i tuoi cavalli, che la mano udendo
del
consueto auriga, il curvo carro
meglio trarranno, se fuggir fia forza
dal
figlio di Tidèo. Se lor vien manco
la tua voce, potrìan per caso
istrano
spaventati adombrarsi, e senza legge
aggirarsi pel campo, e a
trarne fuori
della pugna indugiar tanto che il fero
Dïomede n'assegua
impetuoso,
ed entrambi n'uccida, e via ne meni
i destrieri di Troe. Resta
tu dunque
al timone e alle briglie, ché coll'asta
io del nemico sosterrò
l'assalto.
Montâr, ciò detto, sull'adorno cocchio,
e animosi drizzâr
contra il Tidìde
i veloci cavalli. Il chiaro figlio
di Capanèo li vide, ed
all'amico
vòlto il presto parlar, Tidìde, ei disse,
mio diletto Tidìde, a
pugnar teco
veggo pronti venir due di gran nerbo
valorosi guerrier, l'uno
il famoso
Pandaro arciero che figliuol si vanta
di Licaone, e l'altro Enea
che prole
vantasi ei pur di Venere e d'Anchise.
Su, presto in cocchio;
ritiriamci, e incauto
tu non istarmi a furiar tra i primi
con sì gran
rischio della dolce vita.
Bieco guatollo il gran Tidìde, e disse:
Non
parlarmi di fuga. Indarno tenti
persuadermi una viltà. Fuggire
dal cimento
e tremar, non lo consente
la mia natura: ho forze intégre, e sdegno
de'
cavalli il vantaggio. Andrò pedone,
quale mi trovo, ad incontrar
costoro;
ché Pallade mi vieta ogni paura.
Ma non essi ambedue salvi di
mano
ci scapperan, dai rapidi sottratti
lor corridori, ed avverrà che
appena
ne scampi un solo. Un altro avviso ancora
vo' dirti, e tu non
l'obblïar. Se fia
che l'alto onore d'atterrarli entrambi
la prudente
Minerva mi conceda,
tu per le briglie allora i miei cavalli
lega all'anse
del cocchio, e ratto vola
ai cavalli d'Enea, e dai Troiani
via te li mena
fra gli Achei. Son essi
della stirpe gentil di quei che Giove,
prezzo del
figlio Ganimede, un giorno
a Troe donava; né miglior destrieri
vede
l'occhio del Sole e dell'Aurora.
Al re Laomedonte il prence Anchise
la
razza ne furò, sopposte ai padri
segretamente un dì le sue puledre
che di
tale imeneo sei generosi
corsier gli partoriro. Egli n'impingua
quattro di
questi a sé nel suo presepe,
e due ne cesse al figlio Enea,
superbi
cavalli da battaglia. Ove n'avvegna
di predarli, n'avremo immensa
lode.
Mentre seguìan tra lor queste parole,
quelli incitando i corridor
veloci
tosto appressârsi, e Pandaro primiero
favellò: Bellicoso ardito
figlio
dell'illustre Tidèo, poiché l'acuto
mio stral non ti domò, vengo a
far prova
s'io di lancia ferir meglio mi sappia.
Così detto, la lunga asta
vibrando
fulminolla, e colpì di Dïomede
lo scudo sì, che la ferrata
punta
tutto passollo, e ne sfiorò l'usbergo.
Sei ferito nel fianco (alto
allor grida
l'illustre feritor), né a lungo, io spero,
vivrai: la gloria
che mi porti è somma.
Errasti, o folle, il colpo (imperturbato
gli rispose
l'eroe); ben io m'avviso
ch'uno almeno di voi, pria di ristarvi
da questa
zuffa, nel suo sangue steso
l'ira di Marte sazierà. Ciò detto,
scagliò.
Minerva ne diresse il telo,
e a lui che curvo lo sfuggìa, cacciollo
tra il
naso e il ciglio. Penetrò l'acuto
ferro tra' denti, ne tagliò
l'estrema
lingua, e di sotto al mento uscì la punta.
Piombò dal cocchio,
gli tonâr sul petto
l'armi lucenti, sbigottîr gli stessi
cavalli, e a lui
si sciolsero per sempre
e le forze e la vita. Enea temendo
in man non
caggia degli Achei l'ucciso,
scese, e protesa a lui l'asta e lo
scudo
giravagli dintorno a simiglianza
di fier lïone in suo valor
sicuro;
e parato a ferir qual sia nemico
che gli si accosti, il difendea
gridando
orribilmente. Diè di piglio allora
ad un enorme sasso
Dïomede
di tal pondo, che due nol porterebbero
degli uomini moderni; ed ei
vibrandolo
agevolmente, e solo e con grand'impeto
scagliandolo, percosse
Enea nell'osso
che alla coscia s'innesta ed è nomato
ciotola. Il fracassò
l'aspro macigno
con ambi i nervi, e ne stracciò la pelle.
Diè del
ginocchio al grave colpo in terra
l'eroe ferito, e colla man
robusta
puntellò la persona. Un negro velo
gli coperse le luci, e qui
perìa,
se di lui tosto non si fosse avvista
l'alma figlia di Giove
Citerea
che d'Anchise pastor l'avea concetto.
Intorno al caro figlio ella
diffuse
le bianche braccia, e del lucente peplo
gli antepose le falde,
onde dall'armi
ripararlo, e impedir che ferro acheo
gli passi il petto e
l'anima gl'involi.
Mentre al fiero conflitto ella sottragge
il diletto
figliuol, Stènelo il cenno
membrando dell'amico, ne sostiene
in disparte i
cavalli, e prestamente
all'anse della biga avviluppate
le redini,
s'avventa ai ben chiomati
corridori d'Enea; di mezzo ai Teucri
agli Achivi
li spinge, ed alle navi
spedisceli fidati al dolce amico
Dëipilo, cui
sopra ogni altro eguale,
perché d'alma conforme, in pregio ei tiene.
Esso
intanto l'eroe capaneìde
rimontato il suo cocchio, e in man riprese
le
riluccnti briglie, allegramente
de' cavalli sonar l'ugna facea
dietro il
Tidìde che coll'empio ferro
l'alma Venere insegue, la sapendo
non una
delle Dee che de' mortali
godon le guerre amministrar, siccome
Minerva e
la di mura atterratrice
torva Bellona, ma un'imbelle Diva.
Poiché
raggiunta per la folta ei l'ebbe,
abbassò l'asta il fiero, e
coll'acuto
ferro l'assalse, e della man gentile
gli estremi le sfiorò
verso il confine
della palma. Forò l'asta la cute,
rotto il peplo odoroso
a lei tessuto
dalle Grazie, e fluì dalla ferita
l'icòre della Dea, sangue
immortale,
qual corre de' Beati entro le vene;
ch'essi, né frutto cereal
gustando
né rubicondo vino, esangui sono,
e quindi han nome d'Immortali.
Al colpo
died'ella un forte grido, e dalle braccia
depose il figlio, a cui
difesa Apollo
corse tosto, e l'ascose entro una nube,
onde camparlo
dall'achee saette.
Il bellicoso Dïomede intanto,
Cedi, figlia di Giove,
alto gridava,
cedi il piè dalla pugna. E non ti basta
sedur d'imbelli
femminette il core?
Se qui troppo t'avvolgi, io porto avviso
che tale
desteratti orror la guerra,
ch'anco il sol nome ti darà paura.
Disse; ed
ella turbata ed affannosa
partiva. La veloce Iri per mano
la prese, la
tirò fuor del tumulto
carca di doglie e livida le nevi
della morbida cute.
Alla sinistra
della pugna seduto il furibondo
Marte trovò: la grande asta
del Nume
e i veloci corsier cingea la nebbia.
Gli abbracciò le ginocchia
supplicando
la sorella, e gridò: Caro fratello,
miserere di me, dammi il
tuo cocchio
ond'io salga all'Olimpo. Assai mi cruccia
una ferita che mi
feo la destra
d'un ardito mortal, di Dïomede,
che pur con Giove piglierìa
contesa.
Sì prega, e Marte i bei destrier le cede.
Salì sul cocchio allor
la dolorosa,
salì al suo fianco la taumanzia figlia,
e in man tolte le
briglie, a tutto corso
i cavalli sferzò che desïosi
volavano. Arrivâr
tosto all'Olimpo,
eccelsa sede degli Eterni. Quivi
arrestò la veloce Iri i
corsieri,
li disciolse dal giogo, e ristorolli
d'immortal cibo. La divina
intanto
Venere al piede si gittò dell'alma
genitrice Dïona, che la
figlia
raccogliendo al suo seno, e colla mano
la carezzando e
interrogando, Oh! disse,
oh! chi mai de' Celesti si permise,
amata figlia,
in te sì grave offesa,
come rea di gran fallo alla scoperta?
Il superbo
Tidìde Dïomede,
rispose Citerea, l'empio ferimmi
perché il mio figlio, il
mio sovra ogni cosa
diletto Enea sottrassi dalla pugna,
che pugna non è
più di Teucri e Achivi,
ma d'Achivi e di numi. - E a lei Dïona
inclita
Diva replicò: Sopporta
in pace, o figlia, il tuo dolor; ché
molti
degl'Immortali con alterno danno
molte soffrimmo dai mortali
offese.
Le soffrì Marte il dì che gli Aloìdi
Oto e il forte Efïalte
l'annodaro
d'aspre catene. Un anno avvinto e un mese
in carcere di ferro
egli si stette,
e forse vi perìa, se la leggiadra
madrigna Eeribèa nol
rivelava
al buon Mercurio che di là furtivo
lo sottrasse, già tutto per la
lunga
e dolorosa prigionìa consunto.
Le soffrì Giuno allor che il forte
figlio
d'Anfitrïone con trisulco dardo
la destra poppa le piagò, sì
ch'ella
d'alto duol ne fu colta. Anco il gran Pluto
dal medesmo mortal
figlio di Giove
aspro sofferse di saetta un colpo
là su le porte
dell'Inferno, e tale
lo conquise un dolor, che lamentoso
e con lo stral
ne' duri omeri infisso
all'Olimpo sen venne, ove Peone,
di lenitivi
farmaci spargendo
la ferita, il sanò; ché sua natura
mortal non era: ma
ben era audace
e scellerato il feritor che d'ogni
nefario fatto si fea
beffe, osando
fin gli abitanti saettar del cielo.
Oggi contro te pur
spinse Minerva
il figlio di Tidèo. Stolto! ché seco
punto non pensa che
son brevi i giorni
di chi combatte con gli Dei: né babbo
lo chiameran
tornato dalla pugna
i figlioletti al suo ginocchio avvolti.
Benché forte
d'assai, badi il Tidìde
ch'un più forte di te seco non pugni;
badi che
l'Adrastina Egïalèa,
di Dïomede generosa moglie,
presto non debba
risvegliar dal sonno
ululando i famigli, e il forte Acheo
plorar che colse
il suo virgineo fiore.
In questo dir con ambedue le palme
la man le
asterse dal rappreso icòre,
e la man si sanò, queta ogni doglia.
Riser
Giuno e Minerva a quella vista,
e con amaro motteggiar la Diva
dalle
glauche pupille il genitore
così prese a tentar. Padre, senz'ira
un fiero
caso udir vuoi tu? Ciprigna
qualche leggiadra Achea sollecitando
a seguir
seco i suoi Teucri diletti,
nel carezzarla ed acconciarle il peplo,
a un
aurato ardiglione, ohimè! s'è punta
la dilicata mano. - Il sommo
padre
grazïoso sorrise, e a sé chiamata
l'aurea Venere, Figlia, le
dicea,
per te non sono della guerra i fieri
studi, ma l'opre d'Imeneo
soavi.
A queste intendi, ed il pensier dell'armi
tutto a Marte lo lascia
ed a Minerva.
Mentre in cielo seguìan queste favelle,
contro il figlio
d'Anchise il bellicoso
Dïomede si spinge, né l'arresta
il saper che la man
d'Apollo il copre.
Desïoso di porre Enea sotterra
e spogliarlo dell'armi
peregrine,
nulla ei rispetta un sì gran Dio. Tre volte
a morte l'assalì,
tre volte Apollo
gli scosse in faccia il luminoso scudo.
Ma come il forte
Calidonio al quarto
impeto venne, il saettante nume
terribile gridò:
Guarda che fai;
via di qua, Dïomede; il paragone
non tentar degli Dei, ché
de' Celesti
e de' terrestri è disugual la schiatta.
Disse; e alquanto
l'eroe ritrasse il piede
l'ira evitando dell'arciero Apollo,
che, fuor
condutto della mischia Enea,
nella sagrata Pergamo fra l'are
del suo
delubro il pose. Ivi Latona,
ivi l'amante dello stral Dïana
lo curâr,
l'onoraro. Intanto Apollo
formò di tenue nebbia una figura
in sembianza
d'Enea; d'Enea le finse
l'armi, e dintorno al vano simulacro
Teucri ed
Achei facean di targhe e scudi
un alterno spezzar che intorno ai
petti
orrendo risonava. Allor si volse
al Dio dell'armi il Dio del giorno,
e disse:
Eversor di città, Marte omicida,
che sol nel sangue esulti, e non
andrai
ad aggredir tu dunque, a cacciar lungi
questo altiero mortal,
questo Tidìde
che alle mani verrìa con Giove ancora?
Egli assalse e ferì
prima Ciprigna
al carpo della mano; indi avventossi
a me medesmo
coll'ardir d'un Dio.
Sì dicendo, s'assise alto sul colmo
della pergàmea
rocca, e il rovinoso
Marte sen corse a concitar de' Teucri
le schiere, e
preso d'Acamante il volto,
d'Acamante de' Traci esimio duce,
così prese a
spronar di Priamo i figli:
Illustri Prïamìdi, e sino a quando
permetterete
della vostra gente
per la man degli Achei sì rio macello?
Sin tanto forse
che la strage arrivi
alle porte di Troia? A terra è steso
l'eroe che al
pari del divino Ettorre
onoravamo, Enea preclaro figlio
del magnanimo
Anchise. Andiam, si voli
alla difesa di cotanto amico.
Destâr la forza e
il cor d'ogni guerriero
queste parole. Sarpedon con aspre
rampogne allora
rabbuffando Ettorre,
Dove andò, gli dicea, l'alto valore
che poc'anzi
t'avevi? E pur t'udimmo
vantarti che tu sol senza l'aita
de' collegati, e
co' tuoi soli affini
e co' fratei bastavi alla difesa
della città. Ma
niuno io qui ne veggo,
niun ne ravviso di costor, ché tutti
trepidanti
s'arretrano siccome
timidi veltri intorno ad un leone:
e qui frattanto
combattiam noi soli,
noi venuti in sussidio. Io che mi sono
pur della
lega, di lontana al certo
parte mi mossi, dalla licia terra,
dal vorticoso
Xanto, ove la cara
moglie ed un figlio pargoletto e molti
lasciai di
quegli averi a cui sospira
l'uomo mai sempre bisognoso. E pure
alleato,
qual sono, i miei guerrieri
esorto alla battaglia, ed io medesmo
sto qui
pronto a pugnar contra costui,
benché qui nulla io m'abbia che il
nemico
rapir mi possa, né portarlo seco.
E tu ozïoso ti ristai? né
almeno
agli altri accenni di far fronte, e in salvo
por le consorti?
Guàrdati, che presi,
siccome in ragna che ogni cosa involve,
non
divenghiate del crudel nemico
cattura e preda, e ch'ei tra poco al
suolo
la vostr'alma cittade non adegui.
A te tocca l'aver di ciò
pensiero
e giorno e notte, a te dell'alleanza
i capitani supplicar, che
fermi
resistano al lor posto, e far che niuna
cagion più sorga di rampogne
acerbe.
D'Ettore al cor fu morso amaro il detto
di Sarpedonte, sì che
tosto a terra
saltò dal cocchio in tutto punto, e l'asta
scotendo ad
animar corse veloce
d'ogni parte i Troiani alla battaglia,
e destò mischia
dolorosa. Allora
voltâr la fronte i Teucri, e impetuosi
fêrsi incontro
agli Achei, che stretti insieme
gli aspettâr di piè fermo e senza
tema.
Come allor che di Zefiro lo spiro
disperde per le sacre aie la
pula,
mentre la bionda Cerere la scevra
dal suo frutto gentil, che il buon
villano
vien ventilando; lo leggier spulezzo
tutta imbianca la parte ove
del vento
lo sospinge il soffiar: così gli Achivi
inalbava la polve al
cielo alzata
dall'ugna de' cavalli entrati allora
sotto la sferza degli
aurighi in zuffa.
Difilati portavano i Troiani
il valor delle destre, e
furïoso
li soccorrea Gradivo discorrendo
il campo tutto, e tutta di gran
buio
la battaglia coprendo. E sì di Febo
i precetti adempìa, di Febo
Apollo
d'aurea spada precinto, che comando
dato gli avea d'accendere ne'
Teucri
l'ardimento guerrier, vista partire
l'aiutatrice degli Achei
Minerva.
Fuori intanto de' pingui aditi sacri
Enea messo da Febo, e per
lui tutto
di gagliardìa ripieno appresentossi
a' suoi compagni che gioîr,
vedendo
vivo e salvo il guerriero e rintegrato
delle pristine forze. Ma
gravarlo
d'alcun dimando il fier nol consentìa
lavor dell'armi che
dell'arco il divo
sire eccitava, e l'omicida Marte,
e la Discordia ognor
furente e pazza.
D'altra parte gli Aiaci e Dïomede
e il re dulìchio
anch'essi alla battaglia
raccendono gli Achei già per sé stessi
né la
furia tementi né le grida
de' Dardani, ma fermi ad aspettarli.
Quai nubi
che de' monti in su la cima
immote arresta di Saturno il figlio
quando
l'aria è tranquilla e il furor dorme
degli Aquiloni o d'altro impetuoso
di
nubi fugator vento sonoro;
di piè fermo così senza veruno
pensier di fuga
attendono gli Achivi
de' Troiani l'assalto. E Agamennóne
per le file
scorrendo, e molte cose
d'ogni parte avvertendo, Amici, ei grida,
uomini
siate e di cor forte, e ognuno
nel calor della pugna il guardo tema
del
suo compagno. De' guerrier che infiamma
generoso pudore, i salvi sono
più
che gli uccisi; chi rossor di fuga
non sente, ha persa coll'onor la
forza.
Scagliò l'asta, ciò detto, ed un guerriero
percosse de' primai,
commilitone
del magnanimo Enea, Dëicoonte,
di Pèrgaso figliuol tenuto in
pregio
dai Teucri al paro che di Priamo i figli,
perché presto a pugnar
sempre tra' primi.
Colpillo Atride nell'opposto scudo
che difesa non fece.
Trapassollo
tutto la lancia, e per lo cinto all'imo
ventre discese.
Strepitoso ei cadde,
e l'armi rimbombâr sovra il caduto.
Enea diè morte di
rincontro a due
valentissimi, Orsiloco e Cretone,
figli a Dïòcle, della
ben costrutta
città di Fere un ricco abitatore.
Scendea costui dal fiume
Alfeo che largo
la pilia terra di bell'acque inonda:
Alfèo produsse
Orsiloco di molte
genti signore, Orsiloco Dïòcle,
e Dïòcle costor, mastri
di guerra
d'un sol parto acquistati. Aveano entrambi
già fatti adulti
navigato a Troia
per onor degli Atridi, e qui la vita
entrambi terminâr.
Quai due leoni,
cui la madre sul monte entro i recessi
d'alto speco educò,
fan ruba e guasto
delle mandre, de' greggi e delle stalle,
finché dal
ferro de' pastor raggiunti
caggiono anch'essi; e tali allor
dall'asta
d'Enea percossi caddero costoro
col fragor di recisi eccelsi
abeti.
Strinse pietà dei due caduti il petto
del prode Menelao, che tosto
innanzi
si spinse di lucenti armi vestito
l'asta squassando. E Marte, che
domarlo
per man d'Enea fa stima, il cor gli attizza.
Del magnanimo Nestore
il buon figlio
Antiloco osservollo, e un qualche danno
paventando
all'Atride, un qualche grave
storpio all'impresa degli Achei,
processe
nell'antiguardo. Già s'aveano incontro
abbassate le picche i due
campioni
pronti a ferir, quando d'Atride al fianco
Antiloco comparve: e di
due tali
viste le forze in un congiunte, Enea,
benché prode guerriero,
retrocesse.
Trassero questi tra gli Achei gli estinti
Orsiloco e Cretone,
e d'ambedue
le miserande spoglie in man deposte
degli amici, dier volta, e
nella pugna
novellamente si mischiâr tra' primi.
Fu morto il duce allor
de' generosi
scudati Paflagoni, il marziale
Pilemene. Il ferì d'asta alla
spalla
l'Atride Menelao. Lo suo sergente
ed auriga Midon, gagliardo
figlio
d'Antimnio, cadde per la man d'Antiloco.
Dava questo Midon, per via
fuggirsi,
la volta al cocchio. Antiloco nel pieno
del cubito il ferì con
tale un colpo
di sasso, che gittògli al suol le belle
eburnee briglie. Gli
fu tosto sopra
il feritor col brando, e su la tempia
d'un dritto
l'attastò, che giù dal carro
lo travolse, e ficcògli nella sabbia
testa e
spalle. Anelante in quello stato
ei restossi gran pezza, ché profondo
era
il sabbion; finché i destrier del tutto
lo riversâr calpesto nella
polve.
Diè lor di piglio Antiloco, e veloce
col flagello li spinse al
campo acheo.
Com'Ettore di mezzo all'ordinanze
vide lor prove, impetuoso
mosse
con alte grida ad investirli, e dietro
de' Teucri si traea le forti
squadre
cui Marte è duce e la feral Bellona.
Bellona in compagnìa vien
dell'orrendo
tumulto della zuffa; e Marte in pugno
palleggia un'asta
smisurata, e or dietro
or davanti cammina al grande Ettorre.
Turbossi a
quella vista il bellicoso
Tidìde; e quale della strada ignaro
vïator che
trascorsa un'ampia landa
giunge a rapido fiume che mugghiante
l'onda del
mar devolve, e visto il flutto
che freme e spuma, di fuggir
s'affretta
l'orme sue ricalcando: a questa guisa
retrocesse il Tidìde, e
al suo drappello
volgendo le parole: Amici, ei disse,
qual fia stupor se
forte d'asta e audace
combattente si mostra il duce Ettorre?
Sempre al
fianco gli viene un qualche iddio
che alla morte l'invola; ed or lo
stesso
Marte in sembianza d'un mortal l'assiste.
Non vogliate attaccar
dunque co' numi
ostinata contesa, e date addietro,
ma col viso ognor vòlto
all'inimico.
Mentr'egli sì dicea, scagliârsi i Teucri
addosso alla sua
schiera. E quivi Ettorre
a morte mise due guerrier, nell'armi
assai
valenti e in un sol cocchio ascesi,
Anchïalo e Meneste. Ebbe di
loro
pietade il grande Telamonio Aiace,
e féssi avanti e stette, e la
lucente
asta lanciando, Anfio colpì, che figlio
di Selago tenea suo seggio
in Peso
ricco d'ampie campagne. Ma la nera
Parca ad Ilio il menò
confederato
del re troiano e de' suoi figli. Il colse
sul cinto il lungo
telamonio ferro,
e nell'imo del ventre si confisse.
Diè cadendo un
rimbombo, e a dispogliarlo
corse l'illustre vincitor; ma un nembo
i
Troiani piovean di frecce acute
che d'irta selva gli coprîr lo scudo.
Ben
egli al morto avvicinossi, e il petto
calcandogli col piè, la
fulgid'asta
ne sferrò, ma dall'omero le belle
armi rapirgli non poteo: sì
densa
la grandine il premea delle saette.
E temendo l'eroe nol
circuisse
de' Troiani la piena, che ristretti
erano e molti e poderosi, e
tutti
con armi d'ogni guisa e d'ogni tiro
ad incalzarlo, a repulsarlo
intesi,
ei benché forte e di gran corpo e d'alto
ardir diè volta, e si
ritrasse addietro.
Mentre questi alle mani in questa parte
si travaglian
così, nemico fato
contra l'illustre Sarpedon sospinse
l'Eraclide
Tlepòlemo, guerriero
di gran persona e di gran possa. Or come
a fronte si
trovâr quinci il nepote
e quindi il figlio del Tonante Iddio,
Tlepòlemo
primiero così disse:
Duce de' Licii Sarpedon, qual uopo
rozzo in guerra a
tremar qua ti condusse?
È mentitor chi dell'Egìoco Giove
germe ti dice.
Dal valor dei forti,
che nell'andata età nacquer di lui,
troppo lungi se'
tu. Ben altro egli era
il mio gran genitor, forza divina,
cuor di leone.
Qua venuto un giorno
a via menar del re Laomedonte
i promessi destrieri,
egli con sole
sei navi e pochi armati Ilio distrusse,
e vedovate ne lasciò
le vie.
Tu sei codardo, tu a perir qui traggi
i tuoi soldati, tu veruna
aita,
col tuo venir di Licia, non darai
alla dardania gente; e quando
pure
un gagliardo ti fossi, il braccio mio
qui stenderatti e spingeratti a
Pluto.
E di rimando a lui de' Licii il duce:
Tlepòlemo, le sacre iliache
mura
Ercole, è ver, distrusse, e la scempiezza
del frigio sire il meritò,
che ingrato
al beneficio con acerbi detti
oltraggiollo; e i destrieri,
alta cagione
di sua venuta, gli negò. Ma i vanti
paterni non torran che la
mia lancia
qui non ti prostri. Tu morrai: son io
che tel predìco, e a me
l'onor qui tosto
darai della vittoria, e l'alma a Pluto.
Ciò detto appena,
sollevaro in alto
i ferrati lor cerri ambo i guerrieri,
ed ambo a un tempo
gli scagliâr. Percosse
Sarpedonte il nemico a mezzo il collo,
sì che tutto
il passò l'asta crudele,
e a lui gli occhi coperse eterna notte.
Ma il
telo uscito nel medesmo istante
dalla man di Tlepòlemo la manca
coscia
ferì di Sarpedon. Passolla
infino all'osso la fulminea punta,
ma non diè
morte, ché vietollo il padre.
Accorsero gli amici, e dal
tumulto
sottrassero l'eroe che del confitto
telo di molto si dolea, né
mente
v'avea posto verun, né s'avvisava
di sconficcarlo dalla coscia
offesa,
onde espedirne il camminar: tant'era
del salvarlo la fretta e la
faccenda.
Dall'altra parte i coturnati Achei
di Tlepòlemo anch'essi dalla
pugna
ritraggono la salma. Al doloroso
spettacolo la forte alma
d'Ulisse
si commosse altamente; e in suo pensiero
divisando ne vien s'ei
prima insegua
di Giove il figlio, o più gli torni il darsi
alla strage de'
Licii. Alla sua lancia
non concedean le Parche il porre a morte
del gran
Tonante il valoroso seme.
Scagliasi ei dunque da Minerva spinto
nella
folta dei Licii, e quivi uccide
l'un sovra l'altro Alastore,
Cerano,
Cromio, Pritani, Alcandro, e Noemone
ed Alio: e più n'avrìa di lor
prostrati
il divino guerrier, se il grande Ettorre
di lui non s'accorgea.
Tra i primi ei dunque
processe di corrusche armi splendente,
e portante il
terror ne' petti argivi.
Come il vide vicin fe' lieto il core
Sarpedonte,
e con voce lamentosa:
Generoso Prïamide, dicea,
non lasciarmi giacer preda
al nemico:
mi soccorri, e la vita m'abbandoni
nella vostra città, poiché
m'è tolto
il tornarmi al natìo dolce terreno,
e d'allegrezza spargere la
mia
diletta moglie e il pargoletto figlio.
Non rispose l'eroe; ma
desïoso
di vendicarlo e ricacciar gli Achivi
colla strage di molti, oltre
si spinse.
In questo mezzo la pietosa cura
de' compagni adagiò sotto un
bel faggio
a Giove sacro Sarpedonte, e il telo
dalla piaga gli svelse il
valoroso
diletto amico Pelagon. Nell'opra
svenne il ferito, e s'annebbiò
la vista;
ma l'aura boreal, che fresca intorno
ventavagli, tornò ne' primi
uffici
della vita gli spirti; e nell'anelo
petto affannoso ricreògli il
core.
Da Marte intanto e dall'ardente Ettorre
assaliti gli Achei né
paurosi
verso le navi si fuggìan, né arditi
farsi innanzi sapean. Ma
quando il grido
corse tra lor che Marte era co' Teucri,
indietro si piegâr
sempre cedendo.
Or chi prima, chi poi fu l'abbattuto
dal ferreo Marte e
dall'audace Ettorre?
Teutrante che sembianza avea d'un Dio,
l'agitatore di
cavalli Oreste,
il vibrator di lancia Etolio Treco,
e l'Enopide Elèno, ed
Enomào,
e d'armi adorno di color diverso
Oresbio che a far d'oro alte
conserve
posto il pensier, tenea suo seggio in Ila
appo il lago Cefisio
ov'altri assai
opulenti Beozi avean soggiorno.
Tale e tanta d'Achivi
occisïone
Giuno mirando, a Pallade si volse,
e con preste parole: Ohimè!
le disse,
invitta figlia dell'Egìoco Giove,
se libera lasciam
dell'omicida
Marte la furia, indarno a Menelao
noi promettemmo
dell'iliache torri
la caduta, e felice il suo ritorno.
Or via, scendiamo,
e di valor noi pure
facciam prova laggiù. Disse, e Minerva
tenne l'invito.
Allor la veneranda
Saturnia Giuno ad allestir veloce
corse i d'oro bardati
almi destrieri.
Immantinente al cocchio Ebe le curve
ruote innesta. Un
ventaglio apre ciascuna
d'otto raggi di bronzo, e si rivolve
sovra l'asse
di ferro. Il giro è tutto
d'incorruttibil oro, ma di bronzo
le salde lame
de' lor cerchi estremi.
Maraviglia a veder! Son puro argento
i rotondi lor
mozzi, e vergolate
d'argento e d'ôr del cocchio anco le cinghie
con
ambedue dell'orbe i semicerchi,
a cui sospese consegnar le guide.
Si
dispicca da questo e scorre avanti
pur d'argento il timone, in cima a
cui
Ebe attacca il bel giogo e le leggiadre
pettiere; e queste parimenti e
quello
d'auro sono contesti. Desïosa
Giuno di zuffe e del rumor di
guerra,
gli alipedi veloci al giogo adduce.
Né Minerva s'indugia. Ella
diffuso
il suo peplo immortal sul pavimento
delle sale paterne,
effigïato
peplo, stupendo di sua man lavoro,
e vestita di Giove la
corazza,
di tutto punto al lagrimoso ballo
armasi. Intorno agli omeri
divini
pon la ricca di fiocchi Egida orrenda,
che il Terror d'ogn'intorno
incoronava.
Ivi era la Contesa, ivi la Forza,
ivi l'atroce Inseguimento, e
il diro
Gorgonio capo, orribile prodigio
dell'Egìoco signore. Indi alla
fronte
l'aurea celata impone irta di quattro
eccelsi coni, a ricoprir
bastante
eserciti e città. Tale la Diva
monta il fulgido cocchio, e l'asta
impugna
pesante, immensa, poderosa, ond'ella
intere degli eroi le squadre
atterra
irata figlia di potente iddio.
Giuno, al governo delle briglie,
affretta
col flagello i corsieri. Cigolando
per sé stesse s'aprîr l'eteree
porte
custodite dall'Ore a cui commessa
del gran cielo è la cura e
dell'Olimpo,
onde serrare e disserrar la densa
nube che asconde degli Dei
la sede.
Per queste porte dirizzâr le Dive
i docili cavalli, e
ritrovaro
scevro dagli altri Sempiterni e solo
su l'alta vetta dell'Olimpo
assiso
di Saturno il gran figlio. Ivi i destrieri
sostò la Diva dalle
bianche braccia,
e il supremo de' numi interrogando:
Giove padre, gli
disse, e non ti prende
sdegno de' fatti di Gradivo atroci?
Non vedi quanta
e quale il furibondo
strage non giusta degli Achei commette?
Io ne son
dolorosa: e queti intanto
si letiziano Apollo e Citerea,
essi che questo
d'ogni legge schivo
forsennato aizzâr. Padre, s'io scendo
a rintuzzar
l'audace, a discacciarlo
dalla pugna, n'andrai tu meco in ira?
Va, le
rispose delle nubi il sire,
spingi contra costui la predatrice
Minerva, a
farlo assai dolente usata.
Di ciò lieta la Dea fe' su le groppe
de'
corsieri sonar la sferza; e quelli
infra la terra e lo stellato
cielo
desïosi volaro; e quanto vede
d'aereo spazio un uom che in alto
assiso
stende il guardo sul mar, tanto d'un salto
ne varcâr delle Dive i
tempestosi
destrier. Là giunte dove l'onde amiche
confondono davanti
all'alta Troia
Simoenta e Scamandro, ivi rattenne
Giuno i cavalli, gli
staccò dal cocchio,
e di nebbia li cinse. Il Simoenta
loro un pasco fornì
d'ambrosie erbette.
Tacite allora, e col leggiero incesso
di timide
colombe ambe le Dive
appropinquârsi al campo acheo, bramose
di dar
soccorso a' combattenti. E quando
arrivâr dove molti e valorosi,
come
stuol di cinghiali o di lïoni,
si stavano ristretti intorno al
forte
figliuolo di Tidèo, presa la forma
di Stèntore che voce avea di
ferro,
e pareggiava di cinquanta il grido,
Giuno sclamò: Vituperati
Argivi,
mere apparenze di valor, vergogna!
Finché mostrossi in campo la
divina
fronte d'Achille, non fur osi i Teucri
scostarsi mai dalle dardanie
porte;
cotanto di sua lancia era il terrore.
Or lungi dalle mura insino al
mare
vengono audaci a cimentar la pugna.
Sì dicendo svegliò di
ciascheduno
e la forza e l'ardir. Sorgiunse in questa
la cerula Minerva a
Dïomede
ch'appo il carro la piaga, onde l'offese
di Pandaro lo stral,
refrigerava;
e colla stanca destra sollevando
dello scudo la soga tutta
molle
di molesto sudor, tergea del negro
sangue la tabe. Colla man
posata
sul giogo de' corsier la Dea sì disse:
Tidèo per certo generossi un
figlio
che poco lo somiglia. Era Tidèo
picciol di corpo, ma guerriero; e
quando
io gli vietava di pugnar, fremea.
E quando senza compagnìa
venuto
ambasciatore a Tebe io co' Tebani
ne' regii alberghi a banchettar
l'astrinsi,
non depose egli, no, la bellicosa
alma di prima, ma sfidando
il fiore
de' giovani Cadmei, tutti li vinse
agevolmente col mio nume al
fianco.
E al tuo fianco del pari io qui ne vegno,
e ti guardo e t'esorto e
ti comando
di pugnar co' Troiani arditamente.
Ma te per certo o la fatica
oppresse,
o qualche tema agghiaccia, e tu non sei
più, no, la prole del
pugnace Enìde.
Ti riconosco, o Dea (tosto rispose
il valoroso eroe), ti
riconosco,
figlia di Giove, e di buon grado e netta
mia ragione dirò. Né
vil timore
né ignavia mi rattien, ma il tuo comando.
Non se' tu quella che
pugnar poc'anzi
mi vietasti co' numi? E se la figlia
di Giove Citerea nel
campo entrava,
non mi dicesti di ferirla? Il feci.
Ed or recedo, e agli
altri Achivi imposi
d'accogliersi qui tutti, ora che Marte,
ben lo
conosco, de' Troiani è il duce.
E a lui la Diva dalle luci
azzurre:
Diletto Dïomede, alcuna tema
di questo Marte non aver, né
d'altro
qualunque iddio, se tua difesa io sono.
Sorgi, e drizza in costui
gl'impetuosi
tuoi corridori, e stringilo e il percuoti,
né riguardo
t'arresti né rispetto
di questo insano ad ogni mal parato
e ad ogni
parteggiar, che a me pur dianzi
e a Giuno promettea che contra i Teucri
a
pro de' Greci avrìa pugnato; ed ora
immemore de' Greci i Teucri aiuta.
Sì
dicendo afferrò colla possente
destra il figliuol di Capanèo, dal
carro
traendolo; né quegli a dar fu tardo
un salto a terra; ed ella stessa
ascese
sovra il cocchio da canto a Dïomede
infiammata di sdegno.
Orrendamente
l'asse al gran pondo cigolò, ché carco
d'una gran Diva egli
era e d'un gran prode.
Al sonoro flagello ed alle briglie
diè di piglio
Minerva, e senza indugio
contra Marte sospinse i generosi
cornipedi. Lo
giunse appunto in quella
che atterrato l'enorme Perifante
(un fortissimo
Etòlo, egregio figlio
d'Ochesio), il Dio crudel lordo di sangue
lo
trucidava. In arrivar si pose
Minerva di Pluton l'elmo alla fronte,
onde
celarsi di quel fero al guardo.
Come il nume omicida ebbe
veduto
l'illustre Dïomede, al suol disteso
lasciò l'immenso Perifante, e
dritto
ad investir si spinse il cavaliero.
E tosto giunti l'un dell'altro
a fronte,
Marte il primo scagliò l'asta di sopra
al giogo de' corsier
lungo le briglie,
di rapirgli la vita desïoso:
ma prese colla man l'asta
volante
la Dea Minerva e la stornò dal carro,
e vano il colpo riuscì.
Secondo
spinse l'asta il Tidìde a tutta forza.
La diresse Minerva, e al
Dio l'infisse
sotto il cinto nell'epa, e vulnerollo,
e lacerata la divina
cute
l'asta ritrasse. Mugolò il ferito
nume, e ruppe in un tuon pari di
nove
o dieci mila combattenti al grido
quando appiccan la zuffa. I Troi
l'udiro,
l'udîr gli Achivi, e ne tremâr: sì forte
fu di Marte il muggito.
E quale pel grave
vento che spira dalla calda terra.
si fa di nubi
tenebroso il cielo;
tal parve il ferreo Marte a Dïomede,
mentre avvolto di
nugoli alle sfere
dolorando salìa. Giunto alla sede
degli Dei su l'Olimpo,
accanto a Giove
mesto s'assise, discoperse il sangue
immortal che scorrea
dalla ferita,
e in suono di lamento: O padre, ei disse,
e non t'adiri a
cotal vista, a fatti
sì nequitosi? Esizïosa sempre
a noi Divi tornò la
mutua gara
di gratuir l'umana stirpe; e intanto
di nostre liti la cagion
tu sei,
tu che una figlia generasti insana,
e di sterminii e di malvage
imprese
invaghita mai sempre. Obbedïenti
hai quanti alberga Sempiterni il
cielo;
tutti inchiniamo a te. Sola costei
né con fatti frenar né con
parole
tu sai per anco, connivente padre
di pestifera furia. Ella pur
dianzi
stimolò di Tidèo l'audace figlio
a pazzamente guerreggiar co'
numi;
ella a ferir Ciprigna; ella a scagliarsi
contra me stesso, e
pareggiarsi a un Dio.
E se più tardo il piè fuggìa, sarei
steso rimasto
fra quei tanti uccisi
in lunghe pene, né morir potendo
m'avrìa de' colpi
infranto la tempesta.
Bieco il guatò l'adunator de' nembi
Giove, e
rispose: Querimonie e lai
non mi far qui seduto al fianco mio,
fazïoso
incostante, e a me fra tutti
i Celesti odïoso. E risse e zuffe
e discordie
e battaglie, ecco le care
tue delizie. Trasfuso in te conosco
di tua madre
Giunon l'intollerando
inflessibile spirto, a cui mal posso
pur colle dolci
riparar; né certo
d'altronde io penso che il tuo danno or scenda,
che dal
suo torto consigliar. Non io
vo' per questo patir che tu sostegna
più
lungo duolo: mi sei figlio, e caro
la Dea tua madre a me ti partorìa.
Se
malvagio, qual sei, d'altro qualunque
nume nascevi, da gran tempo
avresti
sorte incorsa peggior degli Uranìdi.
Così detto, a Peon comando ei
fece
di risanarlo. La ferita ei sparse
di lenitivo medicame, e
tolto
ogni dolore, il tornò sano al tutto,
ché mortale ei non era. E come
il latte
per lo gaglio sbattuto si rappiglia,
e perde il suo fluir sotto
la mano
del presto mescitor; presta del pari
la peonia virtù Marte
guarìa.
Ebe poscia lavollo, e di leggiadre
vesti l'avvolse; ed egli
accanto a Giove
dell'alto onor superbo si ripose.
Repressa del crudel
Marte la strage,
tornâr contente alla magion del padre
Giuno Argiva e
Minerva Alalcomènia.
Libro
VI
Soli
senz'alcun Dio Teucri ed Achei
così restaro a battagliar. Più volte
tra il
Simoenta e il Xanto impetuosi
si assaliro; più volte or da quel lato
ed or
da questo con incerte penne
la Vittoria volò. Ruppe di Troi
primo una
squadra il Telamonio Aiace,
presidio degli Achivi, e il primo raggio
portò
di speme a' suoi, ferendo un Trace
fortissimo guerriero e di gran
mole,
Acamante d'Eussòro. Il colse in fronte
nel cono dell'elmetto irto
d'equine
chiome, e nell'osso gli piantò la punta
sì che i lumi gli chiuse
il buio eterno.
Tolse la vita al Teutranìde Assilo
il marzio Dïomede. Era
d'Arisbe
bella contrada Assilo abitatore,
uom di molta ricchezza, a tutti
amico,
ché tutti in sua magion, posta lunghesso
la via frequente, ricevea
cortese.
Ma degli ospiti ahi! niuno accorse allora,
niun da morte il
campò. Solo il suo fido
servo Calesio, che reggeagli il cocchio,
morto ei
pur dal Tidìde, al fianco cadde
del suo signore, e con lui scese a
Pluto.
Eurìalo abbatte Ofelzio e Dreso; e poscia
Esepo assalta e Pedaso
gemelli,
che al buon Bucolïone un dì produsse
la Naiade gentile
Abarbarèa.
Bucolïon del re Laomedonte
primogenito figlio, ma di
nozze
furtive acquisto, conducea la greggia
quando alla ninfa in amoroso
amplesso
mischiossi, e di costor madre la feo.
Ma quivi tolse ad ambedue
la vita
e la bella persona e l'armi il figlio
di Mecistèo. Fur morti a un
tempo istesso
Astïalo dal forte Polipete;
il percosso Pidìte
dall'acuta
asta d'Ulisse; Aretaon da Teucro.
D'Antiloco la lancia Ablero
atterra,
Èlato quella del maggiore Atride,
Èlato che sua stanza avea
nell'alta
Pedaso in riva dell'ameno fiume
Satnioente. Euripilo
prostese
Melanzio; e l'asta dell'eroe Leìto
il fuggitivo Fìlaco
trafisse.
Ma l'Atride minor, strenuo guerriero,
vivo Adrasto pigliò.
Repente ombrando
li costui corridori, e via pel campo
paventosi fuggendo
in un tenace
cespo implicârsi di mirica, e quivi
al piede del timon
spezzato il carro
volâr con altri spaventati in fuga
verso le mura. Prono
nella polve
sdrucciolò dalla biga appo la ruota
quell'infelice. Colla
lunga lancia
Menelao gli fu sopra; e Adrasto a lui
abbracciando i ginocchi
e supplicando:
Pigliami vivo, Atride; e largo prezzo
del mio riscatto
avrai. Figlio son io
di ricco padre, e gran conserva ei tiene
d'auro, di
rame e di foggiato ferro.
Di questi largiratti il padre mio
molti doni, se
vivo egli mi sappia
nelle argoliche navi. - A questo prego
già dell'Atride
il cor si raddolcìa,
già fidavalo al servo, onde alle navi
l'adducesse;
quand'ecco Agamennòne
che a lui ne corre minaccioso e grida:
Debole
Menelao! e qual ti prende
de' Troiani pietà? Certo per loro
la tua casa è
felice! Or su; nessuno
de' perfidi risparmi il nostro ferro,
né pur
l'infante nel materno seno:
perano tutti in un con Ilio, tutti
senza onor
di sepolcro e senza nome.
Cangiò di Menelao la mente il fiero
ma non torto
parlar, sì ch'ei respinse
da sé con mano il supplicante, e lui
ferì tosto
nel fianco Agamennòne,
e supino lo stese. Indi col piede
calcato il petto
ne ritrasse il telo.
Nestore intanto in altra parte accende
l'acheo valor,
gridando: Amici eroi,
Dànai di Marte alunni, alcun non sia
ch'ora badi
alle spoglie, e per tornarne
carco alle navi si rimanga indietro.
Non
badiam che ad uccidere, e gli uccisi
poi nel campo a bell'agio
ispoglieremo.
Fatti animosi a questo dir gli Achei
piombâr su i Teucri,
che scorati e domi
di nuovo in Ilio si sarìan racchiusi,
se il prestante
indovino Eleno, figlio
del re troiano, non volgea per tempo
ad Ettore e ad
Enea queste parole:
Poiché tutta si folce in voi la speme
de' Troiani e
de' Licii, e che voi siete
i miglior nella pugna e nel consiglio,
voi,
Ettore ed Enea, qui state, e i nostri
alle porte fuggenti rattenete,
pria
che, con riso del nemico, in braccio
si salvin delle mogli. E come
tutte
ben rincorate le falangi avrete,
noi di piè fermo, benché lassi e in
dura
necessitade, qui farem coll'armi
buon ripicco agli Achei. Ciò fatto,
a Troia
tu, Ettore, ten vola, ed alla madre
di' che salga la rocca, e del
delubro
a Minerva sacrato apra le porte,
e vi raccolga le matrone, e il
peplo
il più grande, il più bello, e a lei più caro
di quanti in serbo ne'
regali alberghi
ella ne tien, deponga umilemente
su le ginocchia della
Diva, e dodici
giovenche le prometta ancor non dome,
se la nostra città
commiserando
e le consorti e i figli, ella dal sacro
Ilio allontana il
fiero Dïomede
combattente crudele, e vïolento
artefice di fuga, e per mio
senno
il più gagliardo degli Achei. Né certo
noi tremammo giammai tanto il
Pelìde,
benché figlio a una Dea, quanto costui
che fuor di modo
inferocisce, e nullo
vien di forze con esso a paragone.
Disse: e al cenno
fraterno obbedïente
Ettore armato si lanciò dal carro
con due dardi alla
mano; e via scorrendo
per lo campo e animando ogni guerriero,
rinfrescò la
battaglia: e tosto i Teucri
voltâr la faccia, e coraggiosi incontro
fersi
al nemico. S'arretrâr gli Achivi,
e la strage cessò; ch'essi mirando
sì
audaci i Teucri convertir le fronti,
stimâr disceso in lor soccorso un
Dio.
E tuttavia le sue genti Ettorre
confortando, gridava ad alta
voce:
Magnanimi Troiani, e voi di Troia
generosi alleati, ah siate,
amici,
siatemi prodi, e fuor mettete intera
la vostra gagliardìa, mentr'io
per poco
men volo in Ilio ad intimar de' padri
e delle mogli i preghi e le
votive
ecatombi agli Dei. - Parte, ciò detto.
Ondeggiano all'eroe, mentre
cammina,
l'alte creste dell'elmo; e il negro cuoio,
che gli orli attorna
dell'immenso scudo,
la cervice gli batte ed il tallone.
Di duellar bramosi
allor nel mezzo
dell'un campo e dell'altro appresentârsi
Glauco, prole
d'Ippoloco, e il Tidìde.
Come al tratto dell'armi ambo fur giunti,
primo
il Tidìde favellò: Guerriero,
chi se' tu? Non ti vidi unqua ne'
campi
della gloria finor. Ma tu d'ardire
ogni altro avanzi se aspettar non
temi
la mia lancia. È figliuol d'un infelice
chi fassi incontro al mio
valor. Se poi
tu se' qualche Immortal, non io per certo
co' numi pugnerò;
ché lunghi giorni
né pur non visse di Drïante il forte
figlio Licurgo che
agli Dei fe' guerra.
Su pel sacro Nisseio egli di Bacco
le nudrici
inseguìa. Dal rio percosse
con pungolo crudel gittaro i tirsi
tutte
insieme, e fuggîr: fuggì lo stesso
Bacco, e nel mar s'ascose, ove del
fero
minacciar di Licurgo paventoso
Teti l'accolse. Ma sdegnârsi i
numi
con quel superbo. Della luce il caro
raggio gli tolse di Saturno il
figlio,
e detestato dagli Eterni tutti
breve vita egli visse. All'armi io
dunque
non verrò con gli Dei. Ma se terreno
cibo ti nutre, accòstati; e
più presto
qui della morte toccherai le mete.
E d'Ippoloco a lui l'inclito
figlio:
Magnanimo Tidìde, a che dimandi
il mio lignaggio? Quale delle
foglie,
tale è la stirpe degli umani. Il vento
brumal le sparge a terra, e
le ricrea
la germogliante selva a primavera.
Così l'uom nasce, così muor.
Ma s'oltre
brami saper di mia prosapia, a molti
ben manifesta, ti farò
contento.
Siede nel fondo del paese argivo
Efira, una città, natìa
contrada
di Sisifo che ognun vincea nel senno.
Dall'Eolide Sisifo fu
nato
Glauco; da Glauco il buon Bellerofonte,
cui largiro gli Dei somma
beltade,
e quel dolce valor che i cuori acquista.
Ma Preto macchinò la sua
ruina,
e potente signor d'Argo che Giove
sottomessa gli avea, d'Argo
l'espulse
per cagione d'Antèa sposa al tiranno.
Furïosa costei ne
desïava
segretamente l'amoroso amplesso;
ma non valse a crollar del saggio
e casto
Bellerofonte la virtù. Sdegnosa
del magnanimo niego
l'impudica
volse l'ingegno alla calunnia, e disse
al marito così:
Bellerofonte
meco in amor tentò meschiarsi a forza:
muori dunque, o
l'uccidi. Arse di sdegno
Preto a questo parlar, ma non l'uccise,
di sacro
orror compreso. In quella vece
spedillo in Licia apportator di
chiuse
funeste cifre al re suocero, ond'egli
perir lo fêsse. Dagli Dei
scortato
partì Bellerofonte, al Xanto giunse,
al re de' Licii
appresentossi, e lieta
n'ebbe accoglienza ed ospital banchetto.
Nove
giorni fumò su l'are amiche
di nove tauri il sangue. E quando
apparve
della decima aurora il roseo lume
interrogollo il sire, e a lui la
tèssera
del genero chiedea. Viste le crude
note di Preto, comandògli in
prima
di dar morte all'indomita Chimera.
Era il mostro d'origine
divina
lïon la testa, il petto capra, e drago
la coda; e dalla bocca
orrende vampe
vomitava di foco. E nondimeno
col favor degli Dei l'eroe la
spense.
Pugnò poscia co' Sòlimi, e fu questa,
per lo stesso suo dir, la
più feroce
di sue pugne. Domò per terza impresa
le Amazzoni virili. Al suo
ritorno
il re gli tese un altro inganno, e scelti
della Licia i più forti,
in fosco agguato
li collocò; ma non redinne un solo:
tutti gli uccise
l'innocente. Allora
chiaro veggendo che d'un qualche iddio
illustre seme
egli era, a sé lo tenne,
e diegli a sposa la sua figlia, e mezza
la regal
potestade. Ad esso inoltre
costituiro i Licii un separato
ed ameno tenér,
di tutti il meglio,
d'alme viti fecondo e d'auree messi,
ond'egli a suo
piacer lo si coltivi.
Partorì poi la moglie al virtuoso
Bellerofonte tre
figliuoli, Isandro
e Ippoloco, ed alfin Laodamìa
che al gran Giove
soggiacque, e padre il fece
del bellicoso Sarpedon. Ma quando
venne in
odio agli Dei Bellerofonte,
solo e consunto da tristezza errava
pel campo
Aleio l'infelice, e l'orme
de' viventi fuggìa. Da Marte ucciso
cadde
Isandro co' Sòlimi pugnando;
Laodamìa perì sotto gli strali
dell'irata
Diana; e a me la vita
Ippoloco donò, di cui m'è dolce
dirmi disceso. Il
padre alle troiane
mura spedimmi, e generosi sproni
m'aggiunse di
lanciarmi innanzi a tutti
nelle vie del valore, onde de' miei
padri la
stirpe non macchiar, che fûro
d'Efira e delle licie ampie contrade
i più
famosi. Ecco la schiatta e il sangue
di che nato mi vanto, o
Dïomede.
Allegrossi di Glauco alle parole
il marzïal Tidìde, e l'asta in
terra
conficcando, all'eroe dolce rispose:
Un antico paterno ospite
mio,
Glauco, in te riconosco. Enèo, già tempo,
ne' suoi palagi accolse il
valoroso
Bellerofonte, e lui ben venti interi
giorni ritenne, e di bei
doni entrambi
si presentaro. Una purpurea cinta
Enèo donò, Bellerofonte un
nappo
di doppio seno e d'ôr, che in serbo io posi
nel mio partir: ma di
Tidèo non posso
farmi ricordo, ché bambino io m'era
quando ei lasciommi
per seguire a Tebe
gli Achei che rotti vi periro. Io dunque
sarotti in
Argo ed ospite ed amico,
tu in Licia a me, se nella Licia avvegna
ch'io
mai porti i miei passi. Or nella pugna
evitiamci l'un l'altro. Assai mi
resta
di Teucri e d'alleati, a cui dar morte,
quanti a' miei teli
n'offriranno i numi,
od il mio piè ne giungerà. Tu pure
troverai fra gli
Achivi in chi far prova
di tua prodezza. Di nostr'armi il cambio
mostri
intanto a costor, che l'uno e l'altro
siam ospiti paterni. Così detto,
dal
cocchio entrambi dismontâr d'un salto,
strinser le destre, e si dier mutua
fede.
Ma nel cambio dell'armi a Glauco tolse
Giove lo senno. Aveale Glauco
d'oro,
Dïomede di bronzo: eran di quelle
cento tauri il valor, nove di
queste.
Al faggio intanto delle porte Scee
Ettore giunge. Gli si fanno
intorno
le troiane consorti e le fanciulle
per saper de' figliuoli e de'
mariti
e de' fratelli e degli amici; ed egli,
Ite, risponde, a supplicar
gli Dei
in devota ordinanza, itene tutte,
ch'oggi a molte sovrasta alta
sciagura.
De' regali palagi indi s'avvìa
ai portici superbi. Avea
cinquanta
talami la gran reggia edificati
l'un presso all'altro, e di
polita pietra
splendidi tutti. Accanto alle consorti
dormono in questi i
Priamìdi. A fronte
dodici altri ne serra il gran cortile
per le regie
donzelle, al par de' primi
di bel marmo lucenti, e posti in fila.
Di
Priamo in questi dormono gl'illustri
generi al fianco delle caste
spose.
Qui giunto Ettore, ad incontrarlo corse
l'inclita madre che a
trovar sen gìa
Laodice, la più delle sue figlie
avvenente e gentil.
Chiamollo a nome,
e strettolo per mano: O figlio, disse,
perché, lasciato
il guerreggiar, qua vieni?
Ohimè! per certo i detestati Achei
son già
sotto alle mura, e te qui spinge
religioso zelo ad innalzare
là su la
rocca le pie mani a Giove.
Ma deh! rimanti alquanto, ond'io d'un
dolce
vino la spuma da libar ti rechi
primamente al gran Giove e agli
altri Eterni,
indi a rifar le tue, se ne berai,
esauste forze. Di guerrier
già stanco
rinfranca Bacco il core, e te pugnante
per la tua patria la
fatica oppresse.
No, non recarmi, veneranda madre,
dolce vino verun,
rispose Ettorre,
ch'egli scemar potrìa mie forze, e in petto
addormentarmi
la natìa virtude.
Aggiungi che libar non oso a Giove
pria che di divo
fiume onda mi lavi;
né certo lice colle man di polve
lorde e di sangue
offerir voti al sommo
de' nembi adunator. Ma tu di Palla
predatrice
t'invìa deh! tosto al tempio,
e rècavi i profumi accompagnata
dalle
auguste matrone, e qual nell'arca
peplo ti serbi più leggiadro e
caro,
prendilo, e umìle della Diva il poni
su le sacre ginocchia, e sei le
vóta
giovenche e sei di collo ancor non tocco
se la cittade e le consorti
e i figli
commiserando, dall'iliache mura
allontana il feroce
Dïomede,
artefice di fuga e di spavento.
Corri dunque a placarla. Io ratto
intanto
a Paride ne vado, onde svegliarlo
dal suo letargo, se darammi
orecchio.
Oh gli s'aprisse il suolo, ed ingoiasse
questa del mio buon
padre e di noi tutti
invïata da Giove alta sciagura.
Né penso che dal cor
mi fia mai tolta
di sì spiacenti guai la rimembranza,
se pria non veggo
costui spinto a Pluto.
Disse; e ne' regii alberghi Ecuba entrata
chiama le
ancelle, e a ragunar le manda
per la cittade le matrone. Ed
ella
nell'odorato talamo discende,
ove di pepli istorïati un
serbo
tenea, lavor delle fenicie donne
che Paride, solcando il vasto
mare,
da Sidon conducea quando la figlia
di Tindaro rapìo. Di questi
Ecùba
un ne toglie il più grande, il più riposto,
fulgido come stella, ed
a Minerva
offerta lo destina. Indi s'avvìa
dalle gravi matrone
accompagnata.
Al tempio giunte di Minerva in vetta
all'ardua rocca, aperse
loro i sacri
claustri la figlia di Cissèo, la bella
d'alme guance Teano,
che lodata
d'Antènore consorte i giusti Teucri
di Minerva nomâr
sacerdotessa.
Tutte allora levâr con alti pianti
a Pallade le palme, e
preso il peplo,
su le ginocchia della Diva il pose
la modesta Teano: indi
di Giove
alla gran figlia orò con questi accenti:
Veneranda Minerva,
inclita Dea,
delle città custode, ah tu del fiero
Tidìde l'asta infrangi,
e di tua mano
stendilo anciso su le porte Scee,
che noi tosto su l'are a
te faremo
di dodici giovenche ancor non dome
scorrere il sangue, se di
queste mura
e delle teucre spose, e de' lor cari
figli innocenti sentirai
pietade.
Così pregâr: ma non udìa la Diva
delle misere i voti. Ettore
intanto
di Paride cammina alle leggiadre
case, di che egli stesso il
prence avea
divisato il disegno, al magistero
de' più sperti di Troia
architettori
fidandone l'effetto. E questi a lui
e stanza ed atrio e corte
edificaro
sul sommo della rocca, appo i regali
di Priamo stesso e del
maggior fratello
risplendenti soggiorni. Entrovvi Ettorre,
nelle mani la
lunga asta tenendo
di ben undici cubiti. La punta
di terso ferro colla
ghiera d'oro
al mutar de' gran passi scintillava.
Nel talamo il trovò che
le sue belle
armi assettava, i curvi archi e lo scudo
e l'usbergo.
L'argiva Elena, in mezzo
all'ancelle seduta, i bei lavori
ne dirigea.
Com'ebbe in lui gli sguardi
fisso il grande guerrier, con detti
acerbi
così l'invase: Sciagurato! il core
ira ti rode, il so; ma non è
bello
il coltivarla. Intorno all'alte mura
cadono combattendo i
cittadini,
e tanta strage e tanto affar di guerra
per te solo s'accende; e
tu sei tale
che altrui vedendo abbandonar la pugna
rampognarlo oseresti.
Or su, ti scuoti,
esci di qua pria che da' Greci accesa
venga a snidarti
d'Ilïon la fiamma.
Bello, siccome un Dio, Paride allora
così rispose: Tu
mi fai, fratello,
giusti rimprocci, e giusto al par mi sembra
ch'io ti
risponda, e tu mi porga ascolto.
Né sdegno né rancor contra i Troiani
nel
talamo regal mi rattenea,
ma desir solo di distrarre un mio
dolor segreto.
E in questo punto istesso
con tenere parole anco la moglie
m'esortava a
tornar nella battaglia,
e il cor mio stesso mi dicea che questo
era lo
meglio; perocché nel campo
le palme alterna la vittoria. Or dunque
attendi
che dell'armi io mi rivesta,
o mi precorri, ch'io ti seguo, e
tosto
raggiungerti mi spero. - Così disse
Paride: e nulla gli rispose
Ettorre;
a cui molli volgendo le parole
Elena soggiugnea: Dolce
cognato,
cognato a me proterva, a me primiero
de' vostri mali detestando
fonte,
oh m'avesse il dì stesso in che la madre
mi partoriva, un turbine
divelta
dalle sue braccia, ed alle rupi infranta,
o del mar nell'irate
onde sommersa
pria del bieco mio fallo! E poiché tale
e tanto danno
statuîr gli Dei,
stata almeno foss'io consorte ad uomo
più valoroso, e che
nel cor più addentro
i dispregi sentisse e le rampogne.
Ma di presente a
costui manca il fermo
carattere dell'alma, e non ho speme
ch'ei lo
s'acquisti in avvenir. M'avviso
quindi che presto pagheranne il fio.
Ma tu
vien oltre, amato Ettorre, e siedi
su questo seggio, e il cor stanco
ricrea
dal rio travaglio che per me sostieni,
per me d'obbrobrio carca, e
per la colpa
del tuo fratello. Ahi lassa! un duro fato
Giove n'impose e
tal ch'anco ai futuri
darem materia di canzon famosa.
Cortese donna, le
rispose Ettorre,
non rattenermi. Il core, impazïente
di dar soccorso a'
miei che me lontano
richiamano, fa vano il dolce invito.
Ma tu di cotestui
sprona il coraggio,
onde s'affretti ei pure, e mi raggiunga
anzi ch'io
m'esca di città. Veloce
corro intanto a' miei lari a veder l'uopo
di mia
famiglia, e la diletta moglie
e il pargoletto mio, non mi sapendo
se alle
lor braccia tornerò più mai,
o s'oggi è il dì che decretâr gli
Eterni
sotto le destre achee la mia caduta.
Parte, ciò detto, e giunge in
un baleno
alla eccelsa magion; ma non vi trova
la sua dal bianco seno alma
consorte;
ch'ella col caro figlio e coll'ancella
in elegante peplo tutta
chiusa
su l'alto della torre era salita:
e là si stava in pianti ed in
sospiri.
Come deserta Ettòr vide la stanza,
arrestossi alla soglia, ed
all'ancelle
vòlto il parlar: Porgete il vero, ei disse;
Andromaca dov'è?
Forse alle case
di qualcheduna delle sue congiunte,
o di Palla recossi ai
santi altari
a placar colle troïche matrone
la terribile Dea? - No, gli
rispose
la guardïana, e poiché brami il vero,
il vero parlerò. Né alle
cognate
ella n'andò, né di Minerva all'are,
ma d'Ilio alla gran torre.
Udito avendo
dell'inimico un furïoso assalto
e de' Teucri la rotta, la
meschina
corre verso le mura a simiglianza
di forsennata, e la fedel
nutrice
col pargoletto in braccio l'acccompagna.
Finito non avea queste
parole
la guardïana, che veloce Ettorre
dalle soglie si spicca, e
ripetendo
il già corso sentier, fende diritto
del grand'Ilio le piazze: ed
alle Scee,
onde al campo è l'uscita, ecco d'incontro
Andromaca venirgli,
illustre germe
d'Eezïone, abitator dell'alta
Ipoplaco selvosa, e de'
Cilìci
dominator nell'ipoplacia Tebe.
Ei ricca di gran dote al grande
Ettorre
diede a sposa costei ch'ivi allor corse
ad incontrarlo; e seco iva
l'ancella
tra le braccia portando il pargoletto
unico figlio dell'eroe
troiano,
bambin leggiadro come stella. Il padre
Scamandrio lo nomava, il
vulgo tutto
Astïanatte, perché il padre ei solo
era dell'alta Troia il
difensore.
Sorrise Ettorre nel vederlo, e tacque.
Ma di gran pianto
Andromaca bagnata
accostossi al marito, e per la mano
strignendolo, e per
nome in dolce suono
chiamandolo, proruppe: Oh troppo ardito!
il tuo valor
ti perderà: nessuna
pietà del figlio né di me tu senti,
crudel, di me che
vedova infelice
rimarrommi tra poco, perché tutti
di conserto gli Achei
contro te solo
si scaglieranno a trucidarti intesi;
e a me fia meglio
allor, se mi sei tolto,
l'andar sotterra. Di te priva, ahi lassa!
ch'altro
mi resta che perpetuo pianto?
Orba del padre io sono e della
madre.
M'uccise il padre lo spietato Achille
il dì che de' Cilìci egli
l'eccelsa
popolosa città Tebe distrusse:
m'uccise, io dico, Eezïon quel
crudo;
ma dispogliarlo non osò, compreso
da divino terror. Quindi con
tutte
l'armi sul rogo il corpo ne compose,
e un tumulo gli alzò cui di
frondosi
olmi le figlie dell'Egìoco Giove
l'Oreadi pietose
incoronaro.
Di ben sette fratelli iva superba
la mia casa. Di questi in un
sol giorno
lo stesso figlio della Dea sospinse
l'anime a Pluto, e li
trafisse in mezzo
alle mugghianti mandre ed alle gregge.
Della boscosa
Ipoplaco reina
mi rimanea la madre. Il vincitore
coll'altre prede qua
l'addusse, e poscia
per largo prezzo in libertà la pose.
Ma questa pure,
ahimè! nelle paterne
stanze lo stral d'Artèmide trafisse.
Or mi resti tu
solo, Ettore caro,
tu padre mio, tu madre, tu fratello,
tu florido marito.
Abbi deh! dunque
di me pietade, e qui rimanti meco
a questa torre, né
voler che sia
vedova la consorte, orfano il figlio.
Al caprifico i tuoi
guerrieri aduna,
ove il nemico alla città scoperse
più agevole salita e
più spedito
lo scalar delle mura. O che agli Achei
abbia mostro quel varco
un indovino,
o che spinti ve gli abbia il proprio ardire,
questo ti basti
che i più forti quivi
già fêr tre volte di valor periglio,
ambo gli Aiaci,
ambo gli Atridi, e il chiaro
sire di Creta ed il fatal Tidìde.
Dolce
consorte, le rispose Ettorre,
ciò tutto che dicesti a me pur anco
ange il
pensier; ma de' Troiani io temo
fortemente lo spregio, e
dell'altere
Troiane donne, se guerrier codardo
mi tenessi in disparte, e
della pugna
evitassi i cimenti. Ah nol consente,
no, questo cor. Da lungo
tempo appresi
ad esser forte, ed a volar tra' primi
negli acerbi conflitti
alla tutela
della paterna gloria e della mia.
Giorno verrà, presago il cor
mel dice,
verrà giorno che il sacro iliaco muro
e Priamo e tutta la sua
gente cada.
Ma né de' Teucri il rio dolor, né quello
d'Ecuba stessa, né
del padre antico,
né de' fratei, che molti e valorosi
sotto il ferro
nemico nella polve
cadran distesi, non mi accora, o donna,
sì di questi il
dolor, quanto il crudele
tuo destino, se fia che qualche Acheo,
del sangue
ancor de' tuoi lordo l'usbergo,
lagrimosa ti tragga in servitude.
Misera!
in Argo all'insolente cenno
d'una straniera tesserai le tele.
Dal fonte di
Messìde o d'Iperèa,
(ben repugnante, ma dal fato astretta)
alla superba
recherai le linfe;
e vedendo talun piovere il pianto
dal tuo ciglio, dirà:
Quella è d'Ettorre
l'alta consorte, di quel prode Ettorre
che fra' troiani
eroi di generosi
cavalli agitatori era il primiero,
quando intorno a Ilïon
si combattea.
Così dirassi da qualcuno; e allora
tu di nuovo dolor l'alma
trafitta
più viva in petto sentirai la brama
di tal marito a scior le tue
catene.
Ma pria morto la terra mi ricopra,
ch'io di te schiava i lai
pietosi intenda.
Così detto, distese al caro figlio
l'aperte braccia.
Acuto mise un grido
il bambinello, e declinato il volto,
tutto il nascose
alla nudrice in seno,
dalle fiere atterrito armi paterne,
e dal cimiero
che di chiome equine
alto su l'elmo orribilmente ondeggia.
Sorrise il
genitor, sorrise anch'ella
la veneranda madre; e dalla fronte
l'intenerito
eroe tosto si tolse
l'elmo, e raggiante sul terren lo pose.
Indi baciato
con immenso affetto,
e dolcemente tra le mani alquanto
palleggiato
l'infante, alzollo al cielo,
e supplice sclamò: Giove pietoso
e voi tutti,
o Celesti, ah concedete
che di me degno un dì questo mio figlio
sia
splendor della patria, e de' Troiani
forte e possente regnator. Deh
fate
che il veggendo tornar dalla battaglia
dell'armi onusto de' nemici
uccisi,
dica talun: Non fu sì forte il padre:
E il cor materno nell'udirlo
esulti.
Così dicendo, in braccio alla diletta
sposa egli cesse il
pargoletto; ed ella
con un misto di pianti almo sorriso
lo si raccolse
all'odoroso seno.
Di secreta pietà l'alma percosso
riguardolla il marito,
e colla mano
accarezzando la dolente: Oh! disse,
diletta mia, ti prego;
oltre misura
non attristarti a mia cagion. Nessuno,
se il mio punto fatal
non giunse ancora,
spingerammi a Pluton: ma nullo al mondo,
sia vil, sia
forte, si sottragge al fato.
Or ti rincasa, e a' tuoi lavori intendi,
alla
spola, al pennecchio, e delle ancelle
veglia su l'opre; e a noi, quanti
nascemmo
fra le dardanie mura, a me primiero
lascia i doveri dell'acerba
guerra.
Raccolse al terminar di questi accenti
l'elmo dal suolo il
generoso Ettorre,
e muta alla magion la via riprese
l'amata donna,
riguardando indietro,
e amaramente lagrimando. Giunta
agli ettorei palagi,
ivi raccolte
trovò le ancelle, e le commosse al pianto.
Ploravan tutte
l'ancor vivo Ettorre
nella casa d'Ettòr le dolorose,
rivederlo più mai non
si sperando
reduce dalla pugna, e dalle fiere
mani scampato de' robusti
Achei.
Non producea gl'indugi in questo mezzo
dentro l'alte sue soglie il
Prïamìde
Paride: e già di tutte rivestito
le sue bell'armi, d'Ilio
folgorando
traversava le vie con presto piede.
Come destriero che di largo
cibo
ne' presepi pasciuto, ed a lavarsi
del fiume avvezzo alla bell'onda,
alfine
rotti i legami per l'aperto corre
stampando con sonante ugna il
terreno:
scherzan sul dosso i crini, alta s'estolle
la superba cervice, ed
esultando
di sua bellezza, ai noti paschi ei vola
ove amor d'erbe o di
puledre il tira;
tale di Priamo il figlio dalla rocca
di Pergamo scendea
tutto nell'armi
esultante e corrusco come sole.
Sì ratti i piedi lo
portâr, ch'ei tosto
il germano raggiunse appunto in quella
che dal tristo
parlar si dipartìa
della consorte. Favellò primiero
Paride, e disse: Alla
tua giusta fretta
fui di lungo aspettar forse cagione,
venerando fratello,
e non ti giunsi
sollecito, tem'io, come imponesti.
Generoso timor! rispose
Ettorre;
null'uom, che l'opre drittamente estimi,
darà biasmo alle tue nel
glorioso
mestier dell'armi; ché tu pur se' prode.
Ma, colpa del voler,
spesso s'allenta
la tua virtude, e inoperosa giace.
Quindi è l'alto mio
duol quando de' Teucri
per te solo infelici odo in tuo danno
le
contumelie. Ma partiam, ché poscia
comporremo tra noi questa contesa,
se
grazia ne farà Giove benigno
di poter lieti nelle nostre case
ai Celesti
immortali offrir la coppa
dell'alma libertà, vinti gli
Achei.
Libro
VII
Così
dicendo, dalle porte eruppe
seguìto dal fratello il grande Ettorre.
Ardono
entrambi di far pugna: e quale
i naviganti allegra amico vento
che un Dio
lor manda allor che stanchi ei sono
d'agitar le spumanti onde co' remi,
e
cascano le membra di fatica;
tali al desìo de' Teucri essi appariro.
A
prima giunta Paride stramazza
Menestio d'Arna abitatore, e figlio
del
portator di clava Arëitòo,
a cui lo partorìa Filomedusa
per grand'occhi
lodata. Ettore attasta
Eïoneo di lancia alla cervice
sotto l'elmetto, e
morto lo distende.
Glauco, duce de' Licii, a un tempo istesso
d'un colpo
di zagaglia ad Ifinòo,
prole di Dèssio, l'omero trafigge
appunto in quella
che salìa sul cocchio,
e dal cocchio al terren morto il trabocca.
Vista la
strage degli Achei, Minerva
dall'Olimpo calossi impetuosa
verso il sacro
Ilïon. La vide Apollo
dalla pergàmea rocca, e vincitori
bramando i Teucri,
le si fece incontro
vicino al faggio, e favellò primiero:
Figlia di Giove,
e quale il cor t'invade
furia novella? E qual sì grande
affetto
dall'Olimpo ti spinge? a portar forse
della pugna agli Achei la
dubbia palma,
poiché niuna ti tocca il cor pietade
dello strazio de'
Teucri? Or su, m'ascolta,
e fia lo meglio. Si sospenda in questo
giorno la
zuffa, e alla novella aurora
si ripigli e s'incalzi infin che Troia
cada:
da che la sua caduta a voi
possenti Dive il cor cotanto invoglia.
Sia
così, Palla gli rispose: io scesi
fra i Troiani e gli Achei con questa
mente.
Ma come avvisi di quetar la pugna?
Suscitiam, replicava il
saettante
figlio di Giove, suscitiam la forte
alma d'Ettorre a provocar
qualcuno
de' prodi Achivi a singolar tenzone:
e indignati gli Achivi un
valoroso
spingano anch'essi a cimentarsi in campo
da solo a solo col
troian guerriero.
Disse, e Minerva acconsentìa. Conobbe
de' consultanti
iddii tosto il disegno
il Prïamide Elèno in suo pensiero,
e ad Ettore
venuto: Ettore, ei disse,
pari a quello d'un nume è il tuo consiglio;
ma
udir vuoi tu del tuo fratello il senno?
Fa dall'armi cessar Teucri ed
Achei,
e degli Achei tu sfida il più valente
a singolar certame. Io ti fo
certo
che il tuo giorno fatal non giunse ancora;
così mi dice degli Dei la
voce.
Esultò di letizia all'alto invito
il valoroso: e presa per lo
mezzo
la sua gran lancia, e tra l'un campo e l'altro
procedendo, fe' alto
alle troiane
falangi; ed elle soffermârsi tutte.
Soffermârsi del pari al
riverito
cenno d'Atride i coturnati Achivi,
e in forma d'avoltoi Minerva e
Febo
sull'alto faggio s'arrestâr di Giove,
con diletto mirando de'
guerrieri
quinci e quindi seder dense le file
d'elmi orrende e di scudi e
d'aste erette.
Quale è l'orror che di Favonio il soffio
nel suo primo
spirar spande sul mare,
che destato s'arruffa e l'onde imbruna:
tale de'
Teucri e degli Achei nel vasto
campo sedute comparìan le file.
Trasse
Ettorre nel mezzo, e così disse:
Udite, o Teucri, udite attenti, o
Achivi,
ciò che nel petto mi ragiona il core.
Ratificar non piacque
all'alto Giove
i nostri giuramenti, e in suo segreto
agli uni e agli altri
macchinar ne sembra
grandi infortunii, finché l'ora arrivi
ch'Ilio per voi
s'atterri, o che voi stessi
atterrati restiate appo le navi.
Or quando il
vostro campo il fior racchiude
degli achivi guerrieri, esca a duello
chi
cuor si sente: lo disfida Ettorre.
Eccovi i patti del certame, e
Giove
testimonio ne sia. Se il mio nemico
m'ucciderà, dell'armi ei mi
dispogli,
e le si porti; ma il mio corpo renda,
onde i Troiani e le
troiane spose
m'onorino del rogo. Ov'io lui spegna,
ed Apollo la palma a
me conceda,
porteronne le tolte armi nel sacro
Ilio, e del nume
appenderolle al tempio:
ma l'intatto cadavere alle navi
vi sarà rimandato,
onde d'esequie
l'orni l'achea pietade e di sepolcro
su l'Ellesponto. Lo
vedrà de' posteri
naviganti qualcuno, e fia che dica:
Ecco la tomba d'un
antico prode
che combattendo coll'illustre Ettorre
glorïoso perì. Questo
fia detto,
ed eterno vivrassi il nome mio.
All'audace disfida
ammutoliro
gli Achei, tementi d'accettarla, e insieme
di recusarla
vergognosi. Alfine
in piè rizzossi Menelao, nell'imo
del cor gemendo, ed
in acerbi detti
prorompendo gridò: Vili superbi,
Achive, non Achei! Fia
questo il colmo
dell'ignominia, se tra voi non trova
quell'audace Troian
chi gli risponda.
Oh possiate voi tutti in nebbia e polve
resoluti sparir,
voi che vi state
qui senza core immoti e senza onore.
Ma io medesmo, io
sì, contra costui
scenderò nell'arena. In man de' numi
della vittoria i
termini son posti.
Ciò detto, l'armi indossa. E certo allora
per le mani
d'Ettorre, o Menelao,
trovato avresti di tua vita il fine,
(ch'egli di
forza ti vincea d'assai)
se subito in piè surti i prenci achivi
non
rattenean tua foga. Egli medesmo
il regnatore Atride Agamennóne
l'afferrò
per la mano, e, Tu deliri,
disse, e il delirio non ti giova. Or via,
fa
senno, e premi il tuo dolor, né spinto
da bellicosa gara avventurarti
con
un più prode di cui tutti han tema,
col Prïamide Ettorre. Anco il
Pelìde,
sì più forte di te, lo scontro teme
di quella lancia nel
conflitto. Or dunque
ritorna alla tua schiera, e statti in posa.
Gli
desteranno incontra altro più fermo
duellator gli Achivi, e tal
ch'Ettorre,
intrepido quantunque ed indefesso,
metterà volentier, se
dritto io veggo,
le ginocchia in riposo, ove pur sia
che netto egli esca
dalla gran tenzone.
Svolge il saggio parlar del sommo Atride
del fratello
il pensier, che obbedïente
quetossi, e lieti gli levâr di dosso
le
bell'arme i sergenti. Allor nel mezzo
surse Nestore, e disse: Eterni
Dei!
Oh di che lutto ricoprirsi io veggio
la casa degli eroi, l'achea
contrada!
Oh quanto in cor ne gemerà l'antico
di cocchi agitator Pelèo, di
lingua
fra' Mirmidon sì chiaro e di consiglio;
egli che in sua magion
solea di tutti
gli Achei le schiatte dimandarmi e i figli,
e giubilava
nell'udirli! Ed ora
se per Ettorre ei tutti li sapesse
di terror
costernati, oh come al cielo
alzerebbe le mani, e pregherebbe
di scendere
dolente anima a Pluto!
O Giove padre, o Pallade, o divino
di Latona
figliuol! ché non son io
nel fior degli anni, come quando in riva
pugnâr
del ratto Celadonte i Pilii
con la sperta di lancia arcade gente
sotto il
muro di Fea verso le chiare
del Jàrdano correnti? Alla lor
testa
Ereutalion venìa, che pari a nume
l'armatura regal
d'Arëitòo
indosso avea, del divo Arëitòo
che gli uomini tutti e le ben
cinte donne
clavigero nomâr; perché non d'arco
né di lunga asta armato ei
combattea,
ma con clava di ferro poderosa
rompea le schiere. A lui diè
morte poscia,
pel valore non già, ma per inganno
Licurgo al varco d'un
angusto calle,
ove il rotar della ferrata clava
al suo scampo non valse;
ché Licurgo
prevenendone il colpo traforògli
l'epa coll'asta, e
stramazzollo; e l'armi
così gli tolse che da Marte egli ebbe,
armi che
poscia l'uccisor portava
ne' fervidi conflitti; insin che, fatto
per
vecchiezza impotente, al suo diletto
prode scudiero Ereutalion le
cesse.
Di queste dunque altero iva costui
disfidando i più forti, ed
atterriti
n'eran sì tutti, che nessun si mosse.
Ma io mi mossi audace
core, e d'anni
minor di tutti m'azzuffai con esso,
e col favor di Pallade
lo spensi:
forte eccelso campion che in molta arena
giaceami steso al
piede. Oh mi fiorisse
or quell'etade e la mia forza intégra!
Per certo
Ettorre troverìa qui tosto
chi gli risponda. E voi del campo acheo
i più
forti, i più degni, ad incontrarlo
voi non andrete con allegro
petto?
Tacque: e rizzârsi subitani in piedi
nove guerrieri. Si rizzò
primiero
il re de' prodi Agamennón; rizzossi
dopo lui Dïomede, indi
ambedue
gl'impetuosi Aiaci; indi, col fido
Merïon bellicoso,
Idomenèo;
e poscia d'Evemon l'inclito figlio
Eurìpilo, e Toante
Andremonìde,
e il saggio Ulisse finalmente. Ognuno
chiese il certame
coll'eroe troiano.
Disse allora il buon veglio: Arbitra sia
della scelta
la sorta, e sia l'eletto,
salvo tornando dall'ardente agone,
degli Achei
la salute e di sé stesso.
Segna a quel detto ognun sua sorte: e
dentro
l'elmo la gitta del maggior Atride.
La turba intanto supplicante ai
numi
sollevava le palme; e con gli sguardi
fissi nel cielo udìasi dire: O
Giove,
fa che la sorte il Telamònio Aiace
nomi, o il Tidìde, o di Micene
il sire.
Così pregava; e il cavalier Nestorre
agitava le sorti: ed ecco
uscirne
quella che tutti desïâr. La prese,
e a dritta e a manca ai prenci
achivi in giro
la mostrava l'araldo, e nullo ancora
la conoscea per sua.
Ma come, andando
dall'uno all'altro, il banditor pervenne
al Telamònio
Aiace e gliela porse,
riconobbe l'eroe lieto il suo segno,
e gittatolo in
mezzo, Amici, è mia,
gridò, la sorte, e ne gioisce il core,
che su
l'illustre Ettòr spera la palma.
Voi, mentre l'arma io vesto, al sommo
Giove
supplicate in silenzio, onde non sia
dai teucri orecchi il vostro
prego udito;
o supplicate ad alta voce ancora,
se sì vi piace, ché nessuno
io temo,
né guerriero v'avrà che mio malgrado
di me trionfi, né per fallo
mio.
Sì rozzo in guerra non lasciommi, io spero,
la marzïal palestra in
Salamina,
né il chiaro sangue di che nato io sono.
Disse; e gli Achivi
alzâr gli sguardi al cielo,
e a Giove supplicâr con questi
accenti:
Saturnio padre, che dall'Ida imperi
massimo, augusto! vincitor
deh rendi
e glorioso Aiace; o se pur anco
t'è caro Ettorre e lo proteggi,
almeno
forza ad entrambi e gloria ugual concedi.
Di splendid'armi
frettoloso intanto
Aiace si vestiva: e poiché tutte
l'ebbe assunte
dintorno alla persona,
concitato avvïossi, a camminava
quale incede il
gran Marte allor che scende
tra fiere genti stimolate all'armi
dallo
sdegno di Giove, e dall'insana
roditrice dell'alme émpia Contesa.
Tale si
mosse degli Achei trinciera
lo smisurato Aiace, sorridendo
con terribile
piglio, e misurava
a vasti passi il suol, l'asta crollando
che lunga sul
terren l'ombra spandea.
Di letizia esultavano gli Achivi
a riguardarlo; ma
per l'ossa ai Teucri
corse subito un gelo. Palpitonne
lo stesso Ettòr; ma
né schivar per tema
il fier cimento, né tra' suoi ritrarsi
più non gli
lice, ché fu sua la sfida.
E già gli è sopra Aiace coll'immenso
pavese che
parea mobile torre;
opra di Tichio, d'Ila abitatore,
prestantissimo
fabbro, che di sette
costruito l'avea ben salde e grosse
cuoia di tauro, e
indóttavi di sopra
una falda d'acciar. Con questo al petto
enorme scudo il
Telamònio eroe
féssi avanti al Troiano, e minaccioso
mosse queste parole:
Ettore, or chiaro
saprai da solo a sol quai prodi ancora
rimangono agli
Achei dopo il Pelìde
cuor di lïone e rompitor di schiere.
Irato
coll'Atride egli alle navi
neghittoso si sta; ma noi siam tali,
che non
temiamo lo tuo scontro, e molti.
Comincia or tu la pugna, e tira il
primo.
Nobile prence Telamònio Aiace,
rispose Ettorre, a che mi tenti, e
parli
come a imbelle fanciullo o femminetta
cui dell'armi il mestiero è
pellegrino?
E anch'io trattar so il ferro e dar la morte,
e a dritta e a
manca anch'io girar lo scudo,
e infaticato sostener l'attacco,
e a piè
fermo danzar nel sanguinoso
ballo di Marte, o d'un salto sul
cocchio
lanciarmi, e concitar nella battaglia
i veloci destrier. Né già
vogl'io
un tuo pari ferire insidïoso,
ma discoperto, se arrivar ti
posso.
Ciò detto, bilanciò colla man forte
la lunga lancia, e saettò
d'Aiace
il settemplice scudo. Furïosa
la punta trapassò la ferrea
falda
che di fuor lo copriva, e via scorrendo
squarciò sei giri del bovin
tessuto,
e al settimo fermossi. Allor secondo
trasse Aiace, e colpì di
Priamo il figlio
nella rotonda targa. Traforolla
il frassino veloce, e
nell'usbergo
sì addentro si ficcò, che presso al lombo
lacerògli la
tunica. Piegossi
Ettore a tempo, ed evitò la morte.
Ricovrò l'uno e
l'altro il proprio telo,
e all'assalto tornâr come per fame
fieri leoni, o
per vigor tremendi
arruffati cinghiali alla montagna.
Di nuovo Ettorre
coll'acuto cerro
colpì, lo scudo ostil, ma senza offesa,
ch'ivi la punta
si curvò: di nuovo
trasse Aiace il suo telo, ed alla penna
dello scudo
ferendo, a parte a parte
lo trapassò, gli punse il collo, e vivo
sangue
spiccionne. Né per ciò l'attacco
lasciò l'audace Ettorre. Era nel campo
un
negro ed aspro enorme sasso: a questo
diè di piglio il Troiano, e contra il
Greco
lo fulminò. Percosse il duro scoglio
il colmo dello scudo, e
orribilmente
ne rimbombò la ferrea piastra intorno.
Seguì l'esempio il
gran Telamonìde,
ed afferrato e sollevato ei pure
un altro più d'assai
rude macigno,
con forza immensa lo rotò, lo spinse
contra il nemico. Il
molar sasso infranse
l'ettoreo scudo, e di tal colpo offese
lui nel
ginocchio, che riverso ei cadde
con lo scudo sul petto: ma
rizzollo
immantinente di Latona il figlio.
E qui tratte le spade i due
campioni
più da vicino si ferìan, se ratti,
messaggieri di Giove e de'
mortali,
non accorrean gli araldi, il teucro Idèo,
e l'achivo Taltìbio,
ambo lodati
di prudente consiglio. Entrâr costoro
con securtade in mezzo
ai combattenti,
ed interposto fra le nude spade
il pacifico scettro, il
saggio Idèo
così primiero favellò: Cessate,
diletti figli, la battaglia.
Entrambi
siete cari al gran Giove, entrambi (e chiaro
ognun sel vede)
acerrimi guerrieri:
ma la notte discende, e giova, o figli,
alla notte
obbedir. - Dimandi Ettorre
questa tregua, rispose il fiero Aiace:
primo ei
tutti sfidonne, e primo ei chiegga.
Ritirerommi, se l'esempio ei porga.
E
l'illustre rival tosto riprese:
Aiace, i numi ti largîr cortesi
pari alla
forza ed al valore il senno,
e nel valor tu vinci ogni altro Acheo.
Abbian
riposo le nostr'armi, e cessi
la tenzon. Pugneremo altra fïata
finché la
Parca ne divida, e intera
all'uno o all'altro la vittoria doni.
Or la
notte già cade, e della notte
romper non dêssi la ragion. Tu riedi
dunque
alle navi a rallegrar gli Achivi,
i congiunti, gli amici. Io nella
sacra
città rïentro a serenar de' Teucri
le meste fronti e le dardanie
donne,
che in lunghi pepli avvolte appiè dell'are
per me si stanno a
supplicar. Ma pria
di dipartirci, un mutuo dono attesti
la nostra stima: e
gli Achei poscia e i Teucri
diran: Costoro duellâr coll'ira
di fier
nemici, e separârsi amici.
Così dicendo, la sua propria spada
gli presentò
d'argentei chiovi adorna
con fulgida vagina ed un pendaglio
di leggiadro
lavoro; Aiace a lui
il risplendente suo purpureo cinto.
Così divisi, agli
Achei l'uno, ai Teucri
l'altro avvïossi. Esilarârsi i Teucri,
vivo il lor
duce ritornar veggendo
dalla forza scampato e dall'invitte
mani d'Aiace; e
trepidanti ancora
del passato periglio alla cittade
l'accompagnaro.
Dall'opposta parte
della palma superbo il lor campione
guidâr gli Achivi
al padiglion d'Atride,
che per tutti onorar tosto al Tonante
un bue
quinquenne in sacrificio offerse.
Lo scuoiâr, lo spaccâr, lo fêro in
brani
acconciamente, e negli spiedi infisso
l'abbrustolâr con molta cura,
e tolto
il tutto al foco, l'apprestâr sul desco,
e banchettando ne cibò
ciascuno
a pien talento. Ma l'immenso tergo
del sacro bue donollo
Agamennóne
d'onore in segno al vincitor guerriero.
Del cibarsi e del ber
spento il desìo,
il buon veglio Nestorre, di cui sempre
ottimo uscìa
l'avviso, in questo dire
svolse il suo senno: Atride e duci achei,
questo
giorno fatal la vita estinse
di molti prodi, del cui sangue rossa
fe'
l'aspro Marte la scamandria riva,
e all'Orco ne passâr l'ombre
insepolte.
Al nuovo sole le nostr'armi adunque
si restino tranquille, e
noi sul campo
convenendo, imporrem le salme esangui
su le carrette, e muli
oprando e buoi,
qui ne faremo il pio trasporto, e al rogo
le darem lungi
dalle navi alquanto,
onde al nostro tornar nel patrio suolo
le ceneri
portarne ai mesti figli.
E dintorno alla pira una comune
tomba ergeremo, e
di muraglia e d'alte
torri, a difesa delle navi e nostra,
con rapido lavor
la cingeremo,
e salde vi apriremo e larghe porte
per l'egresso de' cocchi.
Indi un'esterna
profonda fossa scaverem che tutta
circondi la muraglia, e
de' cavalli
l'impeto affreni e de' pedon, se mai
de' Teucri irrompa
l'orgoglioso ardire.
Disse, e tutti annuiro i prenci achei.
Di Prïamo alle
soglie in questo mentre
su l'alta iliaca rocca i Teucri anch'essi
tenean
confusa e trepida consulta.
Primo il saggio Antenòr sì prese a
dire:
Dardanidi, Troiani, e voi venuti
in sussidio di Troia, i sensi
udite
che il cor mi porge. Rendasi agli Atridi
con tutto il suo tesor
l'argiva Elèna.
Vïolammo noi soli il giuramento,
e quindi inique le
nostr'armi sono.
Se non si rende, non avrem che danno.
Così detto,
s'assise. E surto in piedi
il bel marito della bella Argiva
così Pari
rispose: Al cor m'è grave,
Antenore, il tuo detto, e so che porti
una
miglior sentenza in tuo segreto.
Ché se parli davver, davvero i numi
ti
han tolto il senno. Ma ben io qui schietti
i miei sensi aprirò. La donna io
mai
non renderò, giammai. Quanto alle ricche
spoglie che d'Argo a queste
rive addussi,
tutte render le voglio, ed altre ancora
aggiungeronne di mio
proprio dritto.
Tacque, e sul seggio si raccolse. Allora
in sembianza d'un
Dio levossi in mezzo
il Dardanide Prïamo, ed, Udite,
Teucri, ei disse, e
alleati, il mio pensiero,
quale il cor lo significa. Pel campo
del
consueto cibo si ristauri
ognuno, e attenda alla sua scolta, e vegli.
Col
nuovo sole alle nemiche navi
Idèo sen vada, e ad ambedue gli Atridi
di
Paride, cagion della contesa,
riferisca la mente, e una discreta
proposta
aggiunga di cessar la guerra,
finché il rogo consunte abbia le morte
salme
de' nostri, per pugnar di poi
finché la Parca ne spartisca, e agli
uni
conceda o agli altri la vittoria intégra.
Tutti assentiro riverenti al
detto:
indi pel campo procurâr le cene
in divisi drappelli. Il dì
novello
alle navi s'avvìa l'araldo Idèo,
e raccolti ritrova a
parlamento
i bellicosi Achei davanti all'alta
agamennònia poppa.
Appresentossi
tosto il canoro banditore, e disse:
Atridi e duci achei, mi
diè comando
Priamo e di Troia gli ottimati insieme
di sporvi, se vi fia
grato l'udirla,
di Paride, cagion di questa guerra,
una proferta. Le
ricchezze tutte
ch'ei d'Argo addusse (oh pria perito ei fosse!)
ei tutte
le vi rende, ed altre ancora
di sua ragion n'aggiungerà. Ma quanto
alla
gentil tua donna, o Menelao,
di questa ei niega il rendimento, e
indarno
l'esortano i Troiani. E un'altra io reco
di lor proposta: Se
quetar vi piaccia
della guerra il furor, finché de' morti
le care spoglie
il foco abbia combuste,
per indi razzuffarci infin che piena
tra noi
decida la vittoria il fato.
Disse, e tutti ammutîr. Sciolse il
Tidìde
alfin la voce; e, Niun di Pari, ei grida,
l'offerta accetti, né la
stessa pure
rapita donna. Ai Dardani sovrasta,
un fanciullo il vedrìa,
l'esizio estremo.
Plausero tutti al suo parlar gli Achivi
con alte grida,
e n'ammiraro il senno.
Indi vòlto all'araldo il grande Atride:
Idèo,
diss'egli, per te stesso udisti
degli Achei la risposta, e in un la
mia.
Quanto agli estinti, di buon grado assento
che siano incesi; ché non
dêssi avaro
esser di rogo a chi di vita è privo,
né porre indugio a
consolarne l'ombra
coll'officio pietoso. Il fulminante
sposo di Giuno il
nostro giuro ascolti.
Così dicendo alzò lo scettro al cielo,
e l'araldo
tornossi entro la sacra
cittade ai Teucri, già del suo ritorno
impazïenti
e in pien consesso accolti.
Giunse, e intromesso la risposta espose.
Si
sparsero allor ratti, altri al carreggio
de' cadaveri intenti, altri al
funèbre
taglio de' boschi. Dall'opposta parte
un cuor medesmo, una medesma
cura
occupava gli Achivi. E già dal queto
grembo del mare al ciel montando
il sole
co' rugiadosi lucidi suoi strali
le campagne ferìa, quando
nell'atra
pianura si scontrâr Teucri ed Achei
ognuno in cerca de' suoi
morti, a tale
dal sangue sfigurati e dalla polve,
che mal se ne potea,
senza lavarli,
ravvisar le sembianze. Alfin trovati
e conosciuti li ponean
su i mesti
plaustri piangendo. Ma di Priamo il senno
non consentìa del
pianto a' suoi lo sfogo:
quindi afflitti, ma muti, al rogo i Teucri
diero
a mucchi le salme; ed arse tutte,
col cuor serrato alla città
tornaro.
D'un medesmo dolor rotti gli Achei
i lor morti ammassâr sovra la
pira,
e come gli ebbe la funerea fiamma
consumati, del mar preser la
via.
Non biancheggiava ancor l'alba novella,
ma il barlume soltanto
antelucano,
quando d'Achei dintorno all'alto rogo
scelto stuolo
affollossi. E primamente
alzâr dappresso a quello una comune
tomba agli
estinti, ed alla tomba accanto
una muraglia a edificar si diero
d'alti
torrazzi ghirlandata, a schermo
delle navi e di sé: porte vi fêro
di salda
imposta, e di gran varco al volo
de' bellicosi cocchi: indi
lunghesso
l'esterno muro una profonda e vasta
fossa scavâr di pali irta e
gremita.
Degli Achei la stupenda opra tal era.
La contemplâr maravigliando
i numi
seduti intorno al Dio de' tuoni, e irato
sì prese a dir l'Enosigèo
Nettunno:
Giove padre, chi fia più tra' mortali,
che gl'Immortali in
avvenir consulti,
e n'implori il favor? Vedi tu quale
e quanto muro gli
orgogliosi Achei
innanti alle lor navi abbian costrutto
e circondato
d'un'immensa fossa
senza offerir solenni ostie agli Dei?
Di cotant'opra
andrà certo la fama
ovunque giunge la divina luce,
e il grido morirà delle
sacrate
mura che al re Laomedonte un tempo
intorno ad Ilïone Apollo ed
io
edificammo con assai fatica.
Che dicesti? sdegnoso gli
rispose
l'adunator de' numbi: altro qualunque
Iddio di forza a te minor
potrebbe
di questo paventar. Ma del possente
Enosigèo la gloria al par
dell'almo
raggio del sole splenderà per tutto.
Or ben: sì tosto che gli
Achei faranno
veleggiando ritorno al patrio lido,
e tu quel muro abbatti e
tutto quanto
sprofondalo nel mare, e d'alta arena
coprilo sì che ogni orma
ne svanisca.
In questo favellar l'astro s'estinse
del giorno, e l'opra
degli Achei fu piena.
Della sera allestite indi le mense
per le tende,
cibâr le opime carni
di scannati giovenchi, e ristorârsi
del vino che
recato avean di Lenno
molti navigli; e li spediva Eunèo
d'Issipile
figliuolo e di Giasone.
Mille sestieri in amichevol dono
Eunèo ne manda ad
ambedue gli Atridi;
compra il resto l'armata, altri con bronzo,
altri con
lame di lucente ferro;
qual con pelli bovine, e qual col corpo
del bue
medesmo, o di robusto schiavo.
Lieto adunque imbandîr pronto convito
gli
Achivi, e tutta banchettâr la notte.
Banchettava del par nella cittade
con
gli alleati la dardania gente.
Ma tutta notte di Saturno il figlio
con
terribili tuoni annunzïava
alte sventure nel suo senno ordite.
Di pallido
terror tutti compresi
dalle tazze spargean le spume a terra
devotamente,
né veruno ardìa
appressarvi le labbra, se libato
pria non avesse al
prepotente Giove.
Corcârsi alfine, e su lor scese il
sonno.
Libro
VIII
Già
spiegava l'aurora il croceo velo
sul volto della terra, e co' Celesti
su
l'alto Olimpo il folgorante Giove
tenea consiglio. Ei parla, e
riverenti
stansi gli Eterni ad ascoltar: M'udite
tutti, ed abbiate il mio
voler palese;
e nessuno di voi né Dio né Diva
di frangere s'ardisca il mio
decreto,
ma tutti insieme il secondate, ond'io
l'opra, che penso, a presto
fin conduca.
Qualunque degli Dei vedrò furtivo
partir dal cielo, e
scendere a soccorso
de' Troiani o de' Greci, egli all'Olimpo
di turpe
piaga tornerassi offeso;
o l'afferrando di mia mano io stesso,
nel Tartaro
remoto e tenebroso
lo gitterò, voragine profonda
che di bronzo ha la
soglia e ferree porte,
e tanto in giù nell'Orco s'inabissa,
quanto va
lungi dalla terra il cielo.
Allor saprà che degli Dei son io
il più
possente. E vuolsene la prova?
D'oro al cielo appendete una catena,
e
tutti a questa v'attaccate, o Divi
e voi Dive, e traete. E non per
questo
dal ciel trarrete in terra il sommo Giove,
supremo senno, né pur
tutte oprando
le vostre posse. Ma ben io, se il voglio,
la trarrò colla
terra e il mar sospeso:
indi alla vetta dell'immoto Olimpo
annoderò la
gran catena, ed alto
tutte da quella penderan le cose.
Cotanto il mio
poter vince de' numi
le forze e de' mortai. - Qui tacque, e tutti
dal
minaccioso ragionar percossi
ammutolîr gli Dei. Ruppe Minerva
finalmente
il silenzio, e così disse:
Padre e re de' Celesti, e noi pur anco
sappiam
che invitta è la tua gran possanza.
Ma nondimen de' bellicosi Achei
pietà
ne prende, che di fato iniquo
son vicini a perir. Noi dalla pugna,
se tu
il comandi, ci terrem lontani;
ma non vietar che di consiglio almeno
sien
giovati gli Achivi, onde non tutti
cadan nell'ira tua disfatti e
morti.
Con un sorriso le rispose il sommo
de' nembi adunator: Conforta il
core,
diletta figlia; favellai severo,
ma vo' teco esser mite. - E così
detto,
gli orocriniti eripedi cavalli
come vento veloci al carro
aggioga:
al divin corpo induce una lorica
tutta d'auro, e alla man data
una sferza
pur d'auro intesta e di gentil lavoro,
monta il cocchio, e
flagella a tutto corso
i corridori che volâr bramosi
infra la terra e lo
stellato Olimpo.
Tosto all'Ida, di belve e di rigosi
fonti altrice, arrivò
su l'ardua cima
del Gargaro, ove sacro a lui frondeggia
un bosco, e fuma
un odorato altare.
Qui degli uomini il padre e degli Dei
rattenne e dal
timon sciolse i cavalli,
e di nebbia gli avvolse. Indi s'assise
esultante
di gloria in su la vetta
di là lo sguardo a Troia rivolgendo
ed alle navi
degli Achei, che preso
per le tende alla presta un parco cibo
armavansi.
Ed all'armi anch'essi i Teucri
per la città correan; né gli sgomenta
il
numero minor, ché per le spose
e pe' figli a pugnar pronti li
rende
necessità. Spalancansi le porte:
erompono pedoni e cavalieri
con
immenso tumulto, e giunti a fronte,
scudi a scudi, aste ad aste e petti a
petti
oppongono, e di targhe odi e d'usberghi
un fiero cozzo, ed un fragor
di pugna
che rinforza più sempre. De' cadenti
l'urlo si mesce coll'orribil
vanto
de' vincitori, e il suol sangue correa.
Dall'ora che le porte apre
al mattino
fino al merigge, d'ambedue le parti
durò la strage con egual
fortuna.
Ma quando ascese a mezzo cielo il sole,
alto spiegò
l'onnipossente Iddio
l'auree bilance, e due diversi fati
di sonnifera
morte entro vi pose,
il troiano e l'acheo. Le prese in mezzo,
le librò,
sollevolle, e degli Achivi
il fato dechinò, che traboccando
percosse in
terra, e balzò l'altro al cielo.
Tonò tremendo allor Giove dall'Ida,
e un
infocato fulmine nel campo
avventò degli Achei, che stupefatti
a quella
vista impallidîr di tema.
Né Idomenèo né il grande Agamennóne,
né gli
Aiaci, ambedue lampi di Marte,
fermi al lor posto rimaner fur osi.
Solo il
Gerenio, degli Achei tutela,
Nestore vi restò, ma suo mal grado
ché un
destrier l'impedìa, cui di saetta
d'Elena bella l'avvenente drudo
nella
fronte ferì laddove spunta
nel teschio de' cavalli il primo crine,
ed è
letale il loco alle ferite.
Inalberossi il corridor trafitto,
ché nel
cerèbro entrata era la freccia,
e dintorno alla rota per l'acuto
dolor si
voltolando, in iscompiglio
mettea gli altri cavalli. Or mentre il
vecchio
gli si fa sopra colla daga, e tenta
tagliarne le tirelle, ecco
veloci
fra la calca e il ferir de' combattenti
sopraggiungere d'Ettore i
destrieri,
superbi di portar sì grande auriga.
E qui perduta il veglio
avrìa la vita,
se del rischio di lui non s'accorgea
l'invitto Dïomede. Un
grido orrendo
di pugna eccitator mise l'eroe
alla volta d'Ulisse: Ah dove
immemore
di tua stirpe divina, dove fuggi,
astuto figlio di Laerte, e
volgi,
come un codardo della turba, il tergo?
Bada che alcun le fuggitive
spalle
non ti giunga coll'asta. Agl'inimici
volta la fronte, ed a salvar
vien meco
dal furor di quel fiero il vecchio amico.
Quelle grida non ode,
e ratto in salvo
fugge Ulisse alle navi. Allor rimasto
solo il Tidìde, si
sospinse in mezzo
ai guerrier della fronte, avanti al cocchio
di Nestore
piantossi, e lui chiamando
veloci gli drizzò queste parole:
Troppo feroce
gioventù nemica
ti sta contra, o buon vecchio, e infermi troppo
sono i
tuoi polsi: hai grave d'anni il dorso,
hai debole l'auriga e i
corridori.
Monta il mio cocchio, e la virtù vedrai
dei cavalli di Troe,
che dianzi io tolsi
d'Anchise al figlio, a maraviglia sperti
a fuggir
ratti in campo e ad inseguire.
Lascia cotesti agli scudieri in
cura,
drizziam questi ne' Teucri, e vegga Ettorre
s'anco in mia man la
lancia è furibonda.
Disse: né il veglio ricusò l'invito.
Di Stènelo e del
buon Eurimedonte,
valorosi scudieri, egli al governo
cesse le sue puledre,
e tosto il cocchio
del Tidìde salito, in man si tolse
le bellissime
briglie, e col flagello
i corsieri percosse. In un baleno
giunser d'Ettore
a fronte, che diritto
lor d'incontro venìa con gran tempesta.
Trasse la
lancia Dïomede, e il colpo
errò; ma su le poppe in mezzo al petto
colpì
l'auriga Enïopèo, figliuolo
dell'inclito Tebèo. Cade il trafitto
giù tra
le rote colle briglie in pugno:
s'arretrano i destrieri, e in quello
stato
perde ogni forza l'infelice, e spira.
Del morto auriga addolorossi
Ettorre,
e mesto di lasciar quivi il compagno
nella polve disteso, un
altro audace
alla guida del carro iva cercando:
né di rettor gran tempo
ebber bisogno
i suoi destrieri, ché gli occorse all'uopo
l'animoso
Archepòlemo d'Ifito,
cui sul carro montar fa senza indugio,
e gli
abbandona nella man le briglie.
Immensa strage allora e fatti
orrendi
fôran d'arme seguìti, e come agnelli
stati in Ilio sarìan
racchiusi i Teucri,
se de' Celesti il padre e de' mortali
tosto di ciò non
s'accorgea. Tonando
con gran fragore un fulmine rovente
vibrò nel campo il
nume, e il fece in terra
guizzar di Dïomede innanzi al cocchio:
e subita
n'uscìa d'ardente zolfo
una terribil vampa. Spaventati
costernansi i
destrier, scappan di mano
a Nestore le briglie; onde al Tidìde
rivoltosi
tremante; Ah piega, ei grida,
piega indietro i cavalli, o
Dïomede,
fuggiam: nol vedi? contro noi combatte
Giove irato, e a costui
tutto dar vuole
di presente l'onor della battaglia.
Darallo, se gli piace,
un'altra volta
a noi pur: ma di Giove oltrapossente
il supremo voler forza
non pate.
Tutto ben parli, o vecchio, gli rispose
l'imperturbato eroe; ma
il cor mi crucia
la dolorosa idea ch'Ettore un giorno
fra' Troiani dirà
gonfio d'orgoglio:
Io fugai Dïomede, io lo costrinsi
a scampar nelle navi.
- Ei questo vanto
menerà certo, e a me si fenda allora
sotto i piedi la
terra, e mi divori.
E Nestore ripiglia: Ah che dicesti,
valoroso Tidìde? E
quando avvegna
che un codardo, un imbelle Ettor ti chiami,
i Troiani non
già sel crederanno,
né le troiane spose, a cui nell'atra
polve stendesti i
floridi mariti.
Disse; e addietro girò tosto i cavalli
tra la calca
fuggendo. Ettore e i Teucri
con urli orrendi li seguiro, e un
nembo
piovean su lor d'acerbi strali, ed alto
gridar s'udiva de' Troiani
il duce:
I cavalieri argivi, o Dïomede,
e di seggio e di tazze e di
vivande
te finora onorâr su gli altri a mensa;
ma deriso or n'andrai, che
un cor palesi
di femminetta. Via di qua, fanciulla;
non salirai tu, no,
fin ch'io respiro,
d'Ilio le torri, né trarrai cattive
le nostre mogli
nelle navi, e morto
per la mia destra giacerai tu pria.
Stettesi in forse
a quel parlar l'eroe
di dar volta ai cavalli, e d'affrontarlo.
Ben tre
volte nel core e nella mente
gliene corse il desìo, tre volte
Giove
rimormorò dall'Ida, e fe' securi
della vittoria con quel segno i
Teucri.
Con orribile grido Ettore allora
animando le schiere: O Licii, o
Dardani,
o Troiani, dicea, prodi compagni,
mostratevi valenti, e fuor
mettete
le generose forze. Io non m'inganno,
Giove è propizio; di vittoria
a noi
e d'esizio a' nemici ei diede il segno.
Stolti! che questo alzâr
debile muro,
troppo al nostro valor frale ritegno.
Quella lor fossa
varcheran d'un salto
i miei cavalli; e quando emerso a vista
io sarò delle
navi, allor le faci
ministrarmi qualcun si risovvegna,
ond'io que' legni
incenda, e fra le vampe
sbalorditi dal fumo i Greci uccida.
Poi conforta i
destrieri, e sì lor parla:
Xanto, Podargo, Etón, Lampo divino,
mercé del
largo cibo or mi rendete,
che dell'illustre Eezïon la figlia
Andromaca vi
porge, il dolce io dico
frumento, e l'alma di Lïeo bevanda,
ch'ella a voi
mesce desïosi, a voi
pria che a me stesso che pur suo mi vanto
giovine
sposo. Or via, volate; andiamo
alla conquista del nestòreo scudo
di cui va
il grido al cielo, e tutto il dice
d'auro perfetto, e d'auro anco la
guiggia.
Poi di dosso trarremo a Dïomede
l'usbergo, esimia di Vulcan
fatica.
Se cotal preda ne riesce, io spero
che ratti i Greci su le navi in
questa
notte medesma salperan dal lido.
Del superbo parlar forte
sdegnossi
l'augusta Giuno, e s'agitò sul trono
sì che scosso tremonne il
vasto Olimpo.
Quindi rivolte le parole al grande
dio Nettunno, sì disse: E
sarà vero,
possente Enosigèo, che degli Argivi
a pietà non ti mova la
ruina!
Pur son essi che in Elice ed in Ege
rècanti offerte graziose e
molte.
E perché dunque non vorrai tu loro
la vittoria bramar? Certo se
quanti
siam difensori degli Achivi in cielo
vorrem de' Teucri rintuzzar
l'orgoglio
e al Tonante far forza, egli soletto
e sconsolato sederà su
l'Ida.
Oh! che mai parli, temeraria Giuno?
le rispose sdegnoso il re
Nettunno:
non sia, no mai, che col saturnio Giove
a cozzar ne sospinga il
nostro ardire;
rammenta ch'egli è onnipossente, e taci.
Mentre seguìan tra
lor queste parole,
quanto intervallo dalle navi al muro
la fossa
comprendea, tutto era denso
di cavalli, di cocchi e di guerrieri
ivi dal
fiero Ettòr serrati e chiusi,
che simigliante al rapido Gradivo
infuriava
col favor di Giove.
E ben le navi avrìa messe in faville,
se l'alma Giuno
in cor d'Agamennóne
il pensier non ponea di girne attorno
ratto egli
stesso a incoraggiar gli Achivi.
Per le tende egli dunque e per le
navi
sollecito correa, raccolto il grande
purpureo manto nel robusto
pugno:
e cotal su la negra capitana
d'Ulisse si fermò, che vasta il
mezzo
dell'armata tenea, donde distinta
d'ogni parte mandar potea la
voce
fin d'Aiace e d'Achille al padiglione,
che l'eguali lor prore ai lati
estremi,
nel valor delle braccia ambo securi,
avean dedotte all'arenoso
lido.
Di là fec'egli rimbombar sul campo
quest'alto grido: Svergognati
Achivi,
vitupèri nell'opre e sol d'aspetto
maravigliosi! dove dunque
andaro
gli alteri vanti che menammo un giorno
di prodezza e di forza? In
Lenno queste
fur le vostre burbanze allor che l'epa
v'empiean le polpe de'
giovenchi uccisi,
e le ricolme tazze inghirlandate
si venìan tracannando,
e si dicea
che un sol per cento e per dugento Teucri,
un sol Greco valea
nella battaglia.
Ed or tutti ne fuga un solo Ettorre,
che ben tosto farà
di queste navi
cenere e fumo. O Giove padre, e quale
altro mai re di tanti
danni afflitto,
di tanto disonor carco volesti?
Pur io so ben, che quando
a questo lido
il perverso destin mi conducea,
giammai veruno de' tuoi
santi altari
navigando lasciai sprezzato indietro;
ma l'adipe a te sempre
e i miglior fianchi
de' giovenchi abbruciai sovra ciascuno,
bramoso
d'atterrar l'iliache mura.
Deh almen n'adempi questo voto, almeno
danne, o
Giove, uno scampo colla fuga,
né per le mani del crudel Troiano
consentir
degli Achivi un tanto scempio.
Così dicea piangendo. Ebbe pietade
di sue
lagrime il nume, e ad accennargli
che non tutto il suo campo andrìa
disfatto,
il più sicuro de' volanti augurio
un'aquila spedì che negli
unghioni
tolto al covil della veloce madre
un cerbiatto stringendo,
accanto all'ara,
ove l'ostie svenar solean gli Achivi
al fatidico Giove,
dall'artiglio
cader lasciò la palpitante preda.
Gli Achei veduto il sacro
augel, cui spinto
conobbero da Giove, ad affrontarsi
più coraggiosi
ritornâr co' Teucri,
e rinfrescâr la pugna. Allor nessuno
pria del Tidìde
fra cotanti Argivi
vanto si diede d'agitar pel campo
i veloci corsieri, ed
oltre il fosso
cacciarli ed azzuffarsi. Egli primiero
anzi a tutti si
spinse, e a prima giunta
Agelao di Fradmon tolse di mezzo
uom troiano.
Costui piegàti in fuga
i suoi destrieri avea. Coll'asta il tergo
gli
raggiunse il Tidìde, gliela fisse
tra gli omeri, e passar la fece al
petto.
Cadde Agelao dal carro, e cupamente
l'armi sovr'esso rintonâr.
Secondo
Agamennón si mosse, indi il fratello,
indi gli Aiaci impetuosi, e
poi
Idomenèo con esso il suo scudiero
Merïon che di Marte avea
l'aspetto;
poi d'Evemon l'illustre figlio Eurìpilo,
ed ultimo giungea
Teucro del curvo
elastic'arco tenditor famoso.
D'Aiace Telamònio egli
locossi
dietro lo scudo, e dello scudo Aiace
gli antepose la mole. Ivi
securo
l'eroe guatava intorno, e quando avea
saettato nel denso un
inimico,
quegli cadendo perdea l'alma, e questi,
come fanciullo della
madre al manto,
ricovrava al fratel che alla grand'ombra
dello splendido
scudo il proteggea.
Or dall'egregio arcier chi de' Troiani
fu primo
ucciso? Primamente Orsìloco,
indi Ormeno e Ofeleste: a questi
aggiunse
Detore e Cromio, e per divin sembiante
Licofonte lodato, e
Amopaone
Poliemonìde, e Melanippo, tutti
l'un dopo l'altro nella polve
stesi.
Gioiva il re de' regi Agamennóne
mirandolo dall'arco
vigoroso
lanciar la morte fra' nemici, e a lui
vicin venuto soffermossi, e
disse:
Diletto capo Telamònio Teucro,
siegui l'arco a scoccar, porta, se
puoi,
a' Dànai un raggio di salute, e onora
il tuo buon padre Telamon che
un giorno
ti raccolse fanciullo, e benché frutto
di non giusto imeneo, pur
con pietoso
tenero affetto in sua magion ti crebbe.
Or tu fa ch'egli salga
in alta fama,
sebben lontano. Ti prometto io poi
(e sacra tieni la
promessa mia)
che se Giove e Minerva mi daranno
d'Ilio il conquisto, tu
primier t'avrai
il premio, dopo me, de' forti onore,
ed in tua man
porrollo io stesso, un tripode,
o due cavalli ad un bel cocchio
aggiunti,
o di vaghe sembianze una fanciulla
che teco il letto e l'amor
tuo divida.
E Teucro gli rispose: Illustre Atride,
a che mi sproni, per me
stesso assai
già fervido e corrente? Io non rimango
di far qui tutto il
mio poter. Dal punto
che verso la città li respingemmo,
mi sto coll'arco
ad aspettar costoro,
e li trafiggo. E già ben otto acuti
dardi dal nervo
liberai, che tutti
profondamente si ficcâr nel corpo
di giovani guerrieri,
e non ancora
ferir m'è dato questo can rabbioso.
Disse; e di nuovo fe'
volar dall'arco
contr'Ettore uno strale. Al colpo tutta
ei l'anima
diresse, e nondimeno
fallì la freccia, ché l'accolse in petto
di Prïamo un
valente esimio figlio
Gorgizïon, cui d'Esima condotta
partorì la gentil
Castïanira,
che una Diva parea nella persona.
Come carco talor del proprio
frutto,
e di troppa rugiada a primavera
il papaver nell'orto il capo
abbassa,
così la testa dell'elmo gravata
su la spalla chinò
quell'infelice.
E Teucro dalla corda ecco sprigiona
alla volta d'Ettorre
altra saetta,
più che mai del suo sangue sitibondo.
E pur di nuovo uscì lo
strale in fallo,
ché Apollo il devïò, ma colse al petto
d'Ettòr l'audace
bellicoso auriga
Archepòlemo presso alla mammella.
Cadde ei rovescio giù
dal cocchio, addietro
si piegaro i cavalli, e quivi a lui
il cor
ghiacciossi, e l'anima si sciolse.
Di quella morte gravemente afflitto
il
teucro duce, e di lasciar costretto,
mal suo grado, l'amico, a Cebrïone
di
lui fratello che il seguìa, fe' cenno
di dar mano alle briglie. Ad
obbedirlo
Cebrïon non fu lento; ed ei d'un salto
dallo splendido cocchio
al suol disceso
con terribile grido un sasso afferra,
a Teucro
s'addirizza, e di ferirlo
l'infiammava il desìo. Teucro in quel
punto
traeva un altro doloroso telo
dalla faretra, e lo ponea sul
nervo.
Mentre alla spalla lo ritragge in fretta,
e l'inimico adocchia, il
sopraggiunge
crollando l'elmo Ettorre, e dove il collo
s'innesta al petto
ed è letale il sito,
coll'aspro sasso il coglie, e rotto il
nervo
gl'intorpidisce il braccio. Dalle dita
l'arco gli fugge, e sul
ginocchio ei casca.
Il caduto fratello in abbandono
Aiace non lasciò, ma
ratto accorse,
e col proteso scudo il ricoprìa,
finché lo si recâr sovra
le spalle
due suoi cari compagni, Mecistèo
d'Echìo figliuolo, e il nobile
Alastorre,
e alle navi il portâr che gravemente
sospirava e gemea. Ne'
Teucri allora
di nuovo suscitò l'Olimpio Giove
tal forza e lena, che al
profondo fosso
dirittamente ricacciâr gli Achei.
Iva Ettorre alla testa, e
dalle truci
sue pupille mettea lampi e paura.
Qual fiero alano che ne'
presti piedi
confidando, un cinghial da tergo assalta,
od un lïone, e al
suo voltarsi attento
or le cluni gli addenta, ora la coscia;
così gli
Achivi insegue Ettorre, e sempre
uccidendo il postremo li disperde.
Ma
poiché l'alto fosso ed il palizzo
ebber varcato i fuggitivi, e molti
il
troiano valor n'avea già spenti,
giunti alle navi si fermaro, e
insieme
mettendosi coraggio, e a tutti i numi
sollevando le man spingea
ciascuno
con alta voce le preghiere al cielo.
Signor del campo d'ogni
parte intanto
agitava i destrieri il grande Ettorre
di bel crine superbi,
e rotar bieco
le luci si vedea come il Gorgóne,
o come Marte che nel
sangue esulta.
Impietosita degli Achei la bianca
Giuno a Minerva si
rivolse, e disse:
Invitta figlia dell'Egìoco Giove,
dunque, ohimè! non
vorremo aver più nullo
pensier de' Greci già cadenti, almeno
nell'estremo
lor punto? Eccoli tutti
l'empio lor fato a consumar vicini
per l'impeto
d'un sol, del fiero Ettorre
che in suo furore intollerando omai
passa ogni
modo, e ne fa troppe offese!
A cui la Diva dalle glauche luci
Minerva
rispondea: Certo perduta
avrìa costui la furia e l'alma ancora,
a giacer
posto nella patria terra
dal valor degli Achei; ma quel mio padre
di
sdegnosi pensier calda ha la mente,
sempre avverso, e de' miei forti
disegni
acerbo correttor; né si rimembra
quante volte servar gli seppi il
figlio
dai duri d'Euristèo comandi oppresso.
Ei lagrimava lamentoso al
cielo,
e me dal cielo allora ad aïtarlo
Giove spediva. Ma se il cor
prudente
detto m'avesse le presenti cose,
quando alle ferree porte il suo
tiranno
l'invïò dell'Averno a trar dal negro
Erebo il can dell'abborrito
Pluto,
ei, no, scampato non avrìa di Stige
la profonda fiumana. Or m'odia
il padre,
e di Teti adempir cerca le brame,
che lusinghiera gli baciò il
ginocchio,
e accarezzògli colla destra il mento,
d'onorar supplicandolo il
Pelìde
delle cittadi atterrator. Ma tempo,
sì, verrà tempo che la sua
diletta
Glaucòpide a chiamarmi egli ritorni.
Or tu vanne, ed il carro
m'apparecchia
co' veloci cornipedi, ché tosto
io ne vo dentro alle paterne
stanze,
e dell'armi mi vesto per la pugna.
Vedrem se questo Ettòr, che sì
superbo
crolla il cimiero, riderà quand'io
nel folto apparirò della
battaglia.
Qualcun per certo de' Troiani ancora
presso le navi achee
satolli e pingui
di sue polpe farà cani ed augelli.
Disse; né Giuno
ricusò, ma corse
ai divini cavalli, e d'auree barde
in fretta li guarnìa,
Giuno la figlia
del gran Saturno, veneranda Diva.
D'altra parte Minerva il
rabescato
suo bellissimo peplo, delle stesse
immortali sue dita opra
stupenda,
sul pavimento dell'Egìoco padre
lasciò cader diffuso; ed
indossando
del nimbifero Giove il grande usbergo,
tutta s'armava a
lagrimosa pugna.
Sul rilucente cocchio indi salita
impugnò la pesante e
poderosa
gran lancia, ond'ella, allor che monta in ira,
di forte genitor
figlia tremenda,
le schiere degli eroi rovescia e doma.
Stimolava Giunon
velocemente
colla sferza i destrieri, e tosto fûro
alle celesti soglie, a
cui custodi
vegliano l'Ore che il maggior de' cieli
hanno in cura e
l'Olimpo, onde sgombrarlo
o circondarlo della sacra nube.
Cigolando
s'aprîr per sé medesme
l'eteree porte, e docili al flagello
spinser per
queste i corridor le Dive.
Come Giove dal Gàrgaro le vide,
forte
sdegnossi, ed Iri a sé chiamando
ali-dorata Dea, Vola, le disse,
Iri
veloce, le rivolgi indietro,
e lor divieta il venir oltre meco
ad inegual
cimento. Io lo protesto,
e il fatto seguirà le mie parole,
io loro
fiaccherò sotto la biga
i corridori, e dall'infranto cocchio
balzerò le
superbe, e delle piaghe
che loro impresse lascerà il mio telo,
né pur due
lustri salderanno il solco.
Saprà Minerva allor qual sia stoltezza
il
cimentarsi col suo padre in guerra.
Quanto a Giunon, m'è forza esser con
ella
meno irato: gli è questo il suo costume
di sempre attraversarmi ogni
disegno.
Disse; ed Iri a portar l'alto messaggio
mosse veloce al par delle
procelle;
ed ascesa dall'Ida al grande Olimpo
di molti gioghi altero, e su
le soglie
incontrate le Dee, sì le rattenne,
e lor di Giove le parole
espose:
Dove correte? Che furore è questo?
Sostate il piè, ché il dar
soccorso ai Greci
nol vi consente Giove. Le minacce
dell'alto figlio di
Saturno udite,
che fian messe ad effetto. Ei sotto il carro
storpieravvi i
destrieri, e dall'infranto
carro voi stesse balzerà, né dieci
anni le
piaghe salderan che impresse
lasceravvi il suo telo; e tu, Minerva,
allor
saprai qual sia demenza il farti
al tuo padre nemica. Né con Giuno,
sempre
usata a turbargli ogni disegno,
tanto s'adira, ei no, quanto con
teco,
invereconda audace Dea, che ardisci
contra il Tonante sollevar la
lancia.
Disse, e ratta sparì la messaggiera.
Ed a Minerva allor con questi
accenti
Giuno si volse: Ohimè! più non si parli,
figlia di Giove, di
pugnar con esso
per cagion de' mortali: io nol consento.
Di loro altri si
muoia, altri si viva,
come piace alla sorte; e Giove intanto,
come dispon
suo senno e sua giustizia,
fra i Troiani e gli Achei tempri il destino.
Sì
dicendo la Dea ritorse indietro
i criniti destrieri, e l'Ore ancelle
li
distaccâr dal giogo, e li legaro
ai nettarei presepi, ed il bel
cocchio
appoggiaro alla lucida parete.
Si raccolser le Dive in aureo
seggio
con gli altri Dei confuse; e Giove intanto
dal Gàrgaro all'Olimpo i
corridori
e le fulgide ruote alto spingea.
Giunto alle case de' Celesti, a
lui
sciolse i corsieri l'inclito Nettunno,
rimesse il cocchio, e lo coprì
d'un velo.
Giove sul trono si compose e tutto
tremò sotto il suo piè
l'immenso Olimpo.
Ma Minerva e Giunon sole in disparte
sedean, né motto né
dimanda a Giove
ardìan veruna indirizzar. S'avvide
de' lor pensieri il
nume, e così disse:
Perché sì meste, o voi Minerva e Giuno?
e' non si par
che molto affaticate
v'abbia finor la glorïosa pugna
in esizio de' Teucri,
a cui sì grave
odio poneste. E v'è di mente uscito
che invitto è il
braccio mio? che quanti ha numi
il ciel, cangiare il mio voler non
ponno?
A voi bensì le delicate membra
prese un freddo tremor pria che la
guerra
pur contemplaste, e della guerra i duri
esperimenti. Io vel
dichiaro (e fôra
già seguìto l'effetto) che percosse
dalla folgore mia,
no, non v'avrebbe
il vostro cocchio ricondotte al cielo,
albergo degli
Eterni. - Il Dio sì disse,
e in secreto fremean Minerva e Giuno
sedendosi
vicino, ed ai Troiani
meditando nel cor alte sciagure.
Stette muta
Minerva, e contra il padre
l'acerbo che l'ardea sdegno represse;
ma
sciolto all'ira il fren Giuno rispose:
Tremendissimo Giove, e che
dicesti?
Ben anco a noi la tua possanza invitta
è manifesta; ma pietà ne
prende
dei dannati a perir miseri Achei.
Noi certo l'armi lascerem, se
questo
è il tuo strano voler; ma nondimeno
qualche ai Greci daremo util
consiglio,
onde non tutti il tuo furor li spegna.
E Giove replicò: Più
fiero ancora
vedrai dimani, se t'aggrada, o moglie,
l'onnipotente di
Saturno figlio
dell'esercito achèo struggere il fiore.
Perocché dalla
pugna il forte Ettorre
non pria desisterà, che finalmente
l'ozïosa si
svegli ira d'Achille
il dì che in gran periglio appo le navi
combatterassi
per Patròclo ucciso.
Tal de' fati è il voler, né de' tuoi sdegni
sollecito
son io, no, s'anco ai muti
della terra e del mar confini estremi
andar ti
piaccia, nel rimoto esiglio
di Giapeto e Saturno, che nel cupo
Tartaro
chiusi né il superno raggio
del Sole, né di vento aura ricrea;
no, se
tant'oltre pure il tuo dispetto
vagabonda ti porti, io non ti curo,
poiché
d'ogni pudor possasti il segno.
Tacque; né Giuno osò pure d'un
detto
fargli risposta. In grembo al mar frattanto
la splendida cadea lampa
del Sole
l'atra notte traendo su la terra.
Della luce l'occaso i Teucri
afflisse,
ma pregata più volte e sospirata
sovraggiunse agli Achei l'ombra
notturna.
Fuor del campo navale Ettore allora
i Troiani ritrasse in su la
riva
del rapido Scamandro, ed in pianura
da' cadaveri sgombra a
parlamento
chiamolli; ed essi dismontâr dai cocchi,
e affollati dintorno
al gran guerriero
cura di Giove, a sue parole attenti
porgean gli orecchi.
Una grand'asta in pugno
di ben undici cubiti sostiene:
tutta di bronzo
folgora la punta,
e d'oro un cerchio le discorre intorno.
Appoggiato su
questa, così disse:
Dardani, Teucri, Collegati, udite:
io poc'anzi sperai
ch'arse le navi
e distrutti gli Argivi a Troia avremmo
fatto ritorno. Ma
sì bella speme
ne rapîr le tenèbre invidiose,
che inopportune sul cruento
lido
salvâr le navi e i paurosi Achei.
Obbediamo alle negre ombre
nemiche,
apparecchiam le cene. Ognun dal temo
sciolga i cavalli, e liberal
sia loro
di largo cibo. Di voi parte intanto
alla città si affretti, e
pingui agnelle
e giovenchi n'adduca, e di Lïeo
e di Cerere il frutto almo
e gradito.
Sian di secche boscaglie anco raccolte
abbondanti cataste, e si
cosparga,
finché regna la notte e l'alba arriva,
tutto di fuochi il campo
e il ciel di luce,
onde dell'ombre nel silenzio i Greci
non prendano del
mar su l'ampio dorso
taciturni la fuga; o i legni almeno
non salgano
tranquilli, e la partenza
senza terror non sia; ma nell'imbarco
o di
lancia piagato o di saetta
vada più d'uno alle paterne case
a curar la
ferita, e rechi ai figli
l'orror de' Teucri, e così loro insegni
a non
tentarli con funesta guerra.
Voi cari a Giove diligenti araldi,
per la
città frattanto ite, e bandite
che i canuti vegliardi, e i giovinetti
a
cui le guance il primo pelo infiora,
custodiscan le mura in su gli
spaldi
dagli Dei fabbricati. Entro le case
allumino gran fuoco anco le
donne,
e stazïon vi sia di sentinelle,
onde, sendo noi lungi, ostile
insidia
nell'inerme città non s'introduca.
Quanto or dico s'adémpia, e non
fia vano,
magnanimi compagni, il mio consiglio.
Dirò dimani ciò che far ne
resta.
Spero ben io, se Giove e gli altri Eterni
avrem propizi, di
cacciarne lungi
cotesti cani da funesto fato
qua su le prore addutti. Or
per la notte
custodiamo noi stessi. Al primo raggio
del nuovo giorno in
tutto punto armati
desteremo sul lido acre conflitto;
vedrem se Dïomede,
questo forte
figliuolo di Tidèo, respingerammi
dalle navi alle mura, o
s'io coll'asta
saprò passargli il fianco, e via portarne
le sanguinose
spoglie. Egli dimani
manifesto farà se sua prodezza
tal sia che possa di
mia lancia il duro
assalto sostener. Ma se fallace
non è mia speme, ei
giacerà tra' primi
spento con molti de' compagni intorno,
ei sì, dimani,
all'apparir del Sole.
Così immortal foss'io, né mai vecchiezza
vïolasse i
miei giorni, ed onorato
foss'io del par che Pallade ed Apollo,
come fatale
ai Greci è il dì futuro.
Tal fu d'Ettorre il favellar superbo,
e gli fêr
plauso i Teucri. Immantinente
sciolsero dal timone i polverosi
destrier
sudati, e colle briglie al carro
gli annodò ciascheduno. Indi
menaro
pecore e buoi dalla cittade in fretta.
Altri vien carco di nettareo
vino,
altri di cibo cereale; ed altri
cataste aduna di virgulti e
tronchi.
Rapìan l'odor delle vivande i venti
da tutto il campo, e lo
spargeano al cielo.
Ed essi gonfi di baldanza, e in torme
belliche assisi
dispendean la notte,
tutta empiendo di fuochi la campagna.
Siccome quando
in ciel tersa è la Luna,
e tremole e vezzose a lei dintorno
sfavillano le
stelle, allor che l'aria
è senza vento, ed allo sguardo tutte
si scuoprono
le torri e le foreste
e le cime de' monti; immenso e puro
l'etra si
spande, gli astri tutti il volto
rivelano ridenti, e in cor ne
gode
l'attonito pastor: tali al vederli,
e altrettanti apparìan de' Teucri
i fuochi
tra le navi e del Xanto le correnti
sotto il muro di Troia. Erano
mille
che di gran fiamma interrompeano il campo,
e cinquanta guerrieri a
ciascheduno
sedeansi al lume delle vampe ardenti.
Presso i carri frattanto
orzo ed avena
i cavalli pascevano, aspettando
che dal bel trono suo l'Alba
sorgesse.
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