I Promessi Sposi
"L'Historia
si può veramente deffinire una guerra illustre contro il Tempo, perché
togliendoli di mano gl'anni suoi prigionieri, anzi già fatti cadaueri, li
richiama in vita, li passa in rassegna, e li schiera di nuovo in battaglia. Ma
gl'illustri Campioni che in tal Arringo fanno messe di Palme e d'Allori,
rapiscono solo che le sole spoglie più sfarzose e brillanti, imbalsamando co'
loro inchiostri le Imprese de Prencipi e Potentati, e qualificati Personaggj, e
trapontando coll'ago finissimo dell'ingegno i fili d'oro e di seta, che formano
un perpetuo ricamo di Attioni gloriose. Però alla mia debolezza non è lecito
solleuarsi a tal'argomenti, e sublimità pericolose, con aggirarsi tra Labirinti
de' Politici maneggj, et il rimbombo de' bellici Oricalchi: solo che hauendo
hauuto notitia di fatti memorabili, se ben capitorno a gente meccaniche, e di
piccol affare, mi accingo di lasciarne memoria a Posteri, con far di tutto
schietta e genuinamente il Racconto, ouuero sia Relatione. Nella quale si vedrà
in angusto Teatro luttuose Traggedie d'horrori, e Scene di malvaggità
grandiosa, con intermezi d'Imprese virtuose e buontà angeliche, opposte alle
operationi diaboliche. E veramente, considerando che questi nostri climi sijno
sotto l'amparo del Re Cattolico nostro Signore, che è quel Sole che mai
tramonta, e che sopra di essi, con riflesso Lume, qual Luna giamai calante,
risplenda l'Heroe di nobil Prosapia che pro tempore ne tiene le sue
parti, e gl'Amplissimi Senatori quali Stelle fisse, e gl'altri Spettabili
Magistrati qual'erranti Pianeti spandino la luce per ogni doue, venendo così a
formare un nobilissimo Cielo, altra causale trouar non si può del vederlo
tramutato in inferno d'atti tenebrosi, malvaggità e sevitie che dagl'huomini
temerarij si vanno moltiplicando, se non se arte e fattura diabolica, attesoché
l'humana malitia per sé sola bastar non dourebbe a resistere a tanti Heroi, che
con occhij d'Argo e braccj di Briareo, si vanno trafficando per li pubblici
emolumenti. Per locché descriuendo questo Racconto auuenuto ne' tempi di mia
verde staggione, abbenché la più parte delle persone che vi rappresentano le
loro parti, sijno sparite dalla Scena del Mondo, con rendersi tributarij delle
Parche, pure per degni rispetti, si tacerà li loro nomi, cioè la parentela, et
il medesmo si farà de' luochi, solo indicando li Territorij generaliter. Né
alcuno dirà questa sij imperfettione del Racconto, e defformità di questo mio
rozzo Parto, a meno questo tale Critico non sij persona affatto diggiuna della
Filosofia: che quanto agl'huomini in essa versati, ben vederanno nulla mancare
alla sostanza di detta Narratione. Imperciocché, essendo cosa evidente, e da
verun negata non essere i nomi se non puri purissimi accidenti..."
"Ma,
quando io avrò durata l'eroica fatica di trascriver questa storia da questo
dilavato e graffiato autografo, e l'avrò data, come si suol dire, alla luce, si
troverà poi chi duri la fatica di leggerla?"
Questa
riflessione dubitativa, nata nel travaglio del decifrare uno scarabocchio che
veniva dopo accidenti, mi fece sospender la copia, e pensar più
seriamente a quello che convenisse di fare. "Ben è vero, dicevo tra me,
scartabellando il manoscritto, ben è vero che quella grandine di concettini e
di figure non continua così alla distesa per tutta l'opera. Il buon secentista
ha voluto sul principio mettere in mostra la sua virtù; ma poi, nel corso della
narrazione, e talvolta per lunghi tratti, lo stile cammina ben più naturale e
più piano. Sì; ma com'è dozzinale! com'è sguaiato! com'è scorretto! Idiotismi
lombardi a iosa, frasi della lingua adoperate a sproposito, grammatica
arbitraria, periodi sgangherati. E poi, qualche eleganza spagnola seminata qua
e là; e poi, ch'è peggio, ne' luoghi più terribili o più pietosi della storia,
a ogni occasione d'eccitar maraviglia, o di far pensare, a tutti que' passi
insomma che richiedono bensì un po' di rettorica, ma rettorica discreta, fine,
di buon gusto, costui non manca mai di metterci di quella sua così fatta del
proemio. E allora, accozzando, con un'abilità mirabile, le qualità più opposte,
trova la maniera di riuscir rozzo insieme e affettato, nella stessa pagina,
nello stesso periodo, nello stesso vocabolo. Ecco qui: declamazioni ampollose,
composte a forza di solecismi pedestri, e da per tutto quella goffaggine
ambiziosa, ch'è il proprio carattere degli scritti di quel secolo, in questo
paese. In vero, non è cosa da presentare a lettori d'oggigiorno: son troppo
ammaliziati, troppo disgustati di questo genere di stravaganze. Meno male, che
il buon pensiero m'è venuto sul principio di questo sciagurato lavoro: e me ne
lavo le mani".
Nell'atto
però di chiudere lo scartafaccio, per riporlo, mi sapeva male che una storia
così bella dovesse rimanersi tuttavia sconosciuta; perché, in quanto storia,
può essere che al lettore ne paia altrimenti, ma a me era parsa bella, come
dico; molto bella. "Perché non si potrebbe, pensai, prender la serie de'
fatti da questo manoscritto, e rifarne la dicitura?" Non essendosi
presentato alcuna obiezion ragionevole, il partito fu subito abbracciato. Ed
ecco l'origine del presente libro, esposta con un'ingenuità pari all'importanza
del libro medesimo.
Taluni
però di que' fatti, certi costumi descritti dal nostro autore, c'eran sembrati
così nuovi, così strani, per non dir peggio, che, prima di prestargli fede,
abbiam voluto interrogare altri testimoni; e ci siam messi a frugar nelle
memorie di quel tempo, per chiarirci se veramente il mondo camminasse allora a
quel modo. Una tale indagine dissipò tutti i nostri dubbi: a ogni passo ci
abbattevamo in cose consimili, e in cose più forti: e, quello che ci parve più
decisivo, abbiam perfino ritrovati alcuni personaggi, de' quali non avendo mai
avuto notizia fuor che dal nostro manoscritto, eravamo in dubbio se fossero
realmente esistiti. E, all'occorrenza, citeremo alcuna di quelle testimonianze,
per procacciar fede alle cose, alle quali, per la loro stranezza, il lettore
sarebbe più tentato di negarla.
Ma,
rifiutando come intollerabile la dicitura del nostro autore, che dicitura vi abbiam
noi sostituita? Qui sta il punto.
Chiunque,
senza esser pregato, s'intromette a rifar l'opera altrui, s'espone a rendere
uno stretto conto della sua, e ne contrae in certo modo l'obbligazione: è
questa una regola di fatto e di diritto, alla quale non pretendiam punto di
sottrarci. Anzi, per conformarci ad essa di buon grado, avevam proposto di dar
qui minutamente ragione del modo di scrivere da noi tenuto; e, a questo fine,
siamo andati, per tutto il tempo del lavoro, cercando d'indovinare le critiche
possibili e contingenti, con intenzione di ribatterle tutte anticipatamente. Né
in questo sarebbe stata la difficoltà; giacché (dobbiam dirlo a onor del vero)
non ci si presentò alla mente una critica, che non le venisse insieme una
risposta trionfante, di quelle risposte che, non dico risolvon le questioni, ma
le mutano. Spesso anche, mettendo due critiche alle mani tra loro, le facevam
battere l'una dall'altra; o, esaminandole ben a fondo, riscontrandole
attentamente, riuscivamo a scoprire e a mostrare che, così opposte in
apparenza, eran però d'uno stesso genere, nascevan tutt'e due dal non badare ai
fatti e ai principi su cui il giudizio doveva esser fondato; e, messele, con
loro gran sorpresa, insieme, le mandavamo insieme a spasso. Non ci sarebbe mai stato
autore che provasse così ad evidenza d'aver fatto bene. Ma che? quando siamo
stati al punto di raccapezzar tutte le dette obiezioni e risposte, per disporle
con qualche ordine, misericordia! venivano a fare un libro. Veduta la qual
cosa, abbiam messo da parte il pensiero, per due ragioni che il lettore troverà
certamente buone: la prima, che un libro impiegato a giustificarne un altro,
anzi lo stile d'un altro, potrebbe parer cosa ridicola: la seconda, che di
libri basta uno per volta, quando non è d'avanzo.
Quel
ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte
di monti, tutto a seni e a golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare di
quelli, vien, quasi a un tratto, a ristringersi, e a prender corso e figura di
fiume, tra un promontorio a destra, e un'ampia costiera dall'altra parte; e il
ponte, che ivi congiunge le due rive, par che renda ancor più sensibile
all'occhio questa trasformazione, e segni il punto in cui il lago cessa, e
l'Adda rincomincia, per ripigliar poi nome di lago dove le rive, allontanandosi
di nuovo, lascian l'acqua distendersi e rallentarsi in nuovi golfi e in nuovi
seni. La costiera, formata dal deposito di tre grossi torrenti, scende
appoggiata a due monti contigui, l'uno detto di san Martino, l'altro, con voce
lombarda, il Resegone, dai molti suoi cocuzzoli in fila, che in vero lo
fanno somigliare a una sega: talché non è chi, al primo vederlo, purché sia di
fronte, come per esempio di su le mura di Milano che guardano a settentrione,
non lo discerna tosto, a un tal contrassegno, in quella lunga e vasta giogaia,
dagli altri monti di nome più oscuro e di forma più comune. Per un buon pezzo,
la costa sale con un pendìo lento e continuo; poi si rompe in poggi e in
valloncelli, in erte e in ispianate, secondo l'ossatura de' due monti, e il
lavoro dell'acque. Il lembo estremo, tagliato dalle foci de' torrenti, è quasi
tutto ghiaia e ciottoloni; il resto, campi e vigne, sparse di terre, di ville,
di casali; in qualche parte boschi, che si prolungano su per la montagna.
Lecco, la principale di quelle terre, e che dà nome al territorio, giace poco
discosto dal ponte, alla riva del lago, anzi viene in parte a trovarsi nel lago
stesso, quando questo ingrossa: un gran borgo al giorno d'oggi, e che s'incammina
a diventar città. Ai tempi in cui accaddero i fatti che prendiamo a raccontare,
quel borgo, già considerabile, era anche un castello, e aveva perciò l'onore
d'alloggiare un comandante, e il vantaggio di possedere una stabile guarnigione
di soldati spagnoli, che insegnavan la modestia alle fanciulle e alle donne del
paese, accarezzavan di tempo in tempo le spalle a qualche marito, a qualche
padre; e, sul finir dell'estate, non mancavan mai di spandersi nelle vigne, per
diradar l'uve, e alleggerire a' contadini le fatiche della vendemmia. Dall'una
all'altra di quelle terre, dall'alture alla riva, da un poggio all'altro,
correvano, e corrono tuttavia, strade e stradette, più o men ripide, o piane;
ogni tanto affondate, sepolte tra due muri, donde, alzando lo sguardo, non
iscoprite che un pezzo di cielo e qualche vetta di monte; ogni tanto elevate su
terrapieni aperti: e da qui la vista spazia per prospetti più o meno estesi, ma
ricchi sempre e sempre qualcosa nuovi, secondo che i diversi punti piglian più
o meno della vasta scena circostante, e secondo che questa o quella parte
campeggia o si scorcia, spunta o sparisce a vicenda. Dove un pezzo, dove un
altro, dove una lunga distesa di quel vasto e variato specchio dell'acqua; di
qua lago, chiuso all'estremità o piùttosto smarrito in un gruppo, in un
andirivieni di montagne, e di mano in mano più allargato tra altri monti che si
spiegano, a uno a uno, allo sguardo, e che l'acqua riflette capovolti, co'
paesetti posti sulle rive; di là braccio di fiume, poi lago, poi fiume ancora,
che va a perdersi in lucido serpeggiamento pur tra' monti che l'accompagnano,
degradando via via, e perdendosi quasi anch'essi nell'orizzonte. Il luogo
stesso da dove contemplate que' vari spettacoli, vi fa spettacolo da ogni parte:
il monte di cui passeggiate le falde, vi svolge, al di sopra, d'intorno, le sue
cime e le balze, distinte, rilevate, mutabili quasi a ogni passo, aprendosi e
contornandosi in gioghi ciò che v'era sembrato prima un sol giogo, e comparendo
in vetta ciò che poco innanzi vi si rappresentava sulla costa: e l'ameno, il
domestico di quelle falde tempera gradevolmente il selvaggio, e orna vie più il
magnifico dell'altre vedute.
Per una
di queste stradicciole, tornava bel bello dalla passeggiata verso casa, sulla sera
del giorno 7 novembre dell'anno 1628, don Abbondio, curato d'una delle terre
accennate di sopra: il nome di questa, né il casato del personaggio, non si
trovan nel manoscritto, né a questo luogo né altrove. Diceva tranquillamente il
suo ufizio, e talvolta, tra un salmo e l'altro, chiudeva il breviario,
tenendovi dentro, per segno, l'indice della mano destra, e, messa poi questa
nell'altra dietro la schiena, proseguiva il suo cammino, guardando a terra, e
buttando con un piede verso il muro i ciottoli che facevano inciampo nel
sentiero: poi alzava il viso, e, girati oziosamente gli occhi all'intorno, li
fissava alla parte d'un monte, dove la luce del sole già scomparso, scappando
per i fessi del monte opposto, si dipingeva qua e là sui massi sporgenti, come
a larghe e inuguali pezze di porpora. Aperto poi di nuovo il breviario, e
recitato un altro squarcio, giunse a una voltata della stradetta, dov'era
solito d'alzar sempre gli occhi dal libro, e di guardarsi dinanzi: e così fece
anche quel giorno. Dopo la voltata, la strada correva diritta, forse un
sessanta passi, e poi si divideva in due viottole, a foggia d'un ipsilon:
quella a destra saliva verso il monte, e menava alla cura: l'altra scendeva
nella valle fino a un torrente; e da questa parte il muro non arrivava che
all'anche del passeggiero. I muri interni delle due viottole, in vece di
riunirsi ad angolo, terminavano in un tabernacolo, sul quale eran dipinte certe
figure lunghe, serpeggianti, che finivano in punta, e che, nell'intenzion
dell'artista, e agli occhi degli abitanti del vicinato, volevan dir fiamme; e,
alternate con le fiamme, cert'altre figure da non potersi descrivere, che
volevan dire anime del purgatorio: anime e fiamme a color di mattone, sur un
fondo bigiognolo, con qualche scalcinatura qua e là. Il curato, voltata la
stradetta, e dirizzando, com'era solito, lo sguardo al tabernacolo, vide una
cosa che non s'aspettava, e che non avrebbe voluto vedere. Due uomini stavano,
l'uno dirimpetto all'altro, al confluente, per dir così, delle due viottole: un
di costoro, a cavalcioni sul muricciolo basso, con una gamba spenzolata al di
fuori, e l'altro piede posato sul terreno della strada; il compagno, in piedi,
appoggiato al muro, con le braccia incrociate sul petto. L'abito, il
portamento, e quello che, dal luogo ov'era giunto il curato, si poteva
distinguer dell'aspetto, non lasciavan dubbio intorno alla lor condizione.
Avevano entrambi intorno al capo una reticella verde, che cadeva sull'omero
sinistro, terminata in una gran nappa, e dalla quale usciva sulla fronte un
enorme ciuffo: due lunghi mustacchi arricciati in punta: una cintura lucida di
cuoio, e a quella attaccate due pistole: un piccol corno ripieno di polvere,
cascante sul petto, come una collana: un manico di coltellaccio che spuntava
fuori d'un taschino degli ampi e gonfi calzoni: uno spadone, con una gran
guardia traforata a lamine d'ottone, congegnate come in cifra, forbite e
lucenti: a prima vista si davano a conoscere per individui della specie de' bravi.
Questa
specie, ora del tutto perduta, era allora floridissima in Lombardia, e già
molto antica. Chi non ne avesse idea, ecco alcuni squarci autentici, che
potranno darne una bastante de' suoi caratteri principali, degli sforzi fatti
per ispegnerla, e della sua dura e rigogliosa vitalità.
Fino
dall'otto aprile dell'anno 1583, l'Illustrissimo ed Eccellentissimo signor don
Carlo d'Aragon, Principe di Castelvetrano, Duca di Terranuova, Marchese
d'Avola, Conte di Burgeto, grande Ammiraglio, e gran Contestabile di Sicilia,
Governatore di Milano e Capitan Generale di Sua Maestà Cattolica in Italia, pienamente
informato della intollerabile miseria in che è vivuta e vive questa città di
Milano, per cagione dei bravi e vagabondi, pubblica un bando contro di
essi. Dichiara e diffinisce tutti coloro essere compresi in questo bando, e
doversi ritenere bravi e vagabondi... i quali, essendo forestieri o del paese,
non hanno esercizio alcuno, od avendolo, non lo fanno... ma, senza salario, o
pur con esso, s'appoggiano a qualche cavaliere o gentiluomo, officiale o
mercante... per fargli spalle e favore, o veramente, come si può presumere, per
tendere insidie ad altri... A tutti costoro ordina che, nel termine di
giorni sei, abbiano a sgomberare il paese, intima la galera a' renitenti, e dà
a tutti gli ufiziali della giustizia le più stranamente ampie e indefinite
facoltà, per l'esecuzione dell'ordine. Ma, nell'anno seguente, il 12 aprile,
scorgendo il detto signore, che questa Città è tuttavia piena di detti
bravi... tornati a vivere come prima vivevano, non punto mutato il costume
loro, né scemato il numero, dà fuori un'altra grida, ancor più vigorosa e
notabile, nella quale, tra l'altre ordinazioni, prescrive:
Che
qualsivoglia persona, così di questa Città, come forestiera, che per due
testimonj consterà esser tenuto, e comunemente riputato per bravo, et aver tal
nome, ancorché non si verifichi aver fatto delitto alcuno... per questa sola
riputazione di bravo, senza altri indizj, possa dai detti giudici e da ognuno
di loro esser posto alla corda et al tormento, per processo informativo... et
ancorché non confessi delitto alcuno, tuttavia sia mandato alla galea, per
detto triennio, per la sola opinione e nome di bravo, come di sopra. Tutto
ciò, e il di più che si tralascia, perché Sua Eccellenza è risoluta di voler
essere obbedita da ognuno.
All'udir
parole d'un tanto signore, così gagliarde e sicure, e accompagnate da tali
ordini, viene una gran voglia di credere che, al solo rimbombo di esse, tutti i
bravi siano scomparsi per sempre. Ma la testimonianza d'un signore non meno
autorevole, né meno dotato di nomi, ci obbliga a credere tutto il contrario. È
questi l'Illustrissimo ed Eccellentissimo Signor Juan Fernandez de Velasco,
Contestabile di Castiglia, Cameriero maggiore di Sua Maestà, Duca della Città
di Frias, Conte di Haro e Castelnovo, Signore della Casa di Velasco, e di
quella delli sette Infanti di Lara, Governatore dello Stato di Milano, etc. Il
5 giugno dell'anno 1593, pienamente informato anche lui di quanto danno e
rovine sieno... i bravi e vagabondi, e del pessimo effetto che tal sorta di
gente, fa contra il ben pubblico, et in delusione della giustizia, intima
loro di nuovo che, nel termine di giorni sei, abbiano a sbrattare il paese,
ripetendo a un dipresso le prescrizioni e le minacce medesime del suo
predecessore. Il 23 maggio poi dell'anno 1598, informato, con non poco
dispiacere dell'animo suo, che... ogni dì più in questa Città e Stato va
crescendo il numero di questi tali(bravi e vagabondi), né di loro,
giorno e notte, altro si sente che ferite appostatamente date, omicidii e
ruberie et ogni altra qualità di delitti, ai quali si rendono più facili,
confidati essi bravi d'essere aiutati dai capi e fautori loro... prescrive
di nuovo gli stessi rimedi, accrescendo la dose, come s'usa nelle malattie
ostinate. Ognuno dunque, conchiude poi, onninamente si guardi di
contravvenire in parte alcuna alla grida presente, perché, in luogo di provare
la clemenza di Sua Eccellenza, proverà il rigore, e l'ira sua... essendo
risoluta e determinata che questa sia l'ultima e perentoria monizione.
Non fu
però di questo parere l'Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore, il Signor Don
Pietro Enriquez de Acevedo, Conte di Fuentes, Capitano, e Governatore dello
Stato di Milano; non fu di questo parere, e per buone ragioni. Pienamente
informato della miseria in che vive questa Città e Stato per cagione del gran
numero di bravi che in esso abbonda... e risoluto di totalmente estirpare seme
tanto pernizioso, dà fuori, il 5 decembre 1600, una nuova grida piena anch'essa
di severissime comminazioni, con fermo proponimento che, con ogni rigore, e
senza speranza di remissione, siano onninamente eseguite.
Convien
credere però che non ci si mettesse con tutta quella buona voglia che sapeva
impiegare nell'ordir cabale, e nel suscitar nemici al suo gran nemico Enrico
IV; giacché, per questa parte, la storia attesta come riuscisse ad armare
contro quel re il duca di Savoia, a cui fece perder più d'una città; come
riuscisse a far congiurare il duca di Biron, a cui fece perder la testa; ma,
per ciò che riguarda quel seme tanto pernizioso de' bravi, certo è che esso
continuava a germogliare, il 22 settembre dell'anno 1612. In quel giorno
l'Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore, il Signor Don Giovanni de Mendozza,
Marchese de la Hynojosa, Gentiluomo etc., Governatore etc., pensò seriamente ad
estirparlo. A quest'effetto, spedì a Pandolfo e Marco Tullio Malatesti,
stampatori regii camerali, la solita grida, corretta ed accresciuta, perché la
stampassero ad esterminio de' bravi. Ma questi vissero ancora per ricevere, il
24 decembre dell'anno 1618, gli stessi e più forti colpi dall'Illustrissimo ed
Eccellentissimo Signore, il Signor Don Gomez Suarez de Figueroa, Duca di Feria,
etc., Governatore etc. Però, non essendo essi morti neppur di quelli,
l'Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore, il Signor Gonzalo Fernandez di
Cordova, sotto il cui governo accadde la passeggiata di don Abbondio, s'era
trovato costretto a ricorreggere e ripubblicare la solita grida contro i bravi,
il giorno 5 ottobre del 1627, cioè un anno, un mese e due giorni prima di quel
memorabile avvenimento.
Né fu
questa l'ultima pubblicazione; ma noi delle posteriori non crediamo dover far
menzione, come di cosa che esce dal periodo della nostra storia. Ne accenneremo
soltanto una del 13 febbraio dell'anno 1632, nella quale l'Illustrissimo ed
Eccellentissimo Signore, el Duque de Feria, per la seconda volta
governatore, ci avvisa che le maggiori sceleraggini procedono da quelli che
chiamano bravi. Questo basta ad assicurarci che, nel tempo di cui noi
trattiamo, c'era de' bravi tuttavia.
Che i
due descritti di sopra stessero ivi ad aspettar qualcheduno, era cosa troppo
evidente; ma quel che più dispiacque a don Abbondio fu il dover accorgersi, per
certi atti, che l'aspettato era lui. Perché, al suo apparire, coloro s'eran
guardati in viso, alzando la testa, con un movimento dal quale si scorgeva che
tutt'e due a un tratto avevan detto: è lui; quello che stava a cavalcioni s'era
alzato, tirando la sua gamba sulla strada; l'altro s'era staccato dal muro; e
tutt'e due gli s'avviavano incontro. Egli, tenendosi sempre il breviario aperto
dinanzi, come se leggesse, spingeva lo sguardo in su, per ispiar le mosse di
coloro; e, vedendoseli venir proprio incontro, fu assalito a un tratto da mille
pensieri. Domandò subito in fretta a se stesso, se, tra i bravi e lui, ci fosse
qualche uscita di strada, a destra o a sinistra; e gli sovvenne subito di no.
Fece un rapido esame, se avesse peccato contro qualche potente, contro qualche
vendicativo; ma, anche in quel turbamento, il testimonio consolante della
coscienza lo rassicurava alquanto: i bravi però s'avvicinavano, guardandolo
fisso. Mise l'indice e il medio della mano sinistra nel collare, come per
raccomodarlo; e, girando le due dita intorno al collo, volgeva intanto la
faccia all'indietro, torcendo insieme la bocca, e guardando con la coda
dell'occhio, fin dove poteva, se qualcheduno arrivasse; ma non vide nessuno.
Diede un'occhiata, al di sopra del muricciolo, ne' campi: nessuno; un'altra più
modesta sulla strada dinanzi; nessuno, fuorché i bravi. Che fare? tornare
indietro, non era a tempo: darla a gambe, era lo stesso che dire, inseguitemi,
o peggio. Non potendo schivare il pericolo, vi corse incontro, perché i momenti
di quell'incertezza erano allora così penosi per lui, che non desiderava altro
che d'abbreviarli. Affrettò il passo, recitò un versetto a voce più alta,
compose la faccia a tutta quella quiete e ilarità che poté, fece ogni sforzo
per preparare un sorriso; quando si trovò a fronte dei due galantuomini, disse
mentalmente: ci siamo; e si fermò su due piedi.
-
Signor curato, - disse un di que' due, piantandogli gli occhi in faccia.
- Cosa
comanda? - rispose subito don Abbondio, alzando i suoi dal libro, che gli restò
spalancato nelle mani, come sur un leggìo.
- Lei
ha intenzione, - proseguì l'altro, con l'atto minaccioso e iracondo di chi
coglie un suo inferiore sull'intraprendere una ribalderia, - lei ha intenzione
di maritar domani Renzo Tramaglino e Lucia Mondella!
- Cioè...
- rispose, con voce tremolante, don Abbondio: - cioè. Lor signori son uomini di
mondo, e sanno benissimo come vanno queste faccende. Il povero curato non
c'entra: fanno i loro pasticci tra loro, e poi... e poi, vengon da noi, come
s'anderebbe a un banco a riscotere; e noi... noi siamo i servitori del comune.
- Or
bene, - gli disse il bravo, all'orecchio, ma in tono solenne di comando, -
questo matrimonio non s'ha da fare, né domani, né mai.
- Ma,
signori miei, - replicò don Abbondio, con la voce mansueta e gentile di chi
vuol persuadere un impaziente, - ma, signori miei, si degnino di mettersi ne'
miei panni. Se la cosa dipendesse da me,... vedon bene che a me non me ne vien
nulla in tasca...
- Orsù,
- interruppe il bravo, - se la cosa avesse a decidersi a ciarle, lei ci
metterebbe in sacco. Noi non ne sappiamo, né vogliam saperne di più. Uomo
avvertito... lei c'intende.
- Ma
lor signori son troppo giusti, troppo ragionevoli...
- Ma, -
interruppe questa volta l'altro compagnone, che non aveva parlato fin allora, -
ma il matrimonio non si farà, o... - e qui una buona bestemmia, - o chi lo farà
non se ne pentirà, perché non ne avrà tempo, e... - un'altra bestemmia.
-
Zitto, zitto, - riprese il primo oratore: - il signor curato è un uomo che sa
il viver del mondo; e noi siam galantuomini, che non vogliam fargli del male,
purché abbia giudizio. Signor curato, l'illustrissimo signor don Rodrigo nostro
padrone la riverisce caramente.
Questo
nome fu, nella mente di don Abbondio, come, nel forte d'un temporale notturno,
un lampo che illumina momentaneamente e in confuso gli oggetti, e accresce il
terrore. Fece, come per istinto, un grand'inchino, e disse: - se mi sapessero
suggerire...
- Oh!
suggerire a lei che sa di latino! - interruppe ancora il bravo, con un riso tra
lo sguaiato e il feroce. - A lei tocca. E sopra tutto, non si lasci uscir
parola su questo avviso che le abbiam dato per suo bene; altrimenti... ehm...
sarebbe lo stesso che fare quel tal matrimonio. Via, che vuol che si dica in
suo nome all'illustrissimo signor don Rodrigo?
- Il
mio rispetto...
- Si
spieghi meglio!
-...
Disposto... disposto sempre all'ubbidienza -. E, proferendo queste parole, non
sapeva nemmen lui se faceva una promessa, o un complimento. I bravi le presero,
o mostraron di prenderle nel significato più serio.
-
Benissimo, e buona notte, messere, - disse l'un d'essi, in atto di partir col
compagno. Don Abbondio, che, pochi momenti prima, avrebbe dato un occhio per
iscansarli, allora avrebbe voluto prolungar la conversazione e le trattative. -
Signori... - cominciò, chiudendo il libro con le due mani; ma quelli, senza più
dargli udienza, presero la strada dond'era lui venuto, e s'allontanarono,
cantando una canzonaccia che non voglio trascrivere. Il povero don Abbondio
rimase un momento a bocca aperta, come incantato; poi prese quella delle due
stradette che conduceva a casa sua, mettendo innanzi a stento una gamba dopo
l'altra, che parevano aggranchiate. Come stesse di dentro, s'intenderà meglio,
quando avrem detto qualche cosa del suo naturale, e de' tempi in cui gli era
toccato di vivere.
Don
Abbondio (il lettore se n'è già avveduto) non era nato con un cuor di leone.
Ma, fin da' primi suoi anni, aveva dovuto comprendere che la peggior
condizione, a que' tempi, era quella d'un animale senza artigli e senza zanne,
e che pure non si sentisse inclinazione d'esser divorato. La forza legale non
proteggeva in alcun conto l'uomo tranquillo, inoffensivo, e che non avesse
altri mezzi di far paura altrui. Non già che mancassero leggi e pene contro le
violenze private. Le leggi anzi diluviavano; i delitti erano enumerati, e
particolareggiati, con minuta prolissità; le pene, pazzamente esorbitanti e, se
non basta, aumentabili, quasi per ogni caso, ad arbitrio del legislatore stesso
e di cento esecutori; le procedure, studiate soltanto a liberare il giudice da
ogni cosa che potesse essergli d'impedimento a proferire una condanna: gli
squarci che abbiam riportati delle gride contro i bravi, ne sono un piccolo, ma
fedel saggio. Con tutto ciò, anzi in gran parte a cagion di ciò, quelle gride,
ripubblicate e rinforzate di governo in governo, non servivano ad altro che ad
attestare ampollosamente l'impotenza de' loro autori; o, se producevan qualche
effetto immediato, era principalmente d'aggiunger molte vessazioni a quelle che
i pacifici e i deboli già soffrivano da' perturbatori, e d'accrescer le
violenze e l'astuzia di questi. L'impunità era organizzata, e aveva radici che
le gride non toccavano, o non potevano smovere. Tali eran gli asili, tali i
privilegi d'alcune classi, in parte riconosciuti dalla forza legale, in parte
tollerati con astioso silenzio, o impugnati con vane proteste, ma sostenuti in
fatto e difesi da quelle classi, con attività d'interesse, e con gelosia di
puntiglio. Ora, quest'impunità minacciata e insultata, ma non distrutta dalle
gride, doveva naturalmente, a ogni minaccia, e a ogni insulto, adoperar nuovi
sforzi e nuove invenzioni, per conservarsi. Così accadeva in effetto; e,
all'apparire delle gride dirette a comprimere i violenti, questi cercavano
nella loro forza reale i nuovi mezzi più opportuni, per continuare a far ciò
che le gride venivano a proibire. Potevan ben esse inceppare a ogni passo, e
molestare l'uomo bonario, che fosse senza forza propria e senza protezione;
perché, col fine d'aver sotto la mano ogni uomo, per prevenire o per punire
ogni delitto, assoggettavano ogni mossa del privato al volere arbitrario
d'esecutori d'ogni genere. Ma chi, prima di commettere il delitto, aveva prese
le sue misure per ricoverarsi a tempo in un convento, in un palazzo, dove i
birri non avrebber mai osato metter piede; chi, senz'altre precauzioni, portava
una livrea che impegnasse a difenderlo la vanità e l'interesse d'una famiglia
potente, di tutto un ceto, era libero nelle sue operazioni, e poteva ridersi di
tutto quel fracasso delle gride. Di quegli stessi ch'eran deputati a farle
eseguire, alcuni appartenevano per nascita alla parte privilegiata, alcuni ne
dipendevano per clientela; gli uni e gli altri, per educazione, per interesse,
per consuetudine, per imitazione, ne avevano abbracciate le massime, e si
sarebbero ben guardati dall'offenderle, per amor d'un pezzo di carta attaccato
sulle cantonate. Gli uomini poi incaricati dell'esecuzione immediata, quando
fossero stati intraprendenti come eroi, ubbidienti come monaci, e pronti a
sacrificarsi come martiri, non avrebber però potuto venirne alla fine,
inferiori com'eran di numero a quelli che si trattava di sottomettere, e con
una gran probabilità d'essere abbandonati da chi, in astratto e, per così dire,
in teoria, imponeva loro di operare. Ma, oltre di ciò, costoro eran
generalmente de' più abbietti e ribaldi soggetti del loro tempo; l'incarico
loro era tenuto a vile anche da quelli che potevano averne terrore, e il loro
titolo un improperio. Era quindi ben naturale che costoro, in vece
d'arrischiare, anzi di gettar la vita in un'impresa disperata, vendessero la
loro inazione, o anche la loro connivenza ai potenti, e si riservassero a
esercitare la loro esecrata autorità e la forza che pure avevano, in quelle
occasioni dove non c'era pericolo; nell'opprimer cioè, e nel vessare gli uomini
pacifici e senza difesa.
L'uomo
che vuole offendere, o che teme, ogni momento, d'essere offeso, cerca
naturalmente alleati e compagni. Quindi era, in que' tempi, portata al massimo
punto la tendenza degl'individui a tenersi collegati in classi, a formarne
delle nuove, e a procurare ognuno la maggior potenza di quella a cui
apparteneva. Il clero vegliava a sostenere e ad estendere le sue immunità, la
nobiltà i suoi privilegi, il militare le sue esenzioni. I mercanti, gli
artigiani erano arrolati in maestranze e in confraternite, i giurisperiti
formavano una lega, i medici stessi una corporazione. Ognuna di queste piccole
oligarchie aveva una sua forza speciale e propria; in ognuna l'individuo
trovava il vantaggio d'impiegar per sé, a proporzione della sua autorità e
della sua destrezza, le forze riunite di molti. I più onesti si valevan di
questo vantaggio a difesa soltanto; gli astuti e i facinorosi ne approfittavano,
per condurre a termine ribalderie, alle quali i loro mezzi personali non
sarebber bastati, e per assicurarsene l'impunità. Le forze però di queste varie
leghe eran molto disuguali; e, nelle campagne principalmente, il nobile
dovizioso e violento, con intorno uno stuolo di bravi, e una popolazione di
contadini avvezzi, per tradizione famigliare, e interessati o forzati a
riguardarsi quasi come sudditi e soldati del padrone, esercitava un potere, a
cui difficilmente nessun'altra frazione di lega avrebbe ivi potuto resistere.
Il
nostro Abbondio non nobile, non ricco, coraggioso ancor meno, s'era dunque
accorto, prima quasi di toccar gli anni della discrezione, d'essere, in quella
società, come un vaso di terra cotta, costretto a viaggiare in compagnia di
molti vasi di ferro. Aveva quindi, assai di buon grado, ubbidito ai parenti,
che lo vollero prete. Per dir la verità, non aveva gran fatto pensato agli
obblighi e ai nobili fini del ministero al quale si dedicava: procacciarsi di
che vivere con qualche agio, e mettersi in una classe riverita e forte, gli
eran sembrate due ragioni più che sufficienti per una tale scelta. Ma una
classe qualunque non protegge un individuo, non lo assicura, che fino a un
certo segno: nessuna lo dispensa dal farsi un suo sistema particolare. Don
Abbondio, assorbito continuamente ne' pensieri della propria quiete, non si
curava di que' vantaggi, per ottenere i quali facesse bisogno d'adoperarsi
molto, o d'arrischiarsi un poco. Il suo sistema consisteva principalmente nello
scansar tutti i contrasti, e nel cedere, in quelli che non poteva scansare.
Neutralità disarmata in tutte le guerre che scoppiavano intorno a lui, dalle
contese, allora frequentissime, tra il clero e le podestà laiche, tra il
militare e il civile, tra nobili e nobili, fino alle questioni tra due
contadini, nate da una parola, e decise coi pugni, o con le coltellate. Se si
trovava assolutamente costretto a prender parte tra due contendenti, stava col
più forte, sempre però alla retroguardia, e procurando di far vedere all'altro
ch'egli non gli era volontariamente nemico: pareva che gli dicesse: ma perché
non avete saputo esser voi il più forte? ch'io mi sarei messo dalla vostra
parte. Stando alla larga da' prepotenti, dissimulando le loro soverchierie
passeggiere e capricciose, corrispondendo con sommissioni a quelle che
venissero da un'intenzione più seria e più meditata, costringendo, a forza
d'inchini e di rispetto gioviale, anche i più burberi e sdegnosi, a fargli un
sorriso, quando gl'incontrava per la strada, il pover'uomo era riuscito a
passare i sessant'anni, senza gran burrasche.
Non è
però che non avesse anche lui il suo po' di fiele in corpo; e quel continuo
esercitar la pazienza, quel dar così spesso ragione agli altri, que' tanti
bocconi amari inghiottiti in silenzio, glielo avevano esacerbato a segno che,
se non avesse, di tanto in tanto, potuto dargli un po' di sfogo, la sua salute
n'avrebbe certamente sofferto. Ma siccome v'eran poi finalmente al mondo, e
vicino a lui, persone ch'egli conosceva ben bene per incapaci di far male, così
poteva con quelle sfogare qualche volta il mal umore lungamente represso, e
cavarsi anche lui la voglia d'essere un po' fantastico, e di gridare a torto.
Era poi un rigido censore degli uomini che non si regolavan come lui, quando
però la censura potesse esercitarsi senza alcuno, anche lontano, pericolo. Il
battuto era almeno un imprudente; l'ammazzato era sempre stato un uomo torbido.
A chi, messosi a sostener le sue ragioni contro un potente, rimaneva col capo
rotto, don Abbondio sapeva trovar sempre qualche torto; cosa non difficile,
perché la ragione e il torto non si dividon mai con un taglio così netto, che
ogni parte abbia soltanto dell'una o dell'altro. Sopra tutto poi, declamava
contro que' suoi confratelli che, a loro rischio, prendevan le parti d'un
debole oppresso, contro un soverchiatore potente. Questo chiamava un comprarsi
gl'impicci a contanti, un voler raddirizzar le gambe ai cani; diceva anche
severamente, ch'era un mischiarsi nelle cose profane, a danno della dignità del
sacro ministero. E contro questi predicava, sempre però a quattr'occhi, o in un
piccolissimo crocchio, con tanto più di veemenza, quanto più essi eran
conosciuti per alieni dal risentirsi, in cosa che li toccasse personalmente.
Aveva poi una sua sentenza prediletta, con la quale sigillava sempre i discorsi
su queste materie: che a un galantuomo, il qual badi a sé, e stia ne' suoi
panni, non accadon mai brutti incontri.
Pensino
ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull'animo del
poveretto, quello che s'è raccontato. Lo spavento di que' visacci e di quelle
parolacce, la minaccia d'un signore noto per non minacciare invano, un sistema
di quieto vivere, ch'era costato tant'anni di studio e di pazienza, sconcertato
in un punto, e un passo dal quale non si poteva veder come uscirne: tutti
questi pensieri ronzavano tumultuariamente nel capo basso di don Abbondio.
"Se Renzo si potesse mandare in pace con un bel no, via; ma vorrà delle
ragioni; e cosa ho da rispondergli, per amor del cielo? E, e, e, anche costui è
una testa: un agnello se nessun lo tocca, ma se uno vuol contraddirgli... ih! E
poi, e poi, perduto dietro a quella Lucia, innamorato come... Ragazzacci, che,
per non saper che fare, s'innamorano, voglion maritarsi, e non pensano ad
altro; non si fanno carico de' travagli in che mettono un povero galantuomo. Oh
povero me! vedete se quelle due figuracce dovevan proprio piantarsi sulla mia
strada, e prenderla con me! Che c'entro io? Son io che voglio maritarmi? Perché
non son andati piuttosto a parlare... Oh vedete un poco: gran destino è il mio,
che le cose a proposito mi vengan sempre in mente un momento dopo l'occasione.
Se avessi pensato di suggerir loro che andassero a portar la loro
imbasciata..." Ma, a questo punto, s'accorse che il pentirsi di non essere
stato consigliere e cooperatore dell'iniquità era cosa troppo iniqua; e rivolse
tutta la stizza de' suoi pensieri contro quell'altro che veniva così a
togliergli la sua pace. Non conosceva don Rodrigo che di vista e di fama, né
aveva mai avuto che far con lui, altro che di toccare il petto col mento, e la
terra con la punta del suo cappello, quelle poche volte che l'aveva incontrato
per la strada. Gli era occorso di difendere, in più d'un'occasione, la
riputazione di quel signore, contro coloro che, a bassa voce, sospirando, e
alzando gli occhi al cielo, maledicevano qualche suo fatto: aveva detto cento
volte ch'era un rispettabile cavaliere. Ma, in quel momento gli diede in cuor
suo tutti que' titoli che non aveva mai udito applicargli da altri, senza
interrompere in fretta con un oibò. Giunto, tra il tumulto di questi pensieri,
alla porta di casa sua, ch'era in fondo del paesello, mise in fretta nella
toppa la chiave, che già teneva in mano; aprì, entrò, richiuse diligentemente;
e, ansioso di trovarsi in una compagnia fidata, chiamò subito: - Perpetua!
Perpetua! -, avviandosi pure verso il salotto, dove questa doveva esser
certamente ad apparecchiar la tavola per la cena. Era Perpetua, come ognun se
n'avvede, la serva di don Abbondio: serva affezionata e fedele, che sapeva
ubbidire e comandare, secondo l'occasione, tollerare a tempo il brontolìo e le
fantasticaggini del padrone, e fargli a tempo tollerar le proprie, che
divenivan di giorno in giorno più frequenti, da che aveva passata l'età
sinodale dei quaranta, rimanendo celibe, per aver rifiutati tutti i partiti che
le si erano offerti, come diceva lei, o per non aver mai trovato un cane che la
volesse, come dicevan le sue amiche.
-
Vengo, - rispose, mettendo sul tavolino, al luogo solito, il fiaschetto del
vino prediletto di don Abbondio, e si mosse lentamente; ma non aveva ancor
toccata la soglia del salotto, ch'egli v'entrò, con un passo così legato, con
uno sguardo così adombrato, con un viso così stravolto, che non ci sarebbero
nemmen bisognati gli occhi esperti di Perpetua, per iscoprire a prima vista che
gli era accaduto qualche cosa di straordinario davvero.
-
Misericordia! cos'ha, signor padrone?
-
Niente, niente, - rispose don Abbondio, lasciandosi andar tutto ansante sul suo
seggiolone.
- Come,
niente? La vuol dare ad intendere a me? così brutto com'è? Qualche gran caso è
avvenuto.
- Oh,
per amor del cielo! Quando dico niente, o è niente, o è cosa che non posso
dire.
- Che
non può dir neppure a me? Chi si prenderà cura della sua salute? Chi le darà un
parere?...
-
Ohimè! tacete, e non apparecchiate altro: datemi un bicchiere del mio vino.
- E lei
mi vorrà sostenere che non ha niente! - disse Perpetua, empiendo il bicchiere,
e tenendolo poi in mano, come se non volesse darlo che in premio della
confidenza che si faceva tanto aspettare.
- Date
qui, date qui, - disse don Abbondio, prendendole il bicchiere, con la mano non
ben ferma, e votandolo poi in fretta, come se fosse una medicina.
- Vuol
dunque ch'io sia costretta di domandar qua e là cosa sia accaduto al mio
padrone? - disse Perpetua, ritta dinanzi a lui, con le mani arrovesciate sui
fianchi, e le gomita appuntate davanti, guardandolo fisso, quasi volesse
succhiargli dagli occhi il segreto.
- Per
amor del cielo! non fate pettegolezzi, non fate schiamazzi: ne va... ne va la
vita!
- La
vita!
- La
vita.
- Lei
sa bene che, ogni volta che m'ha detto qualche cosa sinceramente, in
confidenza, io non ho mai...
-
Brava! come quando...
Perpetua
s'avvide d'aver toccato un tasto falso; onde, cambiando subito il tono, -
signor padrone, - disse, con voce commossa e da commovere, - io le sono sempre
stata affezionata; e, se ora voglio sapere, è per premura, perché vorrei
poterla soccorrere, darle un buon parere, sollevarle l'animo...
Il
fatto sta che don Abbondio aveva forse tanta voglia di scaricarsi del suo
doloroso segreto, quanta ne avesse Perpetua di conoscerlo; onde, dopo aver
respinti sempre più debolmente i nuovi e più incalzanti assalti di lei, dopo
averle fatto più d'una volta giurare che non fiaterebbe, finalmente, con molte
sospensioni, con molti ohimè, le raccontò il miserabile caso. Quando si venne
al nome terribile del mandante, bisognò che Perpetua proferisse un nuovo e più
solenne giuramento; e don Abbondio, pronunziato quel nome, si rovesciò sulla
spalliera della seggiola, con un gran sospiro, alzando le mani, in atto insieme
di comando e di supplica, e dicendo: - per amor del cielo!
- Delle
sue! - esclamò Perpetua. - Oh che birbone! oh che soverchiatore! oh che uomo
senza timor di Dio!
-
Volete tacere? o volete rovinarmi del tutto?
- Oh!
siam qui soli che nessun ci sente. Ma come farà, povero signor padrone?
- Oh
vedete, - disse don Abbondio, con voce stizzosa: - vedete che bei pareri mi sa
dar costei! Viene a domandarmi come farò, come farò; quasi fosse lei
nell'impiccio, e toccasse a me di levarnela.
- Ma!
io l'avrei bene il mio povero parere da darle; ma poi...
- Ma
poi, sentiamo.
- Il
mio parere sarebbe che, siccome tutti dicono che il nostro arcivescovo è un
sant'uomo, e un uomo di polso, e che non ha paura di nessuno, e, quando può
fare star a dovere un di questi prepotenti, per sostenere un curato, ci
gongola; io direi, e dico che lei gli scrivesse una bella lettera, per
informarlo come qualmente...
- Volete
tacere? volete tacere? Son pareri codesti da dare a un pover'uomo? Quando mi
fosse toccata una schioppettata nella schiena, Dio liberi! l'arcivescovo me la
leverebbe?
- Eh!
le schioppettate non si dànno via come confetti: e guai se questi cani
dovessero mordere tutte le volte che abbaiano! E io ho sempre veduto che a chi
sa mostrare i denti, e farsi stimare, gli si porta rispetto; e, appunto perché
lei non vuol mai dir la sua ragione, siam ridotti a segno che tutti vengono,
con licenza, a...
-
Volete tacere?
- Io
taccio subito; ma è però certo che, quando il mondo s'accorge che uno, sempre,
in ogni incontro, è pronto a calar le...
-
Volete tacere? È tempo ora di dir codeste baggianate?
-
Basta: ci penserà questa notte; ma intanto non cominci a farsi male da sé, a
rovinarsi la salute; mangi un boccone.
- Ci
penserò io, - rispose, brontolando, don Abbondio: - sicuro; io ci penserò, io
ci ho da pensare - E s'alzò, continuando: - non voglio prender niente; niente:
ho altra voglia: lo so anch'io che tocca a pensarci a me. Ma! la doveva accader
per l'appunto a me.
- Mandi
almen giù quest'altro gocciolo, - disse Perpetua, mescendo. - Lei sa che questo
le rimette sempre lo stomaco.
- Eh!
ci vuol altro, ci vuol altro, ci vuol altro. Così dicendo prese il lume, e, brontolando
sempre: - una piccola bagattella! a un galantuomo par mio! e domani com'andrà?
- e altre simili lamentazioni, s'avviò per salire in camera. Giunto su la
soglia, si voltò indietro verso Perpetua, mise il dito sulla bocca, disse, con
tono lento e solenne : - per amor del cielo! -, e disparve.
Si
racconta che il principe di Condé dormì profondamente la notte avanti la
giornata di Rocroi: ma, in primo luogo, era molto affaticato; secondariamente
aveva già date tutte le disposizioni necessarie, e stabilito ciò che dovesse
fare, la mattina. Don Abbondio in vece non sapeva altro ancora se non che
l'indomani sarebbe giorno di battaglia; quindi una gran parte della notte fu
spesa in consulte angosciose. Non far caso dell'intimazione ribalda, né delle
minacce, e fare il matrimonio, era un partito, che non volle neppur mettere in
deliberazione. Confidare a Renzo l'occorrente, e cercar con lui qualche
mezzo... Dio liberi! - Non si lasci scappar parola... altrimenti... ehm!
- aveva detto un di que' bravi; e, al sentirsi rimbombar quell'ehm!
nella mente, don Abbondio, non che pensare a trasgredire una tal legge, si
pentiva anche dell'aver ciarlato con Perpetua. Fuggire? Dove? E poi!
Quant'impicci, e quanti conti da rendere! A ogni partito che rifiutava, il
pover'uomo si rivoltava nel letto. Quello che, per ogni verso, gli parve il
meglio o il men male, fu di guadagnar tempo, menando Renzo per le lunghe. Si
rammentò a proposito, che mancavan pochi giorni al tempo proibito per le nozze;
"e, se posso tenere a bada, per questi pochi giorni, quel ragazzone, ho
poi due mesi di respiro; e, in due mesi, può nascer di gran cose". Ruminò
pretesti da metter in campo; e, benché gli paressero un po' leggieri, pur
s'andava rassicurando col pensiero che la sua autorità gli avrebbe fatti parer
di giusto peso, e che la sua antica esperienza gli darebbe gran vantaggio sur
un giovanetto ignorante. "Vedremo, - diceva tra sé: - egli pensa alla
morosa; ma io penso alla pelle: il più interessato son io, lasciando stare che
sono il più accorto. Figliuol caro, se tu ti senti il bruciore addosso, non so
che dire; ma io non voglio andarne di mezzo". Fermato così un poco l'animo
a una deliberazione, poté finalmente chiuder occhio: ma che sonno! che sogni!
Bravi, don Rodrigo, Renzo, viottole, rupi, fughe, inseguimenti, grida,
schioppettate. Il primo svegliarsi, dopo una sciagura, e in un impiccio, è un
momento molto amaro. La mente, appena risentita, ricorre all'idee abituali
della vita tranquilla antecedente; ma il pensiero del nuovo stato di cose le si
affaccia subito sgarbatamente; e il dispiacere ne è più vivo in quel paragone
istantaneo. Assaporato dolorosamente questo momento, don Abbondio ricapitolò
subito i suoi disegni della notte, si confermò in essi, gli ordinò meglio, s'alzò,
e stette aspettando Renzo con timore e, ad un tempo, con impazienza. Lorenzo o,
come dicevan tutti, Renzo non si fece molto aspettare. Appena gli parve ora di
poter, senza indiscrezione, presentarsi al curato, v'andò, con la lieta furia
d'un uomo di vent'anni, che deve in quel giorno sposare quella che ama. Era,
fin dall'adolescenza, rimasto privo de' parenti, ed esercitava la professione
di filatore di seta, ereditaria, per dir così, nella sua famiglia; professione,
negli anni indietro, assai lucrosa; allora già in decadenza, ma non però a
segno che un abile operaio non potesse cavarne di che vivere onestamente. Il
lavoro andava di giorno in giorno scemando; ma l'emigrazione continua de'
lavoranti, attirati negli stati vicini da promesse, da privilegi e da grosse
paghe, faceva sì che non ne mancasse ancora a quelli che rimanevano in paese.
Oltre di questo, possedeva Renzo un poderetto che faceva lavorare e lavorava
egli stesso, quando il filatoio stava fermo; di modo che, per la sua
condizione, poteva dirsi agiato. E quantunque quell'annata fosse ancor più
scarsa delle antecedenti, e già si cominciasse a provare una vera carestia,
pure il nostro giovine, che, da quando aveva messi gli occhi addosso a Lucia,
era divenuto massaio, si trovava provvisto bastantemente, e non aveva a
contrastar con la fame. Comparve davanti a don Abbondio, in gran gala, con
penne di vario colore al cappello, col suo pugnale del manico bello, nel
taschino de' calzoni, con una cert'aria di festa e nello stesso tempo di
braverìa, comune allora anche agli uomini più quieti. L'accoglimento incerto e
misterioso di don Abbondio fece un contrapposto singolare ai modi gioviali e
risoluti del giovinotto.
"Che
abbia qualche pensiero per la testa", argomentò Renzo tra sé; poi disse: -
son venuto, signor curato, per sapere a che ora le comoda che ci troviamo in
chiesa.
- Di
che giorno volete parlare?
- Come,
di che giorno? non si ricorda che s'è fissato per oggi?
- Oggi?
- replicò don Abbondio, come se ne sentisse parlare per la prima volta. - Oggi,
oggi... abbiate pazienza, ma oggi non posso.
- Oggi
non può! Cos'è nato?
- Prima
di tutto, non mi sento bene, vedete.
- Mi
dispiace; ma quello che ha da fare è cosa di così poco tempo, e di così poca
fatica...
- E
poi, e poi, e poi...
- E poi
che cosa?
- E poi
c'è degli imbrogli.
-
Degl'imbrogli? Che imbrogli ci può essere?
-
Bisognerebbe trovarsi nei nostri piedi, per conoscer quanti impicci nascono in
queste materie, quanti conti s'ha da rendere. Io son troppo dolce di cuore, non
penso che a levar di mezzo gli ostacoli, a facilitar tutto, a far le cose
secondo il piacere altrui, e trascuro il mio dovere; e poi mi toccan de'
rimproveri, e peggio.
- Ma,
col nome del cielo, non mi tenga così sulla corda, e mi dica chiaro e netto
cosa c'è.
-
Sapete voi quante e quante formalità ci vogliono per fare un matrimonio in
regola?
-
Bisogna ben ch'io ne sappia qualche cosa, - disse Renzo, cominciando ad
alterarsi, - poiché me ne ha già rotta bastantemente la testa, questi giorni
addietro. Ma ora non s'è sbrigato ogni cosa? non s'è fatto tutto ciò che
s'aveva a fare?
-
Tutto, tutto, pare a voi: perché, abbiate pazienza, la bestia son io, che
trascuro il mio dovere, per non far penare la gente. Ma ora... basta, so quel
che dico. Noi poveri curati siamo tra l'ancudine e il martello: voi impaziente;
vi compatisco, povero giovane; e i superiori... basta, non si può dir tutto. E
noi siam quelli che ne andiam di mezzo.
- Ma mi
spieghi una volta cos'è quest'altra formalità che s'ha a fare, come dice; e
sarà subito fatta.
- Sapete
voi quanti siano gl'impedimenti dirimenti?
- Che
vuol ch'io sappia d'impedimenti?
- Error,
conditio, votum, cognatio, crimen,
Cultus disparitas, vis, ordo, ligamen, honestas,
Si sis
affinis,... - cominciava don Abbondio, contando sulla punta delle dita.
- Si
piglia gioco di me? - interruppe il giovine. - Che vuol ch'io faccia del suo latinorum?
-
Dunque, se non sapete le cose, abbiate pazienza, e rimettetevi a chi le sa.
-
Orsù!...
- Via,
caro Renzo, non andate in collera, che son pronto a fare... tutto quello che
dipende da me. Io, io vorrei vedervi contento; vi voglio bene io. Eh!... quando
penso che stavate così bene; cosa vi mancava? V'è saltato il grillo di
maritarvi...
- Che
discorsi son questi, signor mio? - proruppe Renzo, con un volto tra l'attonito
e l'adirato.
- Dico
per dire, abbiate pazienza, dico per dire. Vorrei vedervi contento.
- In
somma...
- In
somma, figliuol caro, io non ci ho colpa; la legge non l'ho fatta io. E, prima
di conchiudere un matrimonio, noi siam proprio obbligati a far molte e molte
ricerche, per assicurarci che non ci siano impedimenti.
- Ma
via, mi dica una volta che impedimento è sopravvenuto?
-
Abbiate pazienza, non son cose da potersi decifrare così su due piedi. Non ci
sarà niente, così spero; ma, non ostante, queste ricerche noi le dobbiam fare.
Il testo è chiaro e lampante: antequam matrimonium denunciet...
- Le ho
detto che non voglio latino.
- Ma
bisogna pur che vi spieghi...
- Ma
non le ha già fatte queste ricerche?
- Non
le ho fatte tutte, come avrei dovuto, vi dico.
-
Perché non le ha fatte a tempo? perché dirmi che tutto era finito? perché
aspettare...
- Ecco!
mi rimproverate la mia troppa bontà. Ho facilitato ogni cosa per servirvi più
presto: ma... ma ora mi son venute... basta, so io.
- E che
vorrebbe ch'io facessi?
- Che
aveste pazienza per qualche giorno. Figliuol caro, qualche giorno non è poi
l'eternità: abbiate pazienza.
- Per
quanto?
"Siamo
a buon porto", pensò fra sé don Abbondio; e, con un fare più manieroso che
mai, - via, - disse: - in quindici giorni cercherò,... procurerò...
-
Quindici giorni! oh questa sì ch'è nuova! S'è fatto tutto ciò che ha voluto
lei; s'è fissato il giorno; il giorno arriva; e ora lei mi viene a dire che
aspetti quindici giorni! Quindici... - riprese poi, con voce più alta e
stizzosa, stendendo il braccio, e battendo il pugno nell'aria; e chi sa qual
diavoleria avrebbe attaccata a quel numero, se don Abbondio non l'avesse
interrotto, prendendogli l'altra mano, con un'amorevolezza timida e premurosa:
- via, via, non v'alterate, per amor del cielo. Vedrò, cercherò se, in una
settimana...
- E a
Lucia che devo dire?
- Ch'è
stato un mio sbaglio.
- E i
discorsi del mondo?
- Dite
pure a tutti, che ho sbagliato io, per troppa furia, per troppo buon cuore:
gettate tutta la colpa addosso a me. Posso parlar meglio? via, per una
settimana.
- E
poi, non ci sarà più altri impedimenti?
-
Quando vi dico...
-
Ebbene: avrò pazienza per una settimana; ma ritenga bene che, passata questa,
non m'appagherò più di chiacchiere. Intanto la riverisco -. E così detto, se
n'andò, facendo a don Abbondio un inchino men profondo del solito, e dandogli
un'occhiata più espressiva che riverente.
Uscito
poi, e camminando di mala voglia, per la prima volta, verso la casa della sua
promessa, in mezzo alla stizza, tornava con la mente su quel colloquio; e
sempre più lo trovava strano. L'accoglienza fredda e impicciata di don
Abbondio, quel suo parlare stentato insieme e impaziente, que' due occhi grigi
che, mentre parlava, eran sempre andati scappando qua e là, come se avesser
avuto paura d'incontrarsi con le parole che gli uscivan di bocca, quel farsi
quasi nuovo del matrimonio così espressamente concertato, e sopra tutto
quell'accennar sempre qualche gran cosa, non dicendo mai nulla di chiaro; tutte
queste circostanze messe insieme facevan pensare a Renzo che ci fosse sotto un
mistero diverso da quello che don Abbondio aveva voluto far credere. Stette il
giovine in forse un momento di tornare indietro, per metterlo alle strette, e
farlo parlar più chiaro; ma, alzando gli occhi, vide Perpetua che camminava
dinanzi a lui, ed entrava in un orticello pochi passi distante dalla casa. Le
diede una voce, mentre essa apriva l'uscio; studiò il passo, la raggiunse, la
ritenne sulla soglia, e, col disegno di scovar qualche cosa di più positivo, si
fermò ad attaccar discorso con essa.
- Buon
giorno, Perpetua: io speravo che oggi si sarebbe stati allegri insieme.
- Ma!
quel che Dio vuole, il mio povero Renzo.
-
Fatemi un piacere: quel benedett'uomo del signor curato m'ha impastocchiate
certe ragioni che non ho potuto ben capire: spiegatemi voi meglio perché non
può o non vuole maritarci oggi.
- Oh!
vi par egli ch'io sappia i segreti del mio padrone?
"L'ho
detto io, che c'era mistero sotto", pensò Renzo; e, per tirarlo in luce,
continuò: - via, Perpetua; siamo amici; ditemi quel che sapete, aiutate un
povero figliuolo.
- Mala
cosa nascer povero, il mio caro Renzo.
- È
vero, - riprese questo, sempre più confermandosi ne' suoi sospetti; e, cercando
d'accostarsi più alla questione, - è vero, - soggiunse, - ma tocca ai preti a
trattar male co' poveri?
-
Sentite, Renzo; io non posso dir niente, perché... non so niente; ma quello che
vi posso assicurare è che il mio padrone non vuol far torto, né a voi né a
nessuno; e lui non ci ha colpa.
- Chi è
dunque che ci ha colpa? - domandò Renzo, con un cert'atto trascurato, ma col
cuor sospeso, e con l'orecchio all'erta.
-
Quando vi dico che non so niente... In difesa del mio padrone, posso parlare;
perché mi fa male sentire che gli si dia carico di voler far dispiacere a
qualcheduno. Pover'uomo! se pecca, è per troppa bontà. C'è bene a questo mondo
de' birboni, de' prepotenti, degli uomini senza timor di Dio...
"Prepotenti!
birboni! - pensò Renzo: - questi non sono i superiori". - Via, - disse
poi, nascondendo a stento l'agitazione crescente, - via, ditemi chi è.
- Ah!
voi vorreste farmi parlare; e io non posso parlare, perché... non so niente:
quando non so niente, è come se avessi giurato di tacere. Potreste darmi la
corda, che non mi cavereste nulla di bocca. Addio; è tempo perduto per tutt'e
due -. Così dicendo, entrò in fretta nell'orto, e chiuse l'uscio. Renzo,
rispostole con un saluto, tornò indietro pian piano, per non farla accorgere
del cammino che prendeva; ma, quando fu fuor del tiro dell'orecchio della buona
donna, allungò il passo; in un momento fu all'uscio di don Abbondio; entrò,
andò diviato al salotto dove l'aveva lasciato, ve lo trovò, e corse verso lui,
con un fare ardito, e con gli occhi stralunati.
- Eh!
eh! che novità è questa? - disse don Abbondio.
- Chi è
quel prepotente, - disse Renzo, con la voce d'un uomo ch'è risoluto d'ottenere
una risposta precisa, - chi è quel prepotente che non vuol ch'io sposi Lucia?
- Che?
che? che? - balbettò il povero sorpreso, con un volto fatto in un istante
bianco e floscio, come un cencio che esca del bucato. E, pur brontolando,
spiccò un salto dal suo seggiolone, per lanciarsi all'uscio. Ma Renzo, che
doveva aspettarsi quella mossa, e stava all'erta, vi balzò prima di lui, girò
la chiave, e se la mise in tasca.
- Ah!
ah! parlerà ora, signor curato? Tutti sanno i fatti miei, fuori di me. Voglio
saperli, per bacco, anch'io. Come si chiama colui?
-
Renzo! Renzo! per carità, badate a quel che fate; pensate all'anima vostra.
- Penso
che lo voglio saper subito, sul momento -. E, così dicendo, mise, forse senza
avvedersene, la mano sul manico del coltello che gli usciva dal taschino.
-
Misericordia! - esclamò con voce fioca don Abbondio.
- Lo
voglio sapere.
- Chi
v'ha detto...
- No,
no; non più fandonie. Parli chiaro e subito.
- Mi
volete morto?
-
Voglio sapere ciò che ho ragion di sapere.
- Ma se
parlo, son morto. Non m'ha da premere la mia vita?
-
Dunque parli. Quel "dunque" fu proferito con una tale energia,
l'aspetto di Renzo divenne così minaccioso, che don Abbondio non poté più
nemmen supporre la possibilità di disubbidire.
- Mi
promettete, mi giurate, - disse - di non parlarne con nessuno, di non dir
mai...?
- Le
prometto che fo uno sproposito, se lei non mi dice subito subito il nome di
colui.
A quel
nuovo scongiuro, don Abbondio, col volto, e con lo sguardo di chi ha in bocca
le tanaglie del cavadenti, proferì: - don...
- Don?
- ripeté Renzo, come per aiutare il paziente a buttar fuori il resto; e stava
curvo, con l'orecchio chino sulla bocca di lui, con le braccia tese, e i pugni
stretti all'indietro.
- Don
Rodrigo! - pronunziò in fretta il forzato, precipitando quelle poche sillabe, e
strisciando le consonanti, parte per il turbamento, parte perché, rivolgendo
pure quella poca attenzione che gli rimaneva libera, a fare una transazione tra
le due paure, pareva che volesse sottrarre e fare scomparir la parola, nel
punto stesso ch'era costretto a metterla fuori.
- Ah
cane! - urlò Renzo. - E come ha fatto? Cosa le ha detto per...?
- Come
eh? come? - rispose, con voce quasi sdegnosa, don Abbondio, il quale, dopo un
così gran sagrifizio, si sentiva in certo modo divenuto creditore. - Come eh?
Vorrei che la fosse toccata a voi, come è toccata a me, che non c'entro per
nulla; che certamente non vi sarebber rimasti tanti grilli in capo -. E qui si
fece a dipinger con colori terribili il brutto incontro; e, nel discorrere,
accorgendosi sempre più d'una gran collera che aveva in corpo, e che fin allora
era stata nascosta e involta nella paura, e vedendo nello stesso tempo che
Renzo, tra la rabbia e la confusione, stava immobile, col capo basso, continuò
allegramente: - avete fatta una bella azione! M'avete reso un bel servizio! Un
tiro di questa sorte a un galantuomo, al vostro curato! in casa sua! in luogo
sacro! Avete fatta una bella prodezza! Per cavarmi di bocca il mio malanno, il
vostro malanno! ciò ch'io vi nascondevo per prudenza, per vostro bene! E ora
che lo sapete? Vorrei vedere che mi faceste...! Per amor del cielo! Non si
scherza. Non si tratta di torto o di ragione; si tratta di forza. E quando,
questa mattina, vi davo un buon parere... eh! subito nelle furie. Io avevo
giudizio per me e per voi; ma come si fa? Aprite almeno; datemi la mia chiave.
- Posso
aver fallato, - rispose Renzo, con voce raddolcita verso don Abbondio, ma nella
quale si sentiva il furore contro il nemico scoperto: - posso aver fallato; ma
si metta la mano al petto, e pensi se nel mio caso...
Così
dicendo, s'era levata la chiave di tasca, e andava ad aprire. Don Abbondio gli
andò dietro, e, mentre quegli girava la chiave nella toppa, se gli accostò, e,
con volto serio e ansioso, alzandogli davanti agli occhi le tre prime dita
della destra, come per aiutarlo anche lui dal canto suo, - giurate almeno... -
gli disse.
- Posso
aver fallato; e mi scusi, - rispose Renzo, aprendo, e disponendosi ad uscire.
-
Giurate... - replicò don Abbondio, afferrandogli il braccio con la mano
tremante.
- Posso
aver fallato, - ripeté Renzo, sprigionandosi da lui; e partì in furia,
troncando così la questione, che, al pari d'una questione di letteratura o di
filosofia o d'altro, avrebbe potuto durar dei secoli, giacché ognuna delle
parti non faceva che replicare il suo proprio argomento.
-
Perpetua! Perpetua! - gridò don Abbondio, dopo avere invano richiamato il
fuggitivo. Perpetua non risponde: don Abbondio non sapeva più in che mondo si
fosse.
È
accaduto più d'una volta a personaggi di ben più alto affare che don Abbondio,
di trovarsi in frangenti così fastidiosi, in tanta incertezza di partiti, che
parve loro un ottimo ripiego mettersi a letto con la febbre. Questo ripiego,
egli non lo dovette andare a cercare, perché gli si offerse da sé. La paura del
giorno avanti, la veglia angosciosa della notte, la paura avuta in quel
momento, l'ansietà dell'avvenire, fecero l'effetto. Affannato e balordo, si
ripose sul suo seggiolone, cominciò a sentirsi qualche brivido nell'ossa, si
guardava le unghie sospirando, e chiamava di tempo in tempo, con voce
tremolante e stizzosa: - Perpetua! - La venne finalmente, con un gran cavolo
sotto il braccio, e con la faccia tosta, come se nulla fosse stato. Risparmio
al lettore i lamenti, le condoglianze, le accuse, le difese, i "voi sola
potete aver parlato", e i "non ho parlato", tutti i pasticci in
somma di quel colloquio. Basti dire che don Abbondio ordinò a Perpetua di
metter la stanga all'uscio, di non aprir più per nessuna cagione, e, se alcun
bussasse, risponder dalla finestra che il curato era andato a letto con la
febbre. Salì poi lentamente le scale, dicendo, ogni tre scalini, - son servito
-; e si mise davvero a letto, dove lo lasceremo.
Renzo
intanto camminava a passi infuriati verso casa, senza aver determinato quel che
dovesse fare, ma con una smania addosso di far qualcosa di strano e di
terribile. I provocatori, i soverchiatori, tutti coloro che, in qualunque modo,
fanno torto altrui, sono rei, non solo del male che commettono, ma del
pervertimento ancora a cui portano gli animi degli offesi. Renzo era un giovine
pacifico e alieno dal sangue, un giovine schietto e nemico d'ogni insidia; ma,
in que' momenti, il suo cuore non batteva che per l'omicidio, la sua mente non
era occupata che a fantasticare un tradimento. Avrebbe voluto correre alla casa
di don Rodrigo, afferrarlo per il collo, e... ma gli veniva in mente ch'era come
una fortezza, guarnita di bravi al di dentro, e guardata al di fuori; che i
soli amici e servitori ben conosciuti v'entravan liberamente, senza essere
squadrati da capo a piedi; che un artigianello sconosciuto non vi
potrebb'entrare senza un esame, e ch'egli sopra tutto... egli vi sarebbe forse
troppo conosciuto. Si figurava allora di prendere il suo schioppo,
d'appiattarsi dietro una siepe, aspettando se mai, se mai colui venisse a
passar solo; e, internandosi, con feroce compiacenza, in quell'immaginazione,
si figurava di sentire una pedata, quella pedata, d'alzar chetamente la testa;
riconosceva lo scellerato, spianava lo schioppo, prendeva la mira, sparava, lo
vedeva cadere e dare i tratti, gli lanciava una maledizione, e correva sulla
strada del confine a mettersi in salvo. "E Lucia?" Appena questa
parola si fu gettata a traverso di quelle bieche fantasie, i migliori pensieri
a cui era avvezza la mente di Renzo, v'entrarono in folla. Si rammentò degli
ultimi ricordi de' suoi parenti, si rammentò di Dio, della Madonna e de' santi,
pensò alla consolazione che aveva tante volte provata di trovarsi senza
delitti, all'orrore che aveva tante volte provato al racconto d'un omicidio; e
si risvegliò da quel sogno di sangue, con ispavento, con rimorso, e insieme con
una specie di gioia di non aver fatto altro che immaginare. Ma il pensiero di
Lucia, quanti pensieri tirava seco! Tante speranze, tante promesse, un avvenire
così vagheggiato, e così tenuto sicuro, e quel giorno così sospirato! E come,
con che parole annunziarle una tal nuova? E poi, che partito prendere? Come
farla sua, a dispetto della forza di quell'iniquo potente? E insieme a tutto
questo, non un sospetto formato, ma un'ombra tormentosa gli passava per la
mente. Quella soverchieria di don Rodrigo non poteva esser mossa che da una
brutale passione per Lucia. E Lucia? Che avesse data a colui la più piccola
occasione, la più leggiera lusinga, non era un pensiero che potesse fermarsi un
momento nella testa di Renzo. Ma n'era informata? Poteva colui aver concepita
quell'infame passione, senza che lei se n'avvedesse? Avrebbe spinte le cose
tanto in là, prima d'averla tentata in qualche modo? E Lucia non ne aveva mai
detta una parola a lui! al suo promesso!
Dominato
da questi pensieri, passò davanti a casa sua, ch'era nel mezzo del villaggio,
e, attraversatolo, s'avviò a quella di Lucia, ch'era in fondo, anzi un po'
fuori. Aveva quella casetta un piccolo cortile dinanzi, che la separava dalla
strada, ed era cinto da un murettino. Renzo entrò nel cortile, e sentì un misto
e continuo ronzìo che veniva da una stanza di sopra. S'immaginò che sarebbero
amiche e comari, venute a far corteggio a Lucia; e non si volle mostrare a quel
mercato, con quella nuova in corpo e sul volto. Una fanciulletta che si trovava
nel cortile, gli corse incontro gridando: - lo sposo! lo sposo!
-
Zitta, Bettina, zitta! - disse Renzo. - Vien qua; va' su da Lucia, tirala in
disparte, e dille all'orecchio... ma che nessun senta, né sospetti di nulla,
ve'... dille che ho da parlarle, che l'aspetto nella stanza terrena, e che
venga subito -. La fanciulletta salì in fretta le scale, lieta e superba
d'avere una commission segreta da eseguire.
Lucia
usciva in quel momento tutta attillata dalle mani della madre. Le amiche si
rubavano la sposa, e le facevan forza perché si lasciasse vedere; e lei
s'andava schermendo, con quella modestia un po' guerriera delle contadine,
facendosi scudo alla faccia col gomito, chinandola sul busto, e aggrottando i
lunghi e neri sopraccigli, mentre però la bocca s'apriva al sorriso. I neri e
giovanili capelli, spartiti sopra la fronte, con una bianca e sottile
dirizzatura, si ravvolgevan, dietro il capo, in cerchi moltiplici di trecce,
trapassate da lunghi spilli d'argento, che si dividevano all'intorno, quasi a
guisa de' raggi d'un'aureola, come ancora usano le contadine nel Milanese.
Intorno al collo aveva un vezzo di granati alternati con bottoni d'oro a
filigrana: portava un bel busto di broccato a fiori, con le maniche separate e
allacciate da bei nastri: una corta gonnella di filaticcio di seta, a pieghe
fitte e minute, due calze vermiglie, due pianelle, di seta anch'esse, a ricami.
Oltre a questo, ch'era l'ornamento particolare del giorno delle nozze, Lucia
aveva quello quotidiano d'una modesta bellezza, rilevata allora e accresciuta
dalle varie affezioni che le si dipingevan sul viso: una gioia temperata da un
turbamento leggiero, quel placido accoramento che si mostra di quand'in quando
sul volto delle spose, e, senza scompor la bellezza, le dà un carattere particolare.
La piccola Bettina si cacciò nel crocchio, s'accostò a Lucia, le fece intendere
accortamente che aveva qualcosa da comunicarle, e le disse la sua parolina
all'orecchio.
- Vo un
momento, e torno, - disse Lucia alle donne; e scese in fretta. Al veder la
faccia mutata, e il portamento inquieto di Renzo, - cosa c'è? - disse, non
senza un presentimento di terrore.
-
Lucia! - rispose Renzo, - per oggi, tutto è a monte; e Dio sa quando potremo
esser marito e moglie.
- Che?
- disse Lucia tutta smarrita. Renzo le raccontò brevemente la storia di quella
mattina: ella ascoltava con angoscia: e quando udì il nome di don Rodrigo, -
ah! - esclamò, arrossendo e tremando, - fino a questo segno!
-
Dunque voi sapevate...? - disse Renzo.
- Pur
troppo! - rispose Lucia; - ma a questo segno!
- Che
cosa sapevate?
- Non
mi fate ora parlare, non mi fate piangere. Corro a chiamar mia madre, e a
licenziar le donne: bisogna che siam soli.
Mentre
ella partiva, Renzo sussurrò: - non m'avete mai detto niente.
- Ah,
Renzo! - rispose Lucia, rivolgendosi un momento, senza fermarsi. Renzo intese
benissimo che il suo nome pronunziato in quel momento, con quel tono, da Lucia,
voleva dire: potete voi dubitare ch'io abbia taciuto se non per motivi giusti e
puri?
Intanto
la buona Agnese (così si chiamava la madre di Lucia), messa in sospetto e in
curiosità dalla parolina all'orecchio, e dallo sparir della figlia, era discesa
a veder cosa c'era di nuovo. La figlia la lasciò con Renzo, tornò alle donne
radunate, e, accomodando l'aspetto e la voce, come poté meglio, disse: - il
signor curato è ammalato; e oggi non si fa nulla -. Ciò detto, le salutò tutte
in fretta, e scese di nuovo.
Le
donne sfilarono, e si sparsero a raccontar l'accaduto. Due o tre andaron fin
all'uscio del curato, per verificar se era ammalato davvero.
- Un
febbrone, - rispose Perpetua dalla finestra; e la trista parola, riportata
all'altre, troncò le congetture che già cominciavano a brulicar ne' loro
cervelli, e ad annunziarsi tronche e misteriose ne' loro discorsi.
Lucia
entrò nella stanza terrena, mentre Renzo stava angosciosamente informando
Agnese, la quale angosciosamente lo ascoltava. Tutt'e due si volsero a chi ne
sapeva più di loro, e da cui aspettavano uno schiarimento, il quale non poteva
essere che doloroso: tutt'e due, lasciando travedere, in mezzo al dolore, e con
l'amore diverso che ognun d'essi portava a Lucia, un cruccio pur diverso perché
avesse taciuto loro qualche cosa, e una tal cosa. Agnese, benché ansiosa di
sentir parlare la figlia, non poté tenersi di non farle un rimprovero. - A tua
madre non dir niente d'una cosa simile!
- Ora
vi dirò tutto, - rispose Lucia, asciugandosi gli occhi col grembiule.
-
Parla, parla! - Parlate, parlate! - gridarono a un tratto la madre e lo sposo.
-
Santissima Vergine! - esclamò Lucia: - chi avrebbe creduto che le cose
potessero arrivare a questo segno! - E, con voce rotta dal pianto, raccontò
come, pochi giorni prima, mentre tornava dalla filanda, ed era rimasta indietro
dalle sue compagne, le era passato innanzi don Rodrigo, in compagnia d'un altro
signore; che il primo aveva cercato di trattenerla con chiacchiere, com'ella
diceva, non punto belle; ma essa, senza dargli retta, aveva affrettato il
passo, e raggiunte le compagne; e intanto aveva sentito quell'altro signore
rider forte, e don Rodrigo dire: scommettiamo. Il giorno dopo, coloro s'eran
trovati ancora sulla strada; ma Lucia era nel mezzo delle compagne, con gli
occhi bassi; e l'altro signore sghignazzava, e don Rodrigo diceva: vedremo,
vedremo. - Per grazia del cielo, - continuò Lucia, - quel giorno era l'ultimo
della filanda. Io raccontai subito...
- A chi
hai raccontato? - domandò Agnese, andando incontro, non senza un po' di sdegno,
al nome del confidente preferito.
- Al
padre Cristoforo, in confessione, mamma, - rispose Lucia, con un accento soave
di scusa. - Gli raccontai tutto, l'ultima volta che siamo andate insieme alla
chiesa del convento: e, se vi ricordate, quella mattina, io andava mettendo
mano ora a una cosa, ora a un'altra, per indugiare, tanto che passasse altra
gente del paese avviata a quella volta, e far la strada in compagnia con loro;
perché, dopo quell'incontro, le strade mi facevan tanta paura...
Al nome
riverito del padre Cristoforo, lo sdegno d'Agnese si raddolcì. - Hai fatto bene,
- disse, - ma perché non raccontar tutto anche a tua madre?
Lucia
aveva avute due buone ragioni: l'una, di non contristare né spaventare la buona
donna, per cosa alla quale essa non avrebbe potuto trovar rimedio; l'altra, di
non metter a rischio di viaggiar per molte bocche una storia che voleva essere
gelosamente sepolta: tanto più che Lucia sperava che le sue nozze avrebber
troncata, sul principiare, quell'abbominata persecuzione. Di queste due ragioni
però, non allegò che la prima.
- E a
voi, - disse poi, rivolgendosi a Renzo, con quella voce che vuol far
riconoscere a un amico che ha avuto torto: - e a voi doveva io parlar di
questo? Pur troppo lo sapete ora!
- E che
t'ha detto il padre? - domandò Agnese.
- M'ha
detto che cercassi d'affrettar le nozze il più che potessi, e intanto stessi
rinchiusa; che pregassi bene il Signore; e che sperava che colui, non
vedendomi, non si curerebbe più di me. E fu allora che mi sforzai, - proseguì,
rivolgendosi di nuovo a Renzo, senza alzargli però gli occhi in viso, e
arrossendo tutta, - fu allora che feci la sfacciata, e che vi pregai io che
procuraste di far presto, e di concludere prima del tempo che s'era stabilito.
Chi sa cosa avrete pensato di me! Ma io facevo per bene, ed ero stata
consigliata, e tenevo per certo... e questa mattina, ero tanto lontana da
pensare... - Qui le parole furon troncate da un violento scoppio di pianto.
- Ah
birbone! ah dannato! ah assassino! - gridava Renzo, correndo innanzi e indietro
per la stanza, e stringendo di tanto in tanto il manico del suo coltello.
- Oh
che imbroglio, per amor di Dio! - esclamava Agnese. Il giovine si fermò
d'improvviso davanti a Lucia che piangeva; la guardò con un atto di tenerezza
mesta e rabbiosa, e disse: - questa è l'ultima che fa quell'assassino.
- Ah! no,
Renzo, per amor del cielo! - gridò Lucia. - No, no, per amor del cielo! Il
Signore c'è anche per i poveri; e come volete che ci aiuti, se facciam del
male?
- No,
no, per amor del cielo! - ripeteva Agnese.
-
Renzo, - disse Lucia, con un'aria di speranza e di risoluzione più tranquilla:
- voi avete un mestiere, e io so lavorare: andiamo tanto lontano, che colui non
senta più parlar di noi.
- Ah
Lucia! e poi? Non siamo ancora marito e moglie! Il curato vorrà farci la fede
di stato libero? Un uomo come quello? Se fossimo maritati, oh allora...!
Lucia
si rimise a piangere; e tutt'e tre rimasero in silenzio, e in un abbattimento
che faceva un tristo contrapposto alla pompa festiva de' loro abiti.
-
Sentite, figliuoli; date retta a me, - disse, dopo qualche momento, Agnese. -
Io son venuta al mondo prima di voi; e il mondo lo conosco un poco. Non bisogna
poi spaventarsi tanto: il diavolo non è brutto quanto si dipinge. A noi
poverelli le matasse paion più imbrogliate, perché non sappiam trovarne il
bandolo; ma alle volte un parere, una parolina d'un uomo che abbia studiato...
so ben io quel che voglio dire. Fate a mio modo, Renzo; andate a Lecco; cercate
del dottor Azzecca-garbugli, raccontategli... Ma non lo chiamate così, per amor
del cielo: è un soprannome. Bisogna dire il signor dottor... Come si chiama,
ora? Oh to'! non lo so il nome vero: lo chiaman tutti a quel modo. Basta,
cercate di quel dottore alto, asciutto, pelato, col naso rosso, e una voglia di
lampone sulla guancia.
- Lo
conosco di vista, - disse Renzo.
- Bene,
- continuò Agnese: - quello è una cima d'uomo! Ho visto io più d'uno ch'era più
impicciato che un pulcin nella stoppa, e non sapeva dove batter la testa, e,
dopo essere stato un'ora a quattr'occhi col dottor Azzecca-garbugli (badate
bene di non chiamarlo così!), l'ho visto, dico, ridersene. Pigliate quei
quattro capponi, poveretti! a cui dovevo tirare il collo, per il banchetto di
domenica, e portateglieli; perché non bisogna mai andar con le mani vote da
que' signori. Raccontategli tutto l'accaduto; e vedrete che vi dirà, su due
piedi, di quelle cose che a noi non verrebbero in testa, a pensarci un anno.
Renzo
abbracciò molto volentieri questo parere; Lucia l'approvò; e Agnese, superba
d'averlo dato, levò, a una a una, le povere bestie dalla stìa, riunì le loro
otto gambe, come se facesse un mazzetto di fiori, le avvolse e le strinse con
uno spago, e le consegnò in mano a Renzo; il quale, date e ricevute parole di
speranza, uscì dalla parte dell'orto, per non esser veduto da' ragazzi, che gli
correrebber dietro, gridando: lo sposo! lo sposo! Così, attraversando i campi
o, come dicon colà, i luoghi, se n'andò per viottole, fremendo, ripensando alla
sua disgrazia, e ruminando il discorso da fare al dottor Azzecca-garbugli.
Lascio poi pensare al lettore, come dovessero stare in viaggio quelle povere
bestie, così legate e tenute per le zampe, a capo all'in giù, nella mano d'un
uomo il quale, agitato da tante passioni, accompagnava col gesto i pensieri che
gli passavan a tumulto per la mente. Ora stendeva il braccio per collera, ora
l'alzava per disperazione, ora lo dibatteva in aria, come per minaccia, e, in
tutti i modi, dava loro di fiere scosse, e faceva balzare quelle quattro teste
spenzolate; le quali intanto s'ingegnavano a beccarsi l'una con l'altra, come
accade troppo sovente tra compagni di sventura.
Giunto
al borgo, domandò dell'abitazione del dottore; gli fu indicata, e v'andò.
All'entrare, si sentì preso da quella suggezione che i poverelli illetterati
provano in vicinanza d'un signore e d'un dotto, e dimenticò tutti i discorsi
che aveva preparati; ma diede un'occhiata ai capponi, e si rincorò. Entrato in
cucina, domandò alla serva se si poteva parlare al signor dottore. Adocchiò
essa le bestie, e, come avvezza a somiglianti doni, mise loro le mani addosso,
quantunque Renzo andasse tirando indietro, perché voleva che il dottore vedesse
e sapesse ch'egli portava qualche cosa. Capitò appunto mentre la donna diceva:
- date qui, e andate innanzi -. Renzo fece un grande inchino: il dottore l'accolse
umanamente, con un - venite, figliuolo, - e lo fece entrar con sé nello studio.
Era questo uno stanzone, su tre pareti del quale eran distribuiti i ritratti
de' dodici Cesari; la quarta, coperta da un grande scaffale di libri vecchi e
polverosi: nel mezzo, una tavola gremita d'allegazioni, di suppliche, di
libelli, di gride, con tre o quattro seggiole all'intorno, e da una parte un
seggiolone a braccioli, con una spalliera alta e quadrata, terminata agli
angoli da due ornamenti di legno, che s'alzavano a foggia di corna, coperta di
vacchetta, con grosse borchie, alcune delle quali, cadute da gran tempo,
lasciavano in libertà gli angoli della copertura, che s'accartocciava qua e là.
Il dottore era in veste da camera, cioè coperto d'una toga ormai consunta, che
gli aveva servito, molt'anni addietro, per perorare, ne' giorni d'apparato,
quando andava a Milano, per qualche causa d'importanza. Chiuse l'uscio, e fece
animo al giovine, con queste parole: - figliuolo, ditemi il vostro caso.
-
Vorrei dirle una parola in confidenza.
- Son
qui, - rispose il dottore: - parlate -. E s'accomodò sul seggiolone. Renzo,
ritto davanti alla tavola, con una mano nel cocuzzolo del cappello, che faceva
girar con l'altra, ricominciò: - vorrei sapere da lei che ha studiato...
- Ditemi
il fatto come sta, - interruppe il dottore.
- Lei
m'ha da scusare: noi altri poveri non sappiamo parlar bene. Vorrei dunque
sapere...
-
Benedetta gente! siete tutti così: in vece di raccontar il fatto, volete
interrogare, perché avete già i vostri disegni in testa.
- Mi
scusi, signor dottore. Vorrei sapere se, a minacciare un curato, perché non
faccia un matrimonio, c'è penale.
"Ho
capito", disse tra sé il dottore, che in verità non aveva capito. "Ho
capito". E subito si fece serio, ma d'una serietà mista di compassione e
di premura; strinse fortemente le labbra, facendone uscire un suono
inarticolato che accennava un sentimento, espresso poi più chiaramente nelle
sue prime parole. - Caso serio, figliuolo; caso contemplato. Avete fatto bene a
venir da me. È un caso chiaro, contemplato in cento gride, e... appunto, in una
dell'anno scorso, dell'attuale signor governatore. Ora vi fo vedere, e toccar
con mano.
Così
dicendo, s'alzò dal suo seggiolone, e cacciò le mani in quel caos di carte,
rimescolandole dal sotto in su, come se mettesse grano in uno staio.
- Dov'è
ora? Vien fuori, vien fuori. Bisogna aver tante cose alle mani! Ma la dev'esser
qui sicuro, perché è una grida d'importanza. Ah! ecco, ecco -. La prese, la
spiegò, guardò alla data, e, fatto un viso ancor più serio, esclamò: - il 15
d'ottobre 1627! Sicuro; è dell'anno passato: grida fresca; son quelle che fanno
più paura. Sapete leggere, figliuolo?
- Un
pochino, signor dottore.
- Bene,
venitemi dietro con l'occhio, e vedrete. E, tenendo la grida sciorinata in
aria, cominciò a leggere, borbottando a precipizio in alcuni passi, e
fermandosi distintamente, con grand'espressione, sopra alcuni altri, secondo il
bisogno:
- Se
bene, per la grida pubblicata d'ordine del signor Duca di Feria ai 14 di
dicembre 1620, et confirmata dall'lllustriss. et Eccellentiss. Signore il
Signor Gonzalo Fernandez de Cordova, eccetera, fu con rimedii
straordinarii e rigorosi provvisto alle oppressioni, concussioni et atti
tirannici che alcuni ardiscono di commettere contro questi Vassalli tanto
divoti di S. M., ad ogni modo la frequenza degli eccessi, e la malitia,
eccetera, è cresciuta a segno, che ha posto in necessità l'Eccell. Sua,
eccetera. Onde, col parere del Senato et di una Giunta, eccetera, ha
risoluto che si pubblichi la presente.
- E
cominciando dagli atti tirannici, mostrando l'esperienza che molti, così nelle
Città, come nelle Ville... sentite? di questo Stato, con tirannide
esercitano concussioni et opprimono i più deboli in varii modi, come in operare
che si facciano contratti violenti di compre, d'affitti... eccetera: dove
sei? ah! ecco; sentite: che seguano o non seguano matrimonii. Eh?
È il
mio caso, - disse Renzo.
-
Sentite, sentite, c'è ben altro; e poi vedremo la pena. Si testifichi, o non
si testifichi; che uno si parta dal luogo dove abita, eccetera; che quello
paghi un debito; quell'altro non lo molesti, quello vada al suo molino:
tutto questo non ha che far con noi. Ah ci siamo: quel prete non faccia
quello che è obbligato per l'uficio suo, o faccia cose che non gli toccano.
Eh?
- Pare
che abbian fatta la grida apposta per me.
- Eh?
non è vero? sentite, sentite: et altre simili violenze, quali seguono da
feudatarii, nobili, mediocri, vili, et plebei. Non se ne scappa: ci son
tutti: è come la valle di Giosafat. Sentite ora la pena. Tutte queste et
altre simili male attioni, benché siano proibite, nondimeno, convenendo metter
mano a maggior rigore, S. E., per la presente, non derogando, eccetera, ordina
e comanda che contra li contravventori in qualsivoglia dei suddetti capi, o
altro simile, si proceda da tutti li giudici ordinarii di questo Stato a pena
pecuniaria e corporale, ancora di relegatione o di galera, e fino alla morte...
una piccola bagattella! all'arbitrio dell'Eccellenza Sua, o del Senato,
secondo la qualità dei casi, persone e circostanze. E questo
ir-re-mis-si-bil-mente e con ogni rigore, eccetera. Ce n'è della roba, eh?
E vedete qui le sottoscrizioni: Gonzalo Fernandez de Cordova; e più in
giù: Platonus; e qui ancora: Vidit Ferrer: non ci manca niente.
Mentre
il dottore leggeva, Renzo gli andava dietro lentamente con l'occhio, cercando
di cavar il costrutto chiaro, e di mirar proprio quelle sacrosante parole, che
gli parevano dover esser il suo aiuto. Il dottore, vedendo il nuovo cliente più
attento che atterrito, si maravigliava. "Che sia matricolato costui",
pensava tra sé. - Ah! ah! - gli disse poi: - vi siete però fatto tagliare il
ciuffo. Avete avuto prudenza: però, volendo mettervi nelle mie mani, non faceva
bisogno. Il caso è serio; ma voi non sapete quel che mi basti l'animo di fare,
in un'occasione.
Per
intender quest'uscita del dottore, bisogna sapere, o rammentarsi che, a quel
tempo, i bravi di mestiere, e i facinorosi d'ogni genere, usavan portare un
lungo ciuffo, che si tiravan poi sul volto, come una visiera, all'atto
d'affrontar qualcheduno, ne' casi in cui stimasser necessario di travisarsi, e
l'impresa fosse di quelle, che richiedevano nello stesso tempo forza e
prudenza. Le gride non erano state in silenzio su questa moda. Comanda Sua
Eccellenza (il marchese de la Hynojosa) che chi porterà i capelli di tal
lunghezza che coprano il fronte fino alli cigli esclusivamente, ovvero porterà
la trezza, o avanti o dopo le orecchie, incorra la pena di trecento scudi; et
in caso d'inhabilità, di tre anni di galera, per la prima volta, e per la
seconda, oltre la suddetta, maggiore ancora, pecuniaria et corporale,
all'arbitrio di Sua Eccellenza.
Permette
però che, per occasione di trovarsi alcuno calvo, o per altra ragionevole causa
di segnale o ferita, possano quelli tali, per maggior decoro e sanità loro,
portare i capelli tanto lunghi, quanto sia bisogno per coprire simili
mancamenti e niente di più; avvertendo bene a non eccedere il dovere e pura
necessità, per (non) incorrere nella pena agli altri contraffacienti
imposta.
E
parimente comanda a' barbieri, sotto pena di cento scudi o di tre tratti di
corda da esser dati loro in pubblico, et maggiore anco corporale, all'arbitrio
come sopra, che non lascino a quelli che toseranno, sorte alcuna di dette
trezze, zuffi, rizzi, né capelli più lunghi dell'ordinario, così nella fronte
come dalle bande, e dopo le orecchie, ma che siano tutti uguali, come sopra,
salvo nel caso dei calvi, o altri difettosi, come si è detto. Il
ciuffo era dunque quasi una parte dell'armatura, e un distintivo de' bravacci e
degli scapestrati; i quali poi da ciò vennero comunemente chiamati ciuffi.
Questo termine è rimasto e vive tuttavia, con significazione più mitigata, nel
dialetto: e non ci sarà forse nessuno de' nostri lettori milanesi, che non si
rammenti d'aver sentito, nella sua fanciullezza, o i parenti, o il maestro, o
qualche amico di casa, o qualche persona di servizio, dir di lui: è un ciuffo,
è un ciuffetto.
- In
verità, da povero figliuolo, - rispose Renzo, - io non ho mai portato ciuffo in
vita mia.
- Non
facciam niente, - rispose il dottore, scotendo il capo, con un sorriso, tra
malizioso e impaziente. - Se non avete fede in me, non facciam niente. Chi dice
le bugie al dottore, vedete figliuolo, è uno sciocco che dirà la verità al
giudice. All'avvocato bisogna raccontar le cose chiare: a noi tocca poi a
imbrogliarle. Se volete ch'io v'aiuti, bisogna dirmi tutto, dall'a fino alla
zeta, col cuore in mano, come al confessore. Dovete nominarmi la persona da cui
avete avuto il mandato: sarà naturalmente persona di riguardo; e, in questo
caso, io anderò da lui, a fare un atto di dovere. Non gli dirò, vedete, ch'io
sappia da voi, che v'ha mandato lui: fidatevi. Gli dirò che vengo ad implorar
la sua protezione, per un povero giovine calunniato. E con lui prenderò i
concerti opportuni, per finir l'affare lodevolmente. Capite bene che, salvando
sé, salverà anche voi. Se poi la scappata fosse tutta vostra, via, non mi
ritiro: ho cavato altri da peggio imbrogli... Purché non abbiate offeso persona
di riguardo, intendiamoci, m'impegno a togliervi d'impiccio: con un po' di
spesa, intendiamoci. Dovete dirmi chi sia l'offeso, come si dice: e, secondo la
condizione, la qualità e l'umore dell'amico, si vedrà se convenga più di tenerlo
a segno con le protezioni, o trovar qualche modo d'attaccarlo noi in criminale,
e mettergli una pulce nell'orecchio; perché, vedete, a saper ben maneggiare le
gride, nessuno è reo, e nessuno è innocente. In quanto al curato, se è persona
di giudizio, se ne starà zitto; se fosse una testolina, c'è rimedio anche per
quelle. D'ogni intrigo si può uscire; ma ci vuole un uomo: e il vostro caso è
serio, vi dico, serio: la grida canta chiaro; e se la cosa si deve decider tra
la giustizia e voi, così a quattr'occhi, state fresco. Io vi parlo da amico: le
scappate bisogna pagarle: se volete passarvela liscia, danari e sincerità,
fidarvi di chi vi vuol bene, ubbidire, far tutto quello che vi sarà suggerito.
Mentre
il dottore mandava fuori tutte queste parole, Renzo lo stava guardando con
un'attenzione estatica, come un materialone sta sulla piazza guardando al
giocator di bussolotti, che, dopo essersi cacciata in bocca stoppa e stoppa e
stoppa, ne cava nastro e nastro e nastro, che non finisce mai. Quand'ebbe però
capito bene cosa il dottore volesse dire, e quale equivoco avesse preso, gli
troncò il nastro in bocca, dicendo: - oh! signor dottore, come l'ha intesa? l'è
proprio tutta al rovescio. Io non ho minacciato nessuno; io non fo di queste
cose, io: e domandi pure a tutto il mio comune, che sentirà che non ho mai
avuto che fare con la giustizia. La bricconeria l'hanno fatta a me; e vengo da
lei per sapere come ho da fare per ottener giustizia; e son ben contento d'aver
visto quella grida.
-
Diavolo! - esclamò il dottore, spalancando gli occhi. - Che pasticci mi fate?
Tant'è; siete tutti così: possibile che non sappiate dirle chiare le cose?
- Ma mi
scusi; lei non m'ha dato tempo: ora le racconterò la cosa, com'è. Sappia dunque
ch'io dovevo sposare oggi, - e qui la voce di Renzo si commosse, - dovevo
sposare oggi una giovine, alla quale discorrevo, fin da quest'estate; e oggi,
come le dico, era il giorno stabilito col signor curato, e s'era disposto ogni
cosa. Ecco che il signor curato comincia a cavar fuori certe scuse... basta,
per non tediarla, io l'ho fatto parlar chiaro, com'era giusto; e lui m'ha
confessato che gli era stato proibito, pena la vita, di far questo matrimonio.
Quel prepotente di don Rodrigo...
- Eh
via! - interruppe subito il dottore, aggrottando le ciglia, aggrinzando il naso
rosso, e storcendo la bocca, - eh via! Che mi venite a rompere il capo con
queste fandonie? Fate di questi discorsi tra voi altri, che non sapete misurar
le parole; e non venite a farli con un galantuomo che sa quanto valgono.
Andate, andate; non sapete quel che vi dite: io non m'impiccio con ragazzi; non
voglio sentir discorsi di questa sorte, discorsi in aria.
- Le
giuro...
-
Andate, vi dico: che volete ch'io faccia de' vostri giuramenti? Io non c'entro:
me ne lavo le mani -. E se le andava stropicciando, come se le lavasse davvero.
- Imparate a parlare: non si viene a sorprender così un galantuomo.
- Ma
senta, ma senta, - ripeteva indarno Renzo: il dottore, sempre gridando, lo
spingeva con le mani verso l'uscio; e, quando ve l'ebbe cacciato, aprì, chiamò
la serva, e le disse: - restituite subito a quest'uomo quello che ha portato:
io non voglio niente, non voglio niente.
Quella
donna non aveva mai, in tutto il tempo ch'era stata in quella casa, eseguito un
ordine simile: ma era stato proferito con una tale risoluzione, che non esitò a
ubbidire. Prese le quattro povere bestie, e le diede a Renzo, con un'occhiata
di compassione sprezzante, che pareva volesse dire: bisogna che tu l'abbia
fatta bella. Renzo voleva far cerimonie; ma il dottore fu inespugnabile; e il
giovine, più attonito e più stizzito che mai, dovette riprendersi le vittime
rifiutate, e tornar al paese, a raccontar alle donne il bel costrutto della sua
spedizione.
Le
donne, nella sua assenza, dopo essersi tristamente levate il vestito delle
feste e messo quello del giorno di lavoro, si misero a consultar di nuovo,
Lucia singhiozzando e Agnese sospirando. Quando questa ebbe ben parlato de'
grandi effetti che si dovevano sperare dai consigli del dottore, Lucia disse che
bisognava veder d'aiutarsi in tutte le maniere; che il padre Cristoforo era
uomo non solo da consigliare, ma da metter l'opera sua, quando si trattasse di
sollevar poverelli; e che sarebbe una gran bella cosa potergli far sapere ciò
ch'era accaduto. - Sicuro, - disse Agnese: e si diedero a cercare insieme la
maniera; giacché andar esse al convento, distante di là forse due miglia, non
se ne sentivano il coraggio, in quel giorno: e certo nessun uomo di giudizio
gliene avrebbe dato il parere. Ma, nel mentre che bilanciavano i partiti, si
sentì un picchietto all'uscio, e, nello stesso momento, un sommesso ma distinto
- Deo gratias -. Lucia, immaginandosi chi poteva essere, corse ad
aprire; e subito, fatto un piccolo inchino famigliare, venne avanti un laico cercatore
cappuccino, con la sua bisaccia pendente alla spalla sinistra, e tenendone
l'imboccatura attortigliata e stretta nelle due mani sul petto.
- Oh
fra Galdino! - dissero le due donne.
- Il
Signore sia con voi, - disse il frate. - Vengo alla cerca delle noci.
- Va' a
prender le noci per i padri, - disse Agnese. Lucia s'alzò, e s'avviò all'altra
stanza, ma, prima d'entrarvi, si trattenne dietro le spalle di fra Galdino, che
rimaneva diritto nella medesima positura; e, mettendo il dito alla bocca, diede
alla madre un'occhiata che chiedeva il segreto, con tenerezza, con
supplicazione, e anche con una certa autorità.
Il
cercatore, sbirciando Agnese così da lontano, disse: - e questo matrimonio? Si
doveva pur fare oggi: ho veduto nel paese una certa confusione, come se ci
fosse una novità. Cos'è stato?
- Il
signor curato è ammalato, e bisogna differire, - rispose in fretta la donna. Se
Lucia non faceva quel segno, la risposta sarebbe probabilmente stata diversa. -
E come va la cerca? - soggiunse poi, per mutar discorso.
- Poco
bene, buona donna, poco bene. Le son
tutte qui -. E, così dicendo, si levò la bisaccia d'addosso, e la fece
saltar tra le due mani. - Son tutte qui; e, per mettere insieme questa bella
abbondanza, ho dovuto picchiare a dieci porte.
- Ma!
le annate vanno scarse, fra Galdino; e, quando s'ha a misurar il pane, non si
può allargar la mano nel resto.
- E per
far tornare il buon tempo, che rimedio c'è, la mia donna? L'elemosina. Sapete
di quel miracolo delle noci, che avvenne, molt'anni sono, in quel nostro
convento di Romagna?
- No,
in verità; raccontatemelo un poco.
- Oh!
dovete dunque sapere che, in quel convento, c'era un nostro padre, il quale era
un santo, e si chiamava il padre Macario. Un giorno d'inverno, passando per una
viottola, in un campo d'un nostro benefattore, uomo dabbene anche lui, il padre
Macario vide questo benefattore vicino a un suo gran noce; e quattro contadini,
con le zappe in aria, che principiavano a scalzar la pianta, per metterle le
radici al sole. "Che fate voi a quella povera pianta?" domandò il
padre Macario. "Eh! padre, son anni e anni che la non mi vuol far noci; e
io ne faccio legna". "Lasciatela stare, disse il padre: sappiate che,
quest'anno, la farà più noci che foglie". Il benefattore, che sapeva chi
era colui che aveva detta quella parola, ordinò subito ai lavoratori, che
gettasser di nuovo la terra sulle radici; e, chiamato il padre, che continuava
la sua strada, "padre Macario, gli disse, la metà della raccolta sarà per
il convento". Si sparse la voce della predizione; e tutti correvano a
guardare il noce. In fatti, a primavera, fiori a bizzeffe, e, a suo tempo, noci
a bizzeffe. Il buon benefattore non ebbe la consolazione di bacchiarle; perché
andò, prima della raccolta, a ricevere il premio della sua carità. Ma il
miracolo fu tanto più grande, come sentirete. Quel brav'uomo aveva lasciato un
figliuolo di stampa ben diversa. Or dunque, alla raccolta, il cercatore andò
per riscotere la metà ch'era dovuta al convento; ma colui se ne fece nuovo
affatto, ed ebbe la temerità di rispondere che non aveva mai sentito dire che i
cappuccini sapessero far noci. Sapete ora cosa avvenne? Un giorno, (sentite
questa) lo scapestrato aveva invitato alcuni suoi amici dello stesso pelo, e,
gozzovigliando, raccontava la storia del noce, e rideva de' frati. Que'
giovinastri ebber voglia d'andar a vedere quello sterminato mucchio di noci; e
lui li mena su in granaio. Ma sentite: apre l'uscio, va verso il cantuccio
dov'era stato riposto il gran mucchio, e mentre dice: guardate, guarda egli
stesso e vede... che cosa? Un bel mucchio di foglie secche di noce. Fu un
esempio questo? E il convento, in vece di scapitare, ci guadagnò; perché, dopo
un così gran fatto, la cerca delle noci rendeva tanto, tanto, che un
benefattore, mosso a compassione del povero cercatore, fece al convento la
carità d'un asino, che aiutasse a portar le noci a casa. E si faceva tant'olio,
che ogni povero veniva a prenderne, secondo il suo bisogno; perché noi siam
come il mare, che riceve acqua da tutte le parti, e la torna a distribuire a
tutti i fiumi.
Qui
ricomparve Lucia, col grembiule così carico di noci, che lo reggeva a fatica,
tenendone le due cocche in alto, con le braccia tese e allungate. Mentre fra
Galdino, levatasi di nuovo la bisaccia, la metteva giù, e ne scioglieva la
bocca, per introdurvi l'abbondante elemosina, la madre fece un volto attonito e
severo a Lucia, per la sua prodigalità; ma Lucia le diede un'occhiata, che
voleva dire: mi giustificherò. Fra Galdino proruppe in elogi, in augùri, in promesse,
in ringraziamenti, e, rimessa la bisaccia al posto, s'avviava. Ma Lucia,
richiamatolo, disse: - vorrei un servizio da voi; vorrei che diceste al padre
Cristoforo, che ho gran premura di parlargli, e che mi faccia la carità di
venir da noi poverette, subito subito; perché non possiamo andar noi alla
chiesa.
- Non
volete altro? Non passerà un'ora che il padre Cristoforo saprà il vostro
desiderio.
- Mi
fido.
- Non
dubitate -. E così detto, se n'andò, un po' più curvo e più contento, di quel
che fosse venuto.
Al
vedere che una povera ragazza mandava a chiamare, con tanta confidenza, il
padre Cristoforo, e che il cercatore accettava la commissione, senza maraviglia
e senza difficoltà, nessun si pensi che quel Cristoforo fosse un frate di
dozzina, una cosa da strapazzo. Era anzi uomo di molta autorità, presso i suoi,
e in tutto il contorno; ma tale era la condizione de' cappuccini, che nulla
pareva per loro troppo basso, né troppo elevato. Servir gl'infimi, ed esser
servito da' potenti, entrar ne' palazzi e ne' tuguri, con lo stesso contegno
d'umiltà e di sicurezza, esser talvolta, nella stessa casa, un soggetto di
passatempo, e un personaggio senza il quale non si decideva nulla, chieder
l'elemosina per tutto, e farla a tutti quelli che la chiedevano al convento, a
tutto era avvezzo un cappuccino. Andando per la strada, poteva ugualmente
abbattersi in un principe che gli baciasse riverentemente la punta del cordone,
o in una brigata di ragazzacci che, fingendo d'esser alle mani tra loro,
gl'inzaccherassero la barba di fango. La parola "frate" veniva, in
que' tempi, proferita col più gran rispetto, e col più amaro disprezzo: e i
cappuccini, forse più d'ogni altr'ordine, eran oggetto de' due opposti
sentimenti, e provavano le due opposte fortune; perché, non possedendo nulla,
portando un abito più stranamente diverso dal comune, facendo più aperta
professione d'umiltà, s'esponevan più da vicino alla venerazione e al
vilipendio che queste cose possono attirare da' diversi umori, e dal diverso
pensare degli uomini.
Partito
fra Galdino, - tutte quelle noci! - esclamò Agnese: - in quest'anno!
-
Mamma, perdonatemi, - rispose Lucia; - ma, se avessimo fatta un'elemosina come
gli altri, fra Galdino avrebbe dovuto girare ancora, Dio sa quanto, prima
d'aver la bisaccia piena; Dio sa quando sarebbe tornato al convento; e, con le
ciarle che avrebbe fatte e sentite, Dio sa se gli sarebbe rimasto in mente...
- Hai
pensato bene; e poi è tutta carità che porta sempre buon frutto, - disse
Agnese, la quale, co' suoi difettucci, era una gran buona donna, e si sarebbe,
come si dice, buttata nel fuoco per quell'unica figlia, in cui aveva riposta
tutta la sua compiacenza.
In
questa, arrivò Renzo, ed entrando con un volto dispettoso insieme e
mortificato, gettò i capponi sur una tavola; e fu questa l'ultima trista
vicenda delle povere bestie, per quel giorno.
- Bel
parere che m'avete dato! - disse ad Agnese. - M'avete mandato da un buon
galantuomo, da uno che aiuta veramente i poverelli! - E raccontò il suo
abboccamento col dottore. La donna, stupefatta di così trista riuscita, voleva
mettersi a dimostrare che il parere però era buono, e che Renzo non doveva aver
saputo far la cosa come andava fatta; ma Lucia interruppe quella questione,
annunziando che sperava d'aver trovato un aiuto migliore. Renzo accolse anche
questa speranza, come accade a quelli che sono nella sventura e nell'impiccio.
- Ma, se il padre, - disse, - non ci trova un ripiego, lo troverò io, in un
modo o nell'altro.
Le
donne consigliaron la pace, la pazienza, la prudenza. - Domani, - disse Lucia,
- il padre Cristoforo verrà sicuramente; e vedrete che troverà qualche rimedio,
di quelli che noi poveretti non sappiam nemmeno immaginare.
- Lo
spero; - disse Renzo, - ma, in ogni caso, saprò farmi ragione, o farmela fare.
A questo mondo c'è giustizia finalmente.
Co'
dolorosi discorsi, e con le andate e venute che si son riferite, quel giorno
era passato; e cominciava a imbrunire.
- Buona
notte, - disse tristamente Lucia a Renzo, il quale non sapeva risolversi
d'andarsene.
- Buona
notte, - rispose Renzo, ancor più tristamente.
-
Qualche santo ci aiuterà, - replicò Lucia: - usate prudenza, e rassegnatevi.
La
madre aggiunse altri consigli dello stesso genere; e lo sposo se n'andò, col
cuore in tempesta, ripetendo sempre quelle strane parole: - a questo mondo c'è
giustizia, finalmente! - Tant'è vero che un uomo sopraffatto dal dolore non sa
più quel che si dica.
Il sole
non era ancor tutto apparso sull'orizzonte, quando il padre Cristoforo uscì dal
suo convento di Pescarenico, per salire alla casetta dov'era aspettato. È
Pescarenico una terricciola, sulla riva sinistra dell'Adda, o vogliam dire del
lago, poco discosto dal ponte: un gruppetto di case, abitate la più parte da
pescatori, e addobbate qua e là di tramagli e di reti tese ad asciugare. Il
convento era situato (e la fabbrica ne sussiste tuttavia) al di fuori, e in
faccia all'entrata della terra, con di mezzo la strada che da Lecco conduce a
Bergamo. Il cielo era tutto sereno: di mano in mano che il sole s'alzava dietro
il monte, si vedeva la sua luce, dalle sommità de' monti opposti, scendere,
come spiegandosi rapidamente, giù per i pendìi, e nella valle. Un venticello
d'autunno, staccando da' rami le foglie appassite del gelso, le portava a
cadere, qualche passo distante dall'albero. A destra e a sinistra, nelle vigne,
sui tralci ancor tesi, brillavan le foglie rosseggianti a varie tinte; e la
terra lavorata di fresco, spiccava bruna e distinta ne' campi di stoppie
biancastre e luccicanti dalla guazza. La scena era lieta; ma ogni figura d'uomo
che vi apparisse, rattristava lo sguardo e il pensiero. Ogni tanto,
s'incontravano mendichi laceri e macilenti, o invecchiati nel mestiere, o
spinti allora dalla necessità a tender la mano. Passavano zitti accanto al
padre Cristoforo, lo guardavano pietosamente, e, benché non avesser nulla a
sperar da lui, giacché un cappuccino non toccava mai moneta, gli facevano un
inchino di ringraziamento, per l'elemosina che avevan ricevuta, o che andavano
a cercare al convento. Lo spettacolo de' lavoratori sparsi ne' campi, aveva
qualcosa d'ancor più doloroso. Alcuni andavan gettando le lor semente, rade,
con risparmio, e a malincuore, come chi arrischia cosa che troppo gli preme;
altri spingevan la vanga come a stento, e rovesciavano svogliatamente la zolla.
La fanciulla scarna, tenendo per la corda al pascolo la vaccherella magra
stecchita, guardava innanzi, e si chinava in fretta, a rubarle, per cibo della
famiglia, qualche erba, di cui la fame aveva insegnato che anche gli uomini
potevan vivere. Questi spettacoli accrescevano, a ogni passo, la mestizia del
frate, il quale camminava già col tristo presentimento in cuore, d'andar a
sentire qualche sciagura.
"Ma
perché si prendeva tanto pensiero di Lucia? E perché, al primo avviso, s'era
mosso con tanta sollecitudine, come a una chiamata del padre provinciale? E chi
era questo padre Cristoforo?" Bisogna soddisfare a tutte queste domande.
Il
padre Cristoforo da *** era un uomo più vicino ai sessanta che ai
cinquant'anni. Il suo capo raso, salvo la piccola corona di capelli, che vi
girava intorno, secondo il rito cappuccinesco, s'alzava di tempo in tempo, con
un movimento che lasciava trasparire un non so che d'altero e d'inquieto; e
subito s'abbassava, per riflessione d'umiltà. La barba bianca e lunga, che gli
copriva le guance e il mento, faceva ancor più risaltare le forme rilevate
della parte superiore del volto, alle quali un'astinenza, già da gran pezzo
abituale, aveva assai più aggiunto di gravità che tolto d'espressione. Due
occhi incavati eran per lo più chinati a terra, ma talvolta sfolgoravano, con
vivacità repentina; come due cavalli bizzarri, condotti a mano da un cocchiere,
col quale sanno, per esperienza, che non si può vincerla, pure fanno, di tempo
in tempo, qualche sgambetto, che scontan subito, con una buona tirata di morso.
Il
padre Cristoforo non era sempre stato così, né sempre era stato Cristoforo: il
suo nome di battesimo era Lodovico. Era figliuolo d'un mercante di *** (questi
asterischi vengon tutti dalla circospezione del mio anonimo) che, ne' suoi
ultim'anni, trovandosi assai fornito di beni, e con quell'unico figliuolo,
aveva rinunziato al traffico, e s'era dato a viver da signore.
Nel suo
nuovo ozio, cominciò a entrargli in corpo una gran vergogna di tutto quel tempo
che aveva speso a far qualcosa in questo mondo. Predominato da una tal
fantasia, studiava tutte le maniere di far dimenticare ch'era stato mercante:
avrebbe voluto poterlo dimenticare anche lui. Ma il fondaco, le balle, il
libro, il braccio, gli comparivan sempre nella memoria, come l'ombra di Banco a
Macbeth, anche tra la pompa delle mense, e il sorriso de' parassiti. E non si
potrebbe dire la cura che dovevano aver que' poveretti, per schivare ogni
parola che potesse parere allusiva all'antica condizione del convitante. Un
giorno, per raccontarne una, un giorno, sul finir della tavola, ne' momenti
della più viva e schietta allegria, che non si sarebbe potuto dire chi più
godesse, o la brigata di sparecchiare, o il padrone d'aver apparecchiato,
andava stuzzicando, con superiorità amichevole, uno di que' commensali, il più
onesto mangiatore del mondo. Questo, per corrispondere alla celia, senza la
minima ombra di malizia, proprio col candore d'un bambino, rispose: - eh! io fo
l'orecchio del mercante -. Egli stesso fu subito colpito dal suono della parola
che gli era uscita di bocca: guardò, con faccia incerta, alla faccia del
padrone, che s'era rannuvolata: l'uno e l'altro avrebber voluto riprender
quella di prima; ma non era possibile. Gli altri convitati pensavano, ognun da
sé, al modo di sopire il piccolo scandolo, e di fare una diversione; ma,
pensando, tacevano, e, in quel silenzio, lo scandolo era più manifesto. Ognuno
scansava d'incontrar gli occhi degli altri; ognuno sentiva che tutti eran
occupati del pensiero che tutti volevan dissimulare. La gioia, per quel giorno,
se n'andò; e l'imprudente o, per parlar con più giustizia, lo sfortunato, non
ricevette più invito. Così il padre di Lodovico passò gli ultimi suoi anni in
angustie continue, temendo sempre d'essere schernito, e non riflettendo mai che
il vendere non è cosa più ridicola che il comprare, e che quella professione di
cui allora si vergognava, l'aveva pure esercitata per tant'anni, in presenza
del pubblico, e senza rimorso. Fece educare il figlio nobilmente, secondo la
condizione de' tempi, e per quanto gli era concesso dalle leggi e dalle
consuetudini; gli diede maestri di lettere e d'esercizi cavallereschi; e morì,
lasciandolo ricco e giovinetto.
Lodovico
aveva contratte abitudini signorili; e gli adulatori, tra i quali era
cresciuto, l'avevano avvezzato ad esser trattato con molto rispetto. Ma, quando
volle mischiarsi coi principali della sua città, trovò un fare ben diverso da
quello a cui era accostumato; e vide che, a voler esser della lor compagnia,
come avrebbe desiderato, gli conveniva fare una nuova scuola di pazienza e di
sommissione, star sempre al di sotto, e ingozzarne una, ogni momento. Una tal
maniera di vivere non s'accordava, né con l'educazione, né con la natura di
Lodovico. S'allontanò da essi indispettito. Ma poi ne stava lontano con
rammarico; perché gli pareva che questi veramente avrebber dovuto essere i suoi
compagni; soltanto gli avrebbe voluti più trattabili. Con questo misto
d'inclinazione e di rancore, non potendo frequentarli famigliarmente, e volendo
pure aver che far con loro in qualche modo, s'era dato a competer con loro di
sfoggi e di magnificenza, comprandosi così a contanti inimicizie, invidie e
ridicolo. La sua indole, onesta insieme e violenta, l'aveva poi imbarcato per
tempo in altre gare più serie. Sentiva un orrore spontaneo e sincero per
l'angherie e per i soprusi: orrore reso ancor più vivo in lui dalla qualità
delle persone che più ne commettevano alla giornata; ch'erano appunto coloro
coi quali aveva più di quella ruggine. Per acquietare, o per esercitare tutte
queste passioni in una volta, prendeva volentieri le parti d'un debole
sopraffatto, si piccava di farci stare un soverchiatore, s'intrometteva in una
briga, se ne tirava addosso un'altra; tanto che, a poco a poco, venne a
costituirsi come un protettor degli oppressi, e un vendicatore de' torti.
L'impiego era gravoso; e non è da domandare se il povero Lodovico avesse
nemici, impegni e pensieri. Oltre la guerra esterna, era poi tribolato
continuamente da contrasti interni; perché, a spuntarla in un impegno (senza
parlare di quelli in cui restava al di sotto), doveva anche lui adoperar
raggiri e violenze, che la sua coscienza non poteva poi approvare. Doveva
tenersi intorno un buon numero di bravacci; e, così per la sua sicurezza, come
per averne un aiuto più vigoroso, doveva scegliere i più arrischiati, cioè i
più ribaldi; e vivere co' birboni, per amor della giustizia. Tanto che, più
d'una volta, o scoraggito, dopo una trista riuscita, o inquieto per un pericolo
imminente, annoiato del continuo guardarsi, stomacato della sua compagnia, in
pensiero dell'avvenire, per le sue sostanze che se n'andavan, di giorno in
giorno, in opere buone e in braverie, più d'una volta gli era saltata la
fantasia di farsi frate; che, a que' tempi, era il ripiego più comune, per
uscir d'impicci. Ma questa, che sarebbe forse stata una fantasia per tutta la
sua vita, divenne una risoluzione, a causa d'un accidente, il più serio che gli
fosse ancor capitato.
Andava
un giorno per una strada della sua città, seguito da due bravi, e accompagnato
da un tal Cristoforo, altre volte giovine di bottega e, dopo chiusa questa,
diventato maestro di casa. Era un uomo di circa cinquant'anni, affezionato,
dalla gioventù, a Lodovico, che aveva veduto nascere, e che, tra salario e
regali, gli dava non solo da vivere, ma di che mantenere e tirar su una
numerosa famiglia. Vide Lodovico spuntar da lontano un signor tale, arrogante e
soverchiatore di professione, col quale non aveva mai parlato in vita sua, ma
che gli era cordiale nemico, e al quale rendeva, pur di cuore, il
contraccambio: giacché è uno de' vantaggi di questo mondo, quello di poter
odiare ed esser odiati, senza conoscersi. Costui, seguito da quattro bravi,
s'avanzava diritto, con passo superbo, con la testa alta, con la bocca composta
all'alterigia e allo sprezzo. Tutt'e due camminavan rasente al muro; ma
Lodovico (notate bene) lo strisciava col lato destro; e ciò, secondo una
consuetudine, gli dava il diritto (dove mai si va a ficcare il diritto!) di non
istaccarsi dal detto muro, per dar passo a chi si fosse; cosa della quale
allora si faceva gran caso. L'altro pretendeva, all'opposto, che quel diritto
competesse a lui, come a nobile, e che a Lodovico toccasse d'andar nel mezzo; e
ciò in forza d'un'altra consuetudine. Perocché, in questo, come accade in molti
altri affari, erano in vigore due consuetudini contrarie, senza che fosse
deciso qual delle due fosse la buona; il che dava opportunità di fare una
guerra, ogni volta che una testa dura s'abbattesse in un'altra della stessa
tempra. Que' due si venivano incontro, ristretti alla muraglia, come due figure
di basso rilievo ambulanti. Quando si trovarono a viso a viso, il signor tale,
squadrando Lodovico, a capo alto, col cipiglio imperioso, gli disse, in un tono
corrispondente di voce: - fate luogo.
- Fate
luogo voi, - rispose Lodovico. - La diritta è mia.
- Co'
vostri pari, è sempre mia.
- Sì,
se l'arroganza de' vostri pari fosse legge per i pari miei. I bravi dell'uno e
dell'altro eran rimasti fermi, ciascuno dietro il suo padrone, guardandosi in
cagnesco, con le mani alle daghe, preparati alla battaglia. La gente che
arrivava di qua e di là, si teneva in distanza, a osservare il fatto; e la
presenza di quegli spettatori animava sempre più il puntiglio de' contendenti.
- Nel
mezzo, vile meccanico; o ch'io t'insegno una volta come si tratta co'
gentiluomini.
- Voi
mentite ch'io sia vile.
- Tu
menti ch'io abbia mentito -. Questa risposta era di prammatica. - E, se tu
fossi cavaliere, come son io, - aggiunse quel signore, - ti vorrei far vedere,
con la spada e con la cappa, che il mentitore sei tu.
- E un
buon pretesto per dispensarvi di sostener co' fatti l'insolenza delle vostre
parole.
-
Gettate nel fango questo ribaldo, - disse il gentiluomo, voltandosi a' suoi.
-
Vediamo! - disse Lodovico, dando subitamente un passo indietro, e mettendo mano
alla spada.
-
Temerario! - gridò l'altro, sfoderando la sua: - io spezzerò questa, quando
sarà macchiata del tuo vil sangue.
Così
s'avventarono l'uno all'altro; i servitori delle due parti si slanciarono alla
difesa de' loro padroni. Il combattimento era disuguale, e per il numero, e
anche perché Lodovico mirava piùttosto a scansare i colpi, e a disarmare il
nemico, che ad ucciderlo; ma questo voleva la morte di lui, a ogni costo.
Lodovico aveva già ricevuta al braccio sinistro una pugnalata d'un bravo, e una
sgraffiatura leggiera in una guancia, e il nemico principale gli piombava
addosso per finirlo; quando Cristoforo, vedendo il suo padrone nell'estremo pericolo,
andò col pugnale addosso al signore. Questo, rivolta tutta la sua ira contro di
lui, lo passò con la spada. A quella vista, Lodovico, come fuor di sé, cacciò
la sua nel ventre del feritore, il quale cadde moribondo, quasi a un punto col
povero Cristoforo. I bravi del gentiluomo, visto ch'era finita, si diedero alla
fuga, malconci: quelli di Lodovico, tartassati e sfregiati anche loro, non
essendovi più a chi dare, e non volendo trovarsi impicciati nella gente, che
già accorreva, scantonarono dall'altra parte: e Lodovico si trovò solo, con
que' due funesti compagni ai piedi, in mezzo a una folla.
- Com'è
andata? - È uno. - Son due. - Gli ha fatto un occhiello nel ventre. - Chi è
stato ammazzato? - Quel prepotente. - Oh santa Maria, che sconquasso! - Chi
cerca trova. - Una le paga tutte. - Ha finito anche lui. - Che colpo! - Vuol
essere una faccenda seria. - E quell'altro disgraziato! - Misericordia! che
spettacolo! - Salvatelo, salvatelo. - Sta fresco anche lui. - Vedete com'è
concio! butta sangue da tutte le parti. - Scappi, scappi. Non si lasci
prendere.
Queste
parole, che più di tutte si facevan sentire nel frastono confuso di quella
folla, esprimevano il voto comune; e, col consiglio, venne anche l'aiuto. Il
fatto era accaduto vicino a una chiesa di cappuccini, asilo, come ognun sa,
impenetrabile allora a' birri, e a tutto quel complesso di cose e di persone,
che si chiamava la giustizia. L'uccisore ferito fu quivi condotto o portato
dalla folla, quasi fuor di sentimento; e i frati lo ricevettero dalle mani del
popolo, che glielo raccomandava, dicendo: - è un uomo dabbene che ha freddato
un birbone superbo: l'ha fatto per sua difesa: c'è stato tirato per i capelli.
Lodovico
non aveva mai, prima d'allora, sparso sangue; e, benché l'omicidio fosse, a que'
tempi, cosa tanto comune, che gli orecchi d'ognuno erano avvezzi a sentirlo
raccontare, e gli occhi a vederlo, pure l'impressione ch'egli ricevette dal
veder l'uomo morto per lui, e l'uomo morto da lui, fu nuova e indicibile; fu
una rivelazione di sentimenti ancora sconosciuti. Il cadere del suo nemico,
l'alterazione di quel volto, che passava, in un momento, dalla minaccia e dal
furore, all'abbattimento e alla quiete solenne della morte, fu una vista che
cambiò, in un punto, l'animo dell'uccisore. Strascinato al convento, non sapeva
quasi dove si fosse, né cosa si facesse; e, quando fu tornato in sé, si trovò
in un letto dell'infermeria, nelle mani del frate chirurgo (i cappuccini ne
avevano ordinariamente uno in ogni convento), che accomodava faldelle e fasce
sulle due ferite ch'egli aveva ricevute nello scontro. Un padre, il cui impiego
particolare era d'assistere i moribondi, e che aveva spesso avuto a render
questo servizio sulla strada, fu chiamato subito al luogo del combattimento.
Tornato, pochi minuti dopo, entrò nell'infermeria, e, avvicinatosi al letto
dove Lodovico giaceva, - consolatevi - gli disse: - almeno è morto bene, e m'ha
incaricato di chiedere il vostro perdono, e di portarvi il suo -. Questa parola
fece rinvenire affatto il povero Lodovico, e gli risvegliò più vivamente e più
distintamente i sentimenti ch'eran confusi e affollati nel suo animo: dolore
dell'amico, sgomento e rimorso del colpo che gli era uscito di mano, e, nello
stesso tempo, un'angosciosa compassione dell'uomo che aveva ucciso. - E
l'altro? - domandò ansiosamente al frate.
-
L'altro era spirato, quand'io arrivai. Frattanto, gli accessi e i contorni del
convento formicolavan di popolo curioso: ma, giunta la sbirraglia, fece smaltir
la folla, e si postò a una certa distanza dalla porta, in modo però che nessuno
potesse uscirne inosservato. Un fratello del morto, due suoi cugini e un
vecchio zio, vennero pure, armati da capo a piedi, con grande accompagnamento
di bravi; e si misero a far la ronda intorno, guardando, con aria e con atti di
dispetto minaccioso, que' curiosi, che non osavan dire: gli sta bene; ma
l'avevano scritto in viso.
Appena
Lodovico ebbe potuto raccogliere i suoi pensieri, chiamato un frate confessore,
lo pregò che cercasse della vedova di Cristoforo, le chiedesse in suo nome
perdono d'essere stato lui la cagione, quantunque ben certo involontaria, di
quella desolazione, e, nello stesso tempo, l'assicurasse ch'egli prendeva la
famiglia sopra di sé. Riflettendo quindi a' casi suoi, sentì rinascere più che mai
vivo e serio quel pensiero di farsi frate, che altre volte gli era passato per
la mente: gli parve che Dio medesimo l'avesse messo sulla strada, e datogli un
segno del suo volere, facendolo capitare in un convento, in quella congiuntura;
e il partito fu preso. Fece chiamare il guardiano, e gli manifestò il suo
desiderio. N'ebbe in risposta, che bisognava guardarsi dalle risoluzioni
precipitate; ma che, se persisteva, non sarebbe rifiutato. Allora, fatto venire
un notaro, dettò una donazione di tutto ciò che gli rimaneva (ch'era tuttavia
un bel patrimonio) alla famiglia di Cristoforo: una somma alla vedova, come se
le costituisse una contraddote, e il resto a otto figliuoli che Cristoforo
aveva lasciati.
La
risoluzione di Lodovico veniva molto a proposito per i suoi ospiti, i quali,
per cagion sua, erano in un bell'intrigo. Rimandarlo dal convento, ed esporlo
così alla giustizia, cioè alla vendetta de' suoi nemici, non era partito da
metter neppure in consulta. Sarebbe stato lo stesso che rinunziare a' propri
privilegi, screditare il convento presso il popolo, attirarsi il biasimo di
tutti i cappuccini dell'universo, per aver lasciato violare il diritto di
tutti, concitarsi contro tutte l'autorità ecclesiastiche, le quali si
consideravan come tutrici di questo diritto. Dall'altra parte, la famiglia
dell'ucciso, potente assai, e per sé, e per le sue aderenze, s'era messa al
punto di voler vendetta; e dichiarava suo nemico chiunque s'attentasse di
mettervi ostacolo. La storia non dice che a loro dolesse molto dell'ucciso, e
nemmeno che una lagrima fosse stata sparsa per lui, in tutto il parentado: dice
soltanto ch'eran tutti smaniosi d'aver nell'unghie l'uccisore, o vivo o morto.
Ora questo, vestendo l'abito di cappuccino, accomodava ogni cosa. Faceva, in
certa maniera, un'emenda, s'imponeva una penitenza, si chiamava implicitamente
in colpa, si ritirava da ogni gara; era in somma un nemico che depon l'armi. I
parenti del morto potevan poi anche, se loro piacesse, credere e vantarsi che
s'era fatto frate per disperazione, e per terrore del loro sdegno. E, ad ogni
modo, ridurre un uomo a spropriarsi del suo, a tosarsi la testa, a camminare a
piedi nudi, a dormir sur un saccone, a viver d'elemosina, poteva parere una
punizione competente, anche all'offeso il più borioso.
Il
padre guardiano si presentò, con un'umiltà disinvolta, al fratello del morto,
e, dopo mille proteste di rispetto per l'illustrissima casa, e di desiderio di
compiacere ad essa in tutto ciò che fosse fattibile, parlò del pentimento di
Lodovico, e della sua risoluzione, facendo garbatamente sentire che la casa
poteva esserne contenta, e insinuando poi soavemente, e con maniera ancor più
destra, che, piacesse o non piacesse, la cosa doveva essere. Il fratello diede
in ismanie, che il cappuccino lasciò svaporare, dicendo di tempo in tempo: - è
un troppo giusto dolore -. Fece intendere che, in ogni caso, la sua famiglia
avrebbe saputo prendersi una soddisfazione: e il cappuccino, qualunque cosa ne
pensasse, non disse di no. Finalmente richiese, impose come una condizione, che
l'uccisor di suo fratello partirebbe subito da quella città. Il guardiano, che
aveva già deliberato che questo fosse fatto, disse che si farebbe, lasciando
che l'altro credesse, se gli piaceva, esser questo un atto d'ubbidienza: e tutto
fu concluso. Contenta la famiglia, che ne usciva con onore; contenti i frati,
che salvavano un uomo e i loro privilegi, senza farsi alcun nemico; contenti i
dilettanti di cavalleria, che vedevano un affare terminarsi lodevolmente;
contento il popolo, che vedeva fuor d'impiccio un uomo ben voluto, e che, nello
stesso tempo, ammirava una conversione; contento finalmente, e più di tutti, in
mezzo al dolore, il nostro Lodovico, il quale cominciava una vita d'espiazione
e di servizio, che potesse, se non riparare, pagare almeno il mal fatto, e
rintuzzare il pungolo intollerabile del rimorso. Il sospetto che la sua
risoluzione fosse attribuita alla paura, l'afflisse un momento; ma si consolò
subito, col pensiero che anche quell'ingiusto giudizio sarebbe un gastigo per
lui, e un mezzo d'espiazione. Così, a trent'anni, si ravvolse nel sacco; e,
dovendo, secondo l'uso, lasciare il suo nome, e prenderne un altro, ne scelse
uno che gli rammentasse, ogni momento, ciò che aveva da espiare: e si chiamò
fra Cristoforo.
Appena
compita la cerimonia della vestizione, il guardiano gl'intimò che sarebbe
andato a fare il suo noviziato a ***, sessanta miglia lontano, e che partirebbe
all'indomani. Il novizio s'inchinò profondamente, e chiese una grazia. -
Permettetemi, padre, - disse, - che, prima di partir da questa città, dove ho
sparso il sangue d'un uomo, dove lascio una famiglia crudelmente offesa, io la
ristori almeno dell'affronto, ch'io mostri almeno il mio rammarico di non poter
risarcire il danno, col chiedere scusa al fratello dell'ucciso, e gli levi, se
Dio benedice la mia intenzione, il rancore dall'animo -. Al guardiano parve che
un tal passo, oltre all'esser buono in sé, servirebbe a riconciliar sempre più
la famiglia col convento; e andò diviato da quel signor fratello, ad esporgli
la domanda di fra Cristoforo. A proposta così inaspettata, colui sentì, insieme
con la maraviglia, un ribollimento di sdegno, non però senza qualche
compiacenza. Dopo aver pensato un momento, - venga domani, - disse; e assegnò
l'ora. Il guardiano tornò, a portare al novizio il consenso desiderato.
Il
gentiluomo pensò subito che, quanto più quella soddisfazione fosse solenne e
clamorosa, tanto più accrescerebbe il suo credito presso tutta la parentela, e
presso il pubblico; e sarebbe (per dirla con un'eleganza moderna) una bella
pagina nella storia della famiglia. Fece avvertire in fretta tutti i parenti
che, all'indomani, a mezzogiorno, restassero serviti (così si diceva allora) di
venir da lui, a ricevere una soddisfazione comune. A mezzogiorno, il palazzo
brulicava di signori d'ogni età e d'ogni sesso: era un girare, un rimescolarsi
di gran cappe, d'alte penne, di durlindane pendenti, un moversi librato di
gorgiere inamidate e crespe, uno strascico intralciato di rabescate zimarre. Le
anticamere, il cortile e la strada formicolavan di servitori, di paggi, di
bravi e di curiosi. Fra Cristoforo vide quell'apparecchio, ne indovinò il
motivo, e provò un leggier turbamento; ma, dopo un istante, disse tra sé:
"sta bene: l'ho ucciso in pubblico, alla presenza di tanti suoi nemici:
quello fu scandalo, questa è riparazione". Così, con gli occhi bassi, col
padre compagno al fianco, passò la porta di quella casa, attraversò il cortile,
tra una folla che lo squadrava con una curiosità poco cerimoniosa; salì le
scale, e, di mezzo all'altra folla signorile, che fece ala al suo passaggio,
seguito da cento sguardi, giunse alla presenza del padron di casa; il quale,
circondato da' parenti più prossimi, stava ritto nel mezzo della sala, con lo
sguardo a terra, e il mento in aria, impugnando, con la mano sinistra, il pomo
della spada, e stringendo con la destra il bavero della cappa sul petto.
C'è
talvolta, nel volto e nel contegno d'un uomo, un'espressione così immediata, si
direbbe quasi un'effusione dell'animo interno, che, in una folla di spettatori,
il giudizio sopra quell'animo sarà un solo. Il volto e il contegno di fra
Cristoforo disser chiaro agli astanti, che non s'era fatto frate, né veniva a
quell'umiliazione per timore umano: e questo cominciò a concigliarglieli tutti.
Quando vide l'offeso, affrettò il passo, gli si pose inginocchioni ai piedi,
incrociò le mani sul petto, e, chinando la testa rasa, disse queste parole: -
io sono l'omicida di suo fratello. Sa Iddio se vorrei restituirglielo a costo del
mio sangue; ma, non potendo altro che farle inefficaci e tarde scuse, la
supplico d'accettarle per l'amor di Dio -. Tutti gli occhi erano immobili sul
novizio, e sul personaggio a cui egli parlava; tutti gli orecchi eran tesi.
Quando fra Cristoforo tacque, s'alzò, per tutta la sala, un mormorìo di pietà e
di rispetto. Il gentiluomo, che stava in atto di degnazione forzata, e d'ira
compressa, fu turbato da quelle parole; e, chinandosi verso l'inginocchiato, -
alzatevi, - disse, con voce alterata: - l'offesa... il fatto veramente... ma
l'abito che portate... non solo questo, ma anche per voi... S'alzi, padre...
Mio fratello... non lo posso negare... era un cavaliere... era un uomo... un
po' impetuoso... un po' vivo. Ma tutto accade per disposizion di Dio. Non se ne
parli più... Ma, padre, lei non deve stare in codesta positura -. E, presolo
per le braccia, lo sollevò. Fra Cristoforo, in piedi, ma col capo chino,
rispose: - io posso dunque sperare che lei m'abbia concesso il suo perdono! E
se l'ottengo da lei, da chi non devo sperarlo? Oh! s'io potessi sentire dalla
sua bocca questa parola, perdono!
-
Perdono? - disse il gentiluomo. - Lei non ne ha più bisogno. Ma pure, poiché lo
desidera, certo, certo, io le perdono di cuore, e tutti...
-
Tutti! tutti! - gridarono, a una voce, gli astanti. Il volto del frate s'aprì a
una gioia riconoscente, sotto la quale traspariva però ancora un'umile e
profonda compunzione del male a cui la remissione degli uomini non poteva
riparare. Il gentiluomo, vinto da quell'aspetto, e trasportato dalla commozione
generale, gli gettò le braccia al collo, e gli diede e ne ricevette il bacio di
pace. Un - bravo! bene! - scoppiò da tutte le parti della sala; tutti si
mossero, e si strinsero intorno al frate. Intanto vennero servitori, con gran
copia di rinfreschi. Il gentiluomo si raccostò al nostro Cristoforo, il quale
faceva segno di volersi licenziare, e gli disse: - padre, gradisca qualche
cosa; mi dia questa prova d'amicizia -. E si mise per servirlo prima d'ogni
altro; ma egli, ritirandosi, con una certa resistenza cordiale, - queste cose,
- disse, - non fanno più per me; ma non sarà mai ch'io rifiuti i suoi doni. Io
sto per mettermi in viaggio: si degni di farmi portare un pane, perché io possa
dire d'aver goduto la sua carità, d'aver mangiato il suo pane, e avuto un segno
del suo perdono -. Il gentiluomo, commosso, ordinò che così si facesse; e venne
subito un cameriere, in gran gala, portando un pane sur un piatto d'argento, e
lo presentò al padre; il quale, presolo e ringraziato, lo mise nella sporta.
Chiese quindi licenza; e, abbracciato di nuovo il padron di casa, e tutti
quelli che, trovandosi più vicini a lui, poterono impadronirsene un momento, si
liberò da essi a fatica; ebbe a combatter nell'anticamere, per isbrigarsi da'
servitori, e anche da' bravi, che gli baciavano il lembo dell'abito, il
cordone, il cappuccio; e si trovò nella strada, portato come in trionfo, e
accompagnato da una folla di popolo, fino a una porta della città; d'onde uscì,
cominciando il suo pedestre viaggio, verso il luogo del suo noviziato.
Il
fratello dell'ucciso, e il parentado, che s'erano aspettati d'assaporare in
quel giorno la trista gioia dell'orgoglio, si trovarono in vece ripieni della
gioia serena del perdono e della benevolenza. La compagnia si trattenne ancor
qualche tempo, con una bonarietà e con una cordialità insolita, in ragionamenti
ai quali nessuno era preparato, andando là. In vece di soddisfazioni prese, di
soprusi vendicati, d'impegni spuntati, le lodi del novizio, la riconciliazione,
la mansuetudine furono i temi della conversazione. E taluno, che, per la
cinquantesima volta, avrebbe raccontato come il conte Muzio suo padre aveva
saputo, in quella famosa congiuntura, far stare a dovere il marchese Stanislao,
ch'era quel rodomonte che ognun sa, parlò in vece delle penitenze e della
pazienza mirabile d'un fra Simone, morto molt'anni prima. Partita la compagnia,
il padrone, ancor tutto commosso, riandava tra sé, con maraviglia, ciò che
aveva in teso, ciò ch'egli medesimo aveva detto; e borbottava tra i denti: -
diavolo d'un frate! - (bisogna bene che noi trascriviamo le sue precise parole)
- diavolo d'un frate! se rimaneva lì in ginocchio, ancora per qualche momento,
quasi quasi gli chiedevo scusa io, che m'abbia ammazzato il fratello -. La nostra
storia nota espressamente che, da quel giorno in poi, quel signore fu un po'
men precipitoso, e un po' più alla mano.
Il
padre Cristoforo camminava, con una consolazione che non aveva mai più provata,
dopo quel giorno terribile, ad espiare il quale tutta la sua vita doveva esser
consacrata. Il silenzio ch'era imposto a' novizi, l'osservava, senza
avvedersene, assorto com'era, nel pensiero delle fatiche, delle privazioni e
dell'umiliazioni che avrebbe sofferte, per iscontare il suo fallo. Fermandosi, all'ora
della refezione, presso un benefattore, mangiò, con una specie di voluttà, del
pane del perdono: ma ne serbò un pezzo, e lo ripose nella sporta, per tenerlo,
come un ricordo perpetuo.
Non è
nostro disegno di far la storia della sua vita claustrale: diremo soltanto che,
adempiendo, sempre con gran voglia, e con gran cura, gli ufizi che gli venivano
ordinariamente assegnati, di predicare e d'assistere i moribondi, non lasciava
mai sfuggire un'occasione d'esercitarne due altri, che s'era imposti da sé:
accomodar differenze, e proteggere oppressi. In questo genio entrava, per
qualche parte, senza ch'egli se n'avvedesse, quella sua vecchia abitudine, e un
resticciolo di spiriti guerreschi, che l'umiliazioni e le macerazioni non
avevan potuto spegner del tutto. Il suo linguaggio era abitualmente umile e
posato; ma, quando si trattasse di giustizia o di verità combattuta, l'uomo
s'animava, a un tratto, dell'impeto antico, che, secondato e modificato da
un'enfasi solenne, venutagli dall'uso del predicare, dava a quel linguaggio un
carattere singolare. Tutto il suo contegno, come l'aspetto, annunziava una
lunga guerra, tra un'indole focosa, risentita, e una volontà opposta,
abitualmente vittoriosa, sempre all'erta, e diretta da motivi e da ispirazioni
superiori. Un suo confratello ed amico, che lo conosceva bene, l'aveva una
volta paragonato a quelle parole troppo espressive nella loro forma naturale,
che alcuni, anche ben educati, pronunziano, quando la passione trabocca,
smozzicate, con qualche lettera mutata; parole che, in quel travisamento, fanno
però ricordare della loro energia primitiva.
Se una
poverella sconosciuta, nel tristo caso di Lucia, avesse chiesto l'aiuto del
padre Cristoforo, egli sarebbe corso immediatamente. Trattandosi poi di Lucia,
accorse con tanta più sollecitudine, in quanto conosceva e ammirava l'innocenza
di lei, era già in pensiero per i suoi pericoli, e sentiva un'indegnazione
santa, per la turpe persecuzione della quale era divenuta l'oggetto. Oltre di
ciò, avendola consigliata, per il meno male, di non palesar nulla, e di
starsene quieta, temeva ora che il consiglio potesse aver prodotto qualche
tristo effetto; e alla sollecitudine di carità, ch'era in lui come ingenita,
s'aggiungeva, in questo caso, quell'angustia scrupolosa che spesso tormenta i
buoni.
Ma,
intanto che noi siamo stati a raccontare i fatti del padre Cristoforo, è
arrivato, s'è affacciato all'uscio; e le donne, lasciando il manico dell'aspo
che facevan girare e stridere, si sono alzate, dicendo, a una voce: - oh padre Cristoforo!
sia benedetto!
Il qual
padre Cristoforo si fermò ritto sulla soglia, e, appena ebbe data un'occhiata
alle donne, dovette accorgersi che i suoi presentimenti non eran falsi. Onde,
con quel tono d'interrogazione che va incontro a una trista risposta, alzando
la barba con un moto leggiero della testa all'indietro, disse: - ebbene? -
Lucia rispose con uno scoppio di pianto. La madre cominciava a far le scuse
d'aver osato... ma il frate s'avanzò, e, messosi a sedere sur un panchetto a tre
piedi, troncò i complimenti, dicendo a Lucia: - quietatevi, povera figliuola. E
voi, - disse poi ad Agnese, - raccontatemi cosa c'è! - Mentre la buona donna
faceva alla meglio la sua dolorosa relazione, il frate diventava di mille
colori, e ora alzava gli occhi al cielo, ora batteva i piedi. Terminata la
storia, si coprì il volto con le mani, ed esclamò: - o Dio benedetto! fino a
quando...! - Ma, senza compir la frase, voltandosi di nuovo alle donne: -
poverette! - disse: - Dio vi ha visitate. Povera Lucia!
- Non
ci abbandonerà, padre? - disse questa, singhiozzando.
-
Abbandonarvi! - rispose. - E con che faccia potrei io chieder a Dio qualcosa
per me, quando v'avessi abbandonata? voi in questo stato! voi, ch'Egli mi
confida! Non vi perdete d'animo: Egli v'assisterà: Egli vede tutto: Egli può
servirsi anche d'un uomo da nulla come son io, per confondere un... Vediamo,
pensiamo quel che si possa fare.
Così
dicendo, appoggiò il gomito sinistro sul ginocchio, chinò la fronte nella
palma, e con la destra strinse la barba e il mento, come per tener ferme e
unite tutte le potenze dell'animo. Ma la più attenta considerazione non serviva
che a fargli scorgere più distintamente quanto il caso fosse pressante e
intrigato, e quanto scarsi, quanto incerti e pericolosi i ripieghi.
"Mettere un po' di vergogna a don Abbondio, e fargli sentire quanto manchi
al suo dovere? Vergogna e dovere sono un nulla per lui, quando ha paura. E
fargli paura? Che mezzi ho io mai di fargliene una che superi quella che ha
d'una schioppettata? Informar di tutto il cardinale arcivescovo, e invocar la
sua autorità? Ci vuol tempo: e intanto? e poi? Quand'anche questa povera
innocente fosse maritata, sarebbe questo un freno per quell'uomo? Chi sa a qual
segno possa arrivare?... E resistergli? Come? Ah! se potessi, pensava il povero
frate, se potessi tirar dalla mia i miei frati di qui, que' di Milano! Ma! non
è un affare comune; sarei abbandonato. Costui fa l'amico del convento, si
spaccia per partigiano de' cappuccini: e i suoi bravi non son venuti più d'una
volta a ricoverarsi da noi? Sarei solo in ballo; mi buscherei anche
dell'inquieto, dell'imbroglione, dell'accattabrighe; e, quel ch'è più, potrei
fors'anche, con un tentativo fuor di tempo, peggiorar la condizione di questa
poveretta". Contrappesato il pro e il contro di questo e di quel partito,
il migliore gli parve d'affrontar don Rodrigo stesso, tentar di smoverlo dal
suo infame proposito, con le preghiere, coi terrori dell'altra vita, anche di
questa, se fosse possibile. Alla peggio, si potrebbe almeno conoscere, per
questa via, più distintamente quanto colui fosse ostinato nel suo sporco
impegno, scoprir di più le sue intenzioni, e prender consiglio da ciò.
Mentre
il frate stava così meditando, Renzo, il quale, per tutte le ragioni che ognun
può indovinare, non sapeva star lontano da quella casa, era comparso
sull'uscio; ma, visto il padre sopra pensiero, e le donne che facevan cenno di
non disturbarlo, si fermò sulla soglia, in silenzio. Alzando la faccia, per
comunicare alle donne il suo progetto, il frate s'accorse di lui, e lo salutò
in un modo ch'esprimeva un'affezione consueta, resa più intensa dalla pietà.
- Le
hanno detto..., padre? - gli domandò Renzo, con voce commossa.
- Pur
troppo; e per questo son qui.
Che
dice di quel birbone...?
- Che
vuoi ch'io dica di lui? Non è qui a sentire: che gioverebbero le mie parole?
Dico a te, il mio Renzo, che tu confidi in Dio, e che Dio non t'abbandonerà.
-
Benedette le sue parole! - esclamò il giovane. - Lei non è di quelli che dan
sempre torto a' poveri. Ma il signor curato, e quel signor dottor delle cause
perse...
- Non
rivangare quello che non può servire ad altro che a inquietarti inutilmente. Io
sono un povero frate; ma ti ripeto quel che ho detto a queste donne: per quel
poco che posso, non v'abbandonerò.
- Oh,
lei non è come gli amici del mondo! Ciarloni! Chi avesse creduto alle proteste
che mi facevan costoro, nel buon tempo; eh eh! Eran pronti a dare il sangue per
me; m'avrebbero sostenuto contro il diavolo. S'io avessi avuto un nemico?... bastava
che mi lasciassi intendere; avrebbe finito presto di mangiar pane. E ora, se
vedesse come si ritirano... - A questo punto, alzando gli occhi al volto del
padre, vide che s'era tutto rannuvolato, e s'accorse d'aver detto ciò che
conveniva tacere. Ma volendo raccomodarla, s'andava intrigando e imbrogliando:
- volevo dire... non intendo dire... cioè, volevo dire...
- Cosa
volevi dire? E che? tu avevi dunque cominciato a guastar l'opera mia, prima che
fosse intrapresa! Buon per te che sei stato disingannato in tempo. Che! tu
andavi in cerca d'amici... quali amici!... che non t'avrebber potuto aiutare,
neppur volendo! E cercavi di perder Quel solo che lo può e lo vuole! Non sai tu
che Dio è l'amico de' tribolati, che confidano in Lui? Non sai tu che, a metter
fuori l'unghie, il debole non ci guadagna? E quando pure... - A questo punto,
afferrò fortemente il braccio di Renzo: il suo aspetto, senza perder
d'autorità, s'atteggiò d'una compunzione solenne, gli occhi s'abbassarono, la
voce divenne lenta e come sotterranea: - quando pure... è un terribile
guadagno! Renzo! vuoi tu confidare in me?... che dico in me, omiciattolo,
fraticello? Vuoi tu confidare in Dio?
- Oh
sì! - rispose Renzo. - Quello è il Signore davvero.
-
Ebbene; prometti che non affronterai, che non provocherai nessuno, che ti
lascerai guidar da me.
- Lo
prometto. Lucia fece un gran respiro, come se le avesser levato un peso
d'addosso; e Agnese disse: - bravo figliuolo.
-
Sentite, figliuoli, - riprese fra Cristoforo: - io anderò oggi a parlare a quell'uomo.
Se Dio gli tocca il cuore, e dà forza alle mie parole, bene: se no, Egli ci
farà trovare qualche altro rimedio. Voi intanto, statevi quieti, ritirati,
scansate le ciarle, non vi fate vedere. Stasera, o domattina al più tardi, mi
rivedrete -. Detto questo, troncò tutti i ringraziamenti e le benedizioni, e
partì. S'avviò al convento, arrivò a tempo d'andare in coro a cantar sesta,
desinò, e si mise subito in cammino, verso il covile della fiera che voleva
provarsi d'ammansare.
Il
palazzotto di don Rodrigo sorgeva isolato, a somiglianza d'una bicocca, sulla
cima d'uno de' poggi ond'è sparsa e rilevata quella costiera. A questa
indicazione l'anonimo aggiunge che il luogo (avrebbe fatto meglio a scriverne
alla buona il nome) era più in su del paesello degli sposi, discosto da questo
forse tre miglia, e quattro dal convento. Appiè del poggio, dalla parte che
guarda a mezzogiorno, e verso il lago, giaceva un mucchietto di casupole,
abitate da contadini di don Rodrigo; ed era come la piccola capitale del suo
piccol regno. Bastava passarvi, per esser chiarito della condizione e de'
costumi del paese. Dando un'occhiata nelle stanze terrene, dove qualche uscio
fosse aperto, si vedevano attaccati al muro schioppi, tromboni, zappe,
rastrelli, cappelli di paglia, reticelle e fiaschetti da polvere, alla rinfusa.
La gente che vi s'incontrava erano omacci tarchiati e arcigni, con un gran
ciuffo arrovesciato sul capo, e chiuso in una reticella; vecchi che, perdute le
zanne, parevan sempre pronti, chi nulla gli aizzasse, a digrignar le gengive;
donne con certe facce maschie, e con certe braccia nerborute, buone da venire
in aiuto della lingua, quando questa non bastasse: ne' sembianti e nelle mosse
de' fanciulli stessi, che giocavan per la strada, si vedeva un non so che di
petulante e di provocativo.
Fra
Cristoforo attraversò il villaggio, salì per una viuzza a chiocciola, e
pervenne su una piccola spianata, davanti al palazzotto. La porta era chiusa,
segno che il padrone stava desinando, e non voleva esser frastornato. Le rade e
piccole finestre che davan sulla strada, chiuse da imposte sconnesse e consunte
dagli anni, eran però difese da grosse inferriate, e quelle del pian terreno
tant'alte che appena vi sarebbe arrivato un uomo sulle spalle d'un altro.
Regnava quivi un gran silenzio; e un passeggiero avrebbe potuto credere che
fosse una casa abbandonata, se quattro creature, due vive e due morte,
collocate in simmetria, di fuori, non avesser dato un indizio d'abitanti. Due
grand'avoltoi, con l'ali spalancate, e co' teschi penzoloni, l'uno
spennacchiato e mezzo roso dal tempo, l'altro ancor saldo e pennuto, erano
inchiodati, ciascuno sur un battente del portone; e due bravi, sdraiati,
ciascuno sur una delle panche poste a destra e a sinistra, facevan la guardia,
aspettando d'esser chiamati a goder gli avanzi della tavola del signore. Il
padre si fermò ritto, in atto di chi si dispone ad aspettare; ma un de' bravi
s'alzò, e gli disse: - padre, padre, venga pure avanti: qui non si fanno
aspettare i cappuccini: noi siamo amici del convento: e io ci sono stato in
certi momenti che fuori non era troppo buon'aria per me; e se mi avesser tenuta
la porta chiusa, la sarebbe andata male -. Così dicendo, diede due picchi col
martello. A quel suono risposer subito di dentro gli urli e le strida di
mastini e di cagnolini; e, pochi momenti dopo, giunse borbottando un vecchio
servitore; ma, veduto il padre, gli fece un grand'inchino, acquietò le bestie,
con le mani e con la voce, introdusse l'ospite in un angusto cortile, e
richiuse la porta. Accompagnatolo poi in un salotto, e guardandolo con una
cert'aria di maraviglia e di rispetto, disse: - non è lei... il padre
Cristoforo di Pescarenico?
- Per
l'appunto.
- Lei
qui?
- Come
vedete, buon uomo.
- Sarà
per far del bene. Del bene, - continuò mormorando tra i denti, e
rincamminandosi, - se ne può far per tutto -. Attraversati due o tre altri
salotti oscuri, arrivarono all'uscio della sala del convito. Quivi un gran
frastono confuso di forchette, di coltelli, di bicchieri, di piatti, e sopra tutto
di voci discordi, che cercavano a vicenda di soverchiarsi. Il frate voleva
ritirarsi, e stava contrastando dietro l'uscio col servitore, per ottenere
d'essere lasciato in qualche canto della casa, fin che il pranzo fosse
terminato; quando l'uscio s'aprì. Un certo conte Attilio, che stava seduto in
faccia (era un cugino del padron di casa; e abbiam già fatta menzione di lui,
senza nominarlo), veduta una testa rasa e una tonaca, e accortosi
dell'intenzione modesta del buon frate, - ehi! ehi! - gridò: - non ci scappi,
padre riverito: avanti, avanti -. Don Rodrigo, senza indovinar precisamente il
soggetto di quella visita, pure, per non so qual presentimento confuso,
n'avrebbe fatto di meno. Ma, poiché lo spensierato d'Attilio aveva fatta quella
gran chiamata, non conveniva a lui di tirarsene indietro; e disse: - venga,
padre, venga -. Il padre s'avanzò, inchinandosi al padrone, e rispondendo, a
due mani, ai saluti de' commensali.
L'uomo
onesto in faccia al malvagio, piace generalmente (non dico a tutti) immaginarselo
con la fronte alta, con lo sguardo sicuro, col petto rilevato, con lo
scilinguagnolo bene sciolto. Nel fatto però, per fargli prender
quell'attitudine, si richiedon molte circostanze, le quali ben di rado si
riscontrano insieme. Perciò, non vi maravigliate se fra Cristoforo, col buon
testimonio della sua coscienza, col sentimento fermissimo della giustizia della
causa che veniva a sostenere, con un sentimento misto d'orrore e di compassione
per don Rodrigo, stesse con una cert'aria di suggezione e di rispetto, alla
presenza di quello stesso don Rodrigo, ch'era lì in capo di tavola, in casa
sua, nel suo regno, circondato d'amici, d'omaggi, di tanti segni della sua
potenza, con un viso da far morire in bocca a chi si sia una preghiera, non che
un consiglio, non che una correzione, non che un rimprovero. Alla sua destra
sedeva quel conte Attilio suo cugino, e, se fa bisogno di dirlo, suo collega di
libertinaggio e di soverchieria, il quale era venuto da Milano a villeggiare,
per alcuni giorni, con lui. A sinistra, e a un altro lato della tavola, stava,
con gran rispetto, temperato però d'una certa sicurezza, e d'una certa
saccenteria, il signor podestà, quel medesimo a cui, in teoria, sarebbe toccato
a far giustizia a Renzo Tramaglino, e a fare star a dovere don Rodrigo, come
s'è visto di sopra. In faccia al podestà, in atto d'un rispetto il più puro, il
più sviscerato, sedeva il nostro dottor Azzecca-garbugli, in cappa nera, e col
naso più rubicondo del solito: in faccia ai due cugini, due convitati oscuri,
de' quali la nostra storia dice soltanto che non facevano altro che mangiare,
chinare il capo, sorridere e approvare ogni cosa che dicesse un commensale, e a
cui un altro non contraddicesse.
- Da
sedere al padre, - disse don Rodrigo. Un servitore presentò una sedia, sulla
quale si mise il padre Cristoforo, facendo qualche scusa al signore, d'esser
venuto in ora inopportuna. - Bramerei di parlarle da solo a solo, con suo
comodo, per un affare d'importanza, - soggiunse poi, con voce più sommessa, all'orecchio
di don Rodrigo.
- Bene,
bene, parleremo; - rispose questo: - ma intanto si porti da bere al padre. Il
padre voleva schermirsi; ma don Rodrigo, alzando la voce, in mezzo al trambusto
ch'era ricominciato, gridava: - no, per bacco, non mi farà questo torto; non
sarà mai vero che un cappuccino vada via da questa casa, senza aver gustato del
mio vino, né un creditore insolente, senza aver assaggiate le legna de' miei
boschi -. Queste parole eccitarono un riso universale, e interruppero un
momento la questione che s'agitava caldamente tra i commensali. Un servitore,
portando sur una sottocoppa un'ampolla di vino, e un lungo bicchiere in forma
di calice, lo presentò al padre; il quale, non volendo resistere a un invito
tanto pressante dell'uomo che gli premeva tanto di farsi propizio, non esitò a
mescere, e si mise a sorbir lentamente il vino.
-
L'autorità del Tasso non serve al suo assunto, signor podestà riverito; anzi è
contro di lei; - riprese a urlare il conte Attilio: - perché quell'uomo
erudito, quell'uomo grande, che sapeva a menadito tutte le regole della
cavalleria, ha fatto che il messo d'Argante, prima d'esporre la sfida ai
cavalieri cristiani, chieda licenza al pio Buglione...
- Ma
questo - replicava, non meno urlando, il podestà, - questo è un di più, un mero
di più, un ornamento poetico, giacché il messaggiero è di sua natura
inviolabile, per diritto delle genti, jure gentium: e, senza andar tanto
a cercare, lo dice anche il proverbio: ambasciator non porta pena. E, i
proverbi, signor conte, sono la sapienza del genere umano. E, non avendo il
messaggiero detto nulla in suo proprio nome, ma solamente presentata la sfida
in iscritto...
- Ma
quando vorrà capire che quel messaggiero era un asino temerario, che non
conosceva le prime...?
- Con
buona licenza di lor signori, - interruppe don Rodrigo, il quale non avrebbe
voluto che la questione andasse troppo avanti: - rimettiamola nel padre
Cristoforo; e si stia alla sua sentenza.
- Bene,
benissimo, - disse il conte Attilio, al quale parve cosa molto garbata di far
decidere un punto di cavalleria da un cappuccino; mentre il podestà, più
infervorato di cuore nella questione, si chetava a stento, e con un certo viso,
che pareva volesse dire: ragazzate.
- Ma,
da quel che mi pare d'aver capito, - disse il padre, - non son cose di cui io
mi deva intendere.
-
Solite scuse di modestia di loro padri; - disse don Rodrigo: - ma non mi
scapperà. Eh via! sappiam bene che lei non è venuta al mondo col cappuccio in
capo, e che il mondo l'ha conosciuto. Via, via: ecco la questione.
- Il
fatto è questo, - cominciava a gridare il conte Attilio.
-
Lasciate dir a me, che son neutrale, cugino, - riprese don Rodrigo. - Ecco la
storia. Un cavaliere spagnolo manda una sfida a un cavalier milanese: il
portatore, non trovando il provocato in casa, consegna il cartello a un
fratello del cavaliere; il qual fratello legge la sfida, e in risposta dà
alcune bastonate al portatore. Si tratta...
- Ben
date, ben applicate, - gridò il conte Attilio. - Fu una vera ispirazione.
- Del
demonio, - soggiunse il podestà. - Battere un ambasciatore! persona sacra!
Anche lei, padre, mi dirà se questa è azione da cavaliere.
- Sì,
signore, da cavaliere, - gridò il conte: - e lo lasci dire a me, che devo
intendermi di ciò che conviene a un cavaliere. Oh, se fossero stati pugni,
sarebbe un'altra faccenda; ma il bastone non isporca le mani a nessuno. Quello
che non posso capire è perché le premano tanto le spalle d'un mascalzone.
- Chi
le ha parlato delle spalle, signor conte mio? Lei mi fa dire spropositi che non
mi son mai passati per la mente. Ho parlato del carattere, e non di spalle, io.
Parlo sopra tutto del diritto delle genti. Mi dica un poco, di grazia, se i
feciali che gli antichi Romani mandavano a intimar le sfide agli altri popoli,
chiedevan licenza d'esporre l'ambasciata: e mi trovi un poco uno scrittore che
faccia menzione che un feciale sia mai stato bastonato.
- Che
hanno a far con noi gli ufiziali degli antichi Romani? gente che andava alla
buona, e che, in queste cose, era indietro, indietro. Ma, secondo le leggi
della cavalleria moderna, ch'è la vera, dico e sostengo che un messo il quale
ardisce di porre in mano a un cavaliere una sfida, senza avergliene chiesta
licenza, è un temerario, violabile violabilissimo, bastonabile bastonabilissimo...
-
Risponda un poco a questo sillogismo.
-
Niente, niente, niente.
- Ma
ascolti, ma ascolti, ma ascolti. Percotere un disarmato è atto proditorio; atqui
il messo de quo era senz'arme; ergo...
-
Piano, piano, signor podestà.
- Che
piano?
-
Piano, le dico: cosa mi viene a dire? Atto proditorio è ferire uno con la
spada, per di dietro, o dargli una schioppettata nella schiena: e, anche per
questo, si posson dar certi casi... ma stiamo nella questione. Concedo che
questo generalmente possa chiamarsi atto proditorio; ma appoggiar quattro
bastonate a un mascalzone! Sarebbe bella che si dovesse dirgli: guarda che ti
bastono: come si direbbe a un galantuomo: mano alla spada. E lei, signor dottor
riverito, in vece di farmi de' sogghigni, per farmi capire ch'è del mio parere,
perché non sostiene le mie ragioni, con la sua buona tabella, per aiutarmi a
persuader questo signore?
- Io...
- rispose confusetto il dottore: - io godo di questa dotta disputa; e ringrazio
il bell'accidente che ha dato occasione a una guerra d'ingegni così graziosa. E
poi, a me non compete di dar sentenza: sua signoria illustrissima ha già
delegato un giudice... qui il padre...
- È
vero; - disse don Rodrigo: - ma come volete che il giudice parli, quando i
litiganti non vogliono stare zitti?
-
Ammutolisco, - disse il conte Attilio. Il podestà strinse le labbra, e alzò la
mano, come in atto di rassegnazione.
- Ah
sia ringraziato il cielo! A lei, padre, - disse don Rodrigo, con una serietà
mezzo canzonatoria.
- Ho
già fatte le mie scuse, col dire che non me n'intendo, - rispose fra
Cristoforo, rendendo il bicchiere a un servitore.
- Scuse
magre: - gridarono i due cugini: - vogliamo la sentenza!
-
Quand'è così, - riprese il frate, - il mio debole parere sarebbe che non vi
fossero né sfide, né portatori, né bastonate.
I
commensali si guardarono l'un con l'altro maravigliati.
- Oh
questa è grossa! - disse il conte Attilio. - Mi perdoni, padre, ma è grossa. Si
vede che lei non conosce il mondo.
- Lui?
- disse don Rodrigo: - me lo volete far ridire: lo conosce, cugino mio, quanto
voi: non è vero, padre? Dica, dica, se non ha fatta la sua carovana?
In vece
di rispondere a quest'amorevole domanda, il padre disse una parolina in segreto
a sé medesimo: "queste vengono a te; ma ricordati, frate, che non sei qui
per te, e che tutto ciò che tocca te solo, non entra nel conto".
- Sarà,
- disse il cugino: - ma il padre... come si chiama il padre?
- Padre
Cristoforo - rispose più d'uno.
- Ma,
padre Cristoforo, padron mio colendissimo, con queste sue massime, lei vorrebbe
mandare il mondo sottosopra. Senza sfide! Senza bastonate! Addio il punto
d'onore: impunità per tutti i mascalzoni. Per buona sorte che il supposto è
impossibile.
-
Animo, dottore, - scappò fuori don Rodrigo, che voleva sempre più divertire la
disputa dai due primi contendenti, - animo, a voi, che, per dar ragione a
tutti, siete un uomo. Vediamo un poco come farete per dar ragione in questo al
padre Cristoforo.
- In
verità, - rispose il dottore, tenendo brandita in aria la forchetta, e
rivolgendosi al padre, - in verità io non so intendere come il padre
Cristoforo, il quale è insieme il perfetto religioso e l'uomo di mondo, non
abbia pensato che la sua sentenza, buona, ottima e di giusto peso sul pulpito,
non val niente, sia detto col dovuto rispetto, in una disputa cavalleresca. Ma
il padre sa, meglio di me, che ogni cosa è buona a suo luogo; e io credo che,
questa volta, abbia voluto cavarsi, con una celia, dall'impiccio di proferire
una sentenza.
Che si
poteva mai rispondere a ragionamenti dedotti da una sapienza così antica, e
sempre nuova? Niente: e così fece il nostro frate.
Ma don
Rodrigo, per voler troncare quella questione, ne venne a suscitare un'altra. -
A proposito, - disse, - ho sentito che a Milano correvan voci d'accomodamento.
Il
lettore sa che in quell'anno si combatteva per la successione al ducato di
Mantova, del quale, alla morte di Vincenzo Gonzaga, che non aveva lasciata
prole legittima, era entrato in possesso il duca di Nevers, suo parente più
prossimo. Luigi XIII, ossia il cardinale di Richelieu, sosteneva quel principe,
suo ben affetto, e naturalizzato francese: Filippo IV, ossia il conte
d'Olivares, comunemente chiamato il conte duca, non lo voleva lì, per le stesse
ragioni; e gli aveva mosso guerra. Siccome poi quel ducato era feudo
dell'impero, così le due parti s'adoperavano, con pratiche, con istanze, con
minacce, presso l'imperator Ferdinando II, la prima perché accordasse
l'investitura al nuovo duca; la seconda perché gliela negasse, anzi aiutasse a
cacciarlo da quello stato.
- Non
son lontano dal credere, - disse il conte Attilio, - che le cose si possano
accomodare. Ho certi indizi...
- Non
creda, signor conte, non creda, - interruppe il podestà. - Io, in questo
cantuccio, posso saperle le cose; perché il signor castellano spagnolo, che,
per sua bontà, mi vuole un po' di bene, e per esser figliuolo d'un creato del
conte duca, è informato d'ogni cosa...
- Le
dico che a me accade ogni giorno di parlare in Milano con ben altri personaggi;
e so di buon luogo che il papa, interessatissimo, com'è, per la pace, ha fatto
proposizioni...
- Così
dev'essere; la cosa è in regola; sua santità fa il suo dovere; un papa deve
sempre metter bene tra i principi cristiani; ma il conte duca ha la sua
politica, e...
- E, e,
e; sa lei, signor mio, come la pensi l'imperatore, in questo momento? Crede lei
che non ci sia altro che Mantova a questo mondo? le cose a cui si deve pensare
son molte, signor mio. Sa lei, per esempio, fino a che segno l'imperatore possa
ora fidarsi di quel suo principe di Valdistano o di Vallistai, o come lo
chiamano, e se...
- Il
nome legittimo in lingua alemanna, - interruppe ancora il podestà, - è
Vagliensteino, come l'ho sentito proferir più volte dal nostro signor
castellano spagnolo. Ma stia pur di buon animo, che...
- Mi
vuole insegnare...? - riprendeva il conte; ma don Rodrigo gli dié d'occhio, per
fargli intendere che, per amor suo, cessasse di contraddire. Il conte tacque, e
il podestà, come un bastimento disimbrogliato da una secca, continuò, a vele
gonfie, il corso della sua eloquenza. - Vagliensteino mi dà poco fastidio;
perché il conte duca ha l'occhio a tutto, e per tutto; e se Vagliensteino vorrà
fare il bell'umore, saprà ben lui farlo rigar diritto, con le buone, o con le
cattive. Ha l'occhio per tutto, dico, e le mani lunghe; e, se ha fisso il
chiodo, come l'ha fisso, e giustamente, da quel gran politico che è, che il
signor duca di Nivers non metta le radici in Mantova, il signor duca di Nivers
non ce le metterà; e il signor cardinale di Riciliù farà un buco nell'acqua. Mi
fa pur ridere quel caro signor cardinale, a voler cozzare con un conte duca,
con un Olivares. Dico il vero, che vorrei rinascere di qui a dugent'anni, per
sentir cosa diranno i posteri, di questa bella pretensione. Ci vuol altro che
invidia; testa vuol esser: e teste come la testa d'un conte duca, ce n'è una
sola al mondo. Il conte duca, signori miei, - proseguiva il podestà, sempre col
vento in poppa, e un po' maravigliato anche lui di non incontrar mai uno
scoglio: - il conte duca è una volpe vecchia, parlando col dovuto rispetto, che
farebbe perder la traccia a chi si sia: e, quando accenna a destra, si può
esser sicuri che batterà a sinistra: ond'è che nessuno può mai vantarsi di
conoscere i suoi disegni; e quegli stessi che devon metterli in esecuzione,
quegli stessi che scrivono i dispacci, non ne capiscon niente. Io posso parlare
con qualche cognizion di causa; perché quel brav'uomo del signor castellano si
degna di trattenersi meco, con qualche confidenza. Il conte duca, viceversa, sa
appuntino cosa bolle in pentola di tutte l'altre corti; e tutti que' politiconi
(che ce n'è di diritti assai, non si può negare) hanno appena immaginato un
disegno, che il conte duca te l'ha già indovinato, con quella sua testa, con
quelle sue strade coperte, con que' suoi fili tesi per tutto. Quel pover'uomo
del cardinale di Riciliù tenta di qua, fiuta di là, suda, s'ingegna: e poi?
quando gli è riuscito di scavare una mina, trova la contrammina già bell'e
fatta dal conte duca...
Sa il
cielo quando il podestà avrebbe preso terra; ma don Rodrigo, stimolato anche
da' versacci che faceva il cugino, si voltò all'improvviso, come se gli venisse
un'ispirazione, a un servitore, e gli accennò che portasse un certo fiasco.
-
Signor podestà, e signori miei! - disse poi: - un brindisi al conte duca; e mi
sapranno dire se il vino sia degno del personaggio -. Il podestà rispose con un
inchino, nel quale traspariva un sentimento di riconoscenza particolare; perché
tutto ciò che si faceva o si diceva in onore del conte duca, lo riteneva in
parte come fatto a sé.
- Viva
mill'anni don Gasparo Guzman, conte d'Olivares, duca di san Lucar, gran privato
del re don Filippo il grande, nostro signore! - esclamò, alzando il bicchiere.
Privato,
chi non lo sapesse, era il termine in uso, a que' tempi, per significare il
favorito d'un principe.
- Viva
mill'anni! - risposer tutti.
-
Servite il padre, - disse don Rodrigo.
- Mi
perdoni; - rispose il padre: - ma ho già fatto un disordine, e non potrei...
- Come!
- disse don Rodrigo: - si tratta d'un brindisi al conte duca. Vuol dunque far
credere ch'ella tenga dai navarrini?
Così si
chiamavano allora, per ischerno, i Francesi, dai principi di Navarra, che
avevan cominciato, con Enrico IV, a regnar sopra di loro.
A tale
scongiuro, convenne bere. Tutti i commensali proruppero in esclamazioni, e in
elogi del vino; fuor che il dottore, il quale, col capo alzato, con gli occhi
fissi, con le labbra strette, esprimeva molto più che non avrebbe potuto far
con parole.
- Che
ne dite eh, dottore? - domandò don Rodrigo. Tirato fuor del bicchiere un naso
più vermiglio e più lucente di quello, il dottore rispose, battendo con enfasi
ogni sillaba: - dico, proferisco, e sentenzio che questo è l'Olivares de' vini:
censui, et in eam ivi sententiam, che un liquor simile non si trova in
tutti i ventidue regni del re nostro signore, che Dio guardi: dichiaro e
definisco che i pranzi dell'illustrissimo signor don Rodrigo vincono le cene
d'Eliogabalo; e che la carestia è bandita e confinata in perpetuo da questo
palazzo, dove siede e regna la splendidezza.
- Ben
detto! ben definito! - gridarono, a una voce, i commensali: ma quella parola,
carestia, che il dottore aveva buttata fuori a caso, rivolse in un punto tutte
le menti a quel tristo soggetto; e tutti parlarono della carestia. Qui andavan
tutti d'accordo, almeno nel principale; ma il fracasso era forse più grande che
se ci fosse stato disparere. Parlavan tutti insieme. - Non c'è carestia, -
diceva uno: - sono gl'incettatori...
- E i
fornai, - diceva un altro: - che nascondono il grano. Impiccarli.
-
Appunto; impiccarli, senza misericordia.
- De'
buoni processi, - gridava il podestà.
- Che
processi? - gridava più forte il conte Attilio: - giustizia sommaria. Pigliarne
tre o quattro o cinque o sei, di quelli che, per voce pubblica, son conosciuti
come i più ricchi e i più cani, e impiccarli.
-
Esempi! esempi! senza esempi non si fa nulla.
-
Impiccarli! impiccarli!; e salterà fuori grano da tutte le parti. Chi, passando
per una fiera, s'è trovato a goder l'armonia che fa una compagnia di
cantambanchi, quando, tra una sonata e l'altra, ognuno accorda il suo
stromento, facendolo stridere quanto più può, affine di sentirlo distintamente,
in mezzo al rumore degli altri, s'immagini che tale fosse la consonanza di
quei, se si può dire, discorsi. S'andava intanto mescendo e rimescendo di quel
tal vino; e le lodi di esso venivano, com'era giusto, frammischiate alle
sentenze di giurisprudenza economica; sicché le parole che s'udivan più sonore
e più frequenti, erano: ambrosia, e impiccarli.
Don
Rodrigo intanto dava dell'occhiate al solo che stava zitto; e lo vedeva sempre
lì fermo, senza dar segno d'impazienza né di fretta, senza far atto che
tendesse a ricordare che stava aspettando; ma in aria di non voler andarsene,
prima d'essere stato ascoltato. L'avrebbe mandato a spasso volentieri, e fatto
di meno di quel colloquio; ma congedare un cappuccino, senza avergli dato
udienza, non era secondo le regole della sua politica. Poiché la seccatura non
si poteva scansare, si risolvette d'affrontarla subito, e di liberarsene;
s'alzò da tavola, e seco tutta la rubiconda brigata, senza interrompere il
chiasso. Chiesta poi licenza agli ospiti, s'avvicinò, in atto contegnoso, al
frate, che s'era subito alzato con gli altri; gli disse: - eccomi a' suoi
comandi -; e lo condusse in un'altra sala.
- In
che posso ubbidirla? - disse don Rodrigo, piantandosi in piedi nel mezzo della
sala. Il suono delle parole era tale; ma il modo con cui eran proferite, voleva
dir chiaramente: bada a chi sei davanti, pesa le parole, e sbrigati.
Per dar
coraggio al nostro fra Cristoforo, non c'era mezzo più sicuro e più spedito,
che prenderlo con maniera arrogante. Egli che stava sospeso, cercando le
parole, e facendo scorrere tra le dita le ave marie della corona che teneva a
cintola, come se in qualcheduna di quelle sperasse di trovare il suo esordio; a
quel fare di don Rodrigo, si sentì subito venir sulle labbra più parole del
bisogno. Ma pensando quanto importasse di non guastare i fatti suoi o, ciò
ch'era assai più, i fatti altrui, corresse e temperò le frasi che gli si eran
presentate alla mente, e disse, con guardinga umiltà: - vengo a proporle un
atto di giustizia, a pregarla d'una carità. Cert'uomini di mal affare hanno
messo innanzi il nome di vossignoria illustrissima, per far paura a un povero
curato, e impedirgli di compire il suo dovere, e per soverchiare due innocenti.
Lei può, con una parola, confonder coloro, restituire al diritto la sua forza,
e sollevar quelli a cui è fatta una così crudel violenza. Lo può; e
potendolo... la coscienza, l'onore...
- Lei
mi parlerà della mia coscienza, quando verrò a confessarmi da lei. In quanto al
mio onore, ha da sapere che il custode ne son io, e io solo; e che chiunque
ardisce entrare a parte con me di questa cura, lo riguardo come il temerario
che l'offende.
Fra
Cristoforo, avvertito da queste parole che quel signore cercava di tirare al
peggio le sue, per volgere il discorso in contesa, e non dargli luogo di venire
alle strette, s'impegnò tanto più alla sofferenza, risolvette di mandar giù
qualunque cosa piacesse all'altro di dire, e rispose subito, con un tono
sommesso: - se ho detto cosa che le dispiaccia, è stato certamente contro la
mia intenzione. Mi corregga pure, mi riprenda, se non so parlare come si conviene;
ma si degni ascoltarmi. Per amor del cielo, per quel Dio, al cui cospetto
dobbiam tutti comparire... - e, così dicendo, aveva preso tra le dita, e
metteva davanti agli occhi del suo accigliato ascoltatore il teschietto di
legno attaccato alla sua corona, - non s'ostini a negare una giustizia così
facile, e così dovuta a de' poverelli. Pensi che Dio ha sempre gli occhi sopra
di loro, e che le loro grida, i loro gemiti sono ascoltati lassù. L'innocenza è
potente al suo...
- Eh,
padre! - interruppe bruscamente don Rodrigo: - il rispetto ch'io porto al suo
abito è grande: ma se qualche cosa potesse farmelo dimenticare, sarebbe il
vederlo indosso a uno che ardisse di venire a farmi la spia in casa.
Questa
parola fece venir le fiamme sul viso del frate: il quale però, col sembiante di
chi inghiottisce una medicina molto amara, riprese: - lei non crede che un tal
titolo mi si convenga. Lei sente in cuor suo, che il passo ch'io fo ora qui,
non è né vile né spregevole. M'ascolti, signor don Rodrigo; e voglia il cielo
che non venga un giorno in cui si penta di non avermi ascoltato. Non voglia
metter la sua gloria... qual gloria, signor don Rodrigo! qual gloria dinanzi
agli uomini! E dinanzi a Dio! Lei può molto quaggiù; ma...
- Sa
lei, - disse don Rodrigo, interrompendo, con istizza, ma non senza qualche
raccapriccio, - sa lei che, quando mi viene lo schiribizzo di sentire una
predica, so benissimo andare in chiesa, come fanno gli altri? Ma in casa mia!
Oh! - e continuò, con un sorriso forzato di scherno: - lei mi tratta da più di
quel che sono. Il predicatore in casa! Non l'hanno che i principi.
- E
quel Dio che chiede conto ai principi della parola che fa loro sentire, nelle
loro regge; quel Dio le usa ora un tratto di misericordia, mandando un suo
ministro, indegno e miserabile, ma un suo ministro, a pregar per una
innocente...
- In
somma, padre, - disse don Rodrigo, facendo atto d'andarsene, - io non so quel
che lei voglia dire: non capisco altro se non che ci dev'essere qualche
fanciulla che le preme molto. Vada a far le sue confidenze a chi le piace; e
non si prenda la libertà d'infastidir più a lungo un gentiluomo.
Al
moversi di don Rodrigo, il nostro frate gli s'era messo davanti, ma con gran
rispetto; e, alzate le mani, come per supplicare e per trattenerlo ad un punto,
rispose ancora: - la mi preme, è vero, ma non più di lei; son due anime che,
l'una e l'altra, mi premon più del mio sangue. Don Rodrigo! io non posso far
altro per lei, che pregar Dio; ma lo farò ben di cuore. Non mi dica di no: non
voglia tener nell'angoscia e nel terrore una povera innocente. Una parola di
lei può far tutto.
-
Ebbene, - disse don Rodrigo, - giacché lei crede ch'io possa far molto per
questa persona; giacché questa persona le sta tanto a cuore...
-
Ebbene? - riprese ansiosamente il padre Cristoforo, al quale l'atto e il
contegno di don Rodrigo non permettevano d'abbandonarsi alla speranza che
parevano annunziare quelle parole.
-
Ebbene, la consigli di venire a mettersi sotto la mia protezione. Non le
mancherà più nulla, e nessuno ardirà d'inquietarla, o ch'io non son cavaliere.
A
siffatta proposta, l'indegnazione del frate, rattenuta a stento fin allora,
traboccò. Tutti que' bei proponimenti di prudenza e di pazienza andarono in
fumo: l'uomo vecchio si trovò d'accordo col nuovo; e, in que' casi, fra
Cristoforo valeva veramente per due.
- La
vostra protezione! - esclamò, dando indietro due passi, postandosi fieramente
sul piede destro, mettendo la destra sull'anca, alzando la sinistra con
l'indice teso verso don Rodrigo, e piantandogli in faccia due occhi infiammati:
- la vostra protezione! È meglio che abbiate parlato così, che abbiate fatta a
me una tale proposta. Avete colmata la misura; e non vi temo più.
- Come
parli, frate?...
- Parlo
come si parla a chi è abbandonato da Dio, e non può più far paura. La vostra
protezione! Sapevo bene che quella innocente è sotto la protezione di Dio; ma
voi, voi me lo fate sentire ora, con tanta certezza, che non ho più bisogno di
riguardi a parlarvene. Lucia, dico: vedete come io pronunzio questo nome con la
fronte alta, e con gli occhi immobili.
- Come!
in questa casa...!
- Ho
compassione di questa casa: la maledizione le sta sopra sospesa. State a vedere
che la giustizia di Dio avrà riguardo a quattro pietre, e suggezione di quattro
sgherri. Voi avete creduto che Dio abbia fatta una creatura a sua immagine, per
darvi il piacere di tormentarla! Voi avete creduto che Dio non saprebbe
difenderla! Voi avete disprezzato il suo avviso! Vi siete giudicato. Il cuore
di Faraone era indurito quanto il vostro; e Dio ha saputo spezzarlo. Lucia è
sicura da voi: ve lo dico io povero frate; e in quanto a voi, sentite bene quel
ch'io vi prometto. Verrà un giorno...
Don
Rodrigo era fin allora rimasto tra la rabbia e la maraviglia, attonito, non
trovando parole; ma, quando sentì intonare una predizione, s'aggiunse alla
rabbia un lontano e misterioso spavento.
Afferrò
rapidamente per aria quella mano minacciosa, e, alzando la voce, per troncar
quella dell'infausto profeta, gridò: - escimi di tra' piedi, villano temerario,
poltrone incappucciato.
Queste
parole così chiare acquietarono in un momento il padre Cristoforo. All'idea di
strapazzo e di villanià, era, nella sua mente, così bene, e da tanto tempo,
associata l'idea di sofferenza e di silenzio, che, a quel complimento, gli
cadde ogni spirito d'ira e d'entusiasmo, e non gli restò altra risoluzione che
quella d'udir tranquillamente ciò che a don Rodrigo piacesse d'aggiungere.
Onde, ritirata placidamente la mano dagli artigli del gentiluomo, abbassò il
capo, e rimase immobile, come, al cader del vento, nel forte della burrasca, un
albero agitato ricompone naturalmente i suoi rami, e riceve la grandine come il
ciel la manda.
-
Villano rincivilito! - proseguì don Rodrigo: - tu tratti da par tuo. Ma
ringrazia il saio che ti copre codeste spalle di mascalzone, e ti salva dalle
carezze che si fanno a' tuoi pari, per insegnar loro a parlare. Esci con le tue
gambe, per questa volta; e la vedremo. Così dicendo, additò, con impero
sprezzante, un uscio in faccia a quello per cui erano entrati; il padre
Cristoforo chinò il capo, e se n'andò, lasciando don Rodrigo a misurare, a
passi infuriati, il campo di battaglia.
Quando
il frate ebbe serrato l'uscio dietro a sé, vide nell'altra stanza dove entrava,
un uomo ritirarsi pian piano, strisciando il muro, come per non esser veduto
dalla stanza del colloquio; e riconobbe il vecchio servitore ch'era venuto a
riceverlo alla porta di strada. Era costui in quella casa, forse da
quarant'anni, cioè prima che nascesse don Rodrigo; entratovi al servizio del
padre, il quale era stato tutt'un'altra cosa. Morto lui, il nuovo padrone,
dando lo sfratto a tutta la famiglia, e facendo brigata nuova, aveva però
ritenuto quel servitore, e per esser già vecchio, e perché, sebben di massime e
di costume diverso interamente dal suo, compensava però questo difetto con due
qualità: un'alta opinione della dignità della casa, e una gran pratica del
cerimoniale, di cui conosceva, meglio d'ogni altro, le più antiche tradizioni,
e i più minuti particolari. In faccia al signore, il povero vecchio non si
sarebbe mai arrischiato d'accennare, non che d'esprimere la sua disapprovazione
di ciò che vedeva tutto il giorno: appena ne faceva qualche esclamazione,
qualche rimprovero tra i denti a' suoi colleghi di servizio; i quali se ne
ridevano, e prendevano anzi piacere qualche volta a toccargli quel tasto, per
fargli dir di più che non avrebbe voluto, e per sentirlo ricantar le lodi
dell'antico modo di vivere in quella casa. Le sue censure non arrivavano agli
orecchi del padrone che accompagnate dal racconto delle risa che se n'eran
fatte; dimodoché riuscivano anche per lui un soggetto di scherno, senza
risentimento. Ne' giorni poi d'invito e di ricevimento, il vecchio diventava un
personaggio serio e d'importanza.
Il padre
Cristoforo lo guardò, passando, lo salutò, e seguitava la sua strada; ma il
vecchio se gli accostò misteriosamente, mise il dito alla bocca, e poi, col
dito stesso, gli fece un cenno, per invitarlo a entrar con lui in un andito
buio. Quando furon lì, gli disse sotto voce: - padre, ho sentito tutto, e ho
bisogno di parlarle.
- Dite
presto, buon uomo.
- Qui
no: guai se il padrone s'avvede... Ma io so molte cose; e vedrò di venir domani
al convento.
- C'è
qualche disegno?
-
Qualcosa per aria c'è di sicuro: già me ne son potuto accorgere. Ma ora starò
sull'intesa, e spero di scoprir tutto. Lasci fare a me. Mi tocca a vedere e a
sentir cose...! cose di fuoco! Sono in una casa...! Ma io vorrei salvar l'anima
mia.
- Il
Signore vi benedica! - e, proferendo sottovoce queste parole, il frate mise la
mano sul capo bianco del servitore, che, quantunque più vecchio di lui, gli
stava curvo dinanzi, nell'attitudine d'un figliuolo. - Il Signore vi
ricompenserà, - proseguì il frate: - non mancate di venir domani.
- Verrò,
- rispose il servitore: - ma lei vada via subito e... per amor del cielo... non
mi nomini -. Così dicendo, e guardando intorno, uscì, per l'altra parte
dell'andito, in un salotto, che rispondeva nel cortile; e, visto il campo
libero, chiamò fuori il buon frate, il volto del quale rispose a quell'ultima
parola più chiaro che non avrebbe potuto fare qualunque protesta. Il servitore
gli additò l'uscita; e il frate, senza dir altro, partì.
Quell'uomo
era stato a sentire all'uscio del suo padrone: aveva fatto bene? E fra
Cristoforo faceva bene a lodarlo di ciò? Secondo le regole più comuni e men
contraddette, è cosa molto brutta; ma quel caso non poteva riguardarsi come
un'eccezione? E ci sono dell'eccezioni alle regole più comuni e men
contraddette? Questioni importanti; ma che il lettore risolverà da sé, se ne ha
voglia. Noi non intendiamo di dar giudizi: ci basta d'aver dei fatti da
raccontare.
Uscito
fuori, e voltate le spalle a quella casaccia, fra Cristoforo respirò più
liberamente, e s'avviò in fretta per la scesa, tutto infocato in volto,
commosso e sottosopra, come ognuno può immaginarsi, per quel che aveva sentito,
e per quel che aveva detto. Ma quella così inaspettata esibizione del vecchio
era stata un gran ristorativo per lui: gli pareva che il cielo gli avesse dato
un segno visibile della sua protezione. "Ecco un filo, - pensava, - un
filo che la provvidenza mi mette nelle mani. E in quella casa medesima! E senza
ch'io sognassi neppure di cercarlo!" Così ruminando, alzò gli occhi verso
l'occidente, vide il sole inclinato, che già già toccava la cima del monte, e
pensò che rimaneva ben poco del giorno. Allora, benché sentisse le ossa gravi e
fiaccate da' vari strapazzi di quella giornata, pure studiò di più il passo,
per poter riportare un avviso, qual si fosse, a' suoi protetti, e arrivar poi
al convento, prima di notte: che era una delle leggi più precise, e più
severamente mantenute del codice cappuccinesco.
Intanto,
nella casetta di Lucia, erano stati messi in campo e ventilati disegni, de'
quali ci conviene informare il lettore. Dopo la partenza del frate, i tre
rimasti erano stati qualche tempo in silenzio; Lucia preparando tristamente il
desinare; Renzo sul punto d'andarsene ogni momento, per levarsi dalla vista di
lei così accorata, e non sapendo staccarsi; Agnese tutta intenta, in apparenza,
all'aspo che faceva girare. Ma, in realtà, stava maturando un progetto; e,
quando le parve maturo, ruppe il silenzio in questi termini:
-
Sentite, figliuoli! Se volete aver cuore e destrezza, quanto bisogna, se vi
fidate di vostra madre, - a quel vostra Lucia si riscosse, - io m'impegno di
cavarvi di quest'impiccio, meglio forse, e più presto del padre Cristoforo,
quantunque sia quell'uomo che è -. Lucia rimase lì, e la guardò con un volto
ch'esprimeva più maraviglia che fiducia in una promessa tanto magnifica; e
Renzo disse subitamente: - cuore? destrezza? dite, dite pure quel che si può
fare.
- Non è
vero, - proseguì Agnese, - che, se foste maritati, si sarebbe già un pezzo
avanti? E che a tutto il resto si troverebbe più facilmente ripiego?
- C'è
dubbio? - disse Renzo: - maritati che fossimo... tutto il mondo è paese; e, a
due passi di qui, sul bergamasco, chi lavora seta è ricevuto a braccia aperte.
Sapete quante volte Bortolo mio cugino m'ha fatto sollecitare d'andar là a star
con lui, che farei fortuna, com'ha fatto lui: e se non gli ho mai dato retta,
gli è... che serve? perché il mio cuore era qui. Maritati, si va tutti insieme,
si mette su casa là, si vive in santa pace, fuor dell'unghie di questo ribaldo,
lontano dalla tentazione di fare uno sproposito. N'è vero, Lucia?
- Sì, -
disse Lucia: - ma come...?
- Come
ho detto io, - riprese la madre: - cuore e destrezza; e la cosa è facile.
-
Facile! - dissero insieme que' due, per cui la cosa era divenuta tanto
stranamente e dolorosamente difficile.
-
Facile, a saperla fare, - replicò Agnese. - Ascoltatemi bene, che vedrò di
farvela intendere. Io ho sentito dire da gente che sa, e anzi ne ho veduto io
un caso, che, per fare un matrimonio, ci vuole bensì il curato, ma non è
necessario che voglia; basta che ci sia.
- Come
sta questa faccenda? - domandò Renzo.
-
Ascoltate e sentirete. Bisogna aver due testimoni ben lesti e ben d'accordo. Si
va dal curato: il punto sta di chiapparlo all'improvviso, che non abbia tempo
di scappare. L'uomo dice: signor curato, questa è mia moglie; la donna dice:
signor curato, questo è mio marito. Bisogna che il curato senta, che i
testimoni sentano; e il matrimonio è bell'e fatto, sacrosanto come se l'avesse
fatto il papa. Quando le parole son dette, il curato può strillare, strepitare,
fare il diavolo; è inutile; siete marito e moglie.
-
Possibile? - esclamò Lucia.
- Come!
- disse Agnese: - state a vedere che, in trent'anni che ho passati in questo
mondo, prima che nasceste voi altri, non avrò imparato nulla. La cosa è tale
quale ve la dico: per segno tale che una mia amica, che voleva prender uno
contro la volontà de' suoi parenti, facendo in quella maniera, ottenne il suo
intento. Il curato, che ne aveva sospetto, stava all'erta; ma i due diavoli
seppero far così bene, che lo colsero in un punto giusto, dissero le parole, e
furon marito e moglie: benché la poveretta se ne pentì poi, in capo a tre
giorni.
Agnese
diceva il vero, e riguardo alla possibilità, e riguardo al pericolo di non ci
riuscire: ché, siccome non ricorrevano a un tale espediente, se non persone che
avesser trovato ostacolo o rifiuto nella via ordinaria, così i parrochi
mettevan gran cura a scansare quella cooperazione forzata; e, quando un d'essi
venisse pure sorpreso da una di quelle coppie, accompagnata da testimoni,
faceva di tutto per iscapolarsene, come Proteo dalle mani di coloro che
volevano farlo vaticinare per forza.
- Se
fosse vero, Lucia! - disse Renzo, guardandola con un'aria d'aspettazione
supplichevole.
- Come!
se fosse vero! - disse Agnese. - Anche voi credete ch'io dica fandonie. Io
m'affanno per voi, e non sono creduta: bene bene; cavatevi d'impiccio come
potete: io me ne lavo le mani.
- Ah
no! non ci abbandonate, - disse Renzo. - Parlo così, perché la cosa mi par
troppo bella. Sono nelle vostre mani; vi considero come se foste proprio mia
madre.
Queste
parole fecero svanire il piccolo sdegno d'Agnese, e dimenticare un proponimento
che, per verità, non era stato serio.
- Ma
perché dunque, mamma, - disse Lucia, con quel suo contegno sommesso, - perché
questa cosa non è venuta in mente al padre Cristoforo?
- In
mente? - rispose Agnese: - pensa se non gli sarà venuta in mente! Ma non ne
avrà voluto parlare.
-
Perché? - domandarono a un tratto i due giovani.
-
Perché... perché, quando lo volete sapere, i religiosi dicono che veramente è
cosa che non istà bene.
- Come
può essere che non istia bene, e che sia ben fatta, quand'è fatta? - disse
Renzo.
- Che
volete ch'io vi dica? - rispose Agnese. - La legge l'hanno fatta loro, come gli
è piaciuto; e noi poverelli non possiamo capir tutto. E poi quante cose...
Ecco; è come lasciar andare un pugno a un cristiano. Non istà bene; ma, dato
che gliel abbiate, né anche il papa non glielo può levare.
- Se è
cosa che non istà bene, - disse Lucia, - non bisogna farla.
- Che!
- disse Agnese, - ti vorrei forse dare un parere contro il timor di Dio? Se
fosse contro la volontà de' tuoi parenti, per prendere un rompicollo... ma,
contenta me, e per prender questo figliuolo; e chi fa nascer tutte le
difficoltà è un birbone; e il signor curato...
- L'è
chiara, che l'intenderebbe ognuno, - disse Renzo.
- Non
bisogna parlarne al padre Cristoforo, prima di far la cosa, - proseguì Agnese:
- ma, fatta che sia, e ben riuscita, che pensi tu che ti dirà il padre?
"Ah figliuola! è una scappata grossa; me l'avete fatta". I religiosi
devon parlar così. Ma credi pure che, in cuor suo, sarà contento anche lui.
Lucia,
senza trovar che rispondere a quel ragionamento, non ne sembrava però
capacitata: ma Renzo, tutto rincorato, disse: - quand'è così, la cosa è fatta.
-
Piano, - disse Agnese. - E i testimoni? Trovar due che vogliano, e che intanto
sappiano stare zitti! E poter cogliere il signor curato che, da due giorni, se
ne sta rintanato in casa? E farlo star lì? ché, benché sia pesante di sua
natura, vi so dir io che, al vedervi comparire in quella conformità, diventerà
lesto come un gatto, e scapperà come il diavolo dall'acqua santa.
- L'ho
trovato io il verso, l'ho trovato, - disse Renzo, battendo il pugno sulla
tavola, e facendo balzellare le stoviglie apparecchiate per il desinare. E
seguitò esponendo il suo pensiero, che Agnese approvò in tutto e per tutto.
- Son
imbrogli, - disse Lucia: - non son cose lisce. Finora abbiamo operato
sinceramente: tiriamo avanti con fede, e Dio ci aiuterà: il padre Cristoforo
l'ha detto. Sentiamo il suo parere.
-
Lasciati guidare da chi ne sa più di te, - disse Agnese, con volto grave. - Che
bisogno c'è di chieder pareri? Dio dice: aiutati, ch'io t'aiuto. Al padre racconteremo
tutto, a cose fatte.
-
Lucia, - disse Renzo, - volete voi mancarmi ora? Non avevamo noi fatto tutte le
cose da buon cristiani? Non dovremmo esser già marito e moglie? Il curato non
ci aveva fissato lui il giorno e l'ora? E di chi è la colpa, se dobbiamo ora
aiutarci con un po' d'ingegno? No, non mi mancherete. Vado e torno con la
risposta -. E, salutando Lucia, con un atto di preghiera, e Agnese, con un'aria
d'intelligenza, partì in fretta.
Le
tribolazioni aguzzano il cervello: e Renzo il quale, nel sentiero retto e piano
di vita percorso da lui fin allora, non s'era mai trovato nell'occasione
d'assottigliar molto il suo, ne aveva, in questo caso, immaginata una, da far
onore a un giureconsulto. Andò addirittura, secondo che aveva disegnato, alla
casetta d'un certo Tonio, ch'era lì poco distante; e lo trovò in cucina, che,
con un ginocchio sullo scalino del focolare, e tenendo, con una mano, l'orlo
d'un paiolo, messo sulle ceneri calde, dimenava, col matterello ricurvo, una
piccola polenta bigia, di gran saraceno. La madre, un fratello, la moglie di
Tonio, erano a tavola; e tre o quattro ragazzetti, ritti accanto al babbo,
stavano aspettando, con gli occhi fissi al paiolo, che venisse il momento di
scodellare. Ma non c'era quell'allegria che la vista del desinare suol pur dare
a chi se l'è meritato con la fatica. La mole della polenta era in ragion
dell'annata, e non del numero e della buona voglia de' commensali: e ognun
d'essi, fissando, con uno sguardo bieco d'amor rabbioso, la vivanda comune, pareva
pensare alla porzione d'appetito che le doveva sopravvivere. Mentre Renzo
barattava i saluti con la famiglia, Tonio scodellò la polenta sulla tafferìa di
faggio, che stava apparecchiata a riceverla: e parve una piccola luna, in un
gran cerchio di vapori. Nondimeno le donne dissero cortesemente a Renzo : -
volete restar servito? -, complimento che il contadino di Lombardia, e chi sa
di quant'altri paesi! non lascia mai di fare a chi lo trovi a mangiare,
quand'anche questo fosse un ricco epulone alzatosi allora da tavola, e lui
fosse all'ultimo boccone.
- Vi
ringrazio, - rispose Renzo: - venivo solamente per dire una parolina a Tonio;
e, se vuoi, Tonio, per non disturbar le tue donne, possiamo andar a desinare
all'osteria, e lì parleremo -. La proposta fu per Tonio tanto più gradita,
quanto meno aspettata; e le donne, e anche i bimbi (giacché, su questa materia,
principian presto a ragionare) non videro mal volentieri che si sottraesse alla
polenta un concorrente, e il più formidabile. L'invitato non istette a domandar
altro, e andò con Renzo.
Giunti
all'osteria del villaggio; seduti, con tutta libertà, in una perfetta
solitudine, giacché la miseria aveva divezzati tutti i frequentatori di quel
luogo di delizie; fatto portare quel poco che si trovava; votato un boccale di
vino; Renzo, con aria di mistero, disse a Tonio: - se tu vuoi farmi un piccolo
servizio, io te ne voglio fare uno grande.
-
Parla, parla; comandami pure, - rispose Tonio, mescendo.
- Oggi
mi butterei nel fuoco per te.
- Tu
hai un debito di venticinque lire col signor curato, per fitto del suo campo,
che lavoravi, l'anno passato.
- Ah,
Renzo, Renzo! tu mi guasti il benefizio. Con che cosa mi vieni fuori? M'hai
fatto andar via il buon umore.
- Se ti
parlo del debito, - disse Renzo, - è perché, se tu vuoi, io intendo di darti il
mezzo di pagarlo.
- Dici
davvero?
-
Davvero. Eh? saresti contento?
-
Contento? Per diana. se sarei contento! Se non foss'altro, per non veder più
que' versacci, e que' cenni col capo, che mi fa il signor curato, ogni volta
che c'incontriamo. E poi sempre: Tonio, ricordatevi: Tonio, quando ci vediamo,
per quel negozio? A tal segno che quando, nel predicare, mi fissa quegli occhi
addosso, io sto quasi in timore che abbia a dirmi, lì in pubblico: quelle
venticinque lire! Che maledette siano le venticinque lire! E poi, m'avrebbe a
restituir la collana d'oro di mia moglie, che la baratterei in tanta polenta.
Ma...
- Ma,
ma, se tu mi vuoi fare un servizietto, le venticinque lire son preparate.
- Di'
su.
-
Ma...! - disse Renzo, mettendo il dito alla bocca.
- Fa
bisogno di queste cose? tu mi conosci.
- Il
signor curato va cavando fuori certe ragioni senza sugo, per tirare in lungo il
mio matrimonio; e io in vece vorrei spicciarmi. Mi dicon di sicuro che,
presentandosegli davanti i due sposi, con due testimoni, e dicendo io: questa è
mia moglie, e Lucia: questo è mio marito, il matrimonio è bell'e fatto. M'hai
tu inteso?
- Tu
vuoi ch'io venga per testimonio?
- Per
l'appunto.
- E
pagherai per me le venticinque lire?
- Così
l'intendo.
- Birba
chi manca.
- Ma
bisogna trovare un altro testimonio.
- L'ho
trovato. Quel sempliciotto di mio fratel Gervaso farà quello che gli dirò io.
Tu gli pagherai da bere?
- E da
mangiare, - rispose Renzo. - Lo condurremo qui a stare allegro con noi. Ma saprà
fare?
-
Gl'insegnerò io: tu sai bene ch'io ho avuta anche la sua parte di cervello.
-
Domani...
Bene.
- Verso
sera...
-
Benone.
-
Ma...! - disse Renzo, mettendo di nuovo il dito alla bocca.
-
Poh...! - rispose Tonio, piegando il capo sulla spalla destra, e alzando la
mano sinistra, con un viso che diceva: mi fai torto.
- Ma,
se tua moglie ti domanda, come ti domanderà, senza dubbio...
- Di
bugie, sono in debito io con mia moglie, e tanto tanto, che non so se arriverò
mai a saldare il conto. Qualche pastocchia la troverò, da metterle il cuore in
pace.
-
Domattina, - disse Renzo, - discorreremo con più comodo, per intenderci bene su
tutto.
Con
questo, uscirono dall'osteria, Tonio avviandosi a casa, e studiando la fandonia
che racconterebbe alle donne, e Renzo, a render conto de' concerti presi.
In
questo tempo Agnese, s'era affaticata invano a persuader la figliuola. Questa
andava opponendo a ogni ragione, ora l'una, ora l'altra parte del suo dilemma:
o la cosa è cattiva, e non bisogna farla; o non è, e perché non dirla al padre
Cristoforo?
Renzo
arrivò tutto trionfante, fece il suo rapporto, e terminò con un ahn?
interiezione che significa: sono o non sono un uomo io? si poteva trovar di
meglio? vi sarebbe venuta in mente? e cento cose simili.
Lucia
tentennava mollemente il capo; ma i due infervorati le badavan poco, come si
suol fare con un fanciullo, al quale non si spera di far intendere tutta la
ragione d'una cosa, e che s'indurrà poi, con le preghiere e con l'autorità, a
ciò che si vuol da lui.
- Va
bene, - disse Agnese: - va bene; ma... non avete pensato a tutto.
- Cosa
ci manca? - rispose Renzo.
- E
Perpetua? non avete pensato a Perpetua. Tonio e suo fratello, li lascerà
entrare; ma voi! voi due! pensate! avrà ordine di tenervi lontani, più che un
ragazzo da un pero che ha le frutte mature.
- Come
faremo? - disse Renzo, un po' imbrogliato.
- Ecco:
ci ho pensato io. Verrò io con voi; e ho un segreto per attirarla, e per
incantarla di maniera che non s'accorga di voi altri, e possiate entrare. La
chiamerò io, e le toccherò una corda... vedrete.
-
Benedetta voi! - esclamò Renzo: - l'ho sempre detto che siete nostro aiuto in
tutto.
- Ma
tutto questo non serve a nulla, - disse Agnese, - se non si persuade costei,
che si ostina a dire che è peccato.
Renzo
mise in campo anche lui la sua eloquenza; ma Lucia non sl lasciava smovere.
- Io
non so che rispondere a queste vostre ragioni, - diceva: - ma vedo che, per far
questa cosa, come dite voi, bisogna andar avanti a furia di sotterfugi, di
bugie, di finzioni. Ah Renzo! non abbiam cominciato così. Io voglio esser
vostra moglie, - e non c'era verso che potesse proferir quella parola, e
spiegar quell'intenzione, senza fare il viso rosso: - io voglio esser vostra
moglie, ma per la strada diritta, col timor di Dio, all'altare. Lasciamo fare a
Quello lassù. Non volete che sappia trovar Lui il bandolo d'aiutarci, meglio
che non possiamo far noi, con tutte codeste furberie? E perché far misteri al
padre Cristoforo?
La
disputa durava tuttavia, e non pareva vicina a finire, quando un calpestìo
affrettato di sandali, e un rumore di tonaca sbattuta, somigliante a quello che
fanno in una vela allentata i soffi ripetuti del vento, annunziarono il padre
Cristoforo. Si chetaron tutti; e Agnese ebbe appena tempo di susurrare all'orecchio
di Lucia: - bada bene, ve', di non dirgli nulla.
Il
padre Cristoforo arrivava nell'attitudine d'un buon capitano che, perduta,
senza sua colpa, una battaglia importante, afflitto ma non scoraggito, sopra
pensiero ma non sbalordito, di corsa e non in fuga, si porta dove il bisogno lo
chiede, a premunire i luoghi minacciati, a raccoglier le truppe, a dar nuovi
ordini.
- La
pace sia con voi, - disse, nell'entrare. - Non c'è nulla da sperare dall'uomo:
tanto più bisogna confidare in Dio: e già ho qualche pegno della sua
protezione.
Sebbene
nessuno dei tre sperasse molto nel tentativo del padre Cristoforo, giacché il
vedere un potente ritirarsi da una soverchieria, senza esserci costretto, e per
mera condiscendenza a preghiere disarmate, era cosa piùttosto inaudita che
rara; nulladimeno la trista certezza fu un colpo per tutti. Le donne
abbassarono il capo; ma nell'animo di Renzo, l'ira prevalse all'abbattimento.
Quell'annunzio lo trovava già amareggiato da tante sorprese dolorose, da tanti
tentativi andati a vòto, da tante speranze deluse, e, per di più, esacerbato,
in quel momento, dalle ripulse di Lucia.
-
Vorrei sapere, - gridò, digrignando i denti, e alzando la voce, quanto non
aveva mai fatto prima d'allora, alla presenza del padre Cristoforo; - vorrei
sapere che ragioni ha dette quel cane, per sostenere... per sostenere che la
mia sposa non dev'essere la mia sposa.
-
Povero Renzo! - rispose il frate, con una voce grave e pietosa, e con uno
sguardo che comandava amorevolmente la pacatezza : - se il potente che vuol
commettere l'ingiustizia fosse sempre obbligato a dir le sue ragioni, le cose
non anderebbero come vanno.
- Ha
detto dunque quel cane, che non vuole, perché non vuole?
Non ha
detto nemmen questo, povero Renzo! Sarebbe ancora un vantaggio se, per
commetter l'iniquità, dovessero confessarla apertamente.
- Ma
qualcosa ha dovuto dire: cos'ha detto quel tizzone d'inferno?
- Le
sue parole, io l'ho sentite, e non te le saprei ripetere. Le parole dell'iniquo
che è forte, penetrano e sfuggono. Può adirarsi che tu mostri sospetto di lui,
e, nello stesso tempo, farti sentire che quello di che tu sospetti è certo: può
insultare e chiamarsi offeso, schernire e chieder ragione, atterrire e
lagnarsi, essere sfacciato e irreprensibile. Non chieder più in là. Colui non
ha proferito il nome di questa innocente, né il tuo; non ha figurato nemmen di
conoscervi, non ha detto di pretender nulla; ma... ma pur troppo ho dovuto
intendere ch'è irremovibile. Nondimeno, confidenza in Dio! Voi, poverette, non
vi perdete d'animo; e tu, Renzo... oh! credi pure, ch'io so mettermi ne' tuoi
panni, ch'io sento quello che passa nel tuo cuore. Ma, pazienza! È una magra
parola, una parola amara, per chi non crede; ma tu...! non vorrai tu concedere
a Dio un giorno, due giorni, il tempo che vorrà prendere, per far trionfare la
giustizia? Il tempo è suo; e ce n'ha promesso tanto! Lascia fare a Lui, Renzo;
e sappi... sappiate tutti ch'io ho già in mano un filo, per aiutarvi. Per ora,
non posso dirvi di più. Domani io non verrò quassù; devo stare al convento
tutto il giorno, per voi. Tu, Renzo, procura di venirci: o se, per caso
impensato, tu non potessi, mandate un uomo fidato, un garzoncello di giudizio,
per mezzo del quale io possa farvi sapere quello che occorrerà. Si fa buio;
bisogna ch'io corra al convento. Fede, coraggio; e addio.
Detto
questo, uscì in fretta, e se n'andò, correndo, e quasi saltelloni, giù per
quella viottola storta e sassosa, per non arrivar tardi al convento, a rischio
di buscarsi una buona sgridata, o quel che gli sarebbe pesato ancor più, una
penitenza, che gl'impedisse, il giorno dopo, di trovarsi pronto e spedito a ciò
che potesse richiedere il bisogno de' suoi protetti.
- Avete
sentito cos'ha detto d'un non so che... d'un filo che ha, per aiutarci? - disse
Lucia. - Convien fidarsi a lui; è un uomo che, quando promette dieci...
- Se
non c'è altro...! - interruppe Agnese. - Avrebbe dovuto parlar più chiaro, o
chiamar me da una parte, e dirmi cosa sia questo...
-
Chiacchiere! la finirò io: io la finirò! - interruppe Renzo, questa volta,
andando in su e in giù per la stanza, e con una voce, con un viso, da non
lasciar dubbio sul senso di quelle parole.
- Oh
Renzo! - esclamò Lucia.
- Cosa
volete dire? - esclamò Agnese.
- Che
bisogno c'è di dire? La finirò io. Abbia pur cento, mille diavoli nell'anima,
finalmente è di carne e ossa anche lui...
- No,
no, per amor del cielo...! - cominciò Lucia; ma il pianto le troncò la voce.
- Non
son discorsi da farsi, neppur per burla, - disse Agnese.
- Per
burla? - gridò Renzo, fermandosi ritto in faccia ad Agnese seduta, e
piantandole in faccia due occhi stralunati. - Per burla! vedrete se sarà burla.
- Oh
Renzo! - disse Lucia, a stento, tra i singhiozzi: - non v'ho mai visto così.
- Non
dite queste cose, per amor del cielo, - riprese ancora in fretta Agnese,
abbassando la voce. - Non vi ricordate quante braccia ha al suo comando colui?
E quand'anche... Dio liberi!... contro i poveri c'è sempre giustizia.
- La
farò io, la giustizia, io! È ormai tempo. La cosa non è facile: lo so anch'io.
Si guarda bene, il cane assassino: sa come sta; ma non importa. Risoluzione e
pazienza... e il momento arriva. Sì, la farò io, la giustizia: lo libererò io,
il paese: quanta gente mi benedirà...! e poi in tre salti...!
L'orrore
che Lucia sentì di queste più chiare parole, le sospese il pianto, e le diede
forza di parlare. Levando dalle palme il viso lagrimoso, disse a Renzo, con
voce accorata, ma risoluta: - non v'importa più dunque d'avermi per moglie. Io
m'era promessa a un giovine che aveva il timor di Dio; ma un uomo che avesse...
Fosse al sicuro d'ogni giustizia e d'ogni vendetta, foss'anche il figlio del
re...
E bene!
- gridò Renzo, con un viso più che mai stravolto: - io non v'avrò; ma non
v'avrà né anche lui. Io qui senza di voi, e lui a casa del...
- Ah
no! per carità, non dite così, non fate quegli occhi: no, non posso vedervi
così, - esclamò Lucia, piangendo, supplicando, con le mani giunte; mentre
Agnese chiamava e richiamava il giovine per nome, e gli palpava le spalle, le
braccia, le mani, per acquietarlo. Stette egli immobile e pensieroso, qualche
tempo, a contemplar quella faccia supplichevole di Lucia; poi, tutt'a un
tratto, la guardò torvo, diede addietro, tese il braccio e l'indice verso di
essa, e gridò: - questa! sì questa egli vuole. Ha da morire!
- E io
che male v'ho fatto, perché mi facciate morire? - disse Lucia, buttandosegli
inginocchioni davanti.
- Voi!
- rispose, con una voce ch'esprimeva un'ira ben diversa, ma un'ira tuttavia: -
voi! Che bene mi volete voi? Che prova m'avete data? Non v'ho io pregata, e
pregata, e pregata? E voi: no! no!
- Sì
sì, - rispose precipitosamente Lucia: - verrò dal curato, domani, ora, se
volete; verrò. Tornate quello di prima; verrò.
- Me lo
promettete? - disse Renzo, con una voce e con un viso divenuto, tutt'a un
tratto, più umano.
- Ve lo
prometto.
- Me
l'avete promesso.
-
Signore, vi ringrazio! - esclamò Agnese, doppiamente contenta.
In
mezzo a quella sua gran collera, aveva Renzo pensato di che profitto poteva
esser per lui lo spavento di Lucia? E non aveva adoperato un po' d'artifizio a
farlo crescere, per farlo fruttare? Il nostro autore protesta di non ne saper
nulla; e io credo che nemmen Renzo non lo sapesse bene. Il fatto sta ch'era
realmente infuriato contro don Rodrigo, e che bramava ardentemente il consenso
di Lucia; e quando due forti passioni schiamazzano insieme nel cuor d'un uomo,
nessuno, neppure il paziente, può sempre distinguer chiaramente una voce
dall'altra, e dir con sicurezza qual sia quella che predomini.
- Ve
l'ho promesso, - rispose Lucia, con un tono di rimprovero timido e affettuoso:
- ma anche voi avevate promesso di non fare scandoli, di rimettervene al
padre...
- Oh
via! per amor di chi vado in furia? Volete tornare indietro, ora? e farmi fare
uno sproposito?
- No
no, - disse Lucia, cominciando a rispaventarsi. - Ho promesso, e non mi ritiro.
Ma vedete voi come mi avete fatto promettere. Dio non voglia...
-
Perché volete far de' cattivi augùri, Lucia? Dio sa che non facciam male a
nessuno.
-
Promettetemi almeno che questa sarà l'ultima.
- Ve lo
prometto, da povero figliuolo.
- Ma,
questa volta, mantenete poi, - disse Agnese.
Qui
l'autore confessa di non sapere un'altra cosa: se Lucia fosse, in tutto e per
tutto, malcontenta d'essere stata spinta ad acconsentire. Noi lasciamo, come
lui, la cosa in dubbio.
Renzo
avrebbe voluto prolungare il discorso, e fissare, a parte a parte, quello che
si doveva fare il giorno dopo; ma era già notte, e le donne gliel'augurarono
buona; non parendo loro cosa conveniente che, a quell'ora, si trattenesse più a
lungo.
La
notte però fu a tutt'e tre così buona come può essere quella che succede a un
giorno pieno d'agitazione e di guai, e che ne precede uno destinato a
un'impresa importante, e d'esito incerto. Renzo si lasciò veder di buon'ora, e
concertò con le donne, o piuttosto con Agnese, la grand'operazione della sera,
proponendo e sciogliendo a vicenda difficoltà, antivedendo contrattempi, e
ricominciando, ora l'uno ora l'altra, a descriver la faccenda, come si
racconterebbe una cosa fatta. Lucia ascoltava; e, senza approvar con parole ciò
che non poteva approvare in cuor suo, prometteva di far meglio che saprebbe.
-
Anderete voi giù al convento, per parlare al padre Cristoforo, come v'ha detto
ier sera? - domandò Agnese a Renzo.
- Le zucche!
- rispose questo: - sapete che diavoli d'occhi ha il padre: mi leggerebbe in
viso, come sur un libro, che c'è qualcosa per aria; e se cominciasse a farmi
dell'interrogazioni, non potrei uscirne a bene. E poi, io devo star qui, per
accudire all'affare. Sarà meglio che mandiate voi qualcheduno.
-
Manderò Menico.
- Va
bene, - rispose Renzo; e partì, per accudire all'affare, come aveva detto.
Agnese
andò a una casa vicina, a cercar Menico, ch'era un ragazzetto di circa dodici
anni, sveglio la sua parte, e che, per via di cugini e di cognati, veniva a
essere un po' suo nipote. Lo chiese ai parenti, come in prestito, per tutto
quel giorno, - per un certo servizio, - diceva. Avutolo, lo condusse nella sua
cucina, gli diede da colazione, e gli disse che andasse a Pescarenico, e si
facesse vedere al padre Cristoforo, il quale lo rimanderebbe poi, con una
risposta, quando sarebbe tempo. - Il padre Cristoforo, quel bel vecchio, tu
sai, con la barba bianca, quello che chiamano il santo...
- Ho
capito, - disse Menico: - quello che ci accarezza sempre, noi altri ragazzi, e
ci dà, ogni tanto, qualche santino.
-
Appunto, Menico. E se ti dirà che tu aspetti qualche poco, lì vicino al
convento, non ti sviare: bada di non andar, con de' compagni, al lago, a veder
pescare, né a divertirti con le reti attaccate al muro ad asciugare, né a far
quell'altro tuo giochetto solito...
Bisogna
saper che Menico era bravissimo per fare a rimbalzello; e si sa che tutti,
grandi e piccoli, facciam volentieri le cose alle quali abbiamo abilità: non
dico quelle sole.
- Poh!
zia; non son poi un ragazzo.
- Bene,
abbi giudizio; e, quando tornerai con la risposta... guarda; queste due belle
parpagliole nuove son per te.
-
Datemele ora, ch'è lo stesso.
- No,
no, tu le giocheresti. Va, e portati bene; che n'avrai anche di più.
Nel
rimanente di quella lunga mattinata, si videro certe novità che misero non poco
in sospetto l'animo già conturbato delle donne. Un mendico, né rifinito né
cencioso come i suoi pari, e con un non so che d'oscuro e di sinistro nel
sembiante, entrò a chieder la carità, dando in qua e in là cert'occhiate da
spione. Gli fu dato un pezzo di pane, che ricevette e ripose, con
un'indifferenza mal dissimulata. Si trattenne poi, con una certa
sfacciataggine, e, nello stesso tempo, con esitazione, facendo molte domande,
alle quali Agnese s'affrettò di risponder sempre il contrario di quello che
era. Movendosi, come per andar via, finse di sbagliar l'uscio, entrò in quello
che metteva alla scala, e lì diede un'altra occhiata in fretta, come poté.
Gridatogli dietro: - ehi ehi! dove andate galantuomo? di qua! di qua! - tornò
indietro, e uscì dalla parte che gli veniva indicata, scusandosi, con una
sommissione, con un'umiltà affettata, che stentava a collocarsi nei lineamenti
duri di quella faccia. Dopo costui, continuarono a farsi vedere, di tempo in
tempo, altre strane figure. Che razza d'uomini fossero, non si sarebbe potuto
dir facilmente; ma non si poteva creder neppure che fossero quegli onesti
viandanti che volevan parere. Uno entrava col pretesto di farsi insegnar la
strada; altri, passando davanti all'uscio, rallentavano il passo, e guardavan
sott'occhio nella stanza, a traverso il cortile, come chi vuol vedere senza dar
sospetto. Finalmente, verso il mezzogiorno, quella fastidiosa processione finì.
Agnese s'alzava ogni tanto, attraversava il cortile, s'affacciava all'uscio di
strada, guardava a destra e a sinistra, e tornava dicendo: - nessuno - : parola
che proferiva con piacere, e che Lucia con piacere sentiva, senza che né l'una né
l'altra ne sapessero ben chiaramente il perché. Ma ne rimase a tutt'e due una
non so quale inquietudine, che levò loro, e alla figliuola principalmente, una
gran parte del coraggio che avevan messo in serbo per la sera.
Convien
però che il lettore sappia qualcosa di più preciso, intorno a que' ronzatori
misteriosi: e, per informarlo di tutto, dobbiam tornare un passo indietro, e
ritrovar don Rodrigo, che abbiam lasciato ieri, solo in una sala del suo
palazzotto, al partir del padre Cristoforo.
Don
Rodrigo, come abbiam detto, misurava innanzi e indietro, a passi lunghi, quella
sala, dalle pareti della quale pendevano ritratti di famiglia, di varie
generazioni. Quando si trovava col viso a una parete, e voltava, si vedeva in
faccia un suo antenato guerriero, terrore de' nemici e de' suoi soldati, torvo
nella guardatura, co' capelli corti e ritti, co' baffi tirati e a punta, che
sporgevan dalle guance, col mento obliquo: ritto in piedi l'eroe, con le
gambiere, co' cosciali, con la corazza, co' bracciali, co' guanti, tutto di
ferro; con la destra sul fianco, e la sinistra sul pomo della spada. Don
Rodrigo lo guardava; e quando gli era arrivato sotto, e voltava, ecco in faccia
un altro antenato, magistrato, terrore de' litiganti e degli avvocati, a sedere
sur una gran seggiola coperta di velluto rosso, ravvolto in un'ampia toga nera;
tutto nero, fuorché un collare bianco, con due larghe facciole, e una fodera di
zibellino arrovesciata (era il distintivo de' senatori, e non lo portavan che
l'inverno, ragion per cui non si troverà mai un ritratto di senatore vestito
d'estate); macilento, con le ciglia aggrottate: teneva in mano una supplica, e
pareva che dicesse: vedremo. Di qua una matrona, terrore delle sue cameriere;
di là un abate, terrore de' suoi monaci: tutta gente in somma che aveva fatto
terrore, e lo spirava ancora dalle tele. Alla presenza di tali memorie, don
Rodrigo tanto più s'arrovellava, si vergognava, non poteva darsi pace, che un
frate avesse osato venirgli addosso, con la prosopopea di Nathan. Formava un
disegno di vendetta, l'abbandonava, pensava come soddisfare insieme alla
passione, e a ciò che chiamava onore; e talvolta (vedete un poco!) sentendosi
fischiare ancora agli orecchi quell'esordio di profezia, si sentiva venir, come
si dice, i bordoni, e stava quasi per deporre il pensiero delle due
soddisfazioni. Finalmente, per far qualche cosa, chiamò un servitore, e gli
ordinò che lo scusasse con la compagnia, dicendo ch'era trattenuto da un affare
urgente. Quando quello tornò a riferire che que' signori eran partiti,
lasciando i loro rispetti: - e il conte Attilio? - domandò, sempre camminando,
don Rodrigo.
- È
uscito con que' signori, illustrissimo.
- Bene:
sei persone di seguito, per la passeggiata: subito. La spada, la cappa, il
cappello: subito.
Il
servitore partì, rispondendo con un inchino; e, poco dopo, tornò, portando la
ricca spada, che il padrone si cinse; la cappa, che si buttò sulle spalle; il
cappello a gran penne, che mise e inchiodò, con una manata, fieramente sul
capo: segno di marina torbida. Si mosse, e, alla porta, trovò i sei ribaldi
tutti armati, i quali, fatto ala, e inchinatolo, gli andaron dietro. Più
burbero, più superbioso, più accigliato del solito, uscì, e andò passeggiando
verso Lecco. I contadini, gli artigiani, al vederlo venire, si ritiravan
rasente al muro, e di lì facevano scappellate e inchini profondi, ai quali non
rispondeva. Come inferiori, l'inchinavano anche quelli che da questi eran detti
signori; ché, in que' contorni, non ce n'era uno che potesse, a mille miglia,
competer con lui, di nome, di ricchezze, d'aderenze e della voglia di servirsi
di tutto ciò, per istare al di sopra degli altri. E a questi corrispondeva con
una degnazione contegnosa. Quel giorno non avvenne, ma quando avveniva che
s'incontrasse col signor castellano spagnolo, l'inchino allora era ugualmente
profondo dalle due parti; la cosa era come tra due potentati, i quali non
abbiano nulla da spartire tra loro; ma, per convenienza, fanno onore al grado
l'uno dell'altro. Per passare un poco la mattana, e per contrapporre
all'immagine del frate che gli assediava la fantasia, immagini in tutto
diverse, don Rodrigo entrò, quel giorno, in una casa, dove andava, per il
solito, molta gente, e dove fu ricevuto con quella cordialità affaccendata e
rispettosa, ch'è riserbata agli uomini che si fanno molto amare o molto temere;
e, a notte già fatta, tornò al suo palazzotto. Il conte Attilio era anche lui
tornato in quel momento; e fu messa in tavola la cena, durante la quale, don
Rodrigo fu sempre sopra pensiero, e parlò poco.
-
Cugino, quando pagate questa scommessa? - disse, con un fare di malizia e di
scherno, il conte Attilio, appena sparecchiato, e andati via i servitori.
- San
Martino non è ancor passato.
-
Tant'è che la paghiate subito; perché passeranno tutti i santi del lunario,
prima che...
-
Questo è quel che si vedrà.
-
Cugino, voi volete fare il politico; ma io ho capito tutto, e son tanto certo
d'aver vinta la scommessa, che son pronto a farne un'altra.
-
Sentiamo.
- Che
il padre... il padre... che so io? quel frate in somma v'ha convertito.
-
Eccone un'altra delle vostre.
-
Convertito, cugino; convertito, vi dico. Io per me, ne godo. Sapete che sarà un
bello spettacolo vedervi tutto compunto, e con gli occhi bassi! E che gloria
per quel padre! Come sarà tornato a casa gonfio e pettoruto! Non son pesci che
si piglino tutti i giorni, né con tutte le reti. Siate certo che vi porterà per
esempio; e, quando anderà a far qualche missione un po' lontano, parlerà de'
fatti vostri. Mi par di sentirlo -. E qui, parlando col naso, accompagnando le
parole con gesti caricati, continuò, in tono di predica: - in una parte di
questo mondo, che, per degni rispetti, non nomino, viveva, uditori carissimi, e
vive tuttavia, un cavaliere scapestrato, più amico delle femmine, che degli
uomini dabbene, il quale, avvezzo a far d'ogni erba un fascio, aveva messo gli
occhi...
-
Basta, basta, - interruppe don Rodrigo, mezzo sogghignando, e mezzo annoiato. -
Se volete raddoppiar la scommessa, son pronto anch'io.
-
Diavolo! che aveste voi convertito il padre!
- Non
mi parlate di colui: e in quanto alla scommessa, san Martino deciderà -. La
curiosità del conte era stuzzicata; non gli risparmiò interrogazioni, ma don
Rodrigo le seppe eluder tutte, rimettendosi sempre al giorno della decisione, e
non volendo comunicare alla parte avversa disegni che non erano né incamminati,
né assolutamente fissati.
La
mattina seguente, don Rodrigo si destò don Rodrigo. L'apprensione che quel verrà
un giorno gli aveva messa in corpo, era svanita del tutto, co' sogni della
notte; e gli rimaneva la rabbia sola, esacerbata anche dalla vergogna di quella
debolezza passeggiera. L'immagini più recenti della passeggiata trionfale,
degl'inchini, dell'accoglienze, e il canzonare del cugino, avevano contribuito
non poco a rendergli l'animo antico. Appena alzato, fece chiamare il Griso.
"Cose grosse", disse tra sé il servitore a cui fu dato l'ordine;
perché l'uomo che aveva quel soprannome, non era niente meno che il capo de'
bravi, quello a cui s'imponevano le imprese più rischiose e più inique, il
fidatissimo del padrone, l'uomo tutto suo, per gratitudine e per interesse.
Dopo aver ammazzato uno, di giorno, in piazza, era andato ad implorar la
protezione di don Rodrigo; e questo, vestendolo della sua livrea, l'aveva messo
al coperto da ogni ricerca della giustizia. Cosi, impegnandosi a ogni delitto
che gli venisse comandato, colui si era assicurata l'impunità del primo. Per
don Rodrigo, l'acquisto non era stato di poca importanza; perché il Griso,
oltre all'essere, senza paragone, il più valente della famiglia, era anche una
prova di ciò che il suo padrone aveva potuto attentar felicemente contro le
leggi; di modo che la sua potenza ne veniva ingrandita, nel fatto e
nell'opinione.
-
Griso! - disse don Rodrigo: - in questa congiuntura, si vedrà quel che tu vali.
Prima di domani, quella Lucia deve trovarsi in questo palazzo.
- Non
si dirà mai che il Griso si sia ritirato da un comando dell'illustrissimo
signor padrone.
-
Piglia quanti uomini ti possono bisognare, ordina e disponi, come ti par
meglio; purché la cosa riesca a buon fine. Ma bada sopra tutto, che non le sia
fatto male.
-
Signore, un po' di spavento, perché la non faccia troppo strepito... non si
potrà far di meno.
-
Spavento... capisco... è inevitabile. Ma non le si torca un capello; e sopra
tutto, le si porti rispetto in ogni maniera. Hai inteso?
-
Signore, non si può levare un fiore dalla pianta, e portarlo a vossignoria,
senza toccarlo. Ma non si farà che il puro necessario.
- Sotto
la tua sicurtà. E... come farai?
- Ci
stavo pensando, signore. Siam fortunati che la casa è in fondo al paese. Abbiam
bisogno d'un luogo per andarci a postare. e appunto c'è, poco distante di là,
quel casolare disabitato e solo, in mezzo ai campi, quella casa... vossignoria
non saprà niente di queste cose... una casa che bruciò, pochi anni sono, e non
hanno avuto danari da riattarla, e l'hanno abbandonata, e ora ci vanno le
streghe: ma non è sabato, e me ne rido. Questi villani, che son pieni d'ubbie,
non ci bazzicherebbero, in nessuna notte della settimana, per tutto l'oro del
mondo: sicché possiamo andare a fermarci là, con sicurezza che nessuno verrà a
guastare i fatti nostri.
- Va
bene; e poi?
Qui, il
Griso a proporre, don Rodrigo a discutere, finché d'accordo ebbero concertata
la maniera di condurre a fine l'impresa, senza che rimanesse traccia degli
autori, la maniera anche di rivolgere, con falsi indizi, i sospetti altrove,
d'impor silenzio alla povera Agnese, d'incutere a Renzo tale spavento, da
fargli passare il dolore, e il pensiero di ricorrere alla giustizia, e anche la
volontà di lagnarsi; e tutte l'altre bricconerie necessarie alla riuscita della
bricconeria principale. Noi tralasciamo di riferir que' concerti, perché, come
il lettore vedrà, non son necessari all'intelligenza della storia; e siam
contenti anche noi di non doverlo trattener più lungamente a sentir
parlamentare que' due fastidiosi ribaldi. Basta che, mentre il Griso se
n'andava, per metter mano all'esecuzione, don Rodrigo lo richiamò, e gli disse:
- senti: se per caso, quel tanghero temerario vi desse nell'unghie questa sera,
non sarà male che gli sia dato anticipatamente un buon ricordo sulle spalle.
Così, l'ordine che gli verrà intimato domani di stare zitto, farà più
sicuramente l'effetto. Ma non l'andate a cercare, per non guastare quello che
più importa: tu m'hai inteso.
- Lasci
fare a me, - rispose il Griso, inchinandosi, con un atto d'ossequio e di
millanteria; e se n'andò. La mattina fu spesa in giri, per riconoscere il
paese. Quel falso pezzente che s'era inoltrato a quel modo nella povera
casetta, non era altro che il Griso, il quale veniva per levarne a occhio la
pianta: i falsi viandanti eran suoi ribaldi, ai quali, per operare sotto i suoi
ordini, bastava una cognizione più superficiale del luogo. E, fatta la
scoperta, non s'eran più lasciati vedere, per non dar troppo sospetto.
Tornati
che furon tutti al palazzotto, il Griso rese conto, e fissò definitivamente il
disegno dell'impresa; assegnò le parti, diede istruzioni. Tutto ciò non si poté
fare, senza che quel vecchio servitore, il quale stava a occhi aperti, e a
orecchi tesi, s'accorgesse che qualche gran cosa si macchinava. A forza di
stare attento e di domandare; accattando una mezza notizia di qua, una mezza di
là, commentando tra sé una parola oscura, interpretando un andare misterioso,
tanto fece, che venne in chiaro di ciò che si doveva eseguir quella notte. Ma
quando ci fu riuscito, essa era già poco lontana, e già una piccola vanguardia
di bravi era andata a imboscarsi in quel casolare diroccato. Il povero vecchio,
quantunque sentisse bene a che rischioso giuoco giocava, e avesse anche paura
di portare il soccorso di Pisa, pure non volle mancare: uscì, con la scusa di
prendere un po' d'aria, e s'incamminò in fretta in fretta al convento, per dare
al padre Cristoforo l'avviso promesso. Poco dopo, si mossero gli altri bravi, e
discesero spicciolati, per non parere una compagnia: il Griso venne dopo; e non
rimase indietro che una bussola, la quale doveva esser portata al casolare, a
sera inoltrata; come fu fatto. Radunati che furono in quel luogo, il Griso
spedì tre di coloro all'osteria del paesetto; uno che si mettesse sull'uscio, a
osservar ciò che accadesse nella strada, e a veder quando tutti gli abitanti
fossero ritirati: gli altri due che stessero dentro a giocare e a bere, come
dilettanti; e attendessero intanto a spiare, se qualche cosa da spiare ci
fosse. Egli, col grosso della truppa, rimase nell'agguato ad aspettare.
Il
povero vecchio trottava ancora; i tre esploratori arrivavano al loro posto; il
sole cadeva; quando Renzo entrò dalle donne, e disse: - Tonio e Gervaso
m'aspettan fuori: vo con loro all'osteria, a mangiare un boccone; e, quando
sonerà l'ave maria, verremo a prendervi. Su, coraggio, Lucia! tutto dipende da
un momento -. Lucia sospirò, e ripeté: - coraggio, - con una voce che smentiva
la parola.
Quando
Renzo e i due compagni giunsero all'osteria, vi trovaron quel tale già piantato
in sentinella, che ingombrava mezzo il vano della porta, appoggiata con la
schiena a uno stipite, con le braccia incrociate sul petto; e guardava e
riguardava, a destra e a sinistra, facendo lampeggiare ora il bianco, ora il
nero di due occhi grifagni. Un berretto piatto di velluto chermisi, messo
storto, gli copriva la metà del ciuffo, che, dividendosi sur una fronte fosca,
girava, da una parte e dall'altra, sotto gli orecchi, e terminava in trecce,
fermate con un pettine sulla nuca. Teneva sospeso in una mano un grosso
randello; arme propriamente, non ne portava in vista; ma, solo a guardargli in
viso, anche un fanciullo avrebbe pensato che doveva averne sotto quante ce ne
poteva stare. Quando Renzo, ch'era innanzi agli altri, fu lì per entrare,
colui, senza scomodarsi, lo guardò fisso fisso; ma il giovine, intento a
schivare ogni questione, come suole ognuno che abbia un'impresa scabrosa alle
mani, non fece vista d'accorgersene, non disse neppure: fatevi in là; e,
rasentando l'altro stipite, passò per isbieco, col fianco innanzi, per
l'apertura lasciata da quella cariatide. I due compagni dovettero far la stessa
evoluzione, se vollero entrare. Entrati, videro gli altri, de' quali avevan già
sentita la voce, cioè que' due bravacci, che seduti a un canto della tavola,
giocavano alla mora, gridando tutt'e due insieme (lì, è il giuoco che lo richiede),
e mescendosi or l'uno or l'altro da bere, con un gran fiasco ch'era tra loro.
Questi pure guardaron fisso la nuova compagnia; e un de' due specialmente,
tenendo una mano in aria, con tre ditacci tesi e allargati, e avendo la bocca
ancora aperta, per un gran "sei" che n'era scoppiato fuori in quel
momento, squadrò Renzo da capo a piedi; poi diede d'occhio al compagno, poi a
quel dell'uscio, che rispose con un cenno del capo. Renzo insospettito e
incerto guardava ai suoi due convitati, come se volesse cercare ne' loro
aspetti un'interpretazione di tutti que' segni: ma i loro aspetti non
indicavano altro che un buon appetito. L'oste guardava in viso a lui, come per
aspettar gli ordini: egli lo fece venir con sé in una stanza vicina, e ordinò
la cena.
- Chi sono
que' forestieri? - gli domandò poi a voce bassa, quando quello tornò, con una
tovaglia grossolana sotto il braccio, e un fiasco in mano.
- Non
li conosco, - rispose l'oste, spiegando la tovaglia.
- Come?
né anche uno?
-
Sapete bene, - rispose ancora colui, stirando, con tutt'e due le mani, la
tovaglia sulla tavola, - che la prima regola del nostro mestiere, è di non
domandare i fatti degli altri: tanto che, fin le nostre donne non son curiose.
Si starebbe freschi, con tanta gente che va e viene: è sempre un porto di mare:
quando le annate son ragionevoli, voglio dire; ma stiamo allegri, che tornerà
il buon tempo. A noi basta che gli avventori siano galantuomini: chi siano poi,
o chi non siano, non fa niente. E ora vi porterò un piatto di polpette, che le
simili non le avete mai mangiate.
- Come
potete sapere...? - ripigliava Renzo; ma l'oste, già avviato alla cucina,
seguitò la sua strada. E lì, mentre prendeva il tegame delle polpette
summentovate, gli s'accostò pian piano quel bravaccio che aveva squadrato il
nostro giovine, e gli disse sottovoce: - Chi sono que' galantuomini?
- Buona
gente qui del paese, - rispose l'oste, scodellando le polpette nel piatto.
- Va
bene; ma come si chiamano? chi sono? - insistette colui, con voce alquanto
sgarbata.
- Uno si
chiama Renzo, - rispose l'oste, pur sottovoce: - un buon giovine, assestato;
filatore di seta, che sa bene il suo mestiere. L'altro è un contadino che ha
nome Tonio: buon camerata, allegro: peccato che n'abbia pochi; che gli
spenderebbe tutti qui. L'altro è un sempliciotto, che mangia però volentieri,
quando gliene danno. Con permesso.
E, con
uno sgambetto, uscì tra il fornello e l'interrogante; e ando a portare il
piatto a chi si doveva. - Come potete sapere, - riattaccò Renzo, quando lo vide
ricomparire, - che siano galantuomini, se non li conoscete?
- Le
azioni, caro mio: l'uomo si conosce all'azioni. Quelli che bevono il vino senza
criticarlo, che pagano il conto senza tirare, che non metton su lite con gli
altri avventori, e se hanno una coltellata da consegnare a uno, lo vanno ad
aspettar fuori, e lontano dall'osteria, tanto che il povero oste non ne vada di
mezzo, quelli sono i galantuomini. Però, se si può conoscer la gente bene, come
ci conosciamo tra noi quattro, è meglio. E che diavolo vi vien voglia di saper
tante cose, quando siete sposo, e dovete aver tutt'altro in testa? e con
davanti quelle polpette, che farebbero resuscitare un morto? - Così dicendo, se
ne tornò in cucina.
Il
nostro autore, osservando al diverso modo che teneva costui nel soddisfare alle
domande, dice ch'era un uomo così fatto, che, in tutti i suoi discorsi, faceva
professione d'esser molto amico de' galantuomini in generale; ma, in atto
pratico, usava molto maggior compiacenza con quelli che avessero riputazione o
sembianza di birboni. Che carattere singolare! eh?
La cena
non fu molto allegra. I due convitati avrebbero voluto godersela con tutto loro
comodo; ma l'invitante, preoccupato di ciò che il lettore sa, e infastidito, e
anche un po' inquieto del contegno strano di quegli sconosciuti, non vedeva
l'ora d'andarsene. Si parlava sottovoce, per causa loro; ed eran parole tronche
e svogliate.
- Che
bella cosa, - scappò fuori di punto in bianco Gervaso, - che Renzo voglia
prender moglie, e abbia bisogno...! - Renzo gli fece un viso brusco. - Vuoi
stare zitto, bestia? - gli disse Tonio, accompagnando il titolo con una
gomitata. La conversazione fu sempre più fredda, fino alla fine. Renzo, stando
indietro nel mangiare, come nel bere, attese a mescere ai due testimoni, con
discrezione, in maniera di dar loro un po' di brio, senza farli uscir di
cervello. Sparecchiato, pagato il conto da colui che aveva fatto men guasto,
dovettero tutti e tre passar novamente davanti a quelle facce, le quali tutte
si voltarono a Renzo, come quand'era entrato. Questo, fatti ch'ebbe pochi passi
fuori dell'osteria, si voltò indietro, e vide che i due che aveva lasciati
seduti in cucina, lo seguitavano: si fermò allora, co' suoi compagni, come se
dicesse: vediamo cosa voglion da me costoro. Ma i due, quando s'accorsero
d'essere osservati, si fermarono anch'essi, si parlaron sottovoce, e tornarono
indietro. Se Renzo fosse stato tanto vicino da sentir le loro parole, gli
sarebbero parse molto strane. - Sarebbe però un bell'onore, senza contar la
mancia, - diceva uno de' malandrini, - se, tornando al palazzo, potessimo
raccontare d'avergli spianate le costole in fretta in fretta, e così da noi,
senza che il signor Griso fosse qui a regolare.
- E
guastare il negozio principale! - rispondeva l'altro. - Ecco: s'è avvisto di
qualche cosa; si ferma a guardarci. Ih! se fosse più tardi! Torniamo indietro,
per non dar sospetto. Vedi che vien gente da tutte le parti: lasciamoli andar
tutti a pollaio.
C'era
in fatti quel brulichìo, quel ronzìo che si sente in un villaggio, sulla sera,
e che, dopo pochi momenti, dà luogo alla quiete solenne della notte. Le donne
venivan dal campo, portandosi in collo i bambini, e tenendo per la mano i
ragazzi più grandini, ai quali facevan dire le divozioni della sera; venivan
gli uomini, con le vanghe, e con le zappe sulle spalle. All'aprirsi degli usci,
si vedevan luccicare qua e là i fuochi accesi per le povere cene: si sentiva
nella strada barattare i saluti, e qualche parola, sulla scarsità della
raccolta, e sulla miseria dell'annata; e più delle parole, si sentivano i
tocchi misurati e sonori della campana, che annunziava il finir del giorno.
Quando Renzo vide che i due indiscreti s'eran ritirati, continuò la sua strada
nelle tenebre crescenti, dando sottovoce ora un ricordo, ora un altro, ora
all'uno, ora all'altro fratello. Arrivarono alla casetta di Lucia, ch'era già
notte.
Tra il
primo pensiero d'una impresa terribile, e l'esecuzione di essa (ha detto un
barbaro che non era privo d'ingegno), l'intervallo è un sogno, pieno di fantasmi
e di paure. Lucia era, da molte ore, nell'angosce d'un tal sogno: e Agnese,
Agnese medesima, l'autrice del consiglio, stava sopra pensiero, e trovava a
stento parole per rincorare la figlia. Ma, al momento di destarsi, al momento
cioè di dar principio all'opera, l'animo si trova tutto trasformato. Al terrore
e al coraggio che vi contrastavano, succede un altro terrore e un altro
coraggio: l'impresa s'affaccia alla mente, come una nuova apparizione: ciò che
prima spaventava di più, sembra talvolta divenuto agevole tutt'a un tratto:
talvolta comparisce grande l'ostacolo a cui s'era appena badato;
l'immaginazione dà indietro sgomentata; le membra par che ricusino d'ubbidire;
e il cuore manca alle promesse che aveva fatte con più sicurezza. Al picchiare
sommesso di Renzo, Lucia fu assalita da tanto terrore, che risolvette, in quel
momento, di soffrire ogni cosa, di star sempre divisa da lui, piùttosto
ch'eseguire quella risoluzione; ma quando si fu fatto vedere, ed ebbe detto: -
son qui, andiamo -; quando tutti si mostraron pronti ad avviarsi, senza
esitazione, come a cosa stabilita, irrevocabile; Lucia non ebbe tempo né forza
di far difficoltà, e, come strascinata, prese tremando un braccio della madre,
un braccio del promesso sposo, e si mosse con la brigata avventuriera.
Zitti
zitti, nelle tenebre, a passo misurato, usciron dalla casetta, e preser la
strada fuori del paese. La più corta sarebbe stata d'attraversarlo: che
s'andava diritto alla casa di don Abbondio; ma scelsero quella, per non esser
visti. Per viottole, tra gli orti e i campi, arrivaron vicino a quella casa, e
lì si divisero. I due promessi rimaser nascosti dietro l'angolo di essa; Agnese
con loro, ma un po' più innanzi, per accorrere in tempo a fermar Perpetua, e a
impadronirsene; Tonio, con lo scempiato di Gervaso, che non sapeva far nulla da
sé, e senza il quale non si poteva far nulla, s'affacciaron bravamente alla
porta, e picchiarono.
- Chi
è, a quest'ora? - gridò una voce dalla finestra, che s'aprì in quel momento:
era la voce di Perpetua. - Ammalati non ce n'è, ch'io sappia. È forse accaduta
qualche disgrazia?
- Son
io, - rispose Tonio, - con mio fratello, che abbiam bisogno di parlare al
signor curato.
- È ora
da cristiani questa? - disse bruscamente Perpetua. - Che discrezione? Tornate domani.
-
Sentite: tornerò o non tornerò: ho riscosso non so che danari, e venivo a
saldar quel debituccio che sapete: aveva qui venticinque belle berlinghe nuove;
ma se non si può, pazienza: questi, so come spenderli, e tornerò quando n'abbia
messi insieme degli altri.
-
Aspettate, aspettate: vo e torno. Ma perché venire a quest'ora?
- Gli
ho ricevuti, anch'io, poco fa; e ho pensato, come vi dico, che, se li tengo a
dormir con me, non so di che parere sarò domattina. Però, se l'ora non vi
piace, non so che dire: per me, son qui; e se non mi volete, me ne vo.
-
No, no, aspettate un momento: torno con la risposta. Così
dicendo, richiuse la finestra. A questo punto, Agnese si staccò dai promessi,
e, detto sottovoce a Lucia: - coraggio; è un momento; è come farsi cavar un
dente, - si riunì ai due fratelli, davanti all'uscio; e si mise a ciarlare con
Tonio, in maniera che Perpetua, venendo ad aprire, dovesse credere che si fosse
abbattuta lì a caso, e che Tonio l'avesse trattenuta un momento.
"Carneade!
Chi era costui?" ruminava tra sé don Abbondio seduto sul suo seggiolone,
in una stanza del piano superiore, con un libricciolo aperto davanti, quando
Perpetua entrò a portargli l'imbasciata. "Carneade! questo nome mi par
bene d'averlo letto o sentito; doveva essere un uomo di studio, un letteratone
del tempo antico: è un nome di quelli; ma chi diavolo era costui?" Tanto
il pover'uomo era lontano da prevedere che burrasca gli si addensasse sul capo!
Bisogna
sapere che don Abbondio si dilettava di leggere un pochino ogni giorno; e un
curato suo vicino, che aveva un po' di libreria, gli prestava un libro dopo
l'altro, il primo che gli veniva alle mani. Quello su cui meditava in quel
momento don Abbondio, convalescente della febbre dello spavento, anzi più guarito
(quanto alla febbre) che non volesse lasciar credere, era un panegirico in
onore di san Carlo, detto con molta enfasi, e udito con molta ammirazione nel
duomo di Milano, due anni prima. Il santo v'era paragonato, per l'amore allo
studio, ad Archimede; e fin qui don Abbondio non trovava inciampo; perché
Archimede ne ha fatte di così curiose, ha fatto dir tanto di sé, che, per
saperne qualche cosa, non c'è bisogno d'un'erudizione molto vasta. Ma, dopo
Archimede, l'oratore chiamava a paragone anche Carneade: e lì il lettore era
rimasto arrenato. In quel momento entrò Perpetua ad annunziar la visita di
Tonio.
- A
quest'ora? - disse anche don Abbondio, com'era naturale.
- Cosa
vuole? Non hanno discrezione: ma se non lo piglia al volo...
- Già:
se non lo piglio ora, chi sa quando lo potrò pigliare! Fatelo venire... Ehi!
ehi! siete poi ben sicura che sia proprio lui?
-
Diavolo! - rispose Perpetua, e scese; aprì l'uscio, e disse: - dove siete? -
Tonio si fece vedere; e, nello stesso tempo, venne avanti anche Agnese, e
salutò Perpetua per nome.
- Buona
sera, Agnese, - disse Perpetua: - di dove si viene, a quest'ora?
- Vengo
da... - e nominò un paesetto vicino. - E se sapeste... - continuò: - mi son
fermata di più, appunto in grazia vostra.
- Oh
perché? - domandò Perpetua; e voltandosi a' due fratelli, - entrate, - disse, -
che vengo anch'io.
-
Perché, - rispose Agnese, - una donna di quelle che non sanno le cose, e
voglion parlare... credereste? s'ostinava a dire che voi non vi siete maritata
con Beppe Suolavecchia, né con Anselmo Lunghigna, perché non v'hanno voluta. Io
sostenevo che siete stata voi che gli avete rifiutati, l'uno e l'altro...
-
Sicuro. Oh la bugiarda! la bugiardona! Chi è costei?
- Non
me lo domandate, che non mi piace metter male.
- Me lo
direte, me l'avete a dire: oh la bugiarda!
-
Basta... ma non potete credere quanto mi sia dispiaciuto di non saper bene
tutta la storia, per confonder colei.
-
Guardate se si può inventare, a questo modo! - esclamò di nuovo Perpetua; e
riprese subito: - in quanto a Beppe, tutti sanno, e hanno potuto vedere... Ehi,
Tonio! accostate l'uscio, e salite pure, che vengo -. Tonio, di dentro, rispose
di sì; e Perpetua continuò la sua narrazione appassionata.
In
faccia all'uscio di don Abbondio, s'apriva, tra due casipole, una stradetta,
che, finite quelle, voltava in un campo. Agnese vi s'avviò, come se volesse
tirarsi alquanto in disparte, per parlar più liberamente; e Perpetua dietro.
Quand'ebbero voltato, e furono in luogo, donde non si poteva più veder ciò che
accadesse davanti alla casa di don Abbondio, Agnese tossì forte. Era il
segnale: Renzo lo sentì, fece coraggio a Lucia, con una stretta di braccio; e
tutt'e due, in punta di piedi, vennero avanti, rasentando il muro, zitti zitti;
arrivarono all'uscio, lo spinsero adagino adagino; cheti e chinati, entraron
nell'andito, dov'erano i due fratelli ad aspettarli. Renzo accostò di nuovo
l'uscio pian piano; e tutt'e quattro su per le scale, non facendo rumore neppur
per uno. Giunti sul pianerottolo, i due fratelli s'avvicinarono all'uscio della
stanza, ch'era di fianco alla scala; gli sposi si strinsero al muro.
- Deo
gratias, - disse Tonio, a voce chiara.
-
Tonio, eh? Entrate, - rispose la voce di dentro. Il chiamato aprì l'uscio,
appena quanto bastava per poter passar lui e il fratello, a un per volta. La
striscia di luce, che uscì d'improvviso per quella apertura, e si disegnò sul
pavimento oscuro del pianerottolo, fece riscoter Lucia, come se fosse scoperta.
Entrati i fratelli, Tonio si tirò dietro l'uscio: gli sposi rimasero immobili
nelle tenebre, con l'orecchie tese, tenendo il fiato: il rumore più forte era
il martellar che faceva il povero cuore di Lucia.
Don
Abbondio stava, come abbiam detto, sur una vecchia seggiola, ravvolto in una
vecchia zimarra, con in capo una vecchia papalina, che gli faceva cornice
intorno alla faccia, al lume scarso d'una piccola lucerna. Due folte ciocche di
capelli, che gli scappavano fuor della papalina, due folti sopraccigli, due
folti baffi, un folto pizzo, tutti canuti, e sparsi su quella faccia bruna e
rugosa, potevano assomigliarsi a cespugli coperti di neve, sporgenti da un
dirupo, al chiaro di luna.
- Ah!
ah! - fu il suo saluto, mentre si levava gli occhiali, e li riponeva nel
libricciolo.
- Dirà
il signor curato, che son venuto tardi, - disse Tonio, inchinandosi, come pure
fece, ma più goffamente, Gervaso.
-
Sicuro ch'è tardi: tardi in tutte le maniere. Lo sapete, che sono ammalato?
- Oh!
mi dispiace.
-
L'avrete sentito dire; sono ammalato, e non so quando potrò lasciarmi vedere...
Ma perché vi siete condotto dietro quel... quel figliuolo?
- Così
per compagnia, signor curato.
-
Basta, vediamo.
- Son
venticinque berlinghe nuove, di quelle col sant'Ambrogio a cavallo, - disse
Tonio, levandosi un involtino di tasca.
-
Vediamo, - replicò don Abbondio: e, preso l'involtino, si rimesse gli occhiali,
l'aprì, cavò le berlinghe, le contò, le voltò, le rivoltò, le trovò senza
difetto.
- Ora,
signor curato, mi darà la collana della mia Tecla.
- È
giusto, - rispose don Abbondio; poi andò a un armadio, si levò una chiave di
tasca, e, guardandosi intorno, come per tener lontani gli spettatori, aprì una
parte di sportello, riempì l'apertura con la persona, mise dentro la testa, per
guardare, e un braccio, per prender la collana; la prese, e, chiuso l'armadio,
la consegnò a Tonio, dicendo: - va bene?
- Ora,
- disse Tonio, - si contenti di mettere un po' di nero sul bianco.
- Anche
questa! - disse don Abbondio: - le sanno tutte. Ih! com'è divenuto sospettoso
il mondo! Non vi fidate di me?
- Come,
signor curato! s'io mi fido? Lei mi fa torto. Ma siccome il mio nome è sul suo
libraccio, dalla parte del debito... dunque, giacché ha già avuto l'incomodo di
scrivere una volta, così... dalla vita alla morte...
- Bene
bene, - interruppe don Abbondio, e brontolando, tirò a sé una cassetta del
tavolino, levò fuori carta, penna e calamaio, e si mise a scrivere, ripetendo a
viva voce le parole, di mano in mano che gli uscivan dalla penna. Frattanto
Tonio e, a un suo cenno, Gervaso, si piantaron ritti davanti al tavolino, in
maniera d'impedire allo scrivente la vista dell'uscio; e, come per ozio,
andavano stropicciando, co' piedi, il pavimento, per dar segno a quei ch'erano
fuori, d'entrare, e per confondere nello stesso tempo il rumore delle loro
pedate. Don Abbondio, immerso nella sua scrittura, non badava ad altro. Allo
stropiccìo de' quattro piedi, Renzo prese un braccio di Lucia, lo strinse, per
darle coraggio, e si mosse, tirandosela dietro tutta tremante, che da sé non vi
sarebbe potuta venire. Entraron pian piano, in punta di piedi, rattenendo il
respiro; e si nascosero dietro i due fratelli. Intanto don Abbondio, finito di
scrivere, rilesse attentamente, senza alzar gli occhi dalla carta; la piegò in
quattro, dicendo: - ora, sarete contento? - e, levatosi con una mano gli
occhiali dal naso, la porse con l'altra a Tonio, alzando il viso. Tonio,
allungando la mano per prender la carta, si ritirò da una parte; Gervaso, a un
suo cenno, dall'altra; e, nel mezzo, come al dividersi d'una scena, apparvero
Renzo e Lucia. Don Abbondio, vide confusamente, poi vide chiaro, si spaventò,
si stupì, s'infuriò, pensò, prese una risoluzione: tutto questo nel tempo che
Renzo mise a proferire le parole: - signor curato, in presenza di questi
testimoni, quest'è mia moglie -. Le sue labbra non erano ancora tornate al
posto, che don Abbondio, lasciando cader la carta, aveva già afferrata e
alzata, con la mancina, la lucerna, ghermito, con la diritta, il tappeto del
tavolino, e tiratolo a sé, con furia, buttando in terra libro, carta, calamaio
e polverino; e, balzando tra la seggiola e il tavolino, s'era avvicinato a
Lucia. La poveretta, con quella sua voce soave, e allora tutta tremante, aveva
appena potuto proferire: - e questo... - che don Abbondio le aveva buttato
sgarbatamente il tappeto sulla testa e sul viso, per impedirle di pronunziare
intera la formola. E subito, lasciata cader la lucerna che teneva nell'altra
mano, s'aiutò anche con quella a imbacuccarla col tappeto, che quasi la
soffogava; e intanto gridava quanto n'aveva in canna: - Perpetua! Perpetua!
tradimento! aiuto! - Il lucignolo, che moriva sul pavimento, mandava una luce
languida e saltellante sopra Lucia, la quale, affatto smarrita, non tentava
neppure di svolgersi, e poteva parere una statua abbozzata in creta, sulla quale
l'artefice ha gettato un umido panno. Cessata ogni luce, don Abbondio lasciò la
poveretta, e andò cercando a tastoni l'uscio che metteva a una stanza più
interna; lo trovò, entrò in quella, si chiuse dentro, gridando tuttavia: -
Perpetua! tradimento! aiuto! fuori di questa casa! fuori di questa casa! -
Nell'altra stanza, tutto era confusione: Renzo, cercando di fermare il curato,
e remando con le mani, come se facesse a mosca cieca, era arrivato all'uscio, e
picchiava, gridando: - apra, apra; non faccia schiamazzo -. Lucia chiamava
Renzo, con voce fioca, e diceva, pregando: - andiamo, andiamo, per l'amor di
Dio -. Tonio, carpone, andava spazzando con le mani il pavimento, per veder di
raccapezzare la sua ricevuta. Gervaso, spiritato, gridava e saltellava,
cercando l'uscio di scala, per uscire a salvamento.
In
mezzo a questo serra serra, non possiam lasciar di fermarci un momento a fare
una riflessione. Renzo, che strepitava di notte in casa altrui, che vi s'era
introdotto di soppiatto, e teneva il padrone stesso assediato in una stanza, ha
tutta l'apparenza d'un oppressore; eppure, alla fin de' fatti, era l'oppresso.
Don Abbondio, sorpreso, messo in fuga, spaventato, mentre attendeva
tranquillamente a' fatti suoi, parrebbe la vittima; eppure, in realtà, era lui
che faceva un sopruso. Così va spesso il mondo... voglio dire, così andava nel
secolo decimo settimo.
L'assediato,
vedendo che il nemico non dava segno di ritirarsi, aprì una finestra che
guardava sulla piazza della chiesa, e si diede a gridare: - aiuto! aiuto! - Era
il più bel chiaro di luna; l'ombra della chiesa, e più in fuori l'ombra lunga
ed acuta del campanile, si stendeva bruna e spiccata sul piano erboso e lucente
della piazza: ogni oggetto si poteva distinguere, quasi come di giorno. Ma, fin
dove arrivava lo sguardo, non appariva indizio di persona vivente. Contiguo
però al muro laterale della chiesa, e appunto dal lato che rispondeva verso la
casa parrocchiale, era un piccolo abituro, un bugigattolo, dove dormiva il
sagrestano. Fu questo riscosso da quel disordinato grido, fece un salto, scese
il letto in furia, aprì l'impannata d'una sua finestrina, mise fuori la testa,
con gli occhi tra' peli, e disse: - cosa c'è?
-
Correte, Ambrogio! aiuto! gente in casa, - gridò verso lui don Abbondio. -
Vengo subito, - rispose quello; tirò indietro la testa, richiuse la sua
impannata, e, quantunque mezzo tra 'l sonno, e più che mezzo sbigottito, trovò
su due piedi un espediente per dar più aiuto di quello che gli si chiedeva,
senza mettersi lui nel tafferuglio, quale si fosse. Dà di piglio alle brache,
che teneva sul letto; se le caccia sotto il braccio, come un cappello di gala,
e giù balzelloni per una scaletta di legno; corre al campanile, afferra la
corda della più grossa di due campanette che c'erano, e suona a martello.
Ton,
ton, ton, ton: i contadini balzano a sedere sul letto; i giovinetti sdraiati
sul fenile, tendon l'orecchio, si rizzano. - Cos'è? Cos'è? Campana a martello!
fuoco? ladri? banditi? - Molte donne consigliano, pregano i mariti, di non
moversi, di lasciar correre gli altri: alcuni s'alzano, e vanno alla finestra:
i poltroni, come se si arrendessero alle preghiere, ritornan sotto: i più
curiosi e più bravi scendono a prender le forche e gli schioppi, per correre al
rumore: altri stanno a vedere.
Ma,
prima che quelli fossero all'ordine, prima anzi che fosser ben desti, il rumore
era giunto agli orecchi d'altre persone che vegliavano, non lontano, ritte e
vestite: i bravi in un luogo, Agnese e Perpetua in un altro. Diremo prima
brevemente ciò che facesser coloro, dal momento in cui gli abbiamo lasciati,
parte nel casolare e parte all'osteria. Questi tre, quando videro tutti gli
usci chiusi e la strada deserta, uscirono in fretta, come se si fossero avvisti
d'aver fatto tardi, e dicendo di voler andar subito a casa; diedero una
giravolta per il paese, per venire in chiaro se tutti eran ritirati- e in
fatti, non incontrarono anima vivente, né sentirono il più piccolo strepito.
Passarono anche, pian piano, davanti alla nostra povera casetta: la più quieta
di tutte, giacché non c'era più nessuno. Andarono allora diviato al casolare, e
fecero la loro relazione al signor Griso. Subito, questo si mise in testa un
cappellaccio, sulle spalle un sanrocchino di tela incerata, sparso di
conchiglie; prese un bordone da pellegrino, disse: - andiamo da bravi: zitti, e
attenti agli ordini -, s'incamminò il primo, gli altri dietro; e, in un
momento, arrivarono alla casetta, per una strada opposta a quella per cui se
n'era allontanata la nostra brigatella, andando anch'essa alla sua spedizione.
Il Griso trattenne la truppa, alcuni passi lontano, andò innanzi solo ad
esplorare, e, visto tutto deserto e tranquillo di fuori fece venire avanti due
di quei tristi, diede loro ordine di scalar adagino il muro che chiudeva il
cortiletto, e, calati dentro, nascondersi in un angolo, dietro un folto fico,
sul quale aveva messo l'occhio, la mattina. Ciò fatto, picchiò pian piano, con
intenzione di dirsi un pellegrino smarrito, che chiedeva ricovero, fino a
giorno. Nessun risponde: ripicchia un po' più forte; nemmeno uno zitto. Allora,
va a chiamare un terzo malandrino, lo fa scendere nel cortiletto, come gli
altri due, con l'ordine di sconficcare adagio il paletto, per aver libero
l'ingresso e la ritirata. Tutto s'eseguisce con gran cautela, e con prospero
successo. Va a chiamar gli altri, li fa entrar con sé, li manda a nascondersi
accanto ai primi; accosta adagio adagio l'uscio di strada, vi posta due
sentinelle di dentro; e va diritto all'uscio del terreno. Picchia anche lì, e
aspetta: e' poteva ben aspettare. Sconficca pian pianissimo anche quell'uscio:
nessuno di dentro dice: chi va là?; nessuno si fa sentire: meglio non può
andare. Avanti dunque : - st -, chiama quei del fico, entra con loro nella
stanza terrena, dove, la mattina, aveva scelleratamente accattato quel pezzo di
pane. Cava fuori esca, pietra, acciarino e zolfanelli, accende un suo
lanternino, entra nell'altra stanza più interna, per accertarsi che nessun ci
sia: non c'è nessuno. Torna indietro, va all'uscio di scala, guarda, porge
l'orecchio: solitudine e silenzio. Lascia due altre sentinelle a terreno, si fa
venir dietro il Grignapoco, ch'era un bravo del contado di Bergamo, il quale
solo doveva minacciare, acchetare, comandare, essere in somma il dicitore, affinché
il suo linguaggio potesse far credere ad Agnese che la spedizione veniva da
quella parte. Con costui al fianco, e gli altri dietro, il Griso sale adagio
adagio, bestemmiando in cuor suo ogni scalino che scricchiolasse, ogni passo di
que' mascalzoni che facesse rumore. Finalmente è in cima. Qui giace la lepre.
Spinge mollemente l'uscio che mette alla prima stanza; l'uscio cede, si fa
spiraglio: vi mette l'occhio; è buio: vi mette l'orecchio, per sentire se
qualcheduno russa, fiata, brulica là dentro; niente. Dunque avanti: si mette la
lanterna davanti al viso, per vedere, senza esser veduto, spalanca l'uscio,
vede un letto; addosso: il letto è fatto e spianato, con la rimboccatura
arrovesciata, e composta sul capezzale. Si stringe nelle spalle, si volta alla
compagnia, accenna loro che va a vedere nell'altra stanza, e che gli vengan
dietro pian piano; entra, fa le stesse cerimonie, trova la stessa cosa. - Che
diavolo è questo? - dice allora: - che qualche cane traditore abbia fatto la
spia? - Si metton tutti, con men cautela, a guardare, a tastare per ogni canto,
buttan sottosopra la casa. Mentre costoro sono in tali faccende, i due che fan
la guardia all'uscio di strada, sentono un calpestìo di passini frettolosi, che
s'avvicinano in fretta; s'immaginano che, chiunque sia, passerà diritto; stan
quieti, e, a buon conto, si mettono all'erta. In fatti, il calpestìo si ferma
appunto all'uscio. Era Menico che veniva di corsa, mandato dal padre Cristoforo
ad avvisar le due donne che, per l'amor del cielo, scappassero subito di casa,
e si rifugiassero al convento, perché... il perché lo sapete. Prende la
maniglia del paletto, per picchiare, e se lo sente tentennare in mano,
schiodato e sconficcato. "Che è questo?" pensa; e spinge l'uscio con
paura: quello s'apre. Menico mette il piede dentro, in gran sospetto, e si
sente a un punto acchiappar per le braccia, e due voci sommesse, a destra e a
sinistra, che dicono, in tono minaccioso: - zitto! o sei morto -. Lui in vece
caccia un urlo: uno di que' malandrini gli mette una mano alla bocca; l'altro
tira fuori un coltellaccio, per fargli paura. Il garzoncello trema come una
foglia, e non tenta neppur di gridare; ma, tutt'a un tratto, in vece di lui, e
con ben altro tono, si fa sentir quel primo tocco di campana così fatto, e
dietro una tempesta di rintocchi in fila. Chi è in difetto è in sospetto, dice
il proverbio milanese: all'uno e all'altro furfante parve di sentire in que'
tocchi il suo nome, cognome e soprannome: lasciano andar le braccia di Menico,
ritirano le loro in furia, spalancan la mano e la bocca, si guardano in viso, e
corrono alla casa, dov'era il grosso della compagnia. Menico, via a gambe per
la strada, alla volta del campanile, dove a buon conto qualcheduno ci doveva
essere. Agli altri furfanti che frugavan la casa, dall'alto al basso, il
terribile tocco fece la stessa impressione: si confondono, si scompigliano,
s'urtano a vicenda: ognuno cerca la strada più corta, per arrivare all'uscio.
Eppure era tutta gente provata e avvezza a mostrare il viso; ma non poterono
star saldi contro un pericolo indeterminato, e che non s'era fatto vedere un
po' da lontano, prima di venir loro addosso. Ci volle tutta la superiorità del
Griso a tenerli insieme, tanto che fosse ritirata e non fuga. Come il cane che
scorta una mandra di porci, corre or qua or là a quei che si sbandano; ne
addenta uno per un orecchio, e lo tira in ischiera; ne spinge un altro col
muso; abbaia a un altro che esce di fila in quel momento; così il pellegrino
acciuffa un di coloro, che già toccava la soglia, e lo strappa indietro; caccia
indietro col bordone uno e un altro che s'avviavan da quella parte: grida agli
altri che corron qua e là, senza saper dove; tanto che li raccozzò tutti nel
mezzo del cortiletto. - Presto, presto! pistole in mano, coltelli in pronto,
tutti insieme; e poi anderemo: così si va. Chi volete che ci tocchi, se stiam
ben insieme, sciocconi? Ma, se ci lasciamo acchiappare a uno a uno, anche i
villani ce ne daranno. Vergogna! Dietro a me, e uniti -. Dopo questa breve
aringa, si mise alla fronte, e uscì il primo. La casa, come abbiam detto, era
in fondo al villaggio; il Griso prese la strada che metteva fuori, e tutti gli
andaron dietro in buon ordine.
Lasciamoli
andare, e torniamo un passo indietro a prendere Agnese e Perpetua, che abbiam
lasciate in una certa stradetta. Agnese aveva procurato d'allontanar l'altra
dalla casa di don Abbondio, il più che fosse possibile; e, fino a un certo
punto, la cosa era andata bene. Ma tutt'a un tratto, la serva s'era ricordata
dell'uscio rimasto aperto, e aveva voluto tornare indietro. Non c'era che
ridire: Agnese, per non farle nascere qualche sospetto, aveva dovuto voltar con
lei, e andarle dietro, cercando di trattenerla, ogni volta che la vedesse
riscaldata ben bene nel racconto di que' tali matrimoni andati a monte.
Mostrava di darle molta udienza, e, ogni tanto, per far vedere che stava
attenta, o per ravviare il cicalìo, diceva: - sicuro: adesso capisco: va
benissimo: è chiara: e poi? e lui? e voi? - Ma intanto, faceva un altro discorso
con sé stessa. "Saranno usciti a quest'ora? o saranno ancor dentro? Che
sciocchi che siamo stati tutt'e tre, a non concertar qualche segnale, per
avvisarmi, quando la cosa fosse riuscita! È stata proprio grossa! Ma è fatta:
ora non c'è altro che tener costei a bada, più che posso: alla peggio, sarà un
po' di tempo perduto". Così, a corserelle e a fermatine, eran tornate poco
distante dalla casa di don Abbondio, la quale però non vedevano, per ragione di
quella cantonata: e Perpetua, trovandosi a un punto importante del racconto,
s'era lasciata fermare senza far resistenza, anzi senza avvedersene; quando,
tutt'a un tratto, si sentì venir rimbombando dall'alto, nel vano immoto
dell'aria, per l'ampio silenzio della notte, quel primo sgangherato grido di don
Abbondio: - aiuto! aiuto!
-
Misericordia! cos'è stato? - gridò Perpetua, e volle correre.
- Cosa
c'è? cosa c'è? - disse Agnese, tenendola per la sottana.
-
Misericordia! non avete sentito? - replicò quella, svincolandosi.
- Cosa
c'è? cosa c'è? - ripeté Agnese, afferrandola per un braccio.
-
Diavolo d'una donna! - esclamò Perpetua, rispingendola, per mettersi in
libertà; e prese la rincorsa. Quando, più lontano, più acuto, più istantaneo,
si sente l'urlo di Menico.
-
Misericordia! - grida anche Agnese; e di galoppo dietro l'altra. Avevan quasi
appena alzati i calcagni, quando scoccò la campana: un tocco, e due, e tre, e
seguita: sarebbero stati sproni, se quelle ne avessero avuto bisogno. Perpetua
arriva, un momento prima dell'altra; mentre vuole spinger l'uscio, l'uscio si
spalanca di dentro, e sulla soglia compariscono Tonio, Gervaso, Renzo, Lucia,
che, trovata la scala, eran venuti giù saltelloni; e, sentendo poi quel
terribile scampanìo, correvano in furia, a mettersi in salvo.
- Cosa
c'è? cosa c'è? - domandò Perpetua ansante ai fratelli, che le risposero con un
urtone, e scantonarono. - E voi! come! che fate qui voi? - domandò poscia
all'altra coppia, quando l'ebbe raffigurata. Ma quelli pure usciron senza
rispondere. Perpetua, per accorrere dove il bisogno era maggiore, non domandò
altro, entrò in fretta nell'andito, e corse, come poteva al buio, verso la
scala. I due sposi rimasti promessi si trovarono in faccia Agnese, che arrivava
tutt'affannata. - Ah siete qui! - disse questa, cavando fuori la parola a
stento: - com'è andata? cos'è la campana? mi par d'aver sentito...
- A
casa, a casa, - diceva Renzo, - prima che venga gente -. E s avviavano; ma
arriva Menico di corsa, li riconosce, li ferma, e, ancor tutto tremante, con
voce mezza fioca, dice: - dove andate? indietro, indietro! per di qua, al
convento!
- Sei
tu che...? - cominciava Agnese.
- Cosa
c'è d'altro? - domandava Renzo. Lucia, tutta smarrita, taceva e tremava.
- C'è
il diavolo in casa, - riprese Menico ansante. - Gli ho visti io: m'hanno voluto
ammazzare: l'ha detto il padre Cristoforo: e anche voi, Renzo, ha detto che
veniate subito: e poi gli ho visti io: provvidenza che vi trovo qui tutti! vi
dirò poi, quando saremo fuori.
Renzo,
ch'era il più in sé di tutti, pensò che, di qua o di là, conveniva andar
subito, prima che la gente accorresse; e che la più sicura era di far ciò che
Menico consigliava, anzi comandava, con la forza d'uno spaventato. Per istrada
poi, e fuor del pericolo, si potrebbe domandare al ragazzo una spiegazione più
chiara. - Cammina avanti, - gli disse. - Andiam con lui, - disse alle donne.
Voltarono, s'incamminarono in fretta verso la chiesa, attraversaron la piazza,
dove per grazia del eielo, non c'era ancora anima vivente; entrarono in una
stradetta che era tra la chiesa e la casa di don Abbondio; al primo buco che
videro in una siepe, dentro, e via per i campi.
Non
s'eran forse allontanati un cinquanta passi, quando la gente cominciò ad
accorrere sulla piazza, e ingrossava ogni momento. Si guardavano in viso gli
uni con gli altri: ognuno aveva una domanda da fare, nessuno una risposta da
dare. I primi arrivati corsero alla porta della chiesa: era serrata. Corsero al
campanile di fuori; e uno di quelli, messa la bocca a un finestrino, una specie
di feritoia, cacciò dentro un: - che diavolo c'è? - Quando Ambrogio sentì una
voce conosciuta, lasciò andar la corda; e assicurato dal ronzìo, ch'era accorso
molto popolo, rispose: - vengo ad aprire -. Si mise in fretta l'arnese che
aveva portato sotto il braccio, venne, dalla parte di dentro, alla porta della
chiesa, e l'aprì.
- Cos'è
tutto questo fracasso? - Cos'è? - Dov'è? - Chi è?
- Come,
chi è? - disse Ambrogio, tenendo con una mano un battente della porta, e, con
l'altra, il lembo di quel tale arnese, che s'era messo così in fretta: - come!
non lo sapete? gente in casa del signor curato. Animo, figliuoli: aiuto -. Si
voltan tutti a quella casa, vi s'avvicinano in folla, guardano in su, stanno in
orecchi: tutto quieto. Altri corrono dalla parte dove c'era l'uscio: è chiuso,
e non par che sia stato toccato. Guardano in su anche loro: non c'è una
finestra aperta: non si sente uno zitto.
- Chi è
là dentro? - Ohe, ohe! - Signor curato! - Signor curato!
Don
Abbondio, il quale, appena accortosi della fuga degl'invasori, s'era ritirato
dalla finestra, e l'aveva richiusa, e che in questo momento stava a bisticciar
sottovoce con Perpetua, che l'aveva lasciato solo in quell'imbroglio, dovette,
quando si sentì chiamare a voce di popolo, venir di nuovo alla finestra; e
visto quel gran soccorso, si pentì d'averlo chiesto.
- Cos'è
stato? - Che le hanno fatto? - Chi sono costoro? - Dove sono? - gli veniva
gridato da cinquanta voci a un tratto.
- Non
c'è più nessuno: vi ringrazio: tornate pure a casa.
- Ma
chi è stato? - Dove sono andati? - Che è accaduto?
-
Cattiva gente, gente che gira di notte; ma sono fuggiti: tornate a casa; non
c'è più niente: un'altra volta, figliuoli: vi ringrazio del vostro buon cuore
-. E, detto questo, si ritirò, e chiuse la finestra. Qui alcuni cominciarono a
brontolare, altri a canzonare, altri a sagrare; altri si stringevan nelle
spalle, e se n'andavano: quando arriva uno tutto trafelato, che stentava a
formar le parole. Stava costui di casa quasi dirimpetto alle nostre donne, ed
essendosi, al rumore, affacciato alla finestra, aveva veduto nel cortiletto
quello scompiglio de' bravi, quando il Griso s'affannava a raccoglierli.
Quand'ebbe ripreso fiato, gridò: - che fate qui, figliuoli? non è qui il
diavolo; è giù in fondo alla strada, alla casa d'Agnese Mondella: gente armata;
son dentro; par che vogliano ammazzare un pellegrino; chi sa che diavolo c'è!
- Che?
- Che? - Che? - E comincia una consulta tumultuosa. - Bisogna andare. - Bisogna
vedere. - Quanti sono? - Quanti siamo? - Chi sono? - Il console! il console!
- Son
qui, - risponde il console, di mezzo alla folla: - son qui; ma bisogna
aiutarmi, bisogna ubbidire. Presto: dov'è il sagrestano? Alla campana, alla
campana. Presto: uno che corra a Lecco a cercar soccorso: venite qui tutti...
Chi
accorre, chi sguizza tra uomo e uomo, e se la batte; il tumulto era grande,
quando arriva un altro, che gli aveva veduti partire in fretta, e grida: -
correte, figliuoli: ladri, o banditi che scappano con un pellegrino: son già
fuori del paese: addosso! addosso! - A quest'avviso, senza aspettar gli ordini
del capitano, si movono in massa, e giù alla rinfusa per la strada; di mano in
mano che l'esercito s'avanza, qualcheduno di quei della vanguardia rallenta il
passo, si lascia sopravanzare, e si ficca nel corpo della battaglia: gli ultimi
spingono innanzi: lo sciame confuso giunge finalmente al luogo indicato. Le
tracce dell'invasione eran fresche e manifeste: l'uscio spalancato, la
serratura sconficcata; ma gl'invasori erano spariti. S'entra nel cortile; si va
all'uscio del terreno: aperto e sconficcato anche quello: si chiama: - Agnese!
Lucia! Il pellegrino! Dov'è il pellegrino? L'avrà sognato Stefano, il
pellegrino. - No, no: l'ha visto anche Carlandrea. Ohe, pellegrino! - Agnese!
Lucia! - Nessuno risponde. - Le hanno portate via! Le hanno portate via! - Ci
fu allora di quelli che, alzando la voce, proposero d'inseguire i rapitori: che
era un'infamità; e sarebbe una vergogna per il paese, se ogni birbone potesse a
man salva venire a portar via le donne, come il nibbio i pulcini da un'aia deserta.
Nuova consulta e più tumultuosa: ma uno (e non si seppe mai bene chi fosse
stato) gettò nella brigata una voce, che Agnese e Lucia s'eran messe in salvo
in una casa. La voce corse rapidamente, ottenne credenza; non si parlò più di
dar la caccia ai fuggitivi; e la brigata si sparpagliò, andando ognuno a casa
sua. Era un bisbiglio, uno strepito, un picchiare e un aprir d'usci, un
apparire e uno sparir di lucerne, un interrogare di donne dalle finestre, un
rispondere dalla strada. Tornata questa deserta e silenziosa, i discorsi
continuaron nelle case, e moriron negli sbadigli, per ricominciar poi la
mattina. Fatti però, non ce ne fu altri; se non che, quella medesima mattina,
il console, stando nel suo campo, col mento in una mano, e il gomito appoggiato
sul manico della vanga mezza ficcata nel terreno, e con un piede sul vangile;
stando, dico, a speculare tra sé sui misteri della notte passata, e sulla
ragion composta di ciò che gli toccase a fare, e di ciò che gli convenisse
fare, vide venirsi incontro due uomini d'assai gagliarda presenza, chiomati
come due re de' Franchi della prima razza, e somigliantissimi nel resto a que'
due che cinque giorni prima avevano affrontato don Abbondio, se pur non eran
que' medesimi. Costoro, con un fare ancor men cerimonioso, intimarono al
console che guardasse bene di non far deposizione al podestà dell'accaduto, di
non rispondere il vero, caso che ne venisse interrogato, di non ciarlare, di
non fomentar le ciarle de' villani, per quanto aveva cara la speranza di morir
di malattia.
I
nostri fuggiaschi camminarono un pezzo di buon trotto, in silenzio, voltandosi,
ora l'uno ora l'altro, a guardare se nessuno gl'inseguiva, tutti in affanno per
la fatica della fuga, per il batticuore e per la sospensione in cui erano
stati, per il dolore della cattiva riuscita, per l'apprensione confusa del
nuovo oscuro pericolo. E ancor più in affanno li teneva l'incalzare continuo di
que' rintocchi, i quali, quanto, per l'allontanarsi, venivan più fiochi e
ottusi, tanto pareva che prendessero un non so che di più lugubre e sinistro.
Finalmente cessarono. I fuggiaschi allora, trovandosi in un campo disabitato, e
non sentendo un alito all'intorno, rallentarono il passo; e fu la prima Agnese
che, ripreso fiato, ruppe il silenzio, domandando a Renzo com'era andata,
domandando a Menico cosa fosse quel diavolo in casa. Renzo raccontò brevemente
la sua trista storia; e tutt'e tre si voltarono al fanciullo, il quale riferì
più espressamente l'avviso del padre, e raccontò quello ch'egli stesso aveva veduto
e rischiato, e che pur troppo confermava l'avviso. Gli ascoltatori compresero
più di quel che Menico avesse saputo dire: a quella scoperta, si sentiron
rabbrividire; si fermaron tutt'e tre a un tratto, si guardarono in viso l'un
con l'altro, spaventati; e subito, con un movimento unanime, tutt'e tre posero
una mano, chi sul capo, chi sulle spalle del ragazzo, come per accarezzarlo,
per ringraziarlo tacitamente che fosse stato per loro un angelo tutelare, per
dimostrargli la compassione che sentivano dell'angoscia da lui sofferta, e del
pericolo corso per la loro salvezza; e quasi per chiedergliene scusa. - Ora
torna a casa, perché i tuoi non abbiano a star più in pena per te, - gli disse
Agnese; e rammentandosi delle due parpagliole promesse, se ne levò quattro di
tasca, e gliele diede, aggiungendo: - basta; prega il Signore che ci rivediamo
presto: e allora... - Renzo gli diede una berlinga nuova, e gli raccomandò
molto di non dir nulla della commissione avuta dal frate; Lucia l'accarezzò di
nuovo, lo salutò con voce accorata; il ragazzo li salutò tutti, intenerito; e
tornò indietro. Quelli ripresero la loro strada, tutti pensierosi; le donne
innanzi, e Renzo dietro, come per guardia. Lucia stava stretta al braccio della
madre, e scansava dolcemente, e con destrezza, l'aiuto che il giovine le
offriva ne' passi malagevoli di quel viaggio fuor di strada; vergognosa in sé,
anche in un tale turbamento, d'esser già stata tanto sola con lui, e tanto
famigliarmente, quando s'aspettava di divenir sua moglie, tra pochi momenti.
Ora, svanito così dolorosamente quel sogno, si pentiva d'essere andata troppo
avanti, e, tra tante cagioni di tremare, tremava anche per quel pudore che non
nasce dalla trista scienza del male, per quel pudore che ignora se stesso,
somigliante alla paura del fanciullo, che trema nelle tenebre, senza saper di
che.
- E la
casa? - disse a un tratto Agnese. Ma, per quanto la domanda fosse importante,
nessuno rispose, perché nessuno poteva darle una risposta soddisfacente.
Continuarono in silenzio la loro strada, e poco dopo, sboccarono finalmente
sulla piazzetta davanti alla chiesa del convento.
Renzo
s'affacciò alla porta, e la sospinse bel bello. La porta di fatto s'aprì; e la
luna, entrando per lo spiraglio, illuminò la faccia pallida, e la barba
d'argento del padre Cristoforo, che stava quivi ritto in aspettativa. Visto che
non ci mancava nessuno, - Dio sia benedetto! - disse, e fece lor cenno
ch'entrassero. Accanto a lui, stava un altro cappuccino; ed era il laico
sagrestano, ch'egli, con preghiere e con ragioni, aveva persuaso a vegliar con
lui, a lasciar socchiusa la porta, e a starci in sentinella, per accogliere
que' poveri minacciati: e non si richiedeva meno dell'autorità del padre, della
sua fama di santo, per ottener dal laico una condiscendenza incomoda,
pericolosa e irregolare. Entrati che furono, il padre Cristoforo riaccostò la
porta adagio adagio. Allora il sagrestano non poté più reggere, e, chiamato il
padre da una parte, gli andava susurrando all'orecchio: - ma padre, padre! di
notte... in chiesa... con donne... chiudere... la regola... ma padre! - E
tentennava la testa. Mentre diceva stentatamente quelle parole, "vedete un
poco!" pensava il padre Cristoforo, "se fosse un masnadiero
inseguito, fra Fazio non gli farebbe una difficoltà al mondo; e una povera
innocente, che scappa dagli artigli del lupo..." - Omnia munda mundis,
- disse poi, voltandosi tutt'a un tratto a fra Fazio, e dimenticando che questo
non intendeva il latino. Ma una tale dimenticanza fu appunto quella che fece
l'effetto. Se il padre si fosse messo a questionare con ragioni, a fra Fazio
non sarebber mancate altre ragioni da opporre; e sa il cielo quando e come la
cosa sarebbe finita. Ma, al sentir quelle parole gravide d'un senso misterioso,
e proferite così risolutamente, gli parve che in quelle dovesse contenersi la
soluzione di tutti i suoi dubbi. S'acquietò, e disse: - basta! lei ne sa più di
me.
-
Fidatevi pure, - rispose il padre Cristoforo; e, all'incerto chiarore della
lampada che ardeva davanti all'altare, s'accostò ai ricoverati, i quali stavano
sospesi aspettando, e disse loro: - figliuoli! ringraziate il Signore, che v'ha
scampati da un gran pericolo. Forse in questo momento...! - E qui si mise a
spiegare ciò che aveva fatto accennare dal piccol messo: giacché non sospettava
ch'essi ne sapesser più di lui, e supponeva che Menico gli avesse trovati
tranquilli in casa, prima che arrivassero i malandrini. Nessuno lo disingannò,
nemmeno Lucia, la quale però sentiva un rimorso segreto d'una tale dissimulazione,
con un tal uomo; ma era la notte degl'imbrogli e de' sotterfugi.
- Dopo
di ciò, - continuò egli, - vedete bene, figliuoli, che ora questo paese non è
sicuro per voi. ' il vostro; ci siete nati; non avete fatto male a nessuno; ma
Dio vuol così. È una prova, figliuoli: sopportatela con pazienza, con fiducia,
senza odio, e siate sicuri che verrà un tempo in cui vi troverete contenti di
ciò che ora accade. Io ho pensato a trovarvi un rifugio, per questi primi
momenti. Presto, io spero, potrete ritornar sicuri a casa vostra; a ogni modo,
Dio vi provvederà, per il vostro meglio; e io certo mi studierò di non mancare
alla grazia che mi fa, scegliendomi per suo ministro, nel servizio di voi suoi
poveri cari tribolati. Voi, - continuò volgendosi alle due donne, - potrete
fermarvi a ***. Là sarete abbastanza fuori d'ogni pericolo, e, nello stesso
tempo, non troppo lontane da casa vostra. Cercate del nostro convento, fate
chiamare il padre guardiano, dategli questa lettera: sarà per voi un altro fra
Cristoforo. E anche tu, il mio Renzo, anche tu devi metterti, per ora, in salvo
dalla rabbia degli altri, e dalla tua. Porta questa lettera al padre
Bonaventura da Lodi, nel nostro convento di Porta Orientale in Milano. Egli ti
farà da padre, ti guiderà, ti troverà del lavoro, per fin che tu non possa
tornare a viver qui tranquillamente. Andate alla riva del lago, vicino allo
sbocco del Bione -. È un torrente a pochi passi da Pescarenico. - Lì vedrete un
battello fermo; direte: barca; vi sarà domandato per chi; risponderete: san
Francesco. La barca vi riceverà, vi trasporterà all'altra riva, dove troverete
un baroccio che vi condurrà addirittura fino a ***.
Chi
domandasse come fra Cristoforo avesse così subito a sua disposizione que' mezzi
di trasporto, per acqua e per terra, farebbe vedere di non conoscere qual fosse
il potere d'un cappuccino tenuto in concetto di santo.
Restava
da pensare alla custodia delle case. Il padre ne ricevette le chiavi,
incaricandosi di consegnarle a quelli che Renzo e Agnese gl'indicarono. Quest'ultima,
levandosi di tasca la sua, mise un gran sospiro, pensando che, in quel momento,
la casa era aperta, che c'era stato il diavolo, e chi sa cosa ci rimaneva da
custodire!
- Prima
che partiate, - disse il padre, - preghiamo tutti insieme il Signore, perché
sia con voi, in codesto viaggio, e sempre; e sopra tutto vi dia forza, vi dia
amore di volere ciò ch'Egli ha voluto -. Così dicendo s'inginocchiò nel mezzo
della chiesa; e tutti fecer lo stesso. Dopo ch'ebbero pregato, alcuni momenti,
in silenzio, il padre, con voce sommessa, ma distinta, articolò queste parole:
- noi vi preghiamo ancora per quel poveretto che ci ha condotti a questo passo.
Noi saremmo indegni della vostra misericordia, se non ve la chiedessimo di
cuore per lui; ne ha tanto bisogno! Noi, nella nostra tribolazione, abbiamo
questo conforto, che siamo nella strada dove ci avete messi Voi: possiamo
offrirvi i nostri guai; e diventano un guadagno. Ma lui!... è vostro nemico. Oh
disgraziato! compete con Voi! Abbiate pietà di lui, o Signore, toccategli il
cuore, rendetelo vostro amico, concedetegli tutti i beni che noi possiamo
desiderare a noi stessi.
Alzatosi
poi, come in fretta, disse: - via, figliuoli, non c'è tempo da perdere: Dio vi
guardi, il suo angelo v'accompagni: andate -. E mentre s'avviavano, con quella
commozione che non trova parole, e che si manifesta senza di esse, il padre
soggiunse, con voce alterata: - il cuor mi dice che ci rivedremo presto.
Certo,
il cuore, chi gli dà retta, ha sempre qualche cosa da dire su quello che sarà.
Ma che sa il cuore? Appena un poco di quello che è già accaduto.
Senza
aspettar risposta, fra Cristoforo, andò verso la sagrestia; i viaggiatori
usciron di chiesa; e fra Fazio chiuse la porta, dando loro un addio, con la
voce alterata anche lui. Essi s'avviarono zitti zitti alla rivá ch'era stata
loro indicata; videro il battello pronto, e data e barattata la parola,
c'entrarono. Il barcaiolo, puntando un remo alla proda, se ne staccò; afferrato
poi l'altro remo, e vogando a due braccia, prese il largo, verso la spiaggia
opposta. Non tirava un alito di vento; il lago giaceva liscio e piano, e
sarebbe parso immobile, se non fosse stato il tremolare e l'ondeggiar leggiero
della luna, che vi si specchiava da mezzo il cielo. S'udiva soltanto il fiotto
morto e lento frangersi sulle ghiaie del lido, il gorgoglìo più lontano
dell'acqua rotta tra le pile del ponte, e il tonfo misurato di que' due remi,
che tagliavano la superficie azzurra del lago, uscivano a un colpo grondanti, e
si rituffavano. L'onda segata dalla barca, riunendosi dietro la poppa, segnava
una striscia increspata, che s'andava allontanando dal lido. I passeggieri
silenziosi, con la testa voltata indietro, guardavano i monti, e il paese
rischiarato dalla luna, e variato qua e là di grand'ombre. Si distinguevano i
villaggi, le case, le capanne: il palazzotto di don Rodrigo, con la sua torre
piatta, elevato sopra le casucce ammucchiate alla falda del promontorio, pareva
un feroce che, ritto nelle tenebre, in mezzo a una compagnia d'addormentati, vegliasse,
meditando un delitto. Lucia lo vide, e rabbrividì; scese con l'occhio giù giù
per la china, fino al suo paesello, guardò fisso all'estremità, scoprì la sua
casetta, scoprì la chioma folta del fico che sopravanzava il muro del cortile,
scoprì la finestra della sua camera; e, seduta, com'era, nel fondo della barca,
posò il braccio sulla sponda, posò sul braccio la fronte, come per dormire, e
pianse segretamente.
Addio,
monti sorgenti dall'acque, ed elevati al cielo; cime inuguali, note a chi è
cresciuto tra voi, e impresse nella sua mente, non meno che lo sia l'aspetto
de' suoi più familiari; torrenti, de' quali distingue lo scroscio, come il
suono delle voci domestiche; ville sparse e biancheggianti sul pendìo, come
branchi di pecore pascenti; addio! Quanto è tristo il passo di chi, cresciuto
tra voi, se ne allontana! Alla fantasia di quello stesso che se ne parte
volontariamente, tratto dalla speranza di fare altrove fortuna, si
disabbelliscono, in quel momento, i sogni della ricchezza; egli si maraviglia
d'essersi potuto risolvere, e tornerebbe allora indietro, se non pensasse che,
un giorno, tornerà dovizioso. Quanto più si avanza nel piano, il suo occhio si
ritira, disgustato e stanco, da quell'ampiezza uniforme; l'aria gli par gravosa
e morta; s'inoltra mesto e disattento nelle città tumultuose; le case aggiunte
a case, le strade che sboccano nelle strade, pare che gli levino il respiro; e
davanti agli edifizi ammirati dallo straniero, pensa, con desiderio inquieto,
al campicello del suo paese, alla casuccia a cui ha già messo gli occhi
addosso, da gran tempo, e che comprerà, tornando ricco a' suoi monti.
Ma chi
non aveva mai spinto al di là di quelli neppure un desiderio fuggitivo, chi
aveva composti in essi tutti i disegni dell'avvenire, e n'è sbalzato lontano,
da una forza perversa! Chi, staccato a un tempo dalle più care abitudini, e
disturbato nelle più care speranze, lascia que' monti, per avviarsi in traccia
di sconosciuti che non ha mai desiderato di conoscere, e non può con
l'immaginazione arrivare a un momento stabilito per il ritorno! Addio, casa
natìa, dove, sedendo, con un pensiero occulto, s'imparò a distinguere dal
rumore de' passi comuni il rumore d'un passo aspettato con un misterioso
timore. Addio, casa ancora straniera, casa sogguardata tante volte alla
sfuggita, passando, e non senza rossore; nella quale la mente si figurava un
soggiorno tranquillo e perpetuo di sposa. Addio, chiesa, dove l'animo tornò
tante volte sereno, cantando le lodi del Signore; dov'era promesso, preparato
un rito; dove il sospiro segreto del cuore doveva essere solennemente
benedetto, e l'amore venir comandato, e chiamarsi santo; addio! Chi dava a voi
tanta giocondità è per tutto; e non turba mai la gioia de' suoi figli, se non
per prepararne loro una più certa e più grande.
Di tal
genere, se non tali appunto, erano i pensieri di Lucia, e poco diversi i
pensieri degli altri due pellegrini, mentre la barca gli andava avvicinando
alla riva destra dell'Adda.
L'urtar
che fece la barca contro la proda, scosse Lucia, la quale, dopo aver asciugate
in segreto le lacrime, alzò la testa, come se si svegliasse. Renzo uscì il
primo, e diede la mano ad Agnese, la quale, uscita pure, la diede alla figlia;
e tutt'e tre resero tristamente grazie al barcaiolo. - Di che cosa? - rispose
quello: - siam quaggiù per aiutarci l'uno con l'altro, - e ritirò la mano,
quasi con ribrezzo, come se gli fosse proposto di rubare, allorché Renzo cercò
di farvi sdrucciolare una parte de' quattrinelli che si trovava indosso, e che
aveva presi quella sera, con intenzione di regalar generosamente don Abbondio,
quando questo l'avesse, suo malgrado, servito. Il baroccio era lì pronto; il
conduttore salutò i tre aspettati, li fece salire, diede una voce alla bestia,
una frustata, e via.
Il nostro
autore non descrive quel viaggio notturno, tace il nome del paese dove fra
Cristoforo aveva indirizzate le due donne; anzi protesta espressamente di non
lo voler dire. Dal progresso della storia si rileva poi la cagione di queste
reticenze. Le avventure di Lucia in quel soggiorno, si trovano avviluppate in
un intrigo tenebroso di persona appartenente a una famiglia, come pare, molto
potente, al tempo che l'autore scriveva. Per render ragione della strana
condotta di quella persona, nel caso particolare, egli ha poi anche dovuto
raccontarne in succinto la vita antecedente; e la famiglia ci fa quella figura
che vedrà chi vorrà leggere. Ma ciò che la circospezione del pover'uomo ci ha
voluto sottrarre, le nostre diligenze ce l'hanno fatto trovare in altra parte.
Uno storico milanese (Josephi Ripamontii, Historiae Patriae, Decadis V, Lib.
VI, Cap. III, pag. 358 et seq.) che ha avuto a far menzione di quella persona
medesima, non nomina, è vero, né lei, né il paese; ma di questo dice ch'era un
borgo antico e nobile, a cui di città non mancava altro che il nome; dice
altrove, che ci passa il Lambro; altrove, che c'è un arciprete. Dal riscontro
di questi dati noi deduciamo che fosse Monza senz'altro. Nel vasto tesoro
dell'induzioni erudite, ce ne potrà ben essere delle più fine, ma delle più
sicure, non crederei. Potremmo anche, sopra congetture molto fondate, dire il
nome della famiglia; ma, sebbene sia estinta da un pezzo, ci par meglio
lasciarlo nella penna, per non metterci a rischio di far torto neppure ai morti,
e per lasciare ai dotti qualche soggetto di ricerca.
I
nostri viaggiatori arrivaron dunque a Monza, poco dopo il levar del sole: il
conduttore entrò in un'osteria, e lì, come pratico del luogo, e conoscente del
padrone, fece assegnar loro una stanza, e ve gli accompagnò. Tra i
ringraziamenti, Renzo tentò pure di fargli ricevere qualche danaro; ma quello,
al pari del barcaiolo, aveva in mira un'altra ricompensa, più lontana, ma più
abbondante: ritirò le mani, anche lui, e, come fuggendo, corse a governare la
sua bestia.
Dopo
una sera quale l'abbiamo descritta, e una notte quale ognuno può immaginarsela,
passata in compagnia di que' pensieri, col sospetto incessante di qualche
incontro spiacevole, al soffio di una brezzolina più che autunnale, e tra le continue
scosse della disagiata vettura, che ridestavano sgarbatamente chi di loro
cominciasse appena a velar l'occhio, non parve vero a tutt'e tre di sedersi sur
una panca che stava ferma, in una stanza, qualunque fosse. Fecero colazione,
come permetteva la penuria de' tempi, e i mezzi scarsi in proporzione de'
contingenti bisogni d'un avvenire incerto, e il poco appetito. A tutt'e tre
passò per la mente il banchetto che, due giorni prima, s'aspettavan di fare; e
ciascuno mise un gran sospiro. Renzo avrebbe voluto fermarsi lì, almeno tutto
quel giorno, veder le donne allogate, render loro i primi servizi; ma il padre
aveva raccomandato a queste di mandarlo subito per la sua strada. Addussero
quindi esse e quegli ordini, e cento altre ragioni; che la gente ciarlerebbe,
che la separazione più ritardata sarebbe più dolorosa, ch'egli potrebbe venir
presto a dar nuove e a sentirne; tanto che si risolvette di partire. Si
concertaron, come poterono, sulla maniera di rivedersi, più presto che fosse
possibile. Lucia non nascose le lacrime; Renzo trattenne a stento le sue, e,
stringendo forte forte la mano a Agnese, disse con voce soffogata: - a
rivederci, - e partì.
Le
donne si sarebber trovate ben impicciate, se non fosse stato quel buon
barocciaio, che aveva ordine di guidarle al convento de' cappuccini, e di dar
loro ogn'altro aiuto che potesse bisognare. S'avviaron dunque con lui a quel
convento; il quale, come ognun sa, era pochi passi distante da Monza. Arrivati
alla porta, il conduttore tirò il campanello, fece chiamare il padre guardiano;
questo venne subito, e ricevette la lettera, sulla soglia.
- Oh!
fra Cristoforo! - disse, riconoscendo il carattere. Il tono della voce e i
movimenti del volto indicavano manifestamente che proferiva il nome d'un
grand'amico. Convien poi dire che il nostro buon Cristoforo avesse, in quella
lettera, raccomandate le donne con molto calore, e riferito il loro caso con
molto sentimento, perché il guardiano, faceva, di tanto in tanto, atti di
sorpresa e d'indegnazione; e, alzando gli occhi dal foglio, li fissava sulle
donne con una certa espressione di pietà e d'interesse. Finito ch'ebbe di
leggere, stette lì alquanto a pensare; poi disse: - non c'è che la signora: se
la signora vuol prendersi quest'impegno...
Tirata
quindi Agnese in disparte, sulla piazza davanti al convento, le fece alcune
interrogazioni, alle quali essa soddisfece; e, tornato verso Lucia, disse a
tutt'e due: - donne mie, io tenterò; e spero di potervi trovare un ricovero più
che sicuro, più che onorato, fin che Dio non v'abbia provvedute in miglior
maniera. Volete venir con me?
Le
donne accennarono rispettosamente di sì; e il frate riprese: - bene; io vi
conduco subito al monastero della signora. State però discoste da me alcuni
passi, perché la gente si diletta di dir male; e Dio sa quante belle
chiacchiere si farebbero, se si vedesse il padre guardiano per la strada, con
una bella giovine... con donne voglio dire.
Così
dicendo, andò avanti. Lucia arrossì; il barocciaio sorrise, guardando Agnese,
la quale non poté tenersi di non fare altrettanto; e tutt'e tre si mossero,
quando il frate si fu avviato; e gli andaron dietro, dieci passi discosto. Le
donne allora domandarono al barocciaio, ciò che non avevano osato al padre
guardiano, chi fosse la signora.
- La
signora, - rispose quello, - è una monaca; ma non è una monaca come l'altre.
Non è che sia la badessa, né la priorache anzi, a quel che dicono, è una delle
più giovani: ma è della costola d'Adamo; e i suoi del tempo antico erano gente
grande, venuta di Spagna, dove son quelli che comandano; e per questo la
chiamano la signora, per dire ch'è una gran signora; e tutto il paese la chiama
con quel nome, perché dicono che in quel monastero non hanno avuto mai una
persona simile; e i suoi d'adesso, laggiù a Milano, contan molto, e son di
quelli che hanno sempre ragione, e in Monza anche di più, perché suo padre,
quantunque non ci stia, è il primo del paese; onde anche lei può far alto e
basso nel monastero; e anche la gente di fuori le porta un gran rispetto; e
quando prende un impegno, le riesce anche di spuntarlo; e perciò, se quel buon
religioso lì, ottiene di mettervi nelle sue mani, e che lei v'accetti, vi posso
dire che sarete sicure come sull'altare.
Quando
fu vicino alla porta del borgo, fiancheggiata allora da un antico torracchione
mezzo rovinato, e da un pezzo di castellaccio, diroccato anch'esso, che forse
dieci de' miei lettori possono ancor rammentarsi d'aver veduto in piedi, il
guardiano si fermò, e si voltò a guardar se gli altri venivano; quindi entrò, e
s'avviò al monastero, dove arrivato, si fermò di nuovo sulla soglia, aspettando
la piccola brigata. Pregò il barocciaio che, tra un par d'ore, tornasse da lui,
a prender la risposta: questo lo promise, e si licenziò dalle donne, che lo
caricaron di ringraziamenti, e di commissioni per il padre Cristoforo. Il
guardiano fece entrare la madre e la figlia nel primo cortile del monastero, le
introdusse nelle camere della fattoressa; e andò solo a chieder la grazia. Dopo
qualche tempo, ricomparve giulivo, a dir loro che venissero avanti con lui; ed
era ora, perché la figlia e la madre non sapevan più come fare a distrigarsi
dall'interrogazioni pressanti della fattoressa. Attraversando un secondo
cortile, diede qualche avvertimento alle donne, sul modo di portarsi con la
signora. - E ben disposta per voi altre, - disse, - e vi può far del bene
quanto vuole. Siate umili e rispettose, rispondete con sincerità alle domande
che le piacerà di farvi, e quando non siete interrogate, lasciate fare a me -.
Entrarono in una stanza terrena, dalla quale si passava nel parlatorio: prima
di mettervi il piede, il guardiano, accennando l'uscio, disse sottovoce alle
donne: - è qui, - come per rammentar loro tutti quegli avvertimenti. Lucia, che
non aveva mai visto un monastero, quando fu nel parlatorio, guardò in giro dove
fosse la signora a cui fare il suo inchino, e, non iscorgendo persona, stava
come incantata; quando, visto il padre e Agnese andar verso un angolo, guardò
da quella parte, e vide una finestra d'una forma singolare, con due grosse e
fitte grate di ferro, distanti l'una dall'altra un palmo; e dietro quelle una
monaca ritta. Il suo aspetto, che poteva dimostrar venticinque anni, faceva a
prima vista un'impressione di bellezza, ma d'una bellezza sbattuta, sfiorita e,
direi quasi, scomposta. Un velo nero, sospeso e stirato orizzontalmente sulla
testa, cadeva dalle due parti, discosto alquanto dal viso; sotto il velo, una
bianchissima benda di lino cingeva, fino al mezzo, una fronte di diversa, ma
non d'inferiore bianchezza; un'altra benda a pieghe circondava il viso, e
terminava sotto il mento in un soggolo, che si stendeva alquanto sul petto, a
coprire lo scollo d'un nero saio. Ma quella fronte si raggrinzava spesso, come
per una contrazione dolorosa; e allora due sopraccigli neri si ravvicinavano,
con un rapido movimento. Due occhi, neri neri anch'essi, si fissavano talora in
viso alle persone, con un'investigazione superba; talora si chinavano in
fretta, come per cercare un nascondiglio; in certi momenti, un attento osservatore
avrebbe argomentato che chiedessero affetto, corrispondenza, pietà; altre volte
avrebbe creduto coglierci la rivelazione istantanea d'un odio inveterato e
compresso, un non so che di minaccioso e di feroce: quando restavano immobili e
fissi senza attenzione, chi ci avrebbe immaginata una svogliatezza orgogliosa,
chi avrebbe potuto sospettarci il travaglio d'un pensiero nascosto, d'una
preoccupazione familiare all'animo, e più forte su quello che gli oggetti
circostanti. Le gote pallidissime scendevano con un contorno delicato e
grazioso, ma alterato e reso mancante da una lenta estenuazione. Le labbra,
quantunque appena tinte d'un roseo sbiadito, pure, spiccavano in quel pallore:
i loro moti erano, come quelli degli occhi, subitanei, vivi, pieni d'espressione
e di mistero. La grandezza ben formata della persona scompariva in un certo
abbandono del portamento, o compariva sfigurata in certe mosse repentine,
irregolari e troppo risolute per una donna, non che per una monaca. Nel vestire
stesso c'era qua e là qualcosa di studiato o di negletto, che annunziava una
monaca singolare: la vita era attillata con una certa cura secolaresca, e dalla
benda usciva sur una tempia una ciocchettina di neri capelli; cosa che
dimostrava o dimenticanza o disprezzo della regola che prescriveva di tenerli
sempre corti, da quando erano stati tagliati, nella cerimonia solenne del
vestimento.
Queste
cose non facevano specie alle due donne, non esercitate a distinguer monaca da
monaca: e il padre guardiano, che non vedeva la signora per la prima volta, era
già avvezzo, come tant'altri, a quel non so che di strano, che appariva nella
sua persona, come nelle sue maniere.
Era
essa, in quel momento, come abbiam detto, ritta vicino alla grata, con una mano
appoggiata languidamente a quella, e le bianchissime dita intrecciate ne' vòti;
e guardava fisso Lucia, che veniva avanti esitando. - Reverenda madre, e
signora illustrissima, - disse il guardiano, a capo basso, e con la mano al
petto: - questa è quella povera giovine, per la quale m'ha fatto sperare la sua
valida protezione; e questa è la madre.
Le due
presentate facevano grand'inchini: la signora accennò loro con la mano, che
bastava, e disse, voltandosi, al padre: - è una fortuna per me il poter fare un
piacere a' nostri buoni amici i padri cappuccini. Ma, - continuò; - mi dica un
po' più particolarmente il caso di questa giovine, per veder meglio cosa si
possa fare per lei.
Lucia
diventò rossa, e abbassò la testa.
- Deve
sapere, reverenda madre... - incominciava Agnese; ma il guardiano le troncò,
con un'occhiata, le parole in bocca, e rispose: - questa giovine, signora
illustrissima, mi vien raccomandata, come le ho detto, da un mio confratello.
Essa ha dovuto partir di nascosto dal suo paese, per sottrarsi a de' gravi
pericoli; e ha bisogno, per qualche tempo, d'un asilo nel quale possa vivere
sconosciuta, e dove nessuno ardisca venire a disturbarla, quand'anche...
- Quali
pericoli? - interruppe la signora. - Di grazia, padre guardiano, non mi dica la
cosa così in enimma. Lei sa che noi altre monache, ci piace di sentir le storie
per minuto.
- Sono
pericoli, - rispose il guardiano, - che all'orecchie purissime della reverenda
madre devon essere appena leggermente accennati...
- Oh
certamente, - disse in fretta la signora, arrossendo alquanto. Era verecondia?
Chi avesse osservata una rapida espressione di dispetto che accompagnava quel
rossore, avrebbe potuto dubitarne; e tanto più se l'avesse paragonato con
quello che di tanto in tanto si spandeva sulle gote di Lucia.
-
Basterà dire, - riprese il guardiano, - che un cavalier prepotente... non tutti
i grandi del mondo si servono dei doni di Dio, a gloria sua, e in vantaggio del
prossimo, come vossignoria illustrissima: un cavalier prepotente, dopo aver
perseguitata qualche tempo questa creatura con indegne lusinghe, vedendo
ch'erano inutili, ebbe cuore di perseguitarla apertamente con la forza, di modo
che la poveretta è stata ridotta a fuggir da casa sua.
-
Accostatevi, quella giovine, - disse la signora a Lucia, facendole cenno col
dito. - So che il padre guardiano è la bocca della verità; ma nessuno può esser
meglio informato di voi, in quest'affare. Tocca a voi a dirci se questo
cavaliere era un persecutore odioso -. In quanto all'accostarsi, Lucia ubbidì
subito; ma rispondere era un'altra faccenda. Una domanda su quella materia,
quand'anche le fosse stata fatta da una persona sua pari, l'avrebbe imbrogliata
non poco: proferita da quella signora, e con una cert'aria di dubbio maligno,
le levò ogni coraggio a rispondere. - Signora... madre... reverenda... -
balbettò, e non dava segno d'aver altro a dire. Qui Agnese, come quella che,
dopo di lei, era certamente la meglio informata, si credé autorizzata a venirle
in aiuto. - Illustrissima signora, - disse, - io posso far testimonianza che
questa mia figlia aveva in odio quel cavaliere, come il diavolo l'acqua santa:
voglio dire, il diavolo era lui; ma mi perdonerà se parlo male, perché noi siam
gente alla buona. Il fatto sta che questa povera ragazza era promessa a un
giovine nostro pari, timorato di Dio, e ben avviato; e se il signor curato
fosse stato un po' più un uomo di quelli che m'intendo io... so che parlo d'un
religioso, ma il padre Cristoforo, amico qui del padre guardiano, è religioso
al par di lui, e quello è un uomo pieno di carità, e, se fosse qui, potrebbe
attestare...
- Siete
ben pronta a parlare senz'essere interrogata, - interruppe la signora, con un
atto altero e iracondo, che la fece quasi parer brutta. - State zitta voi: già
lo so che i parenti hanno sempre una risposta da dare in nome de' loro
figliuoli!
Agnese
mortificata diede a Lucia una occhiata che voleva dire: vedi quel che mi tocca,
per esser tu tanto impicciata. Anche il guardiano accennava alla giovine,
dandole d'occhio e tentennando il capo, che quello era il momento di
sgranchirsi, e di non lasciare in secco la povera mamma.
-
Reverenda signora, - disse Lucia, - quanto le ha detto mia madre è la pura
verità. Il giovine che mi discorreva, - e qui diventò rossa rossa, - lo
prendevo io di mia volontà. Mi scusi se parlo da sfacciata, ma è per non
lasciar pensar male di mia madre. E in quanto a quel signore (Dio gli perdoni!)
vorrei piuttosto morire, che cader nelle sue mani. E se lei fa questa carità di
metterci al sicuro, giacché siam ridotte a far questa faccia di chieder
ricovero, e ad incomodare le persone dabbene; ma sia fatta la volontà di Dio;
sia certa, signora, che nessuno potrà pregare per lei più di cuore che noi
povere donne.
- A voi
credo, - disse la signora con voce raddolcita. - Ma avrò piacere di sentirvi da
solo a solo. Non che abbia bisogno d'altri schiarimenti, né d'altri motivi, per
servire alle premure del padre guardiano, - aggiunse subito, rivolgendosi a
lui, con una compitezza studiata. - Anzi, - continuò, - ci ho già pensato; ed
ecco ciò che mi pare di poter far di meglio, per ora. La fattoressa del
monastero ha maritata, pochi giorni sono, l'ultima sua figliuola. Queste donne
potranno occupar la camera lasciata in libertà da quella, e supplire a que'
pochi servizi che faceva lei. Veramente... - e qui accennò al guardiano che
s'avvicinasse alla grata, e continuò sottovoce: - veramente, attesa la
scarsezza dell'annate, non si pensava di sostituir nessuno a quella giovine; ma
parlerò io alla madre badessa, e una mia parola... e per una premura del padre
guardiano... In somma do la cosa per fatta.
Il
guardiano cominciava a ringraziare, ma la signora l'interruppe: - non occorron
cerimonie: anch'io, in un caso, in un bisogno, saprei far capitale
dell'assistenza de' padri cappuccini. Alla fine, - continuò, con un sorriso,
nel quale traspariva un non so che d'ironico e d'amaro, - alla fine, non siam
noi fratelli e sorelle?
Così
detto, chiamò una conversa (due di queste erano, per una distinzione singolare,
assegnate al suo servizio privato), e le ordinò che avvertisse di ciò la
badessa, e prendesse poi i concerti opportuni, con la fattoressa e con Agnese.
Licenziò questa, accommiatò il guardiano, e ritenne Lucia. Il guardiano
accompagnò Agnese alla porta, dandole nuove istruzioni, e se n'andò a scriver
la lettera di ragguaglio all'amico Cristoforo. "Gran cervellino che è
questa signora!" pensava tra sé, per la strada: "curiosa davvero! Ma
chi la sa prendere per il suo verso, le fa far ciò che vuole. Il mio Cristoforo
non s'aspetterà certamente ch'io l'abbia servito così presto e bene. Quel
brav'uomo! non c'è rimedio: bisogna che si prenda sempre qualche impegno; ma lo
fa per bene. Buon per lui questa volta, che ha trovato un amico, il quale,
senza tanto strepito, senza tanto apparato, senza tante faccende, ha condotto
l'aflare a buon porto, in un batter d'occhio. Sarà contento quel buon
Cristoforo, e s'accorgerà che, anche noi qui, siam buoni a qualche cosa".
La
signora, che, alla presenza d'un provetto cappuccino, aveva studiati gli atti e
le parole, rimasta poi sola con una giovine contadina inesperta, non pensava
più tanto a contenersi; e i suoi discorsi divennero a poco a poco così strani,
che, in vece di riferirli, noi crediam più opportuno di raccontar brevemente la
storia antecedente di questa infelice; quel tanto cioè che basti a render
ragione dell'insolito e del misterioso che abbiam veduto in lei, e a far
comprendere i motivi della sua condotta, in quello che avvenne dopo.
Era
essa l'ultima figlia del principe ***, gran gentiluomo milanese, che poteva contarsi
tra i più doviziosi ddla città. Ma l'alta opinione che aveva del suo titolo gli
faceva parer le sue sostanze appena sufficienti, anzi scarse, a sostenerne il
decoro; e tutto il suo pensiero era di conservarle, almeno quali erano, unite
in perpetuo, per quanto dipendeva da lui. Quanti figliuoli avesse, la storia
non lo dice espressamente; fa solamente intendere che aveva destinati al
chiostro tutti i cadetti dell'uno e dell'altro sesso, per lasciare intatta la
sostanza al primogenito, destinato a conservar la famiglia, a procrear cioè de'
figliuoli, per tormentarsi a tormentarli nella stessa maniera. La nostra
infelice era ancor nascosta nel ventre della madre, che la sua condizione era
già irrevocabilmente stabilita. Rimaneva soltanto da decidersi se sarebbe un
monaco o una monaca; decisione per la quale faceva bisogno, non il suo
consenso, ma la sua presenza. Quando venne alla luce, il principe suo padre,
volendo darle un nome che risvegliasse immediatamente l'idea del chiostro, e
che fosse stato portato da una santa d'alti natali, la chiamò Gertrude. Bambole
vestite da monaca furono i primi balocchi che le si diedero in mano; poi
santini che rappresentavan monache; e que' regali eran sempre accompagnati con
gran raccomandazioni di tenerli ben di conto; come cosa preziosa, e con
quell'interrogare affermativo: - bello eh? - Quando il principe, o la
principessa o il principino, che solo de' maschi veniva allevato in casa,
volevano lodar l'aspetto prosperoso della fanciullina, pareva che non trovasser
modo d'esprimer bene la loro idea, se non con le parole: - che madre badessa! -
Nessuno però le disse mai direttamente: tu devi farti monaca. Era un'idea
sottintesa e toccata incidentemente, in ogni discorso che riguardasse i suoi
destini futuri. Se qualche volta la Gertrudina trascorreva a qualche atto un
po' arrogante e imperioso, al che la sua indole la portava molto facilmente, -
tu sei una ragazzina, - le si diceva: - queste maniere non ti convengono:
quando sarai madre badessa, allora comanderai a bacchetta, farai alto e basso
-. Qualche altra volta il principe, riprendendola di cert'altre maniere troppo
libere e famigliari alle quali essa trascorreva con uguale facilità, - ehi!
ehi! - le diceva; - non è questo il fare d'una par tua: se vuoi che un giorno ti
si porti il rispetto che ti sarà dovuto, impara fin d'ora a star sopra di te:
ricordati che tu devi essere, in ogni cosa, la prima del monastero; perché il
sangue si porta per tutto dove si va.
Tutte
le parole di questo genere stampavano nel cervello della fanciullina l'idea che
già lei doveva esser monaca; ma quelle che venivan dalla bocca del padre,
facevan più effetto di tutte l'altre insieme. Il contegno del principe era
abitualmente quello d'un padrone austero; ma quando si trattava dello stato futuro
de' suoi figli, dal suo volto e da ogni sua parola traspariva un'immobilità di
risoluzione, una ombrosa gelosia di comando, che imprimeva il sentimento d'una
necessità fatale.
A sei
anni, Gertrude fu collocata, per educazione e ancor più per istradamento alla
vocazione impostale, nel monastero dove l'abbiamo veduta: e la scelta del luogo
non fu senza disegno. Il buon conduttore delle due donne ha detto che il padre
ddla signora era il primo in Monza: e, accozzando questa qualsisia
testimonianza con alcune altre indicazioni che l'anonimo lascia scappare
sbadatamente qua e là, noi potremmo anche asserire che fosse il feudatario di
quel paese. Comunque sia, vi godeva d'una grandissima autorità; e pensò che lì,
meglio che altrove, la sua figlia sarebbe trattata con quelle distinzioni e con
quelle finezze che potesser più allettarla a scegliere quel monastero per sua
perpetua dimora. Né s'ingannava: la badessa e alcune altre monache faccendiere,
che avevano, come si suol dire, il mestolo in mano, esultarono nel vedersi
offerto il pegno d'una protezione tanto utile in ogni occorrenza, tanto
gloriosa in ogni momento; accettaron la proposta, con espressioni di
riconoscenza, non esagerate, per quanto fossero forti; e corrisposero
pienamente all'intenzioni che il principe aveva lasciate trasparire sul
collocamento stabile della figliuola: intenzioni che andavan così d'accordo con
le loro. Gertrude, appena entrata nel monastero, fu chiamata per antonomasia la
signorina; posto distinto a tavola, nel dormitorio; la sua condotta proposta
all'altre per esemplare; chicche e carezze senza fine, e condite con quella
famigliarità un po' rispettosa, che tanto adesca i fanciulli, quando la trovano
in coloro che vedon trattare gli altri fanciulli con un contegno abituale di
superiorità. Non che tutte le monache fossero congiurate a tirar la poverina
nel laccio; ce n'eran molte delle semplici e lontane da ogni intrigo, alle
quali il pensiero di sacrificare una figlia a mire interessate avrebbe fatto
ribrezzo; ma queste, tutte attente alle loro occupazioni particolari, parte non
s'accorgevan bene di tutti que' maneggi, parte non distinguevano quanto vi
fosse di cattivo, parte s'astenevano dal farvi sopra esame, parte stavano
zitte, per non fare scandoli inutili. Qualcheduna anche, rammentandosi d'essere
stata, con simili arti, condotta a quello di cui s'era pentita poi, sentiva
compassione della povera innocentina, e si sfogava col farle carezze tenere e
malinconiche: ma questa era ben lontana dal sospettare che ci fosse sotto
mistero; e la faccenda camminava. Sarebbe forse camminata così fino alla fine,
se Gertrude fosse stata la sola ragazza in quel monastero. Ma, tra le sue
compagne d'educazione, ce n'erano alcune che sapevano d'esser destinate al
matrimonio. Gertrudina, nudrita nelle idee della sua superiorità, parlava
magnificamente de' suoi destini futuri di badessa, di principessa del
monastero, voleva a ogni conto esser per le altre un soggetto d'invidia; e
vedeva con maraviglia e con dispetto, che alcune di quelle non ne sentivano
punto. All'immagini maestose, ma circoscritte e fredde, che può somministrare
il primato in un monastero, contrapponevan esse le immagini varie e luccicanti,
di nozze, di pranzi, di conversazioni, di festini, come dicevano allora, di
villeggiature, di vestiti, di carrozze. Queste immagini cagionarono nel
cervello di Gertrude quel movimento, quel brulichìo che produrrebbe un gran
paniere di fiori appena colti, messo davanti a un alveare. I parenti e
l'educatrici avevan coltivata e accresciuta in lei la vanità naturale, per
farle piacere il chiostro; ma quando questa passione fu stuzzicata da idee
tanto più omogenee ad essa, si gettò su quelle, con un ardore ben più vivo e
più spontaneo. Per non restare al di sotto di quelle sue compagne, e per
condiscendere nello stesso tempo al suo nuovo genio, rispondeva che, alla fin
de' conti, nessuno le poteva mettere il velo in capo senza il suo consenso, che
anche lei poteva maritarsi, abitare un palazzo, godersi il mondo, e meglio di
tutte loro; che lo poteva, pur che l'avesse voluto, che lo vorrebbe, che lo
voleva; e lo voleva in fatti. L'idea della necessità del suo consenso, idea
che, fino a quel tempo, era stata come inosservata e rannicchiata in un angolo
della sua mente, si sviluppò allora, e si manifestò, con tutta la sua
importanza. Essa la chiamava ogni momento in aiuto, per godersi più
tranquillamente l'immagini d'un avvenire gradito. Dietro questa idea però, ne
compariva sempre infallibilmente un'altra: che quel consenso si trattava di
negarlo al principe padre, il quale lo teneva già, o mostrava di tenerlo per
dato; e, a questa idea, l'animo della figlia era ben lontano dalla sicurezza
che ostentavano le sue parole. Si paragonava allora con le compagne, ch'erano
ben altrimenti sicure, e provava per esse dolorosamente l'invidia che, da
principio, aveva creduto di far loro provare. Invidiandole, le odiava: talvolta
l'odio s'esalava in dispetti, in isgarbatezze, in motti pungenti; talvolta
l'uniformità dell'inclinazioni e delle speranze lo sopiva, e faceva nascere
un'intrinsichezza apparente e passeggiera. Talvolta, volendo pure godersi
intanto qualche cosa di reale e di presente, si compiaceva delle preferenze che
le venivano accordate, e faceva sentire all'altre quella sua superiorità;
talvolta, non potendo più tollerar la solitudine de' suoi timori e de' suoi
desidèri, andava, tutta buona, in cerca di quelle, quasi ad implorar
benevolenza, consigli, coraggio. Tra queste deplorabili guerricciole con sé e
con gli altri, aveva varcata la puerizia, e s'inoltrava in quell'età così
critica, nella quale par che entri nell'animo quasi una potenza misteriosa, che
solleva, adorna, rinvigorisce tutte l'inclinazioni, tutte l'idee, e qualche
volta le trasforma, o le rivolge a un corso impreveduto. Ciò che Gertrude aveva
fino allora più distintamente vagheggiato in que' sogni dell'avvenire, era lo
splendore esterno e la pompa: un non so che di molle e d'affettuoso, che da
prima v'era diffuso leggermente e come in nebbia, cominciò allora a spiegarsi e
a primeggiare nelle sue fantasie. S'era fatto, nella parte più riposta della
mente, come uno splendido ritiro: ivi si rifugiava dagli oggetti presenti, ivi
accoglieva certi personaggi stranamente composti di confuse memorie della
puerizia, di quel poco che poteva vedere del mondo esteriore, di ciò che aveva
imparato dai discorsi delle compagne; si tratteneva con essi, parlava loro, e
si rispondeva in loro nome; ivi dava ordini, e riceveva omaggi d'ogni genere.
Di quando in quando, i pensieri della religione venivano a disturbare quelle
feste brillanti e faticose. Ma la religione, come l'avevano insegnata alla
nostra poveretta, e come essa l'aveva ricevuta, non bandiva l'orgoglio, anzi lo
santificava e lo proponeva come un mezzo per ottenere una felicità terrena.
Privata così della sua essenza, non era più la religione, ma una larva come
l'altre. Negl'intervalli in cui questa larva prendeva il primo posto, e
grandeggiava nella fantasia di Gertrude, l'infelice, sopraffatta da terrori
confusi, e compresa da una confusa idea di doveri, s'immaginava che la sua
ripugnanza al chiostro, e la resistenza all'insinuazioni de' suoi maggiori,
nella scelta dello stato, fossero una colpa; e prometteva in cuor suo
d'espiarla, chiudendosi volontariamente nel chiostro.
Era
legge che una giovine non potesse venire accettata monaca, prima d'essere stata
esaminata da un ecclesiastico, chiamato il vicario delle monache, o da qualche
altro deputato a ciò, affinché fosse certo che ci andava di sua libera scelta:
e questo esame non poteva aver luogo, se non un anno dopo ch'ella avesse
esposto a quel vicario il suo desiderio, con una supplica in iscritto. Quelle
monache che avevan preso il tristo incarico di far che Gertrude s'obbligasse
per sempre, con la minor possibile cognizione di ciò che faceva, colsero un de'
momenti che abbiam detto, per farle trascrivere e sottoscrivere una tal
supplica. E a fine d'indurla più facilmente a ciò, non mancaron di dirle e di
ripeterle, che finalmente era una mera formalità, la quale (e questo era vero)
non poteva avere efficacia, se non da altri atti posteriori, che dipenderebbero
dalla sua volontà. Con tutto ciò, la supplica non era forse ancor giunta al suo
destino, che Gertrude s'era già pentita d'averla sottoscritta. Si pentiva poi
d'essersi pentita, passando così i giorni e i mesi in un'incessante vicenda di
sentimenti contrari. Tenne lungo tempo nascosto alle compagne quel passo, ora
per timore d'esporre alle contraddizioni una buona risoluzione, ora per
vergogna di palesare uno sproposito. Vinse finalmente il desiderio di sfogar
l'animo, e d'accattar consiglio e coraggio. C'era un'altra legge, che una
giovine non fosse ammessa a quell'esame della vocazione, se non dopo aver
dimorato almeno un mese fuori del monastero dove era stata in educazione. Era
già scorso l'anno da che la supplica era stata mandata; e Gertrude fu avvertita
che tra poco verrebbe levata dal monastero, e condotta nella casa paterna, per
rimanervi quel mese, e far tutti i passi necessari al compimento dell'opera che
aveva di fatto cominciata. Il principe e il resto della famiglia tenevano tutto
ciò per certo, come se fosse già avvenuto; ma la giovine aveva tutt'altro in
testa: in vece di far gli altri passi pensava alla maniera di tirare indietro
il primo. In tali angustie, si risolvette d'aprirsi con una delle sue compagne,
la più franca, e pronta sempre a dar consigli risoluti. Questa suggerì a
Gertrude d'informar con una lettera il padre della sua nuova risoluzione;
giacché non le bastava l'animo di spiattellargli sul viso un bravo: non voglio.
E perché i pareri gratuiti, in questo mondo, son molto rari, la consigliera
fece pagar questo a Gertrude, con tante beffe sulla sua dappocaggine. La
lettera fu concertata tra quattro o cinque confidenti, scritta di nascosto, e
fatta ricapitare per via d'artifizi molto studiati. Gertrude stava con
grand'ansietà, aspettando una risposta che non venne mai. Se non che, alcuni
giorni dopo, la badessa, la fece venir nella sua cella, è, con un contegno di
mistero, di disgusto e di compassione, le diede un cenno oscuro d'una gran
collera del principe, e d'un fallo ch'ella doveva aver commesso, lasciandole
però intendere che, portandosi bene, poteva sperare che tutto sarebbe
dimenticato. La giovinetta intese, e non osò domandar più in là.
Venne
finalmente il giorno tanto temuto e bramato. Quantunque Gertrude sapesse che
andava a un combattimento, pure l'uscir di monastero, il lasciar quelle mura
nelle quali era stata ott'anni rinchiusa, lo scorrere in carrozza per l'aperta
campagna, il riveder la città, la casa, furon sensazioni piene d'una gioia
tumultuosa. In quanto al combattimento, la poveretta, con la direzione di
quelle confidenti, aveva già prese le sue misure, e fatto, com'ora si direbbe,
il suo piano. "O mi vorranno forzare", pensava, "e io starò dura;
sarò umile, rispettosa, ma non acconsentirò: non si tratta che di non dire un
altro sì; e non lo dirò. Ovvero mi prenderanno con le buone; e io sarò più
buona di loro; piangerò, pregherò, li moverò a compassione: finalmente non
pretendo altro che di non esser sacrificata". Ma, come accade spesso di
simili previdenze, non avvenne né una cosa né l'altra. I giorni passavano,
senza che il padre né altri le parlasse della supplica, né della ritrattazione,
senza che le venisse fatta proposta nessuna, né con carezze, né con minacce. I
parenti eran seri, tristi, burberi con lei, senza mai dirne il perché. Si
vedeva solamente che la riguardavano come una rea, come un'indegna: un anatema
misterioso pareva che pesasse sopra di lei, e la segregasse dalla famiglia,
lasciandovela soltanto unita quanto bisognava per farle sentire la sua
suggezione. Di rado, e solo a certe ore stabilite, era ammessa alla compagnia
de' parenti e del primogenito. Tra loro tre pareva che regnasse una gran
confidenza, la quale rendeva più sensibile e più doloroso l'abbandono in cui
era lasciata Gertrude. Nessuno le rivolgeva il discorso; e quando essa
arrischiava timidamente qualche parola, che non fosse per cosa necessaria, o
non attaccava, o veniva corrisposta con uno sguardo distratto, o sprezzante, o
severo. Che se, non potendo più soffrire una così amara e umiliante
distinzione, insisteva, e tentava di famigliarizzarsi; se implorava un po'
d'amore, si sentiva subito toccare, in maniera indiretta ma chiara, quel tasto
della scelta dello stato; le si faceva copertamente sentire che c'era un mezzo
di riacquistar l'affetto della famiglia. Allora Gertrude, che non l'avrebbe
voluto a quella condizione, era costretta di tirarsi indietro, di rifiutar
quasi i primi segni di benevolenza che aveva tanto desiderati, di rimettersi da
sé al suo posto di scomunicata; e per di più, vi rimaneva con una certa
apparenza del torto.
Tali
sensazioni d'oggetti presenti facevano un contrasto doloroso con quelle ridenti
visioni delle quali Gertrude s'era già tanto occupata, e s'occupava tuttavia,
nel segreto della sua mente. Aveva sperato che, nella splendida e frequentata
casa paterna, avrebbe potuto godere almeno qualche saggio reale delle cose
immaginate; ma si trovò del tutto ingannata. La clausura era stretta e intera,
come nel monastero; d'andare a spasso non si parlava neppure; e un coretto che,
dalla casa, guardava in una chiesa contigua, toglieva anche l'unica necessità
che ci sarebbe stata d'uscire. La compagnia era più trista, più scarsa, meno
variata che nel monastero. A ogni annunzio d'una visita, Gertrude doveva salire
all'ultimo piano, per chiudersi con alcune vecchie donne di servizio: e lì
anche desinava, quando c'era invito. I servitori s'uniformavano, nelle maniere
e ne' discorsi, all'esempio e all'intenzioni de' padroni: e Gertrude, che, per
sua inclinazione, avrebbe voluto trattarli con una famigliarità signorile, e
che, nello stato in cui si trovava, avrebbe avuto di grazia che le facessero
qualche dimostrazione d'affetto, come a una loro pari, e scendeva anche a mendicarne,
rimaneva poi umiliata, e sempre più afflitta di vedersi corrisposta con una
noncuranza manifesta, benché accompagnata da un leggiero ossequio di formalità.
Dovette però accorgersi che un paggio, ben diverso da coloro, le portava un
rispetto, e sentiva per lei una compassione d'un genere particolare. Il
contegno di quel ragazzotto era ciò che Gertrude aveva fino allora visto di più
somigliante a quell'ordine di cose tanto contemplato nella sua immaginativa, al
contegno di quelle sue creature ideali. A poco a poco si scoprì un non so che
di nuovo nelle maniere della giovinetta: una tranquillità e un'inquietudine
diversa dalla solita, un fare di chi ha trovato qualche cosa che gli preme, che
vorrebbe guardare ogni momento, e non lasciar vedere agli altri. Le furon
tenuti gli occhi addosso più che mai: che è che non è, una mattina, fu sorpresa
da una di quelle cameriere, mentre stava piegando alla sfuggita una carta,
sulla quale avrebbe fatto meglio a non iscriver nulla. Dopo un breve tira tira,
la carta rimase nelle mani della cameriera, e da queste passò in quelle del
principe.
Il
terrore di Gertrude, al rumor de' passi di lui, non si può descrivere né
immaginare: era quel padre, era irritato, e lei si sentiva colpevole. Ma quando
lo vide comparire, con quel cipiglio, con quella carta in mano, avrebbe voluto
esser cento braccia sotto terra, non che in un chiostro. Le parole non furon
molte, ma terribili: il gastigo intimato subito non fu che d'esser rinchiusa in
quella camera, sotto la guardia della donna che aveva fatta la scoperta; ma
questo non era che un principio, che un ripiego del momento; si prometteva, si
lasciava vedere per aria, un altro gastigo oscuro, indeterminato, e quindi più
spaventoso.
Il
paggio fu subito sfrattato, com'era naturale; e fu minacciato anche a lui
qualcosa di terribile, se, in qualunque tempo, avesse osato fiatar nulla
dell'avvenuto. Nel fargli questa intimazione, il principe gli appoggiò due
solenni schiaffi, per associare a quell'avventura un ricordo, che togliesse al
ragazzaccio ogni tentazion di vantarsene. Un pretesto qualunque, per coonestare
la licenza data a un paggio, non era difficile a trovarsi; in quanto alla
figlia, si disse ch'era incomodata.
Rimase
essa dunque col batticuore, con la vergogna, col rimorso, col terrore
dell'avvenire, e con la sola compagnia di quella donna odiata da lei, come il
testimonio della sua colpa, e la cagione della sua disgrazia. Costei odiava poi
a vicenda Gertrude, per la quale si trovava ridotta, senza saper per quanto
tempo, alla vita noiosa di carceriera, e divenuta per sempre custode d'un
segreto pericoloso.
Il
primo confuso tumulto di que' sentimenti s'acquietò a poco a poco; ma tornando
essi poi a uno per volta nell'animo, vi s'ingrandivano, e si fermavano a
tormentarlo più distintamente e a bell'agio. Che poteva mai esser quella
punizione minacciata in enimma? Molte e varie e strane se ne affacciavano alla
fantasia ardente e inesperta di Gertrude. Quella che pareva più probabile, era
di venir ricondotta al monastero di Monza, di ricomparirvi, non più come la
signorina, ma in forma di colpevole, e di starvi rinchiusa, chi sa fino a
quando! chi sa con quali trattamenti! Ciò che una tale immaginazione, tutta
piena di dolori, aveva forse di più doloroso per lei, era l'apprensione della
vergogna. Le frasi, le parole, le virgole di quel foglio sciagurato, passavano
e ripassavano nella sua memoria: le immaginava osservate, pesate da un lettore
tanto impreveduto, tanto diverso da quello a cui eran destinate; si figurava
che avesser potuto cader sotto gli occhi anche della madre o del fratello, o di
chi sa altri: e, al paragon di ciò, tutto il rimanente le pareva quasi un
nulla. L'immagine di colui ch'era stato la prima origine di tutto lo scandolo,
non lasciava di venire spesso anch'essa ad infestar la povera rinchiusa: e
pensate che strana comparsa doveva far quel fantasma, tra quegli altri così
diversi da lui, seri, freddi, minacciosi. Ma, appunto perché non poteva
separarlo da essi, né tornare un momento a quelle fuggitive compiacenze, senza
che subito non le s'affacciassero i dolori presenti che n'erano la conseguenza,
cominciò a poco a poco a tornarci più di rado, a rispingerne la rimembranza, a
divezzarsene. Né più a lungo, o più volentieri, si fermava in quelle liete e
brillanti fantasie d'una volta: eran troppo opposte alle circostanze reali, a
ogni probabilità dell'avvenire. Il solo castello nel quale Gertrude potesse
immaginare un rifugio tranquillo e onorevole, e che non fosse in aria, era il
monastero, quando si risolvesse d'entrarci per sempre. Una tal risoluzione (non
poteva dubitarne) avrebbe accomodato ogni cosa, saldato ogni debito, e cambiata
in un attimo la sua situazione. Contro questo proposito insorgevano, è vero, i
pensieri di tutta la sua vita: ma i tempi eran mutati; e, nell'abisso in cui
Gertrude era caduta, e al paragone di ciò che poteva temere in certi momenti,
la condizione di monaca festeggiata, ossequiata, ubbidita, le pareva uno
zuccherino. Due sentimenti di ben diverso genere contribuivan pure a intervalli
a scemare quella sua antica avversione: talvolta il rimorso del fallo, e una
tenerezza fantastica di divozione; talvolta l'orgoglio amareggiato e irritato
dalle maniere della carceriera, la quale (spesso, a dire il vero, provocata da
lei) si vendicava, ora facendole paura di quel minacciato gastigo, ora
svergognandola del fallo. Quando poi voleva mostrarsi benigna, prendeva un tono
di protezione, più odioso ancora dell'insulto. In tali diverse occasioni, il
desiderio che Gertrude sentiva d'uscir dall'unghie di colei, e di comparirle in
uno stato al di sopra della sua collera e della sua pietà, questo desiderio
abituale diveniva tanto vivo e pungente, da far parere amabile ogni cosa che
potesse condurre ad appagarlo.
In capo
a quattro o cinque lunghi giorni di prigionia, una mattina, Gertrude stuccata
ed invelenita all'eccesso, per un di que' dispetti della sua guardiana, andò a
cacciarsi in un angolo della camera, e lì, con la faccia nascosta tra le mani,
stette qualche tempo a divorar la sua rabbia. Sentì allora un bisogno
prepotente di vedere altri visi, di sentire altre parole, d'esser trattata
diversamente. Pensò al padre, alla famiglia: il pensiero se ne arretrava
spaventato. Ma le venne in mente che dipendeva da lei di trovare in loro degli
amici; e provò una gioia improvvisa. Dietro questa, una confusione e un
pentimento straordinario del suo fallo, e un ugual desiderio d'espiarlo. Non
già che la sua volontà si fermasse in quel proponimento, ma giammai non c'era
entrata con tanto ardore. S'alzò di lì, andò a un tavolino, riprese quella
penna fatale, e scrisse al padre una lettera piena d'entusiasmo e
d'abbattimento, d'afflizione e di speranza, implorando il perdono, e
mostrandosi indeterminatamente pronta a tutto ciò che potesse piacere a chi
doveva accordarlo.
Vi son
de' momenti in cui l'animo, particolarmente de' giovani, è disposto in maniera
che ogni poco d'istanza basta a ottenerne ogni cosa che abbia un'apparenza di
bene e di sacrifizio: come un fiore appena sbocciato, s'abbandona mollemente sul
suo fragile stelo, pronto a concedere le sue fragranze alla prim'aria che gli
aliti punto d'intorno. Questi momenti, che si dovrebbero dagli altri ammirare
con timido rispetto, son quelli appunto che l'astuzia interessata spia
attentamente, e coglie di volo, per legare una volontà che non si guarda.
Al
legger quella lettera, il principe *** vide subito lo spiraglio aperto alle sue
antiche e costanti mire. Mandò a dire a Gertrude che venisse da lui; e
aspettandola, si dispose a batter il ferro, mentre era caldo. Gertrude
comparve, e, senza alzar gli occhi in viso al padre, gli si buttò in
ginocchioni davanti, ed ebbe appena fiato di dire: - perdono! - Egli le fece
cenno che s'alzasse; ma, con una voce poco atta a rincorare, le rispose che il
perdono non bastava desiderarlo né chiederlo; ch'era cosa troppo agevole e
troppo naturale a chiunque sia trovato in colpa, e tema la punizione; che in
somma bisognava meritarlo. Gertrude domando, sommessamente e tremando, che cosa
dovesse fare. Il principe (non ci regge il cuore di dargli in questo momento il
titolo di padre) non rispose direttamente, ma cominciò a parlare a lungo del
fallo di Gertrude: e quelle parole frizzavano sull'animo della poveretta, come
lo scorrere d'una mano ruvida sur una ferita. Continuò dicendo che,
quand'anche... caso mai... che avesse avuto prima qualche intenzione di
collocarla nel secolo, lei stessa ci aveva messo ora un ostacolo insuperabile;
giacché a un cavalier d'onore, com'era lui, non sarebbe mai bastato l'animo di
regalare a un galantuomo una signorina che aveva dato un tal saggio di sé. La
misera ascoltatrice era annichilata: allora il principe, raddolcendo a grado a
grado la voce e le parole, proseguì dicendo che però a ogni fallo c'era rimedio
e misericordia; che il suo era di quelli per i quali il rimedio è più
chiaramente indicato: ch'essa doveva vedere, in questo tristo accidente, come
un avviso che la vita del secolo era troppo piena di pericoli per lei...
- Ah
sì! - esclamò Gertrude, scossa dal timore, preparata dalla vergogna, e mossa in
quel punto da una tenerezza istantanea.
- Ah!
lo capite anche voi, - riprese incontanente il principe. - Ebbene, non si parli
più del passato: tutto è cancellato. Avete preso il solo partito onorevole,
conveniente, che vi rimanesse; ma perché l'avete preso di buona voglia, e con
buona maniera, tocca a me a farvelo riuscir gradito in tutto e per tutto: tocca
a me a farne tornare tutto il vantaggio e tutto il merito sopra di voi. Ne
prendo io la cura -. Così dicendo, scosse un campanello che stava sul tavolino,
e al servitore che entrò, disse: - la principessa e il principino subito -. E
seguitò poi con Gertrude: - voglio metterli subito a parte della mia
consolazione; voglio che tutti comincin subito a trattarvi come si conviene.
Avete sperimentato in parte il padre severo; ma da qui innanzi proverete tutto
il padre amoroso.
A
queste parole, Gertrude rimaneva come sbalordita. Ora ripensava come mai quel
sì che le era scappato, avesse potuto significar tanto, ora cercava se ci fosse
maniera di riprenderlo, di ristringerne il senso; ma la persuasione del
principe pareva così intera, la sua gioia così gelosa, la benignità così
condizionata, che Gertrude non osò proferire una parola che potesse turbarle
menomamente.
Dopo
pochi momenti, vennero i due chiamati, e vedendo lì Gertrude, la guardarono in
viso, incerti e maravigliati. Ma il principe, con un contegno lieto e
amorevole, che ne prescriveva loro un somigliante, - ecco, - disse, - la pecora
smarrita: e sia questa l'ultima parola che richiami triste memorie. Ecco la
consolazione della famiglia. Gertrude non ha più bisogno di consigli; ciò che
noi desideravamo per suo bene, l'ha voluto lei spontaneamente. È risoluta, m'ha
fatto intendere che è risoluta... - A questo passo, alzò essa verso il padre uno
sguardo tra atterrito e supplichevole, come per chiedergli che sospendesse, ma
egli proseguì francamente: - che è risoluta di prendere il velo.
-
Brava! bene! - esclamarono, a una voce, la madre e il figlio, e l'uno dopo
l'altra abbracciaron Gertrude; la quale ricevette queste accoglienze con
lacrime, che furono interpretate per lacrime di consolazione. Allora il
principe si diffuse a spiegar ciò che farebbe per render lieta e splendida la
sorte della figlia. Parlò delle distinzioni di cui goderebbe nel monastero e
nel paese; che, là sarebbe come una principessa, come la rappresentante della
famiglia; che, appena l'età l'avrebbe permesso, sarebbe innalzata alla prima
dignità; e, intanto, non sarebbe soggetta che di nome. La principessa e il
principino rinnovavano, ogni momento, le congratulazioni e gli applausi:
Gertrude era come dominata da un sogno.
-
Converrà poi fissare il giorno, per andare a Monza, a far la richiesta alla
badessa, - disse il principe. - Come sarà contenta! Vi so dire che tutto il
monastero saprà valutar l'onore che Gertrude gli fa. Anzi... perché non ci
andiamo oggi? Gertrude prenderà volentieri un po' d'aria.
-
Andiamo pure, - disse la principessa.
- Vo a
dar gli ordini, - disse il principino.
- Ma...
- proferì sommessamente Gertrude.
-
Piano, piano, - riprese il principe: - lasciam decidere a lei: forse oggi non
si sente abbastanza disposta, e le piacerebbe più aspettar fino a domani. Dite:
volete che andiamo oggi o domani?
-
Domani, - rispose, con voce fiacca, Gertrude, alla quale pareva ancora di far
qualche cosa, prendendo un po' di tempo.
-
Domani, - disse solennemente il principe: - ha stabilito che si vada domani.
Intanto io vo dal vicario delle monache, a fissare un giorno per l'esame -.
Detto fatto, il principe uscì, e andò veramente (che non fu piccola degnazione)
dal detto vicario; e concertarono che verrebbe di lì a due giorni.
In
tutto il resto di quella giornata, Gertrude non ebbe un minuto di bene. Avrebbe
desiderato riposar l'animo da tante commozioni, lasciar, per dir così, chiarire
i suoi pensieri, render conto a se stessa di ciò che aveva fatto, di ciò che le
rimaneva da fare, sapere ciò che volesse, rallentare un momento quella macchina
che, appena avviata, andava così precipitosamente; ma non ci fu verso.
L'occupazioni si succedevano senza interruzione, s'incastravano l'una con
l'altra. Subito dopo partito il principe, fu condotta nel gabinetto della
principessa, per essere, sotto la sua direzione, pettinata e rivestita dalla
sua propria cameriera. Non era ancor terminato di dar l'ultima mano, che furon
avvertite ch'era in tavola. Gertrude passò in mezzo agl'inchini della servitù,
che accennava di congratularsi per la guarigione, e trovò alcuni parenti più
prossimi, ch'erano stati invitati in fretta, per farle onore, e per rallegrarsi
con lei de' due felici avvenimenti, la ricuperata salute, e la spiegata
vocazione.
La
sposina (così si chiamavan le giovani monacande, e Gertrude, al suo apparire,
fu da tutti salutata con quel nome), la sposina ebbe da dire e da fare a rispondere
a' complimenti che le fioccavan da tutte le parti. Sentiva bene che ognuna
delle sue risposte era come un'accettazione e una conferma; ma come rispondere
diversamente? Poco dopo alzati da tavola, venne l'ora della trottata. Gertrude
entrò in carrozza con la madre, e con due zii ch'erano stati al pranzo. Dopo un
solito giro, si riuscì alla strada Marina, che allora attraversava lo spazio
occupato ora dal giardin pubblico, ed era il luogo dove i signori venivano in
carrozza a ricrearsi delle fatiche della giornata. Gli zii parlarono anche a
Gertrude, come portava la convenienza in quel giorno: e uno di loro, il qual
pareva che, più dell'altro, conoscesse ogni persona, ogni carrozza, ogni
livrea, e aveva ogni momento qualcosa da dire del signor tale e della signora
tal altra, si voltò a lei tutt'a un tratto, e le disse: - ah furbetta! voi date
un calcio a tutte queste corbellerie; siete una dirittona voi; piantate
negl'impicci noi poveri mondani, vi ritirate a fare una vita beata, e andate in
paradiso in carrozza.
Sul
tardi, si tornò a casa; e i servitori, scendendo in fretta con le torce,
avvertirono che molte visite stavano aspettando. La voce era corsa; e i parenti
e gli amici venivano a fare il loro dovere. S'entrò nella sala della
conversazione. La sposina ne fu l'idolo, il trastullo, la vittima. Ognuno la
voleva per sé: chi si faceva prometter dolci, chi prometteva visite, chi
parlava della madre tale sua parente, chi della madre tal altra sua conoscente,
chi lodava il cielo di Monza, chi discorreva, con gran sapore, della gran
figura ch'essa avrebbe fatta là. Altri, che non avevan potuto ancora
avvicinarsi a Gertrude così assediata, stavano spiando l'occasione di farsi
innanzi, e sentivano un certo rimorso, fin che non avessero fatto il loro
dovere. A poco a poco, la compagnia s'andò dileguando; tutti se n'andarono
senza rimorso, e Gertrude rimase sola co' genitori e il fratello.
-
Finalmente, - disse il principe, - ho avuto la consolazione di veder mia figlia
trattata da par sua. Bisogna però confessare che anche lei s'è portata benone,
e ha fatto vedere che non sarà impicciata a far la prima figura, e a sostenere
il decoro della famiglia.
Si cenò
in fretta, per ritirarsi subito, ed esser pronti presto la mattina seguente.
Gertrude
contristata, indispettita e, nello stesso tempo, un po' gonfiata da tutti que'
complimenti, si rammentò in quel punto ciò che aveva patito dalla sua
carceriera; e, vedendo il padre così disposto a compiacerla in tutto, fuor che
in una cosa, volle approfittare dell'auge in cui si trovava, per acquietare
almeno una delle passioni che la tormentavano. Mostrò quindi una gran
ripugnanza a trovarsi con colei, lagnandosi fortemente delle sue maniere.
- Come!
- disse il principe: - v'ha mancato di rispetto colei! Domani, domani, le laverò
il capo come va. Lasciate fare a me, che le farò conoscere chi è lei, e chi
siete voi. E a ogni modo, una figlia della quale io son contento, non deve
vedersi intorno una persona che le dispiaccia -. Così detto, fece chiamare
un'altra donna, e le ordinò di servir Gertrude; la quale intanto, masticando e
assaporando la soddisfazione che aveva ricevuta, si stupiva di trovarci così
poco sugo, in paragone del desiderio che n'aveva avuto. Ciò che, anche suo
malgrado, s'impossessava di tutto il suo animo, era il sentimento de' gran
progressi che aveva fatti, in quella giornata, sulla strada del chiostro, il
pensiero che a ritirarsene ora ci vorrebbe molta più forza e risolutezza di
quella che sarebbe bastata pochi giorni prima, e che pure non s'era sentita d'avere.
La
donna che andò ad accompagnarla in camera, era una vecchia di casa, stata già
governante del principino, che aveva ricevuto appena uscito dalle fasce, e
tirato su fino all'adolescenza, e nel quale aveva riposte tutte le sue
compiacenze, le sue speranze, la sua gloria. Era essa contenta della decisione
fatta in quel giorno, come d'una sua propria fortuna; e Gertrude, per ultimo
divertimento, dovette succiarsi le congratulazioni, le lodi, i consigli della
vecchia, e sentir parlare di certe sue zie e prozie, le quali s'eran trovate
ben contente d'esser monache, perché, essendo di quella casa, avevan sempre
goduto i primi onori, avevan sempre saputo tenere uno zampino di fuori, e, dal
loro parlatorio, avevano ottenuto cose che le più gran dame, nelle loro sale,
non c'eran potute arrivare. Le parlò delle visite che avrebbe ricevute: un
giorno poi, verrebbe il signor principino con la sua sposa, la quale doveva
esser certamente una gran signorona; e allora, non solo il monastero, ma tutto
il paese sarebbe in moto. La vecchia aveva parlato mentre spogliava Gertrude,
quando Gertrude era a letto; parlava ancora, che Gertrude dormiva. La
giovinezza e la fatica erano state più forti de' pensieri. Il sonno fu
affannoso, torbido, pieno di sogni penosi, ma non fu rotto che dalla voce
strillante della vecchia, che venne a svegliarla, perché si preparasse per la
gita di Monza.
-
Andiamo, andiamo, signora sposina: è giorno fatto; e prima che sia vestita e
pettinata, ci vorrà un'ora almeno. La signora principessa si sta vestendo; e
l'hanno svegliata quattr'ore prima del solito. Il signor principino è già sceso
alle scuderie, poi è tornato su, ed è all'ordine per partire quando si sia.
Vispo come una lepre, quel diavoletto: ma! è stato così fin da bambino; e io
posso dirlo, che l'ho portato in collo. Ma quand'è pronto, non bisogna farlo
aspettare, perché, sebbene sia della miglior pasta del mondo, allora
s'impazientisce e strepita. Poveretto! bisogna compatirlo: è il suo naturale; e
poi questa volta avrebbe anche un po' di ragione, perché s'incomoda per lei.
Guai chi lo tocca in que' momenti! non ha riguardo per nessuno, fuorché per il
signor principe. Ma finalmente non ha sopra di sé che il signor principe, e un
giorno, il signor principe sarà lui; più tardi che sia possibile, però. Lesta,
lesta, signorina! Perché mi guarda così incantata? A quest'ora dovrebbe esser
fuor della cuccia.
All'immagine
del principino impaziente, tutti gli altri pensieri che s'erano affollati alla
mente risvegliata di Gertrude, si levaron subito, come uno stormo di passere
all'apparir del nibbio. Ubbidì, si vestì in fretta, si lasciò pettinare, e
comparve nella sala, dove i genitori e il fratello eran radunati. Fu fatta
sedere sur una sedia a braccioli, e le fu portata una chicchera di cioccolata:
il che, a que' tempi, era quel che già presso i Romani il dare la veste virile.
Quando
vennero a avvertir ch'era attaccato, il principe tirò la figlia in disparte, e
le disse: - orsù, Gertrude, ieri vi siete fatta onore: oggi dovete superar voi
medesima. Si tratta di fare una comparsa solenne nel monastero e nel paese dove
siete destinata a far la prima figura. V'aspettano... - È inutile dire che il
principe aveva spedito un avviso alla badessa, il giorno avanti. - V'aspettano,
e tutti gli occhi saranno sopra di voi. Dignità e disinvoltura. La badessa vi
domanderà cosa volete: è una formalità. Potete rispondere che chiedete d'essere
ammessa a vestir l'abito in quel monastero, dove siete stata educata così
amorevolmente, dove avete ricevute tante finezze: che è la pura verità. Dite
quelle poche parole, con un fare sciolto: che non s'avesse a dire che v'hanno
imboccata, e che non sapete parlare da voi. Quelle buone madri non sanno nulla
dell'accaduto: è un segreto che deve restar sepolto nella famiglia; e perciò
non fate una faccia contrita e dubbiosa, che potesse dar qualche sospetto. Fate
vedere di che sangue uscite: manierosa, modesta; ma ricordatevi che, in quel
luogo, fuor della famiglia, non ci sarà nessuno sopra di voi.
Senza
aspettar risposta, il principe si mosse; Gertrude, la principessa e il
principino lo seguirono; scesero tutti le scale, e montarono in carrozza.
Gl'impicci e le noie del mondo, e la vita beata del chiostro, principalmente
per le giovani di sangue nobilissimo, furono il tema della conversazione,
durante il tragitto. Sul finir della strada, il principe rinnovò l'istruzioni
alla figlia, e le ripeté più volte la formola della risposta. All'entrare in
Monza, Gertrude si sentì stringere il cuore; ma la sua attenzione fu attirata
per un istante da non so quali signori che, fatta fermar la carrozza,
recitarono non so qual complimento. Ripreso il cammino, s'andò quasi di passo
al monastero, tra gli sguardi de' curiosi, che accorrevano da tutte le parti
sulla strada. Al fermarsi della carrozza, davanti a quelle mura, davanti a
quella porta, il cuore si strinse ancor più a Gertrude. Si smontò tra due ale
di popolo, che i servitori facevano stare indietro. Tutti quegli occhi addosso
alla poveretta l'obbligavano a studiar continuamente il suo contegno: ma più di
tutti quelli insieme, la tenevano in suggezione i due del padre, a' quali essa,
quantunque ne avesse così gran paura, non poteva lasciar di rivolgere i suoi,
ogni momento. E quegli occhi governavano le sue mosse e il suo volto, come per
mezzo di redini invisibili. Attraversato il primo cortile, s'entrò in un altro,
e lì si vide la porta del chiostro interno, spalancata e tutta occupata da
monache. Nella prima fila, la badessa circondata da anziane; dietro, altre
monache alla rinfusa, alcune in punta di piedi; in ultimo le converse ritte
sopra panchetti. Si vedevan pure qua e là luccicare a mezz'aria alcuni
occhietti, spuntar qualche visino tra le tonache: eran le più destre, e le più
coraggiose tra l'educande, che, ficcandosi e penetrando tra monaca e monaca,
eran riuscite a farsi un po' di pertugio, per vedere anch'esse qualche cosa. Da
quella calca uscivano acclamazioni; si vedevan molte braccia dimenarsi, in
segno d'accoglienza e di gioia. Giunsero alla porta; Gertrude si trovò a viso a
viso con la madre badessa. Dopo i primi complimenti, questa, con una maniera
tra il giulivo e il solenne, le domandò cosa desiderasse in quel luogo, dove
non c'era chi le potesse negar nulla.
- Son
qui..., - cominciò Gertrude; ma, al punto di proferir le parole che dovevano
decider quasi irrevocabilmente del suo destino, esitò un momento, e rimase con
gli occhi fissi sulla folla che le stava davanti. Vide, in quel momento, una di
quelle sue note compagne, che la guardava con un'aria di compassione e di malizia
insieme, e pareva che dicesse: ah! la c'è cascata la brava. Quella vista,
risvegliando più vivi nell'animo suo tutti gli antichi sentimenti, le restituì
anche un po' di quel poco antico coraggio: e già stava cercando una risposta
qualunque, diversa da quella che le era stata dettata; quando, alzato lo
sguardo alla faccia del padre, quasi per esperimentar le sue forze, scorse su
quella un'inquietudine così cupa, un'impazienza così minaccevole, che, risoluta
per paura, con la stessa prontezza che avrebbe preso la fuga dinanzi un oggetto
terribile, proseguì: - son qui a chiedere d'esser ammessa a vestir l'abito
religioso, in questo monastero, dove sono stata allevata così amorevolmente -.
La badessa rispose subito, che le dispiaceva molto, in una tale occasione, che
le regole non le permettessero di dare immediatamente una risposta, la quale
doveva venire dai voti comuni delle suore, e alla quale doveva precedere la
licenza de' superiori. Che però Gertrude, conoscendo i sentimenti che s'avevan
per lei in quel luogo, poteva preveder con certezza qual sarebbe questa
risposta; e che intanto nessuna regola proibiva alla badessa e alle suore di
manifestare la consolazione che sentivano di quella richiesta. S'alzò allora un
frastono confuso di congratulazioni e d'acclamazioni. Vennero subito gran
guantiere colme di dolci, che furon presentati, prima alla sposina, e dopo ai
parenti. Mentre alcune monache facevano a rubarsela, e altre complimentavan la
madre, altre il principino, la badessa fece pregare il principe che volesse
venire alla grata del parlatorio, dove l'attendeva. Era accompagnata da due
anziane; e quando lo vide comparire, - signor principe, - disse: - per ubbidire
alle regole... per adempire una formalità indispensabile, sebbene in questo
caso... pure devo dirle... che, ogni volta che una figlia chiede d'essere
ammessa a vestir l'abito,... la superiora, quale io sono indegnamente,... è
obbligata d'avvertire i genitori... che se, per caso... forzassero la volontà
della figlia, incorrerebbero nella scomunica. Mi scuserà...
-
Benissimo, benissimo, reverenda madre. Lodo la sua esattezza: è troppo
giusto... Ma lei non può dubitare... - Oh! pensi, signor principe,... ho
parlato per obbligo preciso,... del resto...
-
Certo, certo, madre badessa.
Barattate
queste poche parole, i due interlocutori s'inchinarono vicendevolmente, e si
separarono, come se a tutt'e due pesasse di rimaner lì testa testa; e andarono
a riunirsi ciascuno alla sua compagnia, l'uno fuori, l'altra dentro la soglia
claustrale. Dato luogo a un po' d'altre ciarle, - Oh via, - disse il principe:
- Gertrude potrà presto godersi a suo bell'agio la compagnia di queste madri.
Per ora le abbiamo incomodate abbastanza -. Così detto, fece un inchino; la
famiglia si mosse con lui; si rinnovarono i complimenti, e si partì.
Gertrude,
nel tornare, non aveva troppa voglia di discorrere. Spaventata del passo che
aveva fatto, vergognosa della sua dappocaggine, indispettita contro gli altri e
contro sé stessa, faceva tristamente il conto dell'occasioni, che le rimanevano
ancora di dir di no; e prometteva debolmente e confusamente a sé stessa che, in
questa, o in quella, o in quell'altra, sarebbe più destra e più forte. Con
tutti questi pensieri, non le era però cessato affatto il terrore di quel
cipiglio del padre; talché, quando, con un'occhiata datagli alla sfuggita, poté
chiarirsi che sul volto di lui non c'era più alcun vestigio di collera, quando
anzi vide che si mostrava soddisfattissimo di lei, le parve una bella cosa, e
fu, per un istante, tutta contenta.
Appena
arrivati, bisognò rivestirsi e rilisciarsi; poi il desinare, poi alcune visite,
poi la trottata, poi la conversazione, poi la cena. Sulla fine di questa, il
principe mise in campo un altro affare, la scelta della madrina. Così si
chiamava una dama, la quale, pregata da' genitori, diventava custode e scorta
della giovane monacanda, nel tempo tra la richiesta e l'entratura nel
monastero; tempo che veniva speso in visitar le chiese, i palazzi pubblici, le
conversazioni, le ville, i santuari: tutte le cose in somma più notabili della
città e de' contorni; affinché le giovani, prima di proferire un voto
irrevocabile, vedessero bene a cosa davano un calcio. - Bisognerà pensare a una
madrina, - disse il principe: - perché domani verrà il vicario delle monache, per
la formalità dell'esame, e subito dopo, Gertrude verrà proposta in capitolo,
per esser accettata dalle madri -. Nel dir questo, s'era voltato verso la
principessa; e questa, credendo che fosse un invito a proporre, cominciava: -
ci sarebbe... - Ma il principe interruppe: - No, no, signora principessa: la
madrina deve prima di tutto piacere alla sposina; e benché l'uso universale dia
la scelta ai parenti, pure Gertrude ha tanto giudizio, tanta assennatezza, che
merita bene che si faccia un'eccezione per lei -. E qui, voltandosi a Gertrude,
in atto di chi annunzia una grazia singolare, continuò: - ognuna delle dame che
si son trovate questa sera alla conversazione, ha quel che si richiede per
esser madrina d'una figlia della nostra casa; non ce n'è nessuna, crederei, che
non sia per tenersi onorata della preferenza: scegliete voi.
Gertrude
vedeva bene che far questa scelta era dare un nuovo consenso; ma la proposta
veniva fatta con tanto apparato, che il rifiuto, per quanto fosse umile, poteva
parer disprezzo, o almeno capriccio e leziosaggine. Fece dunque anche quel
passo; e nominò la dama che, in quella sera, le era andata più a genio; quella
cioè che le aveva fatto più carezze, che l'aveva più lodata, che l'aveva
trattata con quelle maniere famigliari, affettuose e premurose, che, ne' primi
momenti d'una conoscenza, contraffanno una antica amicizia. - Ottima scelta, -
disse il principe, che desiderava e aspettava appunto quella. Fosse arte o
caso, era avvenuto come quando il giocator di bussolotti facendovi scorrere
davanti agli occhi le carte d'un mazzo, vi dice che ne pensiate una, e lui poi
ve la indovinerà; ma le ha fatte scorrere in maniera che ne vediate una sola.
Quella dama era stata tanto intorno a Gertrude tutta la sera, l'aveva tanto
occupata di sé, che a questa sarebbe bisognato uno sforzo di fantasia per
pensarne un'altra. Tante premure poi non eran senza motivo: la dama aveva, da
molto tempo, messo gli occhi addosso al principino, per farlo suo genero:
quindi riguardava le cose di quella casa come sue proprie; ed era ben naturale
che s'interessasse per quella cara Gertrude, niente meno de' suoi parenti più
prossimi.
Il
giorno dopo, Gertrude si svegliò col pensiero dell'esaminatore che doveva
venire; e mentre stava ruminando se potesse cogliere quella occasione così
decisiva, per tornare indietro, e in qual maniera, il principe la fece
chiamare. - Orsù, figliuola, - le disse: - finora vi siete portata
egregiamente: oggi si tratta di coronar l'opera. Tutto quel che s'è fatto
finora, s'è fatto di vostro consenso. Se in questo tempo vi fosse nato qualche
dubbio, qualche pentimentuccio, grilli di gioventù, avreste dovuto spiegarvi;
ma al punto a cui sono ora le cose, non è più tempo di far ragazzate.
Quell'uomo dabbene che deve venire stamattina, vi farà cento domande sulla
vostra vocazione: e se vi fate monaca di vostra volontà, e il perché e il per
come, e che so io? Se voi titubate nel rispondere, vi terrà sulla corda chi sa
quanto. Sarebbe un'uggia, un tormento per voi; ma ne potrebbe anche venire un
altro guaio più serio. Dopo tutte le dimostrazioni pubbliche che si son fatte,
ogni più piccola esitazione che si vedesse in voi, metterebbe a repentaglio il
mio onore, potrebbe far credere ch'io avessi presa una vostra leggerezza per
una ferma risoluzione, che avessi precipitato la cosa, che avessi... che so io?
In questo caso, mi troverei nella necessità di scegliere tra due partiti
dolorosi: o lasciar che il mondo formi un tristo concetto della mia condotta:
partito che non può stare assolutamente con ciò che devo a me stesso. O svelare
il vero motivo della vostra risoluzione e... - Ma qui, vedendo che Gertrude era
diventata scarlatta, che le si gonfiavan gli occhi, e il viso si contraeva,
come le foglie d'un fiore, nell'afa che precede la burrasca, troncò quel
discorso, e, con aria serena, riprese: - via, via, tutto dipende da voi, dal
vostro buon giudizio. So che n'avete molto, e non siete ragazza da guastar
sulla fine una cosa fatta bene; ma io doveva preveder tutti i casi. Non se ne
parli più; e restiam d'accordo che voi risponderete con franchezza, in maniera
di non far nascer dubbi nella testa di quell'uomo dabbene. Così anche voi ne
sarete fuori più presto -. E qui, dopo aver suggerita qualche risposta
all'interrogazioni più probabili, entrò nel solito discorso delle dolcezze e
de' godimenti ch'eran preparati a Gertrude nel monastero; e la trattenne in
quello, fin che venne un servitore ad annunziare il vicario. Il principe
rinnovò in fretta gli avvertimenti più importanti, e lasciò la figlia sola con
lui, com'era prescritto.
L'uomo
dabbene veniva con un po' d'opinione già fatta che Gertrude avesse una gran
vocazione al chiostro: perché così gli aveva detto il principe, quando era
stato a invitarlo. È vero che il buon prete, il quale sapeva che la diffidenza
era una delle virtù più necessarie nel suo ufizio, aveva per massima d'andar
adagio nel credere a simili proteste, e di stare in guardia contro le
preoccupazioni; ma ben di rado avviene che le parole affermative e sicure d'una
persona autorevole, in qualsivoglia genere, non tingano del loro colore la
mente di chi le ascolta.
Dopo i
primi complimenti, - signorina, - le disse, - io vengo a far la parte del
diavolo; vengo a mettere in dubbio ciò che, nella sua supplica lei ha dato per
certo; vengo a metterle davanti agli occhi le difficoltà, e ad accertarmi se le
ha ben considerate. Si contenti ch'io le faccia qualche interrogazione.
- Dica
pure, - rispose Gertrude.
Il buon
prete cominciò allora a interrogarla, nella forma prescritta dalle regole. -
Sente lei in cuor suo una libera, spontanea risoluzione di farsi monaca? Non
sono state adoperate minacce, o lusinghe? Non s'è fatto uso di nessuna
autorità, per indurla a questo? Parli senza riguardi, e con sincerità, a un
uomo il cui dovere è di conoscere la sua vera volontà, per impedire che non le
venga usata violenza in nessun modo.
La vera
risposta a una tale domanda s'affacciò subito alla mente di Gertrude, con
un'evidenza terribile. Per dare quella risposta, bisognava venire a una
spiegazione, dire di che era stata minacciata, raccontare una storia...
L'infelice rifuggì spaventata da questa idea; cercò in fretta un'altra
risposta; ne trovò una sola che potesse liberarla presto e sicuramente da quel
supplizio, la più contraria al vero. - Mi fo monaca, - disse, nascondendo il
suo turbamento, - mi fo monaca, di mio genio, liberamente.
- Da
quanto tempo le è nato codesto pensiero? - domandò ancora il buon prete.
- L'ho
sempre avuto, - rispose Gertrude, divenuta, dopo quel primo passo, più franca a
mentire contro se stessa.
- Ma
quale è il motivo principale che la induce a farsi monaca?
Il buon
prete non sapeva che terribile tasto toccasse; e Gertrude si fece una gran
forza per non lasciar trasparire sul viso l'effetto che quelle parole le
producevano nell'animo. - Il motivo, - disse, - è di servire a Dio, e di
fuggire i pericoli del mondo.
- Non
sarebbe mai qualche disgusto? qualche... mi scusi... capriccio? Alle volte, una
cagione momentanea può fare un'impressione che par che deva durar sempre; e
quando poi la cagione cessa, e l'animo si muta, allora...
- No,
no, - rispose precipitosamente Gertrude: - la cagione è quella che le ho detto.
Il
vicario, più per adempire interamente il suo obbligo, che per la persuasione
che ce ne fosse bisogno, insistette con le domande; ma Gertrude era determinata
d'ingannarlo. Oltre il ribrezzo che le cagionava il pensiero di render
consapevole della sua debolezza quel grave e dabben prete, che pareva così
lontano dal sospettar tal cosa di lei; la poveretta pensava poi anche ch'egli
poteva bene impedire che si facesse monaca; ma lì finiva la sua autorità sopra
di lei, e la sua protezione. Partito che fosse, essa rimarrebbe sola col
principe. E qualunque cosa avesse poi a patire in quella casa, il buon prete
non n'avrebbe saputo nulla, o sapendolo, con tutta la sua buona intenzione, non
avrebbe potuto far altro che aver compassione di lei, quella compassione
tranquilla e misurata, che, in generale, s'accorda, come per cortesia, a chi
abbia dato cagione o pretesto al male che gli fanno. L'esaminatore fu prima
stanco d'interrogare, che la sventurata di mentire: e, sentendo quelle risposte
sempre conformi, e non avendo alcun motivo di dubitare della loro schiettezza,
mutò finalmente linguaggio; si rallegrò con lei, le chiese, in certo modo,
scusa d'aver tardato tanto a far questo suo dovere; aggiunse ciò che credeva
più atto a confermarla nel buon proposito; e si licenziò.
Attraversando
le sale per uscire, s'abbatté nel principe, il quale pareva che passasse di là
a caso; e con lui pure si congratulò delle buone disposizioni in cui aveva
trovata la sua figliuola. Il principe era stato fino allora in una sospensione
molto penosa: a quella notizia, respirò, e dimenticando la sua gravità
consueta, andò quasi di corsa da Gertrude, la ricolmò di lodi, di carezze e di
promesse, con un giubilo cordiale, con una tenerezza in gran parte sincera:
così fatto è questo guazzabuglio del cuore umano.
Noi non
seguiremo Gertrude in quel giro continuato di spettacoli e di divertimenti. E
neppure descriveremo, in particolare e per ordine, i sentimenti dell'animo suo
in tutto quel tempo: sarebbe una storia di dolori e di fluttuazioni, troppo
monotona, e troppo somigliante alle cose già dette. L'amenità de' luoghi, la
varietà degli oggetti, quello svago che pur trovava nello scorrere in qua e in
là all'aria aperta, le rendevan più odiosa l'idea del luogo dove alla fine si
smonterebbe per l'ultima volta, per sempre. Più pungenti ancora eran
l'impressioni che riceveva nelle conversazioni e nelle feste. La vista delle
spose alle quali si dava questo titolo nel senso più ovvio e più usitato, le
cagionava un'invidia, un rodimento intollerabile; e talvolta l'aspetto di
qualche altro personaggio le faceva parere che, nel sentirsi dare quel titolo,
dovesse trovarsi il colmo d'ogni felicità. Talvolta la pompa de' palazzi, lo
splendore degli addobbi, il brulichìo e il fracasso giulivo delle feste, le
comunicavano un'ebbrezza, un ardor tale di viver lieto, che prometteva a se
stessa di disdirsi, di soffrir tutto, piuttosto che tornare all'ombra fredda e
morta del chiostro. Ma tutte quelle risoluzioni sfumavano alla considerazione
più riposata delle difficoltà, al solo fissar gli occhi in viso al principe.
Talvolta anche, il pensiero di dover abbandonare per sempre que' godimenti,
gliene rendeva arnaro e penoso quel piccol saggio; come l'infermo assetato
guarda con rabbia, e quasi rispinge con dispetto il cucchiaio d'acqua che il
medico gli concede a fatica. Intanto il vicario delle monache ebbe rilasciata
l'attestazione necessaria, e venne la licenza di tenere il capitolo per
l'accettazione di Gertrude. Il capitolo si tenne; concorsero, com'era da
aspettarsi, i due terzi de' voti segreti ch'eran richiesti da' regolamenti; e
Gertrude fu accettata. Lei medesima, stanca di quel lungo strazio, chiese
allora d'entrar più presto che fosse possibile, nel monastero. Non c'era
sicuramente chi volesse frenare una tale impazienza. Fu dunque fatta la sua
volontà; e, condotta pomposamente al monastero, vestì l'abito. Dopo dodici mesi
di noviziato, pieni di pentimenti e di ripentimenti, si trovò al momento della
professione, al momento cioè in cui conveniva, o dire un no più strano, più
inaspettato, più scandaloso che mai, o ripetere un sì tante volte detto; lo
ripeté, e fu monaca per sempre.
È una
delle facoltà singolari e incomunicabili della religione cristiana, il poter
indirizzare e consolare chiunque, in qualsivoglia congiuntura, a qualsivoglia
termine, ricorra ad essa. Se al passato c'è rimedio, essa lo prescrive, lo
somministra, dà lume e vigore per metterlo in opera, a qualunque costo; se non
c'è, essa dà il modo di far realmente e in effetto, ciò che si dice in
proverbio, di necessita virtù. Insegna a continuare con sapienza ciò ch'è stato
intrapreso per leggerezza; piega l'animo ad abbracciar con propensione ciò che
è stato imposto dalla prepotenza, e dà a una scelta che fu temeraria, ma che è
irrevocabile, tutta la santità, tutta la saviezza, diciamolo pur francamente,
tutte le gioie della vocazione. È una strada così fatta che, da qualunque
laberinto, da qualunque precipizio, l'uomo capiti ad essa, e vi faccia un
passo, può d'allora in poi camminare con sicurezza e di buona voglia, e arrivar
lietamente a un lieto fine. Con questo mezzo, Gertrude avrebbe potuto essere
una monaca santa e contenta, comunque lo fosse divenuta. Ma l'infelice si
dibatteva in vece sotto il giogo, e così ne sentiva più forte il peso e le
scosse. Un rammarico incessante della libertà perduta, l'abborrimento dello
stato presente, un vagar faticoso dietro a desidèri che non sarebbero mai
soddisfatti, tali erano le principali occupazioni dell'animo suo. Rimasticava
quell'amaro passato, ricomponeva nella memoria tutte le circostanze per le
quali si trovava lì; e disfaceva mille volte inutilmente col pensiero ciò che
aveva fatto con l'opera; accusava sé di dappocaggine, altri di tirannia e di
perfidia; e si rodeva. Idolatrava insieme e piangeva la sua bellezza, deplorava
una gioventù destinata a struggersi in un lento martirio, e invidiava, in certi
momenti, qualunque donna, in qualunque condizione, con qualunque coscienza,
potesse liberamente godersi nel mondo que' doni.
La
vista di quelle monache che avevan tenuto di mano a tirarla là dentro, le era
odiosa. Si ricordava l'arti e i raggiri che avevan messi in opera, e le pagava
con tante sgarbatezze, con tanti dispetti, e anche con aperti rinfacciamenti. A
quelle conveniva le più volte mandar giù e tacere: perché il principe aveva ben
voluto tiranneggiar la figlia quanto era necessario per ispingerla al chiostro;
ma ottenuto l'intento, non avrebbe così facilmente sofferto che altri
pretendesse d'aver ragione contro il suo sangue: e ogni po' di rumore che
avesser fatto, poteva esser cagione di far loro perdere quella gran protezione,
o cambiar per avventura il protettore in nemico. Pare che Gertrude avrebbe
dovuto sentire una certa propensione per l'altre suore, che non avevano avuto
parte in quegl'intrighi, e che, senza averla desiderata per compagna, l'amavano
come tale; e pie, occupate e ilari, le mostravano col loro esempio come anche
là dentro si potesse non solo vivere, ma starci bene. Ma queste pure le erano
odiose, per un altro verso. La loro aria di pietà e di contentezza le riusciva
come un rimprovero della sua inquietudine, e della sua condotta bisbetica; e non
lasciava sfuggire occasione di deriderle dietro le spalle, come pinzochere, o
di morderle come ipocrite. Forse sarebbe stata meno avversa ad esse, se avesse
saputo o indovinato che le poche palle nere, trovate nel bossolo che decise
della sua accettazione, c'erano appunto state messe da quelle.
Qualche
consolazione le pareva talvolta di trovar nel comandare, nell'esser corteggiata
in monastero, nel ricever visite di complimento da persone di fuori, nello
spuntar qualche impegno, nello spendere la sua protezione, nel sentirsi chiamar
la signora; ma quali consolazioni! Il cuore, trovandosene così poco appagato,
avrebbe voluto di quando in quando aggiungervi, e goder con esse le
consolazioni della religione; ma queste non vengono se non a chi trascura
quell'altre: come il naufrago, se vuole afferrar la tavola che può condurlo in
salvo sulla riva, deve pure allargare il pugno, e abbandonar l'alghe, che aveva
prese, per una rabbia d'istinto.
Poco
dopo la professione, Gertrude era stata fatta maestra dell'educande; ora
pensate come dovevano stare quelle giovinette, sotto una tal disciplina. Le sue
antiche confidenti eran tutte uscite; ma lei serbava vive tutte le passioni di
quel tempo; e, in un modo o in un altro, l'allieve dovevan portarne il peso.
Quando le veniva in mente che molte di loro eran destinate a vivere in quel
mondo dal quale essa era esclusa per sempre, provava contro quelle poverine un
astio, un desiderio quasi di vendetta; e le teneva sotto, le bistrattava,
faceva loro scontare anticipatamente i piaceri che avrebber goduti un giorno.
Chi avesse sentito, in que' momenti, con che sdegno magistrale le gridava, per
ogni piccola scappatella, l'avrebbe creduta una donna d'una spiritualità
salvatica e indiscreta. In altri momenti, lo stesso orrore per il chiostro, per
la regola, per l'ubbidienza, scoppiava in accessi d'umore tutto opposto.
Allora, non solo sopportava la svagatezza clamorosa delle sue allieve, ma
l'eccitava; si mischiava ne' loro giochi, e li rendeva più sregolati; entrava a
parte de' loro discorsi, e li spingeva più in là dell'intenzioni con le quali
esse gli avevano incominciati. Se qualcheduna diceva una parola sul cicalìo
della madre badessa, la maestra lo imitava lungamente, e ne faceva una scena di
commedia; contraffaceva il volto d'una monaca, l'andatura d'un'altra: rideva
allora sgangheratamente; ma eran risa che non la lasciavano più allegra di
prima. Così era vissuta alcuni anni, non avendo comodo, né occasione di far di
più; quando la sua disgrazia volle che un'occasione si presentasse.
Tra
l'altre distinzioni e privilegi che le erano stati concessi, per compensarla di
non poter esser badessa, c'era anche quello di stare in un quartiere a parte.
Quel lato del monastero era contiguo a una casa abitata da un giovine,
scellerato di professione, uno de' tanti, che, in que' tempi, e co' loro
sgherri, e con l'alleanze d'altri scellerati, potevano, fino a un certo segno,
ridersi della forza pubblica e delle leggi. Il nostro manoscritto lo nomina
Egidio, senza parlar del casato. Costui, da una sua finestrina che dominava un
cortiletto di quel quartiere, avendo veduta Gertrude qualche volta passare o
girandolar lì, per ozio, allettato anzi che atterrito dai pericoli e
dall'empietà dell'impresa, un giorno osò rivolgerle il discorso. La sventurata
rispose.
In que'
primi momenti, provò una contentezza, non schietta al certo, ma viva. Nel vòto
uggioso dell'animo suo s'era venuta a infondere un'occupazione forte, continua
e, direi quasi, una vita potente; ma quella contentezza era simile alla bevanda
ristorativa che la crudeltà ingegnosa degli antichi mesceva al condannato, per
dargli forza a sostenere i tormenti. Si videro, nello stesso tempo, di gran
novità in tutta la sua condotta: divenne, tutt'a un tratto, più regolare, più
tranquilla, smesse gli scherni e il brontolìo, si mostrò anzi carezzevole e
manierosa, dimodoché le suore si rallegravano a vicenda del cambiamento felice;
lontane com'erano dall'immaginarne il vero motivo, e dal comprendere che quella
nuova virtù non era altro che ipocrisia aggiunta all'antiche magagne.
Quell'apparenza però, quella, per dir così, imbiancatura esteriore, non durò
gran tempo, almeno con quella continuità e uguaglianza: ben presto tornarono in
campo i soliti dispetti e i soliti capricci, tornarono a farsi sentire l'imprecazioni
e gli scherni contro la prigione claustrale, e talvolta espressi in un
linguaggio insolito in quel luogo, e anche in quella bocca. Però, ad ognuna di
queste scappate veniva dietro un pentimento, una gran cura di farle
dimenticare, a forza di moine e buone parole. Le suore sopportavano alla meglio
tutti questi alt'e bassi, e gli attribuivano all'indole bisbetica e leggiera
della signora.
Per
qualche tempo, non parve che nessuna pensasse più in là; ma un giorno che la
signora, venuta a parole con una conversa, per non so che pettegolezzo, si
lasciò andare a maltrattarla fuor di modo, e non la finiva più, la conversa,
dopo aver sofferto, ed essersi morse le labbra un pezzo, scappatale finalmente
la pazienza, buttò là una parola, che lei sapeva qualche cosa, e, che, a tempo
e luogo, avrebbe parlato. Da quel momento in poi, la signora non ebbe più pace.
Non passò però molto tempo, che la conversa fu aspettata in vano, una mattina,
a' suoi ufizi consueti: si va a veder nella sua cella, e non si trova: è
chiamata ad alta voce; non risponde: cerca di qua, cerca di là, gira e rigira,
dalla cima al fondo; non c'è in nessun luogo. E chi sa quali congetture si
sarebber fatte, se, appunto nel cercare, non si fosse scoperto una buca nel
muro dell'orto; la qual cosa fece pensare a tutte, che fosse sfrattata di là.
Si fecero gran ricerche in Monza e ne' contorni, e principalmente a Meda, di
dov'era quella conversa; si scrisse in varie parti: non se n'ebbe mai la più
piccola notizia. Forse se ne sarebbe potuto saper di più, se, in vece di cercar
lontano, si fosse scavato vicino. Dopo molte maraviglie, perché nessuno
l'avrebbe creduta capace di ciò, e dopo molti discorsi, si concluse che doveva
essere andata lontano, lontano. E perché scappò detto a una suora: - s'è
rifugiata in Olanda di sicuro, - si disse subito, e si ritenne per un pezzo,
nel monastero e fuori, che si fosse rifugiata in Olanda. Non pare però che la
signora fosse di questo parere. Non già che mostrasse di non credere, o
combattesse l'opinion comune, con sue ragioni particolari: se ne aveva, certo,
ragioni non furono mai così ben dissimulate; né c'era cosa da cui s'astenesse
più volentieri che da rimestar quella storia, cosa di cui si curasse meno che
di toccare il fondo di quel mistero. Ma quanto meno ne parlava, tanto più ci
pensava. Quante volte al giorno l'immagine di quella donna veniva a cacciarsi
d'improvviso nella sua mente, e si piantava lì, e non voleva moversi! Quante
volte avrebbe desiderato di vedersela dinanzi viva e reale, piuttosto che
averla sempre fissa nel pensiero, piuttosto che dover trovarsi, giorno e notte,
in compagnia di quella forma vana, terribile, impassibile! Quante volte avrebbe
voluto sentir davvero la voce di colei, qualunque cosa avesse potuto
minacciare, piuttosto che aver sempre nell'intimo dell'orecchio mentale il
susurro fantastico di quella stessa voce, e sentirne parole ripetute con una
pertinacia, con un'insistenza infaticabile, che nessuna persona vivente non
ebbe mai!
Era
scorso circa un anno dopo quel fatto, quando Lucia fu presentata alla signora,
ed ebbe con lei quel colloquio al quale siam rimasti col racconto. La signora
moltiplicava le domande intorno alla persecuzione di don Rodrigo, e entrava in
certi particolari, con una intrepidezza, che riuscì e doveva riuscire più che
nuova a Lucia, la quale non aveva mai pensato che la curiosità delle monache
potesse esercitarsi intorno a simili argomenti. I giudizi poi che quella
frammischiava all'interrogazioni, o che lasciava trasparire, non eran meno
strani. Pareva quasi che ridesse del gran ribrezzo che Lucia aveva sempre avuto
di quel signore, e domandava se era un mostro, da far tanta paura: pareva quasi
che avrebbe trovato irragionevole e sciocca la ritrosia della giovine, se non
avesse avuto per ragione la preferenza data a Renzo. E su questo pure
s'avanzava a domande, che facevano stupire e arrossire l'interrogata.
Avvedendosi poi d'aver troppo lasciata correr la lingua dietro agli svagamenti
del cervello, cercò di correggere e d'interpretare in meglio quelle sue ciarle;
ma non poté fare che a Lucia non ne rimanesse uno stupore dispiacevole, e come
un confuso spavento. E appena poté trovarsi sola con la madre, se n'aprì con
lei; ma Agnese, come più esperta, sciolse, con poche parole, tutti que' dubbi,
e spiegò tutto il mistero. - Non te ne far maraviglia, - disse: - quando avrai
conosciuto il mondo quanto me, vedrai che non son cose da farsene maraviglia. I
signori, chi più, chi meno, chi per un verso, chi per un altro, han tutti un
po' del matto. Convien lasciarli dire, principalmente quando s'ha bisogno di
loro; far vista d'ascoltarli sul serio, come se dicessero delle cose giuste.
Hai sentito come m'ha dato sulla voce, come se avessi detto qualche gran
sproposito? Io non me ne son fatta caso punto. Son tutti così. E con tutto ciò,
sia ringraziato il cielo, che pare che questa signora t'abbia preso a ben
volere, e voglia proteggerci davvero. Del resto, se camperai, figliuola mia, e
se t'accaderà ancora d'aver che fare con de' signori, ne sentirai, ne sentirai,
ne sentirai.
Il
desiderio d'obbligare il padre guardiano, la compiacenza di proteggere, il
pensiero del buon concetto che poteva fruttare la protezione impiegata così
santamente, una certa inclinazione per Lucia, e anche un certo sollievo nel far
del bene a una creatura innocente, nel soccorrere e consolare oppressi, avevan
realmente disposta la signora a prendersi a petto la sorte delle due povere
fuggitive. A sua richiesta, e a suo riguardo, furono alloggiate nel quartiere
della fattoressa attiguo al chiostro, e trattate come se fossero addette al
servizio del monastero. La madre e la figlia si rallegravano insieme d'aver
trovato così presto un asilo sicuro e onorato. Avrebber anche avuto molto
piacere di rimanervi ignorate da ogni persona; ma la cosa non era facile in un
monastero: tanto più che c'era un uomo troppo premuroso d'aver notizie d'una di
loro, e nell'animo del quale, alla passione e alla picca di prima s'era
aggiunta anche la stizza d'essere stato prevenuto e deluso. E noi, lasciando le
donne nel loro ricovero, torneremo al palazzotto di costui, nell'ora in cui
stava attendendo l'esito della sua scellerata spedizione.
Come un
branco di segugi, dopo aver inseguita invano una lepre, tornano mortificati
verso il padrone, co' musi bassi, e con le code ciondoloni, così, in quella
scompigliata notte, tornavano i bravi al palazzotto di don Rodrigo. Egli
camminava innanzi e indietro, al buio, per una stanzaccia disabitata
dell'ultimo piano, che rispondeva sulla spianata. Ogni tanto si fermava,
tendeva l'orecchio, guardava dalle fessure dell'imposte intarlate, pieno
d'impazienza e non privo d'inquietudine, non solo per l'incertezza della
riuscita, ma anche per le conseguenze possibili; perché era la più grossa e la
più arrischiata a cui il brav'uomo avesse ancor messo mano. S'andava però
rassicurando col pensiero delle precauzioni prese per distrugger gl'indizi, se
non i sospetti. "In quanto ai sospetti", pensava, "me ne rido.
Vorrei un po' sapere chi sarà quel voglioso che venga quassù a veder se c'è o
non c'è una ragazza. Venga, venga quel tanghero, che sarà ben ricevuto. Venga
il frate, venga. La vecchia? Vada a Bergamo la vecchia. La giustizia? Poh la
giustizia! Il podestà non è un ragazzo, né un matto. E a Milano? Chi si cura di
costoro a Milano? Chi gli darebbe retta? Chi sa che ci siano? Son come gente
perduta sulla terra; non hanno né anche un padrone: gente di nessuno. Via, via,
niente paura. Come rimarrà Attilio, domattina! Vedrà, vedrà s'io fo ciarle o
fatti. E poi... se mai nascesse qualche imbroglio... che so io? qualche nemico
che volesse cogliere quest'occasione,... anche Attilio saprà consigliarmi: c'è
impegnato l'onore di tutto il parentado". Ma il pensiero sul quale si
fermava di più, perché in esso trovava insieme un acquietamento de' dubbi, e un
pascolo alla passion principale, era il pensiero delle lusinghe, delle promesse
che adoprerebbe per abbonire Lucia. "Avrà tanta paura di trovarsi qui
sola, in mezzo a costoro, a queste facce, che... il viso più umano qui son io,
per bacco... che dovrà ricorrere a me, toccherà a lei a pregare; e se
prega".
Mentre
fa questi bei conti, sente un calpestìo, va alla finestra, apre un poco, fa
capolino; son loro. "E la bussola? Diavolo! dov'è la bussola? Tre, cinque,
otto: ci son tutti; c'è anche il Griso; la bussola non c'è: diavolo! diavolo!
il Griso me ne renderà conto".
Entrati
che furono, il Griso posò in un angolo d'una stanza terrena il suo bordone,
posò il cappellaccio e il sanrocchino, e, come richiedeva la sua carica, che in
quel momento nessuno gl'invidiava, salì a render quel conto a don Rodrigo.
Questo l'aspettava in cima alla scala; e vistolo apparire con quella goffa e
sguaiata presenza del birbone deluso, - ebbene, - gli disse, o gli gridò: -
signore spaccone, signor capitano, signor lascifareame?
- L'è
dura, - rispose il Griso, restando con un piede sul primo scalino, - l'è dura
di ricever de' rimproveri, dopo aver lavorato fedelmente, e cercato di fare il
proprio dovere, e arrischiata anche la pelle.
- Com'è
andata? Sentiremo, sentiremo, - disse don Rodrigo, e s'avviò verso la sua
camera, dove il Griso lo seguì, e fece subito la relazione di ciò che aveva
disposto, fatto, veduto e non veduto, sentito, temuto, riparato; e la fece con
quell'ordine e con quella confusione, con quella dubbiezza e con quello
sbalordimento, che dovevano per forza regnare insieme nelle sue idee.
- Tu
non hai torto, e ti sei portato bene, - disse don Rodrigo: - hai fatto quello
che si poteva; ma... ma, che sotto questo tetto ci fosse una spia! Se c'è, se
lo arrivo a scoprire, e lo scopriremo se c'è, te l'accomodo io; ti so dir io,
Griso, che lo concio per il dì delle feste.
- Anche
a me, signore, - disse il Griso, - è passato per la mente un tal sospetto: e se
fosse vero, se si venisse a scoprire un birbone di questa sorte, il signor
padrone lo deve metter nelle mie mani. Uno che si fosse preso il divertimento
di farmi passare una notte come questa! toccherebbe a me a pagarlo. Però, da
varie cose m'è parso di poter rilevare che ci dev'essere qualche altro intrigo,
che per ora non si può capire. Domani, signore, domani se ne verrà in chiaro.
- Non
siete stati riconosciuti almeno?
Il
Griso rispose che sperava di no; e la conclusione del discorso fu che don
Rodrigo gli ordinò, per il giorno dopo, tre cose che colui avrebbe sapute ben
pensare anche da sé. Spedire la mattina presto due uomini a fare al console
quella tale intimazione, che fu poi fatta, come abbiam veduto; due altri al
casolare a far la ronda, per tenerne lontano ogni ozioso che vi capitasse, e
sottrarre a ogni sguardo la bussola fino alla notte prossima, in cui si
manderebbe a prenderla; giacché per allora non conveniva fare altri movimenti
da dar sospetto; andar poi lui, e mandare anche altri, de' più disinvolti e di
buona testa, a mescolarsi con la gente, per scovar qualcosa intorno
all'imbroglio di quella notte. Dati tali ordini, don Rodrigo se n'andò a
dormire, e ci lasciò andare anche il Griso, congedandolo con molte lodi, dalle
quali traspariva evidentemente l'intenzione di risarcirlo degl'improperi
precipitati coi quali lo aveva accolto.
Va a
dormire, povero Griso, che tu ne devi aver bisogno. Povero Griso! In faccende
tutto il giorno, in faccende mezza la notte, senza contare il pericolo di cader
sotto l'unghie de' villani, o di buscarti una taglia per rapto di donna
honesta, per giunta di quelle che hai già addosso; e poi esser ricevuto in
quella maniera! Ma! così pagano spesso gli uomini. Tu hai però potuto vedere,
in questa circostanza, che qualche volta la giustizia, se non arriva alla
prima, arriva, o presto o tardi anche in questo mondo. Va a dormire per ora:
che un giorno avrai forse a somministrarcene un'altra prova, e più notabile di
questa.
La
mattina seguente, il Griso era fuori di nuovo in faccende, quando don Rodrigo
s'alzò. Questo cercò subito del conte Attilio, il quale, vedendolo spuntare,
fece un viso e un atto canzonatorio, e gli gridò: - san Martino!
- Non
so cosa vi dire, - rispose don Rodrigo, arrivandogli accanto: - pagherò la
scommessa; ma non è questo quel che più mi scotta. Non v'avevo detto nulla,
perche, lo confesso, pensavo di farvi rimanere stamattina. Ma... basta, ora vi
racconterò tutto.
- Ci ha
messo uno zampino quel frate in quest'affare, - disse il cugino, dopo aver
sentito tutto, con più serietà che non si sarebbe aspettato da un cervello così
balzano. - Quel frate, - continuò, - con quel suo fare di gatta morta, e con
quelle sue proposizioni sciocche, io l'ho per un dirittone, e per un
impiccione. E voi non vi siete fidato di me, non m'avete mai detto chiaro cosa
sia venuto qui a impastocchiarvi l'altro giorno -. Don Rodrigo riferì il
dialogo. - E voi avete avuto tanta sofferenza? - esclamò il conte Attilio: - e
l'avete lasciato andare com'era venuto?
- Che
volevate ch'io mi tirassi addosso tutti i cappuccini d'Italia?
- Non
so, - disse il conte Attilio, - se, in quel momento, mi sarei ricordato che ci
fossero al mondo altri cappuccini che quel temerario birbante; ma via, anche
nelle regole della prudenza, manca la maniera di prendersi soddisfazione anche
d'un cappuccino? Bisogna saper raddoppiare a tempo le gentilezze a tutto il
corpo, e allora si può impunemente dare un carico di bastonate a un membro.
Basta; ha scansato la punizione che gli stava più bene; ma lo prendo io sotto
la mia protezione, e voglio aver la consolazione d'insegnargli come si parla
co' pari nostri.
- Non
mi fate peggio.
-
Fidatevi una volta, che vi servirò da parente e da amico.
- Cosa
pensate di fare?
- Non
lo so ancora; ma lo servirò io di sicuro il frate. Ci penserò, e... il signor
conte zio del Consiglio segreto è lui che mi deve fare il servizio. Caro signor
conte zio! Quanto mi diverto ogni volta che lo posso far lavorare per me, un
politicone di quel calibro! Doman l'altro sarò a Milano, e, in una maniera o in
un'altra, il frate sarà servito.
Venne
intanto la colazione, la quale non interruppe il discorso d'un affare di
quell'importanza. Il conte Attilio ne parlava con disinvoltura; e, sebbene ci
prendesse quella parte che richiedeva la sua amicizia per il cugino, e l'onore
del nome comune, secondo le idee che aveva d'amicizia e d'onore, pure ogni
tanto non poteva tenersi di non rider sotto i baffi, di quella bella riuscita.
Ma don Rodrigo, ch'era in causa propria, e che, credendo di far quietamente un
gran colpo, gli era andato fallito con fracasso, era agitato da passioni più
gravi, e distratto da pensieri più fastidiosi. - Di belle ciarle, - diceva, -
faranno questi mascalzoni, in tutto il contorno. Ma che m'importa? In quanto
alla giustizia, me ne rido: prove non ce n'è; quando ce ne fosse, me ne riderei
ugualmente: a buon conto, ho fatto stamattina avvertire il console che guardi
bene di non far deposizione dell'avvenuto. Non ne seguirebbe nulla; ma le
ciarle, quando vanno in lungo, mi seccano. È anche troppo ch'io sia stato
burlato così barbaramente.
- Avete
fatto benissimo, - rispondeva il conte Attilio. - Codesto vostro podestà...
gran caparbio, gran testa vota, gran seccatore d'un podestà... è poi un
galantuomo, un uomo che sa il suo dovere; e appunto quando s'ha che fare con
persone tali, bisogna aver più riguardo di non metterle in impicci. Se un
mascalzone di console fa una deposizione, il podestà, per quanto sia ben
intenzionato, bisogna pure che...
- Ma
voi, - interruppe, con un po' di stizza, don Rodrigo, - voi guastate le mie faccende,
con quel vostro contraddirgli in tutto, e dargli sulla voce, e canzonarlo
anche, all'occorrenza. Che diavolo, che un podestà non possa esser bestia e
ostinato, quando nel rimanente è un galantuomo!
-
Sapete, cugino, - disse guardandolo, maravigliato, il conte Attilio, - sapete,
che comincio a credere che abbiate un po' di paura? Mi prendete sul serio anche
il podestà...
- Via
via, non avete detto voi stesso che bisogna tenerlo di conto?
- L'ho
detto: e quando si tratta d'un affare serio, vi farò vedere che non sono un
ragazzo. Sapete cosa mi basta l'animo di far per voi? Son uomo da andare in
persona a far visita al signor podestà. Ah! sarà contento dell'onore? E son
uomo da lasciarlo parlare per mezz'ora del conte duca, e del nostro signor
castellano spagnolo, e da dargli ragione in tutto, anche quando ne dirà di
quelle così massicce. Butterò poi là qualche parolina sul conte zio del
Consiglio segreto: e sapete che efletto fanno quelle paroline nell'orecchio del
signor podestà. Alla fin de' conti, ha più bisogno lui della nostra protezione,
che voi della sua condiscendenza. Farò di buono, e ci anderò, e ve lo lascerò
meglio disposto che mai.
Dopo
queste e altre simili parole, il conte Attilio uscì, per andare a caccia; e don
Rodrigo stette aspettando con ansietà il ritorno del Griso. Venne costui
finalmente, sull'ora del desinare, a far la sua relazione.
Lo
scompiglio di quella notte era stato tanto clamoroso, la sparizione di tre
persone da un paesello era un tal avvenimento, che le ricerche, e per premura e
per curiosità, dovevano naturalmente esser molte e calde e insistenti; e
dall'altra parte, gl'informati di qualche cosa eran troppi, per andar tutti
d'accordo a tacer tutto. Perpetua non poteva farsi veder sull'uscio, che non
fosse tempestata da quello e da quell'altro, perché dicesse chi era stato a far
quella gran paura al suo padrone: e Perpetua, ripensando a tutte le circostanze
del fatto, e raccapezzandosi finalmente ch'era stata infinocchiata da Agnese,
sentiva tanta rabbia di quella perfidia, che aveva proprio bisogno d'un po' di
sfogo. Non già che andasse lamentandosi col terzo e col quarto della maniera
tenuta per infinocchiar lei: su questo non fiatava; ma il tiro fatto al suo
povero padrone non lo poteva passare affatto sotto silenzio; e sopra tutto, che
un tiro tale fosse stato concertato e tentato da quel giovine dabbene, da
quella buona vedova, da quella madonnina infilzata. Don Abbondio poteva ben
comandarle risolutamente, e pregarla cordialmente che stesse zitta; lei poteva
bene ripetergli che non faceva bisogno di suggerirle una cosa tanto chiara e
tanto naturale; certo è che un così gran segreto stava nel cuore della povera
donna, come, in una botte vecchia e mal cerchiata, un vino molto giovine, che
grilla e gorgoglia e ribolle, e, se non manda il tappo per aria, gli geme
all'intorno, e vien fuori in ischiuma, e trapela tra doga e doga, e gocciola di
qua e di là, tanto che uno può assaggiarlo, e dire a un di presso che vino è.
Gervaso, a cui non pareva vero d'essere una volta più informato degli altri, a
cui non pareva piccola gloria l'avere avuta una gran paura, a cui, per aver
tenuto dl mano a una cosa che puzzava di criminale, pareva d'esser diventato un
uomo come gli altri, crepava di voglia di vantarsene. E quantunque Tonio, che pensava
seriamente all'inquisizioni e ai processi possibili e al conto da rendere, gli
comandasse, co' pugni sul viso, di non dir nulla a nessuno, pure non ci fu
verso di soffogargli in bocca ogni parola. Del resto Tonio, anche lui, dopo
essere stato quella notte fuor di casa in ora insolita, tornandovi, con un
passo e con un sembiante insolito, e con un'agitazion d'animo che lo disponeva
alla sincerità, non poté dissimulare il fatto a sua moglie; la quale non era
muta. Chi parlò meno, fu Menico; perché, appena ebbe raccontata ai genitori la
storia e il motivo della sua spedizione, parve a questi una cosa così terribile
che un loro figliuolo avesse avuto parte a buttare all'aria un'impresa di don
Rodrigo, che quasi quasi non lasciaron finire al ragazzo il suo racconto. Gli
fecero poi subito i più forti e minacciosi comandi che guardasse bene di non
far neppure un cenno di nulla: e la mattina seguente, non parendo loro
d'essersi abbastanza assicurati, risolvettero di tenerlo chiuso in casa, per
quel giorno, e per qualche altro ancora. Ma che? essi medesimi poi,
chiacchierando con la gente del paese, e senza voler mostrar di saperne più di
loro, quando si veniva a quel punto oscuro della fuga de' nostri tre poveretti,
e del come, e del perché, e del dove, aggiungevano, come cosa conosciuta, che
s'eran rifugiati a Pescarenico. Così anche questa circostanza entrò ne'
discorsi comuni.
Con
tutti questi brani di notizie, messi poi insieme e cuciti come s'usa, e con la
frangia che ci s'attacca naturalmente nel cucire, c'era da fare una storia
d'una certezza e d'una chiarezza tale, da esserne pago ogni intelletto più
critico. Ma quella invasion de' bravi, accidente troppo grave e troppo rumoroso
per esser lasciato fuori, e del quale nessuno aveva una conoscenza un po' positiva,
quell'accidente era ciò che imbrogliava tutta la storia. Si mormorava il nome
di don Rodrigo: in questo andavan tutti d'accordo; nel resto tutto era oscurità
e congetture diverse. Si parlava molto de' due bravacci ch'erano stati veduti
nella strada, sul far della sera, e dell'altro che stava sull'uscio
dell'osteria; ma che lume si poteva ricavare da questo fatto così asciutto? Si
domandava bene all'oste chi era stato da lui la sera avanti; ma l'oste, a
dargli retta, non sl rammentava neppure se avesse veduto gente quella sera; e
badava a dire che l'osteria è un porto di mare. Sopra tutto, confondeva le
teste, e disordinava le congetture quel pellegrino veduto da Stefano e da
Carlandrea, quel pellegrino che i malandrini volevano ammazzare, e che se n'era
andato con loro, o che essi avevan portato via. Cos'era venuto a fare? Era
un'anima del purgatorio, comparsa per aiutar le donne; era un'anima dannata
d'un pellegrino birbante e impostore, che veniva sempre di notte a unirsi con
chi facesse di quelle che lui aveva fatte vivendo; era un pellegrino vivo e
vero, che coloro avevan voluto ammazzare, per timor che gridasse, e destasse il
paese; era (vedete un po' cosa si va a pensare!) uno di quegli stessi
malandrini travestito da pellegrino; era questo, era quello, era tante cose che
tutta la sagacità e l'esperienza del Griso non sarebbe bastata a scoprire chi
fosse, se il Griso avesse dovuto rilevar questa parte della storia da' discorsi
altrui. Ma, come il lettore sa, ciò che la rendeva imbrogliata agli altri, era
appunto il più chiaro per lui: servendosene di chiave per interpretare le altre
notizie raccolte da lui immediatamente, o col mezzo degli esploratori
subordinati, poté di tutto comporne per don Rodrigo una relazione bastantemente
distinta. Si chiuse subito con lui, e l'informò del colpo tentato dai poveri
sposi, il che spiegava naturalmente la casa trovata vota e il sonare a
martello, senza che facesse bisogno di supporre che in casa ci fosse qualche
traditore, come dicevano que' due galantuomini. L'informò della fuga; e anche a
questa era facile trovarci le sue ragioni: il timore degli sposi colti in
fallo, o qualche avviso dell'invasione, dato loro quand'era scoperta, e il
paese tutto a soqquadro. Disse finalmente che s'eran ricoverati a Pescarenico;
più in là non andava la sua scienza. Piacque a don Rodrigo l'esser certo che
nessuno l'aveva tradito, e il vedere che non rimanevano tracce del suo fatto;
ma fu quella una rapida e leggiera compiacenza. - Fuggiti insieme! - gridò: -
insieme! E quel frate birbante! Quel frate! - la parola gli usciva arrantolata
dalla gola, e smozzicata tra' denti, che mordevano il dito: il suo aspetto era
brutto come le sue passioni. - Quel frate me la pagherà. Griso! non son chi
sono... voglio sapere, voglio trovare... questa sera, voglio saper dove sono.
Non ho pace. A Pescarenico, subito, a sapere, a vedere, a trovare... Quattro
scudi subito, e la mia protezione per sempre. Questa sera lo voglio sapere. E
quel birbone...! quel frate...!
Il
Griso di nuovo in campo; e, la sera di quel giorno medesimo, poté riportare al
suo degno padrone la notizia desiderata: ed ecco in qual maniera.
Una
delle più gran consolazioni di questa vita è l'amicizia; e una delle
consolazioni dell'amicizia è quell'avere a cui confidare un segreto. Ora, gli
amici non sono a due a due, come gli sposi; ognuno, generalmente parlando, ne
ha più d'uno: il che forma una catena, di cui nessuno potrebbe trovar la fine.
Quando dunque un amico si procura quella consolazione di deporre un segreto nel
seno d'un altro, dà a costui la voglia di procurarsi la stessa consolazione
anche lui. Lo prega, è vero, di non dir nulla a nessuno; e una tal condizione,
chi la prendesse nel senso rigoroso delle parole, troncherebbe immediatamente
il corso delle consolazioni. Ma la pratica generale ha voluto che obblighi
soltanto a non confidare il segreto, se non a chi sia un amico ugualmente
fidato, e imponendogli la stessa condizione. Così, d'amico fidato in amico
fidato, il segreto gira e gira per quell'immensa catena, tanto che arriva
all'orecchio di colui o di coloro a cui il primo che ha parlato intendeva
appunto di non lasciarlo arrivar mai. Avrebbe però ordinariamente a stare un
gran pezzo in cammino, se ognuno non avesse che due amici: quello che gli dice,
e quello a cui ridice la cosa da tacersi. Ma ci son degli uomini privilegiati
che li contano a centinaia; e quando il segreto è venuto a uno di questi
uomini, i giri divengon sì rapidi e sì moltiplici, che non è più possibile di
seguirne la traccia. Il nostro autore non ha potuto accertarsi per quante
bocche fosse passato il segreto che il Griso aveva ordine di scovare: il fatto
sta che il buon uomo da cui erano state scortate le donne a Monza, tornando,
verso le ventitre, col suo baroccio, a Pescarenico, s'abbatté, prima d'arrivare
a casa, in un amico fidato, al quale raccontò, in gran confidenza, l'opera
buona che aveva fatta, e il rimanente; e il fatto sta che il Griso poté, due
ore dopo, correre al palazzotto, a riferire a don Rodrigo che Lucia e sua madre
s'eran ricoverate in un convento di Monza, e che Renzo aveva seguitata la sua
strada fino a Milano.
Don
Rodrigo provò una scellerata allegrezza di quella separazione, e sentì
rinascere un po' di quella scellerata speranza d'arrivare al suo intento. Pensò
alla maniera, gran parte della notte; e s'alzò presto, con due disegni, l'uno
stabilito, l'altro abbozzato. Il primo era di spedire immantinente il Griso a
Monza, per aver più chiare notizie di Lucia, e sapere se ci fosse da tentar
qualche cosa. Fece dunque chiamar subito quel suo fedele, gli mise in mano i
quattro scudi, lo lodò di nuovo dell'abilità con cui gli aveva guadagnati, e
gli diede l'ordine che aveva premeditato.
-
Signore... - disse, tentennando, il Griso.
- Che?
non ho io parlato chiaro?
- Se
potesse mandar qualchedun altro...
- Come?
-
Signore illustrissimo, io son pronto a metterci la pelle per il mio padrone: è
il mio dovere; ma so anche che lei non vuole arrischiar troppo la vita de' suoi
sudditi.
-
Ebbene?
-
Vossignoria illustrissima sa bene quelle poche taglie ch'io ho addosso: e...
Qui son sotto la sua protezione; siamo una brigata; il signor podestà è amico
di casa; i birri mi portan rispetto; e anch'io... è cosa che fa poco onore, ma
per viver quieto... li tratto da amici. In Milano la livrea di vossignoria è
conosciuta; ma in Monza... ci sono conosciuto io in vece. E sa vossignoria che,
non fo per dire, chi mi potesse consegnare alla giustizia, o presentar la mia
testa, farebbe un bel colpo? Cento scudi l'uno sull'altro, e la facoltà di
liberar due banditi.
- Che
diavolo! - disse don Rodrigo: - tu mi riesci ora un can da pagliaio che ha
cuore appena d'avventarsi alle gambe di chi passa sulla porta, guardandosi
indietro se quei di casa lo spalleggiano, e non si sente d'allontanarsi!
-
Credo, signor padrone, d'aver date prove...
-
Dunque!
-
Dunque, - ripigliò francamente il Griso, messo così al punto, - dunque
vossignoria faccia conto ch'io non abbia parlato: cuor di leone, gamba di
lepre, e son pronto a partire.
- E io
non ho detto che tu vada solo. Piglia con te un paio de' meglio... lo
Sfregiato, e il Tiradritto; e va di buon animo, e sii il Griso. Che diavolo!
Tre figure come le vostre, e che vanno per i fatti loro, chi vuoi che non sia
contento di lasciarle passare? Bisognerebbe che a' birri di Monza fosse ben
venuta a noia la vita, per metterla su contro cento scudi a un gioco così
rischioso. E poi, e poi, non credo d'esser così sconosciuto da quelle parti,
che la qualità di mio servitore non ci si conti per nulla.
Svergognato
così un poco il Griso, gli diede poi più ampie e particolari istruzioni. Il
Griso prese i due compagni, e partì con faccia allegra e baldanzosa, ma
bestemmiando in cuor suo Monza e le taglie e le donne e i capricci de' padroni;
e camminava come il lupo, che spinto dalla fame, col ventre raggrinzato, e con
le costole che gli si potrebber contare, scende da' suoi monti, dove non c'è
che neve, s'avanza sospettosamente nel piano, si ferma ogni tanto, con una
zampa sospesa, dimenando la coda spelacchiata,
Leva il
muso, adorando il vento infido,
se mai
gli porti odore d'uomo o di ferro, rizza gli orecchi acuti, e gira due occhi
sanguigni, da cui traluce insieme l'ardore della preda e il terrore della
caccia. Del rimanente, quel bel verso, chi volesse saper donde venga, è tratto
da una diavoleria inedita di crociate e di lombardi, che presto non sarà più
inedita, e farà un bel rumore; e io l'ho preso, perche mi veniva in taglio; e
dico dove, per non farmi bello della roba altrui: che qualcheduno non pensasse
che sia una mia astuzia per far sapere che l'autore di quella diavoleria ed io
siamo come fratelli, e ch'io frugo a piacer mio ne' suoi manoscritti.
L'altra
cosa che premeva a don Rodrigo, era di trovar la maniera che Renzo non potesse
più tornar con Lucia, né metter piede in paese; e a questo fine, macchinava di
fare sparger voci di minacce e d'insidie, che, venendogli all'orecchio, per
mezzo di qualche amico, gli facessero passar la voglia di tornar da quelle
parti. Pensava però che la più sicura sarebbe se si potesse farlo sfrattar dallo
stato: e per riuscire in questo, vedeva che più della forza gli avrebbe potuto
servir la giustizia. Si poteva, per esempio, dare un po' di colore al tentativo
fatto nella casa parrocchiale, dipingerlo come un'aggressione, un atto
sedizioso, e, per mezzo del dottore, fare intendere al podestà ch'era il caso
di spedir contro Renzo una buona cattura. Ma pensò che non conveniva a lui di
rimestar quella brutta faccenda; e senza star altro a lambiccarsi il cervello,
si risolvette d'aprirsi col dottor Azzecca-garbugli, quanto era necessario per
fargli comprendere il suo desiderio. "Le gride son tante!" pensava:
"e il dottore non è un'oca: qualcosa che faccia al caso mio saprà trovare,
qualche garbuglio da azzeccare a quel villanaccio: altrimenti gli muto
nome". Ma (come vanno alle volte le cose di questo mondo!) intanto che
colui pensava al dottore, come all'uomo più abile a servirlo in questo, un
altr'uomo, l'uomo che nessuno s'immaginerebbe, Renzo medesimo, per dirla,
lavorava di cuore a servirlo, in un modo più certo e più spedito di tutti
quelli che il dottore avrebbe mai saputi trovare.
Ho
visto più volte un caro fanciullo, vispo, per dire il vero, più del bisogno, ma
che, a tutti i segnali, mostra di voler riuscire un galantuomo; l'ho visto,
dico, più volte affaccendato sulla sera a mandare al coperto un suo gregge di
porcellini d'India, che aveva lasciati scorrer liberi il giorno, in un
giardinetto. Avrebbe voluto fargli andar tutti insieme al covile; ma era fatica
buttata: uno si sbandava a destra, e mentre il piccolo pastore correva per
cacciarlo nel branco, un altro, due, tre ne uscivano a sinistra, da ogni parte.
Dimodoché, dopo essersi un po' impazientito, s'adattava al loro genio, spingeva
prima dentro quelli ch'eran più vicini all'uscio, poi andava a prender gli
altri, a uno, a due, a tre, come gli riusciva. Un gioco simile ci convien fare
co' nostri personaggi: ricoverata Lucia, siam corsi a don Rodrigo; e ora lo
dobbiamo abbandonare, per andar dietro a Renzo, che avevam perduto di vista.
Dopo la
separazione dolorosa che abbiam raccontata, camminava Renzo da Monza verso
Milano, in quello stato d'animo che ognuno può immaginarsi facilmente.
Abbandonar la casa, tralasciare il - mestiere, e quel ch'era più di tutto,
allontanarsi da Lucia, trovarsi sur una strada, senza saper dove anderebbe a
posarsi; e tutto per causa di quel birbone! Quando si tratteneva col pensiero
sull'una o sull'altra di queste cose, s'ingolfava tutto nella rabbia, e nel
desiderio della vendetta; ma gli tornava poi in mente quella preghiera che
aveva recitata anche lui col suo buon frate, nella chiesa di Pescarenico; e si
ravvedeva: gli si risvegliava ancora la stizza; ma vedendo un'immagine sul
muro, si levava il cappello, e si fermava un momento a pregar di nuovo: tanto
che, in quel viaggio, ebbe ammazzato in cuor suo don Rodrigo, e risuscitatolo,
almeno venti volte. La strada era allora tutta sepolta tra due alte rive,
fangosa, sassosa, solcata da rotaie profonde, che, dopo una pioggia, divenivan
rigagnoli; e in certe parti più basse, s'allagava tutta, che si sarebbe potuto
andarci in barca. A que' passi, un piccol sentiero erto, a scalini, sulla riva,
indicava che altri passeggieri s'eran fatta una strada ne' campi. Renzo, salito
per un di que' valichi sul terreno più elevato, vide quella gran macchina del
duomo sola sul piano, come se, non di mezzo a una città, ma sorgesse in un
deserto; e si fermò su due piedi, dimenticando tutti i suoi guai, a contemplare
anche da lontano quell'ottava maraviglia, di cui aveva tanto sentito parlare fin
da bambino. Ma dopo qualche momento, voltandosi indietro, vide all'orizzonte
quella cresta frastagliata di montagne, vide distinto e alto tra quelle il suo
Resegone, si sentì tutto rimescolare il sangue, stette lì alquanto a guardar
tristamente da quella parte, poi tristamente si voltò, e seguitò la sua strada.
A poco a poco cominciò poi a scoprir campanili e torri e cupole e tetti; scese
allora nella strada, camminò ancora qualche tempo, e quando s'accorse d'esser
ben vicino alla città, s'accostò a un viandante, e, inchinatolo, con tutto quel
garbo che seppe, gli disse: - di grazia, quel signore. - Che volete, bravo
giovine?
-
Saprebbe insegnarmi la strada più corta, per andare al convento de' cappuccini
dove sta il padre Bonaventura?
L'uomo
a cui Renzo s'indirizzava, era un agiato abitante del contorno, che, andato
quella mattina a Milano, per certi suoi affari, se ne tornava, senza aver fatto
nulla, in gran fretta, ché non vedeva l'ora di trovarsi a casa, e avrebbe fatto
volentieri di meno di quella fermata. Con tutto ciò, senza dar segno
d'impazienza, rispose molto gentilmente: - figliuol caro, de' conventi ce n'è
più d'uno: bisognerebbe che mi sapeste dir più chiaro quale è quello che voi
cercate -. Renzo allora si levò di seno la lettera del padre Cristoforo, e la
fece vedere a quel signore, il quale, lettovi: porta orientale, gliela rendette
dicendo: - siete fortunato, bravo giovine; il convento che cercate è poco
lontano di qui. Prendete per questa viottola a mancina: è una scorciatoia: in
pochi minuti arriverete a una cantonata d'una fabbrica lunga e bassa: è il
lazzeretto; costeggiate il fossato che lo circonda, e riuscirete a porta
orientale. Entrate, e, dopo tre o quattrocento passi, vedrete una piazzetta con
de' begli olmi: là è il convento: non potete sbagliare. Dio v'assista, bravo
giovine -. E, accompagnando l'ultime parole con un gesto grazioso della mano,
se n'andò. Renzo rimase stupefatto e edificato della buona maniera de'
cittadini verso la gente di campagna; e non sapeva ch'era un giorno fuor
dell'ordinario, un giorno in cui le cappe s'inchinavano ai farsetti. Fece la
strada che gli era stata insegnata, e si trovò a porta orientale. Non bisogna
però che, a questo nome, il lettore si lasci correre alla fantasia l'immagini
che ora vi sono associate. Quando Renzo entrò per quella porta, la strada al di
fuori non andava diritta che per tutta la lunghezza del lazzeretto; poi
scorreva serpeggiante e stretta, tra due siepi. La porta consisteva in due
pilastri, con sopra una tettoia, per riparare i battenti, e da una parte, una
casuccia per i gabellini. I bastioni scendevano in pendìo irregolare, e il
terreno era una superficie aspra e inuguale di rottami e di cocci buttati là a
caso. La strada che s'apriva dinanzi a chi entrava per quella porta, non si
paragonerebbe male a quella che ora si presenta a chi entri da porta Tosa. Un
fossatello le scorreva nel mezzo, fino a poca distanza dalla porta, e la
divideva così in due stradette tortuose, ricoperte di polvere o di fango,
secondo la stagione. Al punto dov'era, e dov'è tuttora quella viuzza chiamata
di Borghetto, il fossatello si perdeva in una fogna. Lì c'era una colonna, con
sopra una croce, detta di san Dionigi: a destra e a sinistra, erano orti cinti
di siepe e, ad intervalli, casucce, abitate per lo più da lavandai. Renzo
entra, passa; nessuno de' gabellini gli bada: cosa che gli parve strana,
giacché, da que' pochi del suo paese che potevan vantarsi d'essere stati a
Milano, aveva sentito raccontar cose grosse de' frugamenti e dell'interrogazioni
a cui venivan sottoposti quelli che arrivavan dalla campagna. La strada era
deserta, dimodoché, se non avesse sentito un ronzìo lontano che indicava un
gran movimento, gli sarebbe parso d'entrare in una città disabitata. Andando
avanti, senza saper cosa si pensare, vide per terra certe strisce bianche e
soffici, come di neve; ma neve non poteva essere; che non viene a strisce, né,
per il solito, in quella stagione. Si chinò sur una di quelle, guardò, toccò, e
trovò ch'era farina. "Grand'abbondanza", disse tra sé, "ci
dev'essere in Milano, se straziano in questa maniera la grazia di Dio. Ci davan
poi ad intendere che la carestia è per tutto. Ecco come fanno, per tener quieta
la povera gente di campagna". Ma, dopo pochi altri passi, arrivato a fianco
della colonna, vide, appiè di quella, qualcosa di più strano; vide sugli
scalini del piedestallo certe cose sparse, che certamente non eran ciottoli, e
se fossero state sul banco d'un fornaio, non si sarebbe esitato un momento a
chiamarli pani. Ma Renzo non ardiva creder così presto a' suoi occhi; perché,
diamine! non era luogo da pani quello. "Vediamo un po' che affare è
questo", disse ancora tra sé; andò verso la colonna, si chinò, ne raccolse
uno: era veramente un pan tondo, bianchissimo, di quelli che Renzo non era
solito mangiarne che nelle solennità. - È pane davvero! - disse ad alta voce;
tanta era la sua maraviglia: - così lo seminano in questo paese? in quest'anno?
e non si scomodano neppure per raccoglierlo, quando cade? Che sia il paese di
cuccagna questo? - Dopo dieci miglia di strada, all'aria fresca della mattina,
quel pane, insieme con la maraviglia, gli risvegliò l'appetito. "Lo
piglio?" deliberava tra sé: "poh! l'hanno lasciato qui alla
discrezion de' cani; tant'è che ne goda anche un cristiano. Alla fine, se
comparisce il padrone, glielo pagherò". Così pensando, si mise in una
tasca quello che aveva in mano, ne prese un secondo, e lo mise nell'altra; un
terzo, e cominciò a mangiare; e si rincamminò, più incerto che mai, e
desideroso di chiarirsi che storia fosse quella. Appena mosso, vide spuntar
gente che veniva dall'interno della città, e guardò attentamente quelli che
apparivano i primi. Erano un uomo, una donna e, qualche passo indietro, un
ragazzotto; tutt'e tre con un carico addosso, che pareva superiore alle loro
forze, e tutt'e tre in una figura strana. I vestiti o gli stracci infarinati;
infarinati i visi, e di più stravolti e accesi; e andavano, non solo curvi, per
il peso, ma sopra doglia, come se gli fossero state peste l'ossa. L'uomo reggeva
a stento sulle spalle un gran sacco di farina, il quale, bucato qua e là, ne
seminava un poco, a ogni intoppo, a ogni mossa disequilibrata. Ma più sconcia
era la figura della donna: un pancione smisurato, che pareva tenuto a fatica da
due braccia piegate: come una pentolaccia a due manichi; e di sotto a quel
pancione uscivan due gambe, nude fin sopra il ginocchio, che venivano innanzi
barcollando. Renzo guardò più attentamente, e vide che quel gran corpo era la
sottana che la donna teneva per il lembo, con dentro farina quanta ce ne poteva
stare, e un po' di più; dimodoché, quasi a ogni passo, ne volava via una
ventata. Il ragazzotto teneva con tutt'e due le mani sul capo una paniera colma
di pani; ma, per aver le gambe più corte de' suoi genitori, rimaneva a poco a
poco indietro, e, allungando poi il passo ogni tanto, per raggiungerli, la
paniera perdeva l'equilibrio, e qualche pane cadeva.
-
Buttane via ancor un altro, buono a niente che sei, - disse la madre,
digrignando i denti verso il ragazzo.
- Io non
li butto via; cascan da sé: com'ho a fare? - rispose quello.
- Ih!
buon per te, che ho le mani impicciate, - riprese la donna, dimenando i pugni,
come se desse una buona scossa al povero ragazzo; e, con quel movimento, fece
volar via più farina, di quel che ci sarebbe voluto per farne i due pani
lasciati cadere allora dal ragazzo. - Via, via, - disse l'uomo: - torneremo
indietro a raccoglierli, o qualcheduno li raccoglierà. Si stenta da tanto
tempo: ora che viene un po' d'abbondanza, godiamola in santa pace.
In
tanto arrivava altra gente dalla porta; e uno di questi, accostatosi alla
donna, le domandò: - dove si va a prendere il pane?
- Più
avanti, - rispose quella; e quando furon lontani dieci passi, soggiunse
borbottando: - questi contadini birboni verranno a spazzar tutti i forni e
tutti i magazzini, e non resterà più niente per noi.
- Un
po' per uno, tormento che sei, - disse il marito: - abbondanza, abbondanza.
Da
queste e da altrettali cose che vedeva e sentiva, Renzo cominciò a
raccapezzarsi ch'era arrivato in una città sollevata, e che quello era un
giorno di conquista, vale a dire che ognuno pigliava, a proporzione della
voglia e della forza, dando busse in pagamento. Per quanto noi desideriamo di
far fare buona figura al nostro povero montanaro, la sincerità storica ci
obbliga a dire che il suo primo sentimento fu di piacere. Aveva così poco da
lodarsi dell'andamento ordinario delle cose, che si trovava inclinato ad
approvare ciò che lo mutasse in qualunque maniera. E del resto, non essendo
punto un uomo superiore al suo secolo, viveva anche lui in quell'opinione o in
quella passione comune, che la scarsezza del pane fosse cagionata
dagl'incettatori e da' fornai; ed era disposto a trovar giusto ogni modo di
strappar loro dalle mani l'alimento che essi, secondo quell'opinione, negavano
crudelmente alla fame di tutto un popolo. Pure, si propose di star fuori del
tumulto, e si rallegrò d'esser diretto a un cappuccino, che gli troverebbe
ricovero, e gli farebbe da padre. Così pensando, e guardando intanto i nuovi
conquistatori che venivano carichi di preda, fece quella po' di strada che gli
rimaneva per arrivare al convento.
Dove
ora sorge quel bel palazzo, con quell'alto loggiato, c'era allora, e c'era
ancora non son molt'anni, una piazzetta, e in fondo a quella la chiesa e il
convento de' cappuccini, con quattro grand'olmi davanti. Noi ci rallegriamo,
non senza invidia, con que' nostri lettori che non han visto le cose in quello
stato: ciò vuol dire che son molto giovani, e non hanno avuto tempo di far molte
corbellerie. Renzo andò diritto alla porta, si ripose in seno il mezzo pane che
gli rimaneva, levò fuori e tenne preparata in mano la lettera, e tirò il
campanello. S'aprì uno sportellino che aveva una grata, e vi comparve la faccia
del frate portinaio a domandar chi era.
- Uno
di campagna, che porta al padre Bonaventura una lettera pressante del padre
Cristoforo.
- Date
qui, - disse il portinaio, mettendo una mano alla grata.
- No,
no, - disse Renzo: - gliela devo consegnare in proprie mani.
- Non è
in convento.
- Mi
lasci entrare, che l'aspetterò.
- Fate
a mio modo, - rispose il frate: - andate a aspettare in chiesa, che intanto
potrete fare un po' di bene. In convento, per adesso, non s'entra -. E detto
questo, richiuse lo sportello. Renzo rimase lì, con la sua lettera in mano.
Fece dieci passi verso la porta della chiesa, per seguire il consiglio del
portinaio; ma poi pensò di dar prima un'altra occhiata al tumulto. Attraversò
la piazzetta, si portò sull'orlo della strada, e si fermò, con le braccia
incrociate sul petto, a guardare a sinistra, verso l'interno della città, dove
il brulichìo era più folto e più rumoroso. Il vortice attrasse lo spettatore.
"Andiamo a vedere", disse tra sé; tirò fuori il suo mezzo pane, e
sbocconcellando, si mosse verso quella parte. Intanto che s'incammina, noi
racconteremo, più brevemente che sia possibile, le cagioni e il principio di
quello sconvolgimento.
Era
quello il second'anno di raccolta scarsa. Nell'antecedente, le provvisioni
rimaste degli anni addietro avevan supplito, fino a un certo segno, al difetto;
e la popolazione era giunta, non satolla né affamata, ma, certo, affatto
sprovveduta, alla messe del 1628, nel quale siamo con la nostra storia. Ora,
questa messe tanto desiderata riuscì ancor più misera della precedente, in
parte per maggior contrarietà delle stagioni (e questo non solo nel milanese,
ma in un buon tratto di paese circonvicino); in parte per colpa degli uomini.
Il guasto e lo sperperìo della guerra, di quella bella guerra di cui abbiam
fatto menzione di sopra, era tale, che, nella parte dello stato più vicina ad
essa, molti poderi più dell'ordinario rimanevano incolti e abbandonati da'
contadini, i quali, in vece di procacciar col lavoro pane per sé e per gli
altri, eran costretti d'andare ad accattarlo per carità. Ho detto: più
dell'ordinario; perché le insopportabili gravezze, imposte con una cupidigia e
con un'insensatezza del pari sterminate, la condotta abituale, anche in piena
pace, delle truppe alloggiate ne' paesi, condotta che i dolorosi documenti di
que' tempi uguagliano a quella d'un nemico invasore, altre cagioni che non è
qui il luogo di mentovare, andavano già da qualche tempo operando lentamente
quel tristo effetto in tutto il milanese: le circostanze particolari di cui ora
parliamo, erano come una repentina esacerbazione d'un mal cronico. E quella
qualunque raccolta non era ancor finita di riporre, che le provvisioni per
l'esercito, e lo sciupinìo che sempre le accompagna, ci fecero dentro un tal
vòto, che la penuria si fece subito sentire, e con la penuria quel suo
doloroso, ma salutevole come inevitabile effetto, il rincaro.
Ma
quando questo arriva a un certo segno, nasce sempre (o almeno è sempre nata
finora; e se ancora, dopo tanti scritti di valentuomini, pensate in quel
tempo!), nasce un'opinione ne' molti, che non ne sia cagione la scarsezza. Si
dimentica d'averla temuta, predetta; si suppone tutt'a un tratto che ci sia
grano abbastanza, e che il male venga dal non vendersene abbastanza per il
consumo: supposizioni che non stanno né in cielo, né in terra; ma che lusingano
a un tempo la collera e la speranza. Gl'incettatori di grano, reali o
immaginari, i possessori di terre, che non lo vendevano tutto in un giorno, i
fornai che ne compravano, tutti coloro in somma che ne avessero o poco o assai,
o che avessero il nome d'averne, a questi si dava la colpa della penuria e del
rincaro, questi erano il bersaglio del lamento universale, l'abbominio della
moltitudine male e ben vestita. Si diceva di sicuro dov'erano i magazzini, i
granai, colmi, traboccanti, appuntellati; s'indicava il numero de' sacchi,
spropositato; si parlava con certezza dell'immensa quantità di granaglie che
veniva spedita segretamente in altri paesi; ne' quali probabilmente si gridava,
con altrettanta sicurezza e con fremito uguale, che le granaglie di là venivano
a Milano. S'imploravan da' magistrati que' provvedimenti, che alla moltitudine
paion sempre, o almeno sono sempre parsi finora, così giusti, così semplici,
così atti a far saltar fuori il grano, nascosto, murato, sepolto, come
dicevano, e a far ritornar l'abbondanza. I magistrati qualche cosa facevano:
come di stabilire il prezzo massimo d'alcune derrate, d'intimar pene a chi
ricusasse di vendere, e altri editti di quel genere. Siccome però tutti i
provvedimenti di questo mondo, per quanto siano gagliardi, non hanno virtù di
diminuire il bisogno del cibo, né di far venire derrate fuor di stagione; e
siccome questi in ispecie non avevan certamente quella d'attirarne da dove ce
ne potesse essere di soprabbondanti; così il male durava e cresceva. La
moltitudine attribuiva un tale effetto alla scarsezza e alla debolezza de'
rimedi, e ne sollecitava ad alte grida de' più generosi e decisivi. E per sua
sventura, trovò l'uomo secondo il suo cuore.
Nell'assenza
del governatore don Gonzalo Fernandez de Cordova, che comandava l'assedio di
Casale del Monferrato, faceva le sue veci in Milano il gran cancelliere Antonio
Ferrer, pure spagnolo. Costui vide, e chi non l'avrebbe veduto? che l'essere il
pane a un prezzo giusto, è per sé una cosa molto desiderabile; e pensò, e qui
fu lo sbaglio, che un suo ordine potesse bastare a produrla. Fissò la meta
(così chiamano qui la tariffa in materia di commestibili), fissò la meta del
pane al prezzo che sarebbe stato il giusto, se il grano si fosse comunemente
venduto trentatre lire il moggio: e si vendeva fino a ottanta. Fece come una
donna stata giovine, che pensasse di ringiovinire, alterando la sua fede di
battesimo.
Ordini
meno insensati e meno iniqui eran, più d'una volta, per la resistenza delle
cose stesse, rimasti ineseguiti; ma all'esecuzione di questo vegliava la
moltitudine, che, vedendo finalmente convertito in legge il suo desiderio, non
avrebbe sofferto che fosse per celia. Accorse subito ai forni, a chieder pane
al prezzo tassato; e lo chiese con quel fare di risolutezza e di minaccia, che
dànno la passione, la forza e la legge riunite insieme. Se i fornai
strillassero, non lo domandate. Intridere, dimenare, infornare e sfornare senza
posa; perché il popolo, sentendo in confuso che l'era una cosa violenta,
assediava i forni di continuo, per goder quella cuccagna fin che durava;
affacchinarsi, dico, e scalmanarsi più del solito, per iscapitarci, ognun vede
che bel piacere dovesse essere. Ma, da una parte i magistrati che intimavan
pene, dall'altra il popolo che voleva esser servito, e, punto punto che qualche
fornaio indugiasse, pressava e brontolava, con quel suo vocione, e minacciava
una di quelle sue giustizie, che sono delle peggio che si facciano in questo mondo;
non c'era redenzione, bisognava rimenare, infornare, sfornare e vendere. Però,
a farli continuare in quell'impresa, non bastava che fosse lor comandato, né
che avessero molta paura; bisognava potere: e un po' più che la cosa fosse
durata, non avrebbero più potuto. Facevan vedere ai magistrati l'iniquità e
l'insopportabilità del carico imposto loro, protestavano di voler gettar la
pala nel forno, e andarsene; e intanto tiravano avanti come potevano, sperando,
sperando che, una volta o l'altra, il gran cancelliere avrebbe inteso la
ragione. Ma Antonio Ferrer, il quale era quel che ora si direbbe un uomo di
carattere, rispondeva che i fornai s'erano avvantaggiati molto e poi molto nel
passato, che s'avvantaggerebbero molto e poi molto col ritornar dell'abbondanza;
che anche si vedrebbe, si penserebbe forse a dar loro qualche risarcimento; e
che intanto tirassero ancora avanti. O fosse veramente persuaso lui di queste
ragioni che allegava agli altri, o che, anche conoscendo dagli effetti
l'impossibilità di mantener quel suo editto, volesse lasciare agli altri
l'odiosità di rivocarlo; giacché, chi può ora entrar nel cervello d'Antonio
Ferrer? il fatto sta che rimase fermo su ciò che aveva stabilito. Finalmente i
decurioni (un magistrato municipale composto di nobili, che durò fino al
novantasei del secolo scorso) informaron per lettera il governatore, dello
stato in cui eran le cose: trovasse lui qualche ripiego, che le facesse andare.
Don
Gonzalo, ingolfato fin sopra i capelli nelle faccende della guerra, fece ciò
che il lettore s'immagina certamente: nominò una giunta, alla quale conferì
l'autorità di stabilire al pane un prezzo che potesse correre; una cosa da
poterci campar tanto una parte che l'altra. I deputati si radunarono, o come
qui si diceva spagnolescamente nel gergo segretariesco d'allora, si giuntarono;
e dopo mille riverenze, complimenti, preamboli, sospiri, sospensioni,
proposizioni in aria, tergiversazioni, strascinati tutti verso una
deliberazione da una necessità sentita da tutti, sapendo bene che giocavano una
gran carta, ma convinti che non c'era da far altro, conclusero di rincarare il
pane. I fornai respirarono; ma il popolo imbestialì.
La sera
avanti questo giorno in cui Renzo arrivò in Milano, le strade e le piazze
brulicavano d'uomini, che trasportati da una rabbia comune, predominati da un
pensiero comune, conoscenti o estranei, si riunivano in crocchi, senza essersi
dati l'intesa, quasi senza avvedersene, come gocciole sparse sullo stesso
pendìo. Ogni discorso accresceva la persuasione e la passione degli uditori,
come di colui che l'aveva proferito. Tra tanti appassionati, c'eran pure alcuni
più di sangue freddo, i quali stavano osservando con molto piacere, che l'acqua
s'andava intorbidando; e s'ingegnavano d'intorbidarla di più, con que'
ragionamenti, e con quelle storie che i furbi sanno comporre, e che gli animi
alterati sanno credere; e si proponevano di non lasciarla posare, quell'acqua,
senza farci un po' di pesca. Migliaia d'uomini andarono a letto col sentimento
indeterminato che qualche cosa bisognava fare, che qualche cosa si farebbe.
Avanti giorno, le strade eran di nuovo sparse di crocchi: fanciulli, donne,
uomini, vecchi, operai, poveri, si radunavano a sorte: qui era un bisbiglio
confuso di molte voci; là uno predicava, e gli altri applaudivano; questo
faceva al più vicino la stessa domanda ch'era allora stata fatta a lui;
quest'altro ripeteva l'esclamazione che s'era sentita risonare agli orecchi;
per tutto lamenti, minacce, maraviglie: un piccol numero di vocaboli era il materiale
di tanti discorsi.
Non
mancava altro che un'occasione, una spinta, un avviamento qualunque, per
ridurre le parole a fatti; e non tardò molto. Uscivano, sul far del giorno,
dalle botteghe de' fornai i garzoni che, con una gerla carica di pane, andavano
a portarne alle solite case. Il primo comparire d'uno di que' malcapitati
ragazzi dov'era un crocchio di gente, fu come il cadere d'un salterello acceso
in una polveriera. - Ecco se c'è il pane! - gridarono cento voci insieme. - Sì,
per i tiranni, che notano nell'abbondanza, e voglion far morir noi di fame, -
dice uno; s'accosta al ragazzetto, avventa la mano all'orlo della gerla, dà una
stratta, e dice: - lascia vedere -. Il ragazzetto diventa rosso, pallido,
trema, vorrebbe dire: lasciatemi andare; ma la parola gli muore in bocca;
allenta le braccia, e cerca di liberarle in fretta dalle cigne. - Giù quella
gerla, - si grida intanto. Molte mani l'afferrano a un tempo: è in terra; si
butta per aria il canovaccio che la copre: una tepida fragranza si diffonde
all'intorno. - Siam cristiani anche noi: dobbiamo mangiar pane anche noi, -
dice il primo; prende un pan tondo, l'alza, facendolo vedere alla folla,
l'addenta: mani alla gerla, pani per aria; in men che non si dice, fu
sparecchiato. Coloro a cui non era toccato nulla, irritati alla vista del
guadagno altrui, e animati dalla facilità dell'impresa, si mossero a branchi,
in cerca d'altre gerle: quante incontrate, tante svaligiate. E non c'era neppur
bisogno di dar l'assalto ai portatori: quelli che, per loro disgrazia, si
trovavano in giro, vista la mala parata, posavano volontariamente il carico, e
via a gambe. Con tutto ciò, coloro che rimanevano a denti secchi, erano senza
paragone i più; anche i conquistatori non eran soddisfatti di prede così piccole,
e, mescolati poi con gli uni e con gli altri, c'eran coloro che avevan fatto
disegno sopra un disordine più co' fiocchi. - Al forno! al forno! - si grida.
Nella
strada chiamata la Corsia de' Servi, c'era, e c'è tuttavia un forno, che
conserva lo stesso nome; nome che in toscano viene a dire il forno delle
grucce, e in milanese è composto di parole così eteroclite, così bisbetiche,
così salvatiche, che l'alfabeto della lingua non ha i segni per indicarne il
suono (El prestin di scansc.). A quella parte s'avventò la gente. Quelli della
bottega stavano interrogando il garzone tornato scarico, il quale, tutto
sbigottito e abbaruffato, riferiva balbettando la sua trista avventura; quando
si sente un calpestìo e un urlìo insieme; cresce e s'avvicina; compariscono i
forieri della masnada.
Serra,
serra; presto, presto: uno corre a chiedere aiuto al capitano di giustizia; gli
altri chiudono in fretta la bottega, e appuntellano i battenti. La gente
comincia a affollarsi di fuori, e a gridare: - pane! pane! aprite! aprite!
Pochi
momenti dopo, arriva il capitano di giustizia, con una scorta d'alabardieri. -
Largo, largo, figliuoli: a casa, a casa; fate luogo al capitano di giustizia, -
grida lui e gli alabardieri. La gente, che non era ancor troppo fitta, fa un
po' di luogo; dimodoche quelli poterono arrivare, e postarsi, insieme, se non
in ordine, davanti alla porta della bottega.
- Ma
figliuoli, - predicava di lì il capitano, - che fate qui? A casa, a casa. Dov'è
il timor di Dio? Che dirà il re nostro signore? Non vogliam farvi male; ma
andate a casa. Da bravi! Che diamine volete far qui, così ammontati? Niente di
bene, ne per l'anima, né per il corpo. A casa, a casa.
Ma
quelli che vedevan la faccia del dicitore, e sentivan le sue parole,
quand'anche avessero voluto ubbidire, dite un poco in che maniera avrebber
potuto, spinti com'erano, e incalzati da quelli di dietro, spinti anch'essi da
altri, come flutti da flutti, via via fino al l'estremità della folla, che
andava sempre crescendo. Al capitano, cominciava a mancargli il respiro. -
Fateli dare addietro ch'io possa riprender fiato, - diceva agli alabardieri: -
ma non fate male a nessuno. Vediamo d'entrare in bottega: picchiate; fateli
stare indietro.
-
Indietro! indietro! - gridano gli alabardieri, buttandosi tutti insieme addosso
ai primi, e respingendoli con l'aste dell'alabarde. Quelli urlano, si tirano
indietro, come possono; dànno con le schiene ne' petti, co' gomiti nelle pance,
co' calcagni sulle punte de' piedi a quelli che son dietro a loro: si fa un
pigìo, una calca, che quelli che si trovavano in mezzo, avrebbero pagato
qualcosa a essere altrove. Intanto un po' di vòto s'è fatto davanti alla porta:
il capitano picchia, ripicchia, urla che gli aprano: quelli di dentro vedono
dalle finestre, scendon di corsa, aprono; il capitano entra, chiama gli
alabardieri, che si ficcan dentro anch'essi l'un dopo l'altro, gli ultimi
rattenendo la folla con l'alabarde. Quando sono entrati tutti, si mette tanto
di catenaccio, si riappuntella; il capitano sale di corsa, e s'affaccia a una
finestra. Uh, che formicolaio!
-
Figliuoli, - grida: molti si voltano in su; - figliuoli, andate a casa. Perdono
generale a chi torna subito a casa.
- Pane!
pane! aprite! aprite! - eran le parole più distinte nell'urlìo orrendo, che la
folla mandava in risposta.
-
Giudizio, figliuoli! badate bene! siete ancora a tempo. Via, andate, tornate a
casa. Pane, ne avrete; ma non è questa la maniera. Eh!... eh! che fate laggiu!
Eh! a quella porta! Oibò oibò! Vedo, vedo: giudizio! badate bene! è un delitto
grosso. Or ora vengo io. Eh! eh! smettete con que' ferri; giu quelle mani.
Vergogna! Voi altri milanesi, che, per la bontà, siete nominati in tutto il
mondo! Sentite, sentite: siete sempre stati buoni fi... Ah canaglia!
Questa
rapida mutazione di stile fu cagionata da una pietra che, uscita dalle mani
d'uno di que' buoni figliuoli, venne a batter nella fronte del capitano, sulla
protuberanza sinistra della profondità metafisica. - Canaglia! canaglia! -
continuava a gridare, chiudendo presto presto la finestra, e ritirandosi. Ma
quantunque avesse gridato quanto n'aveva in canna, le sue parole, buone e
cattive, s'eran tutte dileguate e disfatte a mezz'aria, nella tempesta delle
grida che venivan di giù. Quello poi che diceva di vedere, era un gran lavorare
di pietre, di ferri (i primi che coloro avevano potuto procacciarsi per la
strada), che si faceva alla porta, per sfondarla, e alle finestre, per svellere
l'inferriate: e già l'opera era molto avanzata.
Intanto,
padroni e garzoni della bottega, ch'erano alle finestre de' piani di sopra, con
una munizione di pietre (avranno probabilmente disselciato un cortile),
urlavano e facevan versacci a quelli di giù, perché smettessero; facevan vedere
le pietre, accennavano di volerle buttare. Visto ch'era tempo perso, cominciarono
a buttarle davvero. Neppur una ne cadeva in fallo; giacché la calca era tale,
che un granello di miglio, come si suol dire, non sarebbe andato in terra.
- Ah
birboni! ah furfantoni! È questo il pane, che date alla povera gente? Ahi!
Ahimè! Ohi! Ora, ora! - s'urlava di giù. Più d'uno fu conciato male; due
ragazzi vi rimasero morti. Il furore accrebbe le forze della moltitudine: la
porta fu sfondata, l'inferriate, svelte; e il torrente penetrò per tutti i
varchi. Quelli di dentro, vedendo la mala parata, scapparono in soffitta: il
capitano, gli alabardieri, e alcuni della casa stettero lì rannicchiati ne'
cantucci; altri, uscendo per gli abbaini, andavano su pe' tetti, come i gatti.
La
vista della preda fece dimenticare ai vincitori i disegni di vendette
sanguinose. Si slanciano ai cassoni; il pane è messo a ruba. Qualcheduno in
vece corre al banco, butta giù la serratura, agguanta le ciotole, piglia a
manate, intasca, ed esce carico di quattrini, per tornar poi a rubar pane, se
ne rimarrà. La folla si sparge ne' magazzini. Metton mano ai sacchi, li
strascicano, li rovesciano: chi se ne caccia uno tra le gambe, gli scioglie la
bocca, e, per ridurlo a un carico da potersi portare, butta via una parte della
farina: chi, gridando: - aspetta, aspetta, - si china a parare il grembiule, un
fazzoletto, il cappello, per ricever quella grazia di Dio; uno corre a una
madia, e prende un pezzo di pasta, che s'allunga, e gli scappa da ogni parte;
un altro, che ha conquistato un burattello, lo porta per aria: chi va, chi
viene: uomini, donne, fanciulli, spinte, rispinte, urli, e un bianco polverìo
che per tutto si posa, per tutto si solleva, e tutto vela e annebbia. Di fuori,
una calca composta di due processioni opposte, che si rompono e s'intralciano a
vicenda, di chi esce con la preda, e di chi vuol entrare a farne.
Mentre
quel forno veniva così messo sottosopra, nessun altro della città era quieto e
senza pericolo. Ma a nessuno la gente accorse in numero tale da potere
intraprender tutto; in alcuni, i padroni avevan raccolto degli ausiliari, e
stavan sulle difese; altrove, trovandosi in pochi, venivano in certo modo a
patti: distribuivan pane a quelli che s'eran cominciati a affollare davanti
alle botteghe, con questo che se n'andassero. E quelli se n'andavano, non tanto
perché fosser soddisfatti, quanto perché gli alabardieri e la sbirraglia,
stando alla larga da quel tremendo forno delle grucce, si facevan però vedere
altrove, in forza bastante a tenere in rispetto i tristi che non fossero una
folla. Così il trambusto andava sempre crescendo a quel primo disgraziato
forno; perché tutti coloro che gli pizzicavan le mani di far qualche
bell'impresa, correvan là, dove gli amici erano i più forti, e l'impunità
sicura.
A
questo punto eran le cose, quando Renzo, avendo ormai sgranocchiato il suo
pane, veniva avanti per il borgo di porta orientale, e s'avviava, senza
saperlo, proprio al luogo centrale del tumulto. Andava, ora lesto, ora
ritardato dalla folla; e andando, guardava e stava in orecchi, per ricavar da
quel ronzìo confuso di discorsi qualche notizia più positiva dello stato delle
cose. Ed ecco a un di presso le parole che gli riuscì di rilevare in tutta la
strada che fece.
- Ora è
scoperta, - gridava uno, - l'impostura infame di que' birboni, che dicevano che
non c'era né pane, né farina, né grano. Ora si vede la cosa chiara e lampante;
e non ce la potranno più dare ad intendere. Viva l'abbondanza!
- Vi
dico io che tutto questo non serve a nulla, - diceva un altro: - è un buco
nell'acqua; anzi sarà peggio, se non si fa una buona giustizia. Il pane verrà a
buon mercato, ma ci metteranno il veleno, per far morir la povera gente, come
mosche. Già lo dicono che siam troppi; l'hanno detto nella giunta; e lo so di
certo, per averlo sentito dir io, con quest'orecchi, da una mia comare, che è
amica d'un parente d'uno sguattero d'uno di que' signori.
Parole
da non ripetersi diceva, con la schiuma alla bocca, un altro, che teneva con
una mano un cencio di fazzoletto su' capelli arruffati e insanguinati. E
qualche vicino, come per consolarlo, gli faceva eco.
-
Largo, largo, signori, in cortesia; lascin passare un povero padre di famiglia,
che porta da mangiare a cinque figliuoli -. Così diceva uno che veniva
barcollando sotto un gran sacco di farina; e ognuno s'ingegnava di ritirarsi,
per fargli largo.
- Io? -
diceva un altro, quasi sottovoce, a un suo compagno: - io me la batto. Son uomo
di mondo, e so come vanno queste cose. Questi merlotti che fanno ora tanto
fracasso, domani o doman l'altro, se ne staranno in casa, tutti pieni di paura.
Ho già visto certi visi, certi galantuomini che giran, facendo l'indiano, e
notano chi c'è e chi non c'è: quando poi tutto è finito, si raccolgono i conti,
e a chi tocca, tocca.
-
Quello che protegge i fornai, - gridava una voce sonora, che attirò
l'attenzione di Renzo, - è il vicario di provvisione.
- Son
tutti birboni, - diceva un vicino.
- Sì;
ma il capo è lui, - replicava il primo.
Il
vicario di provvisione, eletto ogn'anno dal governatore tra sei nobili proposti
dal Consiglio de' decurioni, era il presidente di questo, e del tribunale di
provvisione; il quale, composto di dodici, anche questi nobili, aveva, con
altre attribuzioni, quella principalmente dell'annona. Chi occupava un tal
posto doveva necessariamente, in tempi di fame e d'ignoranza, esser detto
l'autore de' mali: meno che non avesse fatto ciò che fece Ferrer; cosa che non
era nelle sue facoltà, se anche fosse stata nelle sue idee.
-
Scellerati! - esclamava un altro: - si può far di peggio? sono arrivati a dire
che il gran cancelliere è un vecchio rimbambito, per levargli il credito, e
comandar loro soli. Bisognerebbe fare una gran stia, e metterli dentro, a viver
di vecce e di loglio, come volevano trattar noi.
- Pane
eh? - diceva uno che cercava d'andar in fretta: - sassate di libbra: pietre di
questa fatta, che venivan giù come la grandine. E che schiacciata di costole!
Non vedo l'ora d'essere a casa mia.
Tra
questi discorsi, dai quali non saprei dire se fosse più informato o sbalordito,
e tra gli urtoni, arrivò Renzo finalmente davanti a quel forno. La gente era
già molto diradata, dimodoché poté contemplare il brutto e recente soqquadro.
Le mura scalcinate e ammaccate da sassi, da mattoni, le finestre sgangherate,
diroccata la porta.
"Questa
poi non è una bella cosa", disse Renzo tra sé: "se concian così tutti
i forni, dove voglion fare il pane? Ne' pozzi?"
Ogni
tanto, usciva dalla bottega qualcheduno che portava un pezzo di cassone, o di
madia, o di frullone, la stanga d'una gramola, una panca, una paniera, un libro
di conti, qualche cosa in somma di quel povero forno; e gridando: - largo,
largo, - passava tra la gente. Tutti questi s'incamminavano dalla stessa parte,
e a un luogo convenuto, si vedeva. "Cos'è quest'altra storia?" pensò
di nuovo Renzo; e andò dietro a uno che, fatto un fascio d'asse spezzate e di
schegge, se lo mise in ispalla, avviandosi, come gli altri, per la strada che
costeggia il fianco settentrionale del duomo, e ha preso nome dagli scalini che
c'erano, e da poco in qua non ci son più. La voglia d'osservar gli avvenimenti
non poté fare che il montanaro, quando gli si scoprì davanti la gran mole, non
si soffermasse a guardare in su, con la bocca aperta. Studiò poi il passo, per
raggiunger colui che aveva preso come per guida; voltò il canto, diede un'occhiata
anche alla facciata del duomo, rustica allora in gran parte e ben lontana dal
compimento; e sempre dietro a colui, che andava verso il mezzo della piazza. La
gente era più fitta quanto più s'andava avanti, ma al portatore gli si faceva
largo: egli fendeva l'onda del popolo, e Renzo, standogli sempre attaccato,
arrivò con lui al centro della folla. Lì c'era uno spazio vòto, e in mezzo, un
mucchio di brace, reliquie degli attrezzi detti di sopra. All'intorno era un
batter di mani e di piedi, un frastono di mille grida di trionfo e
d'imprecazione.
L'uomo
del fascio lo buttò su quel mucchio; un altro, con un mozzicone di pala mezzo
abbruciacchiato, sbracia il fuoco: il fumo cresce e s'addensa; la fiamma si
ridesta; con essa le grida sorgon più forti. - Viva l'abbondanza! Moiano gli
affamatori! Moia la carestia! Crepi la Provvisione! Crepi la giunta! Viva il
pane!
Veramente,
la distruzion de' frulloni e delle madie, la devastazion de' forni, e lo
scompiglio de' fornai, non sono i mezzi più spicci per far vivere il pane; ma
questa è una di quelle sottigliezze metafisiche, che una moltitudine non ci
arriva. Però, senza essere un gran metafisico, un uomo ci arriva talvolta alla
prima, finch'è nuovo nella questione; e solo a forza di parlarne, e di sentirne
parlare, diventerà inabile anche a intenderle. A Renzo in fatti quel pensiero
gli era venuto, come abbiam visto, da principio, e gli tornava ogni momento. Lo
tenne per altro in sé; perché, di tanti visi, non ce n'era uno che sembrasse
dire: fratello, se fallo, correggimi, che l'avrò caro.
Già era
di nuovo finita la fiamma; non si vedeva più venir nessuno con altra materia, e
la gente cominciava a annoiarsi; quando si sparse la voce, che, al Cordusio
(una piazzetta o un crocicchio non molto distante di lì), s'era messo l'assedio
a un forno. Spesso, in simili circostanze, l'annunzio d'una cosa la fa essere.
Insieme con quella voce, si diffuse nella moltitudine una voglia di correr là:
- io vo; tu, vai? vengo; andiamo, - si sentiva per tutto: la calca si rompe, e
diventa una processione. Renzo rimaneva indietro, non movendosi quasi, se non
quanto era strascinato dal torrente; e teneva intanto consiglio in cuor suo, se
dovesse uscir dal baccano, e ritornare al convento, in cerca del padre
Bonaventura, o andare a vedere anche quest'altra. Prevalse di nuovo la
curiosità. Però risolvette di non cacciarsi nel fitto della mischia, a farsi
ammaccar l'ossa, o a risicar qualcosa di peggio; ma di tenersi in qualche
distanza, a osservare. E trovandosi già un poco al largo, si levò di tasca il
secondo pane, e attaccandoci un morso, s'avviò alla coda dell'esercito
tumultuoso.
Questo,
dalla piazza, era già entrato nella strada corta e stretta di Pescheria
vecchia, e di là, per quell'arco a sbieco, nella piazza de' Mercanti. E lì eran
ben pochi quelli che, nel passar davanti alla nicchia che taglia il mezzo della
loggia dell'edifizio chiamato allora il collegio de' dottori, non dessero
un'occhiatina alla grande statua che vi campeggiava, a quel viso serio,
burbero, accipigliato, e non dico abbastanza, di don Filippo II, che, anche dal
marmo, imponeva un non so che di rispetto, e, con quel braccio teso, pareva che
fosse lì per dire: ora vengo io, marmaglia.
Quella
statua non c'è più, per un caso singolare. Circa cento settant'anni dopo quello
che stiam raccontando, un giorno le fu cambiata la testa, le fu levato di mano
lo scettro, e sostituito a questo un pugnale; e alla statua fu messo nome Marco
Bruto. Così accomodata stette forse un par d'anni; ma, una mattina, certuni che
non avevan simpatia con Marco Bruto, anzi dovevano avere con lui una ruggine
segreta, gettarono una fune intorno alla statua, la tiraron giù, le fecero
cento angherie; e, mutilata e ridotta a un torso informe, la strascicarono, con
gli occhi in fuori, e con le lingue fuori, per le strade, e, quando furon
stracchi bene, la ruzzolarono non so dove. Chi l'avesse detto a Andrea Biffi,
quando la scolpiva!
Dalla
piazza de' Mercanti, la marmaglia insaccò, per quell'altr'arco, nella via de'
fustagnai, e di lì si sparpagliò nel Cordusio. Ognuno, al primo sboccarvi,
guardava subito verso il forno ch'era stato indicato. Ma in vece della
moltitudine d'amici che s'aspettavano di trovar lì già al lavoro, videro
soltanto alcuni starsene, come esitando, a qualche distanza della bottega, la
quale era chiusa, e alle finestre gente armata, in atto di star pronti a
difendersi. A quella vista, chi si maravigliava, chi sagrava, chi rideva; chi
si voltava, per informar quelli che arrivavan via via; chi si fermava, chi
voleva tornare indietro, chi diceva: - avanti, avanti -. C'era un incalzare e
un rattenere, come un ristagno, una titubazione, un ronzìo confuso di contrasti
e di consulte. In questa, scoppiò di mezzo alla folla una maledetta voce: - c'è
qui vicino la casa del vicario di provvisione: andiamo a far giustizia, e a
dare il sacco -. Parve il rammentarsi comune d'un concerto preso, piuttosto che
l'accettazione d'una proposta. - Dal vicario! dal vicario! - è il solo grido
che si possa sentire. La turba si move, tutta insieme, verso la strada dov'era
la casa nominata in un così cattivo punto.
Lo
sventurato vicario stava, in quel momento, facendo un chilo agro e stentato
d'un desinare biascicato senza appetito, e senza pan fresco, e attendeva, con
gran sospensione, come avesse a finire quella burrasca, lontano però dal
sospettar che dovesse cader così spaventosamente addosso a lui. Qualche
galantuomo precorse di galoppo la folla, per avvertirlo di quel che gli
sovrastava. I servitori, attirati già dal rumore sulla porta, guardavano
sgomentati lungo la strada, dalla parte donde il rumore veniva avvicinandosi.
Mentre ascoltan l'avviso, vedon comparire la vanguardia: in fretta e in furia,
si porta l'avviso al padrone: mentre questo pensa a fuggire, e come fuggire, un
altro viene a dirgli che non è più a tempo. I servitori ne hanno appena tanto
che basti per chiuder la porta. Metton la stanga, metton puntelli, corrono a
chiuder le finestre, come quando si vede venire avanti un tempo nero, e
s'aspetta la grandine, da un momento all'altro. L'urlìo crescente, scendendo
dall'alto come un tuono, rimbomba nel vòto cortile; ogni buco della casa ne
rintrona: e di mezzo al vasto e confuso strepito, si senton forti e fitti colpi
di pietre alla porta.
- Il
vicario! Il tiranno! L'affamatore! Lo vogliamo! vivo o morto!
Il
meschino girava di stanza in stanza, pallido, senza fiato, battendo palma a
palma, raccomandandosi a Dio, e a' suoi servitori, che tenessero fermo, che
trovassero la maniera di farlo scappare. Ma come, e di dove? Salì in soffitta;
da un pertugio, guardò ansiosamente nella strada, e la vide piena zeppa di
furibondi; sentì le voci che chiedevan la sua morte; e più smarrito che mai, si
ritirò, e andò a cercare il più sicuro e riposto nascondiglio. Lì rannicchiato,
stava attento, attento, se mai il funesto rumore s'affievolisse, se il tumulto
s'acquietasse un poco; ma sentendo in vece il muggito alzarsi più feroce e più
rumoroso, e raddoppiare i picchi, preso da un nuovo soprassalto al cuore, si
turava gli orecchi in fretta. Poi, come fuori di sé, stringendo i denti, e
raggrinzando il viso, stendeva le braccia, e puntava i pugni, come se volesse
tener ferma la porta... Del resto, quel che facesse precisamente non si può
sapere, giacché era solo; e la storia è costretta a indovinare. Fortuna che c'è
avvezza.
Renzo,
questa volta, si trovava nel forte del tumulto, non già portatovi dalla piena,
ma cacciatovisi deliberatamente. A quella prima proposta di sangue, aveva
sentito il suo rimescolarsi tutto: in quanto al saccheggio, non avrebbe saputo
dire se fosse bene o male in quel caso; ma l'idea dell'omicidio gli cagionò un
orrore pretto e immediato. E quantunque, per quella funesta docilità degli
animi appassionati all'affermare appassionato di molti, fosse persuasissimo che
il vicario era la cagion principale della fame, il nemico de' poveri, pure,
avendo, al primo moversi della turba, sentita a caso qualche parola che
indicava la volontà di fare ogni sforzo per salvarlo, s'era subito proposto
d'aiutare anche lui un'opera tale; e, con quest'intenzione, s'era cacciato,
quasi fino a quella porta, che veniva travagliata in cento modi. Chi con
ciottoli picchiava su' chiodi della serratura, per isconficcarla; altri, con
pali e scarpelli e martelli, cercavano di lavorar più in regola: altri poi, con
pietre, con coltelli spuntati, con chiodi, con bastoni, con l'unghie, non
avendo altro, scalcinavano e sgretolavano il muro, e s'ingegnavano di levare i
mattoni, e fare una breccia. Quelli che non potevano aiutare, facevan coraggio
con gli urli; ma nello stesso tempo, con lo star lì a pigiare, impicciavan di
più il lavoro già impicciato dalla gara disordinata de' lavoranti: giacché, per
grazia del cielo, accade talvolta anche nel male quella cosa troppo frequente
nel bene, che i fautori più ardenti divengano un impedimento.
I
magistrati ch'ebbero i primi l'avviso di quel che accadeva, spediron subito a
chieder soccorso al comandante del castello, che allora si diceva di porta
Giovia; il quale mandò alcuni soldati. Ma, tra l'avviso, e l'ordine, e il
radunarsi, e il mettersi in cammino, e il cammino, essi arrivarono che la casa
era già cinta di vasto assedio; e fecero alto lontano da quella, all'estremità
della folla. L'ufiziale che li comandava, non sapeva che partito prendere. Lì
non era altro che una, lasciatemi dire, accozzaglia di gente varia d'età e di
sesso, che stava a vedere. All'intimazioni che gli venivan fatte, di sbandarsi,
e di dar luogo, rispondevano con un cupo e lungo mormorìo; nessuno si moveva.
Far fuoco sopra quella ciurma, pareva all'ufiziale cosa non solo crudele, ma
piena di pericolo; cosa che, offendendo i meno terribili, avrebbe irritato i
molti violenti: e del resto, non aveva una tale istruzione. Aprire quella prima
folla, rovesciarla a destra e a sinistra, e andare avanti a portar la guerra a
chi la faceva, sarebbe stata la meglio; ma riuscirvi, lì stava il punto. Chi
sapeva se i soldati avrebber potuto avanzarsi uniti e ordinati? Che se, in vece
di romper la folla, si fossero sparpagliati loro tra quella, si sarebber
trovati a sua discrezione, dopo averla aizzata. L'irresolutezza del comandante
e l'immobilità de' soldati parve, a diritto o a torto, paura. La gente che si
trovavan vicino a loro, si contentavano di guardargli in viso, con un'aria,
come si dice, di me n'impipo; quelli ch'erano un po' più lontani, non se ne
stavano di provocarli, con visacci e con grida di scherno; più in là, pochi
sapevano o si curavano che ci fossero; i guastatori seguitavano a smurare,
senz'altro pensiero che di riuscir presto nell'impresa; gli spettatori non
cessavano d'animarla con gli urli.
Spiccava
tra questi, ed era lui stesso spettacolo, un vecchio mal vissuto, che,
spalancando due occhi affossati e infocati, contraendo le grinze a un sogghigno
di compiacenza diabolica, con le mani alzate sopra una canizie vituperosa,
agitava in aria un martello, una corda, quattro gran chiodi, con che diceva di
volere attaccare il vicario a un battente della sua porta, ammazzato che fosse.
- Oibò!
vergogna! - scappò fuori Renzo, inorridito a quelle parole, alla vista di
tant'altri visi che davan segno d'approvarle, e incoraggito dal vederne degli
altri, sui quali, benché muti, traspariva lo stesso orrore del quale era
compreso lui. - Vergogna! Vogliam noi rubare il mestiere al boia? assassinare
un cristiano? Come volete che Dio ci dia del pane, se facciamo di queste
atrocità? Ci manderà de' fulmini, e non del pane!
- Ah
cane! ah traditor della patria! - gridò, voltandosi a Renzo, con un viso da
indemoniato, un di coloro che avevan potuto sentire tra il frastono quelle sante
parole. - Aspetta, aspetta! È un servitore del vicario, travestito da
contadino: è una spia: dàlli, dàlli! - Cento voci si spargono all'intorno. -
Cos'è? dov'è? chi è? Un servitore del vicario. Una spia. Il vicario travestito
da contadino, che scappa. Dov'è? dov'è? dàlli, dàlli!
Renzo
ammutolisce, diventa piccino piccino, vorrebbe sparire; alcuni suoi vicini lo
prendono in mezzo; e con alte e diverse grida cercano di confondere quelle voci
nemiche e omicide. Ma ciò che più di tutto lo servì fu un - largo, largo, - che
si sentì gridar lì vicino: - largo! è qui l'aiuto: largo, ohe!
Cos'era?
Era una lunga scala a mano, che alcuni portavano, per appoggiarla alla casa, e
entrarci da una finestra. Ma per buona sorte, quel mezzo, che avrebbe resa la
cosa facile, non era facile esso a mettere in opera. I portatori, all'una e
all'altra cima, e di qua e di là della macchina, urtati, scompigliati, divisi
dalla calca, andavano a onde: uno, con la testa tra due scalini, e gli staggi
sulle spalle, oppresso come sotto un giogo scosso, mugghiava; un altro veniva
staccato dal carico con una spinta; la scala abbandonata picchiava spalle,
braccia, costole: pensate cosa dovevan dire coloro de' quali erano. Altri
sollevano con le mani il peso morto, vi si caccian sotto, se lo mettono
addosso, gridando: - animo! andiamo! - La macchina fatale s'avanza balzelloni,
e serpeggiando. Arrivò a tempo a distrarre e a disordinare i nemici di Renzo,
il quale profittò della confusione nata nella confusione; e, quatto quatto sul
principio, poi giocando di gomita a più non posso, s'allontanò da quel luogo,
dove non c'era buon'aria per lui, con l'intenzione anche d'uscire, più presto
che potesse, dal tumulto, e d'andar davvero a trovare o a aspettare il padre
Bonaventura.
Tutt'a
un tratto, un movimento straordinario cominciato a una estremità, si propaga
per la folla, una voce si sparge, viene avanti di bocca in bocca: - Ferrer!
Ferrer! - Una maraviglia, una gioia, una rabbia, un'inclinazione, una
ripugnanza, scoppiano per tutto dove arriva quel nome; chi lo grida, chi vuol
soffogarlo; chi afferma, chi nega, chi benedice, chi bestemmia.
- È qui
Ferrer! - Non è vero, non è vero! - Sì, sì; viva Ferrer! quello che ha messo il
pane a buon mercato. - No, no! - E qui, è qui in carrozza. - Cosa importa? che
c'entra lui? non vogliamo nessuno! - Ferrer! viva Ferrer! l'amico della povera
gente! viene per condurre in prigione il vicario. - No, no: vogliamo far
giustizia noi: indietro, indietro! - Sì, sì: Ferrer! venga Ferrer! in prigione
il vicario!
E
tutti, alzandosi in punta di piedi, si voltano a guardare da quella parte donde
s'annunziava l'inaspettato arrivo. Alzandosi tutti, vedevano né più né meno che
se fossero stati tutti con le piante in terra; ma tant'è, tutti s'alzavano.
In
fatti, all'estremità della folla, dalla parte opposta a quella dove stavano i
soldati, era arrivato in carrozza Antonio Ferrer, il gran cancelliere; il
quale, rimordendogli probabilmente la coscienza d'essere co' suoi spropositi e
con la sua ostinazione, stato causa, o almeno occasione di quella sommossa,
veniva ora a cercar d'acquietarla, e d'impedirne almeno il più terribile e
irreparabile effetto: veniva a spender bene una popolarità mal acquistata.
Ne'
tumulti popolari c'è sempre un certo numero d'uomini che, o per un riscaldamento
di passione, o per una persuasione fanatica, o per un disegno scellerato, o per
un maledetto gusto del soqquadro, fanno di tutto per ispinger le cose al
peggio; propongono o promovono i più spietati consigli, soffian nel fuoco ogni
volta che principia a illanguidire: non è mai troppo per costoro; non
vorrebbero che il tumulto avesse né fine né misura. Ma per contrappeso, c'è
sempre anche un certo numero d'altri uomini che, con pari ardore e con
insistenza pari, s'adoprano per produr l'effetto contrario: taluni mossi da
amicizia o da parzialità per le persone minacciate; altri senz'altro impulso
che d'un pio e spontaneo orrore del sangue e de' fatti atroci. Il cielo li
benedica. In ciascuna di queste due parti opposte, anche quando non ci siano
concerti antecedenti, l'uniformità de' voleri crea un concerto istantaneo
nell'operazioni. Chi forma poi la massa, e quasi il materiale del tumulto, è un
miscuglio accidentale d'uomini, che, più o meno, per gradazioni indefinite,
tengono dell'uno e dell'altro estremo: un po' riscaldati, un po' furbi, un po'
inclinati a una certa giustizia, come l'intendon loro, un po' vogliosi di
vederne qualcheduna grossa, pronti alla ferocia e alla misericordia, a
detestare e ad adorare, secondo che si presenti l'occasione di provar con
pienezza l'uno o l'altro sentimento; avidi ogni momento di sapere, di credere
qualche cosa grossa, bisognosi di gridare, d'applaudire a qualcheduno, o
d'urlargli dietro. Viva e moia, son le parole che mandan fuori più volentieri;
e chi è riuscito a persuaderli che un tale non meriti d'essere squartato, non
ha bisogno di spender più parole per convincerli che sia degno d'esser portato
in trionfo: attori, spettatori, strumenti, ostacoli, secondo il vento; pronti
anche a stare zitti, quando non sentan più grida da ripetere, a finirla, quando
manchino gl'istigatori, a sbandarsi, quando molte voci concordi e non
contraddette abbiano detto: andiamo; e a tornarsene a casa, domandandosi l'uno
con l'altro: cos'è stato? Siccome però questa massa, avendo la maggior forza,
la può dare a chi vuole, così ognuna delle due parti attive usa ogni arte per
tirarla dalla sua, per impadronirsene: sono quasi due anime nemiche, che
combattono per entrare in quel corpaccio, e farlo movere. Fanno a chi saprà
sparger le voci più atte a eccitar le passioni, a dirigere i movimenti a favore
dell'uno o dell'altro intento; a chi saprà più a proposito trovare le nuove che
riaccendano gli sdegni, o gli affievoliscano, risveglino le speranze o i
terrori; a chi saprà trovare il grido, che ripetuto dai più e più forte,
esprima, attesti e crei nello stesso tempo il voto della pluralità, per l'una o
per l'altra parte.
Tutta
questa chiacchierata s'è fatta per venire a dire che, nella lotta tra le due
parti che si contendevano il voto della gente affollata alla casa del vicario,
l'apparizione d'Antonio Ferrer diede, quasi in un momento, un gran vantaggio
alla parte degli umani, la quale era manifestamente al di sotto, e, un po' più
che quel soccorso fosse tardato, non avrebbe avuto più, né forza, né motivo di
combattere. L'uomo era gradito alla moltitudine, per quella tariffa di sua
invenzione così favorevole a' compratori, e per quel suo eroico star duro
contro ogni ragionamento in contrario. Gli animi già propensi erano ora ancor
più innamorati dalla fiducia animosa del vecchio che, senza guardie, senza
apparato, veniva così a trovare, ad affrontare una moltitudine irritata e
procellosa. Faceva poi un effetto mirabile il sentire che veniva a condurre in
prigione il vicario: così il furore contro costui, che si sarebbe scatenato
peggio, chi l'avesse preso con le brusche, e non gli avesse voluto conceder
nulla, ora, con quella promessa di soddisfazione, con quell'osso in bocca,
s'acquietava un poco, e dava luogo agli altri opposti sentimenti, che sorgevano
in una gran parte degli animi.
I
partigiani della pace, ripreso fiato, secondavano Ferrer in cento maniere:
quelli che si trovavan vicini a lui, eccitando e rieccitando col loro il
pubblico applauso, e cercando insieme di far ritirare la gente, per aprire il
passo alla carrozza; gli altri, applaudendo, ripetendo e facendo passare le sue
parole, o quelle che a lor parevano le migliori che potesse dire, dando sulla
voce ai furiosi ostinati, e rivolgendo contro di loro la nuova passione della
mobile adunanza. - Chi è che non vuole che si dica: viva Ferrer? Tu non
vorresti eh, che il pane fosse a buon mercato? Son birboni che non vogliono una
giustizia da cristiani: e c'è di quelli che schiamazzano più degli altri, per
fare scappare il vicario. In prigione il vicario! Viva Ferrer! Largo a Ferrer!
- E crescendo sempre più quelli che parlavan così, s'andava a proporzione
abbassando la baldanza della parte contraria; di maniera che i primi dal
predicare vennero anche a dar sulle mani a quelli che diroccavano ancora, a
cacciarli indietro, a levar loro dall'unghie gli ordigni. Questi fremevano,
minacciavano anche, cercavan di rifarsi; ma la causa del sangue era perduta: il
grido che predominava era: prigione, giustizia, Ferrer! Dopo un po' di
dibattimento, coloro furon respinti: gli altri s'impadroniron della porta, e
per tenerla difesa da nuovi assalti, e per prepararvi l'adito a Ferrer; e
alcuno di essi, mandando dentro una voce a quelli di casa (fessure non ne
mancava), gli avvisò che arrivava soccorso, e che facessero star pronto il
vicario, - per andar subito... in prigione: ehm, avete inteso?
- È
quel Ferrer che aiuta a far le gride? - domandò a un nuovo vicino il nostro
Renzo, che si rammentò del vidit Ferrer che il dottore gli aveva gridato
all'orecchio, facendoglielo vedere in fondo di quella tale.
- Già:
il gran cancelliere - gli fu risposto.
- È un
galantuomo, n'è vero?
-
Eccome se è un galantuomo! è quello che aveva messo il pane a buon mercato; e
gli altri non hanno voluto; e ora viene a condurre in prigione il vicario, che
non ha fatto le cose giuste.
Non fa
bisogno di dire che Renzo fu subito per Ferrer. Volle andargli incontro
addirittura: la cosa non era facile; ma con certe sue spinte e gomitate da
alpigiano, riuscì a farsi far largo, e a arrivare in prima fila, proprio di
fianco alla carrozza.
Era
questa già un po' inoltrata nella folla; e in quel momento stava ferma, per uno
di quegl'incagli inevitabili e frequenti, in un'andata di quella sorte. Il
vecchio Ferrer presentava ora all'uno, ora all'altro sportello, un viso tutto
umile, tutto ridente, tutto amoroso, un viso che aveva tenuto sempre in serbo
per quando si trovasse alla presenza di don Filippo IV; ma fu costretto a
spenderlo anche in quest'occasione. Parlava anche; ma il chiasso e il ronzlo di
tante voci, gli evviva stessi che si facevano a lui, lasciavano ben poco e a
ben pochi sentir le sue parole. S'aiutava dunque co' gesti, ora mettendo la
punta delle mani sulle labbra, a prendere un bacio che le mani, separandosi
subito, distribuivano a destra e a sinistra in ringraziamento alla pubblica
benevolenza; ora stendendole e movendole lentamente fuori d'uno sportello, per
chiedere un po' di luogo; ora abbassandole garbatamente, per chiedere un po' di
silenzio. Quando n'aveva ottenuto un poco, i più vicini sentivano e ripetevano
le sue parole: - pane, abbondanza: vengo a far giustizia: un po' di luogo di
grazia -. Sopraffatto poi e come soffogato dal fracasso di tante voci, dalla
vista di tanti visi fitti, di tant'occhi addosso a lui, si tirava indietro un
momento, gonfiava le gote, mandava un gran soffio, e diceva tra sé: "por
mi vida' que de gente!" - Viva Ferrer! Non abbia paura. Lei è un
galantuomo. Pane, pane!
- Sì;
pane, pane, - rispondeva Ferrer: - abbondanza; lo prometto io, - e metteva la
mano al petto.
- Un
po' di luogo, - aggiungeva subito: - vengo per condurlo in prigione, per dargli
il giusto gastigo che si merita: - e soggiungeva sottovoce: - si es culpable-.
Chinandosi poi innanzi verso il cocchiere, gli diceva in fretta: - adelante'
Pedro' si puedes.
Il
cocchiere sorrideva anche lui alla moltitudine, con una grazia affettuosa, come
se fosse stato un gran personaggio; e con un garbo ineffabile, dimenava adagio
adagio la frusta, a destra e a sinistra, per chiedere agl'incomodi vicini che
si ristringessero e si ritirassero un poco. - Di grazia, - diceva anche lui, -
signori miei, un po' di luogo, un pochino; appena appena da poter passare.
Intanto
i benevoli più attivi s'adopravano a far fare il luogo chiesto così
gentilmente. Alcuni davanti ai cavalli facevano ritirar le persone, con buone
parole, con un mettere le mani sui petti, con certe spinte soavi: - in là, via,
un po' di luogo, signori -; alcuni facevan lo stesso dalle due parti della
carrozza, perché potesse passare senza arrotar piedi, né ammaccar mostacci;
che, oltre il male delle persone, sarebbe stato porre a un gran repentaglio
l'auge d'Antonio Ferrer.
Renzo,
dopo essere stato qualche momento a vagheggiare quella decorosa vecchiezza,
conturbata un po' dall'angustia, aggravata dalla fatica, ma animata dalla
sollecitudine, abbellita, per dir così, dalla speranza di togliere un uomo
all'angosce mortali, Renzo, dico, mise da parte ogni pensiero d'andarsene; e si
risolvette d'aiutare Ferrer, e di non abbandonarlo, fin che non fosse ottenuto
l'intento. Detto fatto, si mise con gli altri a far far largo; e non era certo
de' meno attivi. Il largo si fece; - venite pure avanti, - diceva più d'uno al
cocchiere, ritirandosi o andando a fargli un po' di strada più innanzi. - Adelante,
presto, con juicio, - gli disse anche il padrone; e la carrozza si mosse.
Ferrer, in mezzo ai saluti che scialacquava al pubblico in massa, ne faceva
certi particolari di ringraziamento, con un sorriso d'intelligenza, a quelli
che vedeva adoprarsi per lui: e di questi sorrisi ne toccò più d'uno a Renzo,
il quale per verità se li meritava, e serviva in quel giorno il gran
cancelliere meglio che non avrebbe potuto fare il più bravo de' suoi segretari.
Al giovane montanaro invaghito di quella buona grazia, pareva quasi d'aver
fatto amicizia con Antonio Ferrer.
La
carrozza, una volta incamminata, seguitò poi, più o meno adagio, e non senza
qualche altra fermatina. Il tragitto non era forse più che un tiro di schioppo;
ma riguardo al tempo impiegatovi, avrebbe potuto parere un viaggetto, anche a
chi non avesse avuto la santa fretta di Ferrer. La gente si moveva, davanti e
di dietro, a destra e a sinistra della carrozza, a guisa di cavalloni intorno a
una nave che avanza nel forte della tempesta. Più acuto, più scordato, più
assordante di quello della tempesta era il frastono. Ferrer, guardando ora da
una parte, ora dall'altra; atteggiandosi e gestendo insieme, cercava d'intender
qualche cosa, per accomodar le risposte al bisogno; voleva far alla meglio un
po' di dialogo con quella brigata d'amici; ma la cosa era difficile, la più
difficile forse che gli fosse ancora capitata, in tant'anni di
gran-cancellierato. Ogni tanto però, qualche parola, anche qualche frase,
ripetuta da un crocchio nel suo passaggio, gli si faceva sentire, come lo
scoppio d'un razzo più forte si fa sentire nell'immenso scoppiettìo d'un fuoco
artifiziale. E lui, ora ingegnandosi di rispondere in modo soddisfacente a
queste grida, ora dicendo a buon conto le parole che sapeva dover esser più accette,
o che qualche necessità istantanea pareva richiedere, parlò anche lui per tutta
la strada. - Sì, signori; pane, abbondanza. Lo condurrò io in prigione: sarà
gastigato... si es culpable. Sì, sì, comanderò io: il pane a buon
mercato. Asi es... così è, voglio dire: il re nostro signore non vuole
che codesti fedelissimi vassalli patiscan la fame. Ox! ox! guardaos: non
si facciano male, signori. Pedro' adelante con juicio. Abbondanza,
abbondanza. Un po' di luogo, per carità. Pane, pane. In prigione, in prigione.
Cosa? - domandava poi a uno che s'era buttato mezzo dentro lo sportello, a
urlargli qualche suo consiglio o preghiera o applauso che fosse. Ma costui,
senza poter neppure ricevere il "cosa?" era stato tirato indietro da
uno che lo vedeva lì lì per essere schiacciato da una rota. Con queste botte e
risposte, tra le incessanti acclamazioni, tra qualche fremito anche
d'opposizione, che si faceva sentire qua e là, ma era subito soffogato, ecco
alla fine Ferrer arrivato alla casa, per opera principalmente di que' buoni
ausiliari.
Gli
altri che, come abbiam detto, eran già lì con le medesime buone intenzioni,
avevano intanto lavorato a fare e a rifare un po' di piazza. Prega, esorta,
minaccia; pigia, ripigia, incalza di qua e di là, con quel raddoppiare di
voglia, e con quel rinnovamento di forze che viene dal veder vicino il fine
desiderato; gli era finalmente riuscito di divider la calca in due, e poi di
spingere indietro le due calche; tanto che, tra la porta e la carrozza, che vi
si fermò davanti, v'era un piccolo spazio voto. Renzo, che, facendo un po' da
battistrada, un po' da scorta, era arrivato con la carrozza, poté collocarsi in
una di quelle due frontiere di benevoli, che facevano, nello stesso tempo, ala
alla carrozza e argine alle due onde prementi di popolo. E aiutando a
rattenerne una con le poderose sue spalle, si trovò anche in un bel posto per
poter vedere.
Ferrer
mise un gran respiro, quando vide quella piazzetta libera, e la porta ancor
chiusa. Chiusa qui vuol dire non aperta; del resto i gangheri eran quasi
sconficcati fuor de' pilastri: i battenti scheggiati, ammaccati, sforzati e
scombaciati nel mezzo lasciavano veder fuori da un largo spiraglio un pezzo di
catenaccio storto, allentato, e quasi divelto, che, se vogliam dir così, li teneva
insieme. Un galantuomo s'era affacciato a quel fesso, a gridar che aprissero;
un altro spalancò in fretta lo sportello della carrozza: il vecchio mise fuori
la testa, s'alzò, e afferrando con la destra il braccio di quel galantuomo,
uscì, e scese sul predellino.
La
folla, da una parte e dall'altra, stava tutta in punta di piedi per vedere:
mille visi, mille barbe in aria: la curiosità e l'attenzione generale creò un
momento di generale silenzio. Ferrer, fermatosi quel momento sul predellino,
diede un'occhiata in giro, salutò con un inchino la moltitudine, come da un
pulpito, e messa la mano sinistra al petto, gridò: - pane e giustizia -; e
franco, diritto, togato, scese in terra, tra l'acclamazioni che andavano alle
stelle. Intanto quelli di dentro avevano aperto, ossia avevan finito d'aprire,
tirando via il catenaccio insieme con gli anelli già mezzi sconficcati, e
allargando lo spiraglio, appena quanto bastava per fare entrare il
desideratissimo ospite. - Presto, presto, - diceva lui: - aprite bene, ch'io
possa entrare: e voi, da bravi, tenete indietro la gente; non mi lasciate
venire addosso... per l'amor del cielo! Serbate un po' di largo per tra poco.
Ehi! ehi! signori, un momento, - diceva poi ancora a quelli di dentro: - adagio
con quel battente, lasciatemi passare: eh! le mie costole; vi raccomando le mie
costole. Chiudete ora: no; eh! eh! la toga! la toga! - Sarebbe in fatti rimasta
presa tra i battenti, se Ferrer non n'avesse ritirato con molta disinvoltura lo
strascico, che disparve come la coda d'una serpe, che si rimbuca inseguita.
Riaccostati
i battenti, furono anche riappuntellati alla meglio. Di fuori, quelli che
s'eran costituiti guardia del corpo di Ferrer, lavoravano di spalle, di braccia
e di grida, a mantener la piazza vota, pregando in cuor loro il Signore che lo
facesse far presto.
-
Presto, presto, - diceva anche Ferrer di dentro, sotto il portico, ai
servitori, che gli si eran messi d'intorno ansanti, gridando: - sia benedetto!
ah eccellenza! oh eccellenza! uh eccellenza!
-
Presto, presto, - ripeteva Ferrer: - dov'è questo benedett'uomo?
Il
vicario scendeva le scale, mezzo strascicato e mezzo portato da altri suoi
servitori, bianco come un panno lavato. Quando vide il suo aiuto, mise un gran
respiro; gli tornò il polso, gli scorse un po' di vita nelle gambe, un po' di
colore sulle gote; e corse, come poté, verso Ferrer, dicendo: - sono nelle mani
di Dio e di vostra eccellenza. Ma come uscir di qui? Per tutto c'è gente che mi
vuol morto.
- Venga
usted con migo, e si faccia coraggio: qui fuori c'è la mia carrozza;
presto, presto -. Lo prese per la mano, e lo condusse verso la porta,
facendogli coraggio tuttavia; ma diceva intanto tra sé: "aqui està el
busilis; Dios nos valga!"
La
porta s'apre; Ferrer esce il primo; l'altro dietro, rannicchiato, attaccato,
incollato alla toga salvatrice, come un bambino alla sottana della mamma.
Quelli che avevan mantenuta la piazza vota, fanno ora, con un alzar di mani, di
cappelli, come una rete, una nuvola, per sottrarre alla vista pericolosa della
moltitudine il vicario; il quale entra il primo nella carrozza, e vi si
rimpiatta in un angolo. Ferrer sale dopo; lo sportello vien chiuso. La
moltitudine vide in confuso, riseppe, indovinò quel ch'era accaduto; e mandò un
urlo d'applausi e d'imprecazioni.
La parte
della strada che rimaneva da farsi, poteva parer la più difficile e la più
pericolosa. Ma il voto pubblico era abbastanza spiegato per lasciar andare in
prigione il vicario; e nel tempo della fermata, molti di quelli che avevano
agevolato l'arrivo di Ferrer, s'eran tanto ingegnati a preparare e a mantener
come una corsìa nel mezzo della folla, che la carrozza poté, questa seconda
volta, andare un po' più lesta, e di seguito. Di mano in mano che s'avanzava,
le due folle rattenute dalle parti, si ricadevano addosso e si rimischiavano,
dietro a quella.
Ferrer,
appena seduto, s'era chinato per avvertire il vicario, che stesse ben
rincantucciato nel fondo, e non si facesse vedere, per l'amor del cielo; ma
l'avvertimento era superfluo. Lui, in vece, bisognava che si facesse vedere,
per occupare e attirare a sé tutta l'attenzione del pubblico. E per tutta
questa gita, come nella prima, fece al mutabile uditorio un discorso, il più
continuo nel tempo, e il più sconnesso nel senso, che fosse mai;
interrompendolo però ogni tanto con qualche parolina spagnola, che in fretta in
fretta si voltava a bisbigliar nell'orecchio del suo acquattato compagno. - Sì,
signori; pane e giustizia: in castello, in prigione, sotto la mia guardia.
Grazie, grazie, grazie tante. No, no: non iscapperà. Por ablandarlos. E
troppo giusto; s'esaminerà, si vedrà. Anch'io voglio bene a lor signori. Un
gastigo severo. Esto lo digo por su bien. Una meta giusta, una meta
onesta, e gastigo agli affamatori. Si tirin da parte, di grazia. Sì, sì; io
sono un galantuomo, amico del popolo. Sarà gastigato: è vero, è un birbante,
uno scellerato. Perdone, usted. La passerà male, la passerà male... si
es culpable. Sì, sì, li faremo rigar diritto i fornai. Viva il re, e i
buoni milanesi, suoi fedelissimi vassalli! Sta fresco, sta fresco. Animo;
estamos ya quasi fuera.
Avevano
in fatti attraversata la maggior calca, e già eran vicini a uscir al largo, del
tutto. Lì Ferrer, mentre cominciava a dare un po' di riposo a' suoi polmoni,
vide il soccorso di Pisa, que' soldati spagnoli, che però sulla fine non erano
stati affatto inutili, giacché sostenuti e diretti da qualche cittadino,
avevano cooperato a mandare in pace un po' di gente, e a tenere il passo libero
all'ultima uscita. All'arrivar della carrozza, fecero ala, e presentaron l'arme
al gran cancelliere, il quale fece anche qui un saluto a destra, un saluto a
sinistra; e all'ufiziale, che venne più vicino a fargli il suo, disse,
accompagnando le parole con un cenno della destra: - beso a usted las manos-:
parole che l'ufiziale intese per quel che volevano dir realmente, cioè: m'avete
dato un bell'aiuto! In risposta, fece un altro saluto, e si ristrinse nelle
spalle. Era veramente il caso di dire: cedant arma togae; ma Ferrer non
aveva in quel momento la testa a citazioni: e del resto sarebbero state parole
buttate via, perché l'ufiziale non intendeva il latino.
A
Pedro, nel passar tra quelle due file di micheletti, tra que' moschetti così
rispettosamente alzati, gli tornò in petto il cuore antico. Si riebbe affatto dallo
sbalordimento, si rammentò chi era, e chi conduceva; e gridando: - ohe! ohe! -
senz'aggiunta d'altre cerimonie, alla gente ormai rada abbastanza per poter
esser trattata così, e sferzando i cavalli, fece loro prender la rincorsa verso
il castello.
- Levantese'
levantese; estàmos ya fuera, - disse Ferrer al vicario; il quale,
rassicurato dal cessar delle grida, e dal rapido moto della carrozza, e da
quelle parole, si svolse, si sgruppò, s'alzò; e riavutosi alquanto, cominciò a
render grazie, grazie e grazie al suo liberatore. Questi, dopo essersi
condoluto con lui del pericolo e rallegrato della salvezza: - ah! - esclamò,
battendo la mano sulla sua zucca monda, - que dirà de esto su excelencia,
che ha già tanto la luna a rovescio, per quel maledetto Casale, che non vuole
arrendersi? Que dirà el conde duque, che piglia ombra se una foglia fa
più rumore del solito? Que dirà el rey nuestro señor, che pur qualche
cosa bisognerà che venga a risapere d'un fracasso così? E sarà poi finito? Dios
lo sabe. - Ah! per me, non voglio più impicciarmene, - diceva il vicario: -
me ne chiamo fuori; rassegno la mia carica nelle mani di vostra eccellenza, e
vo a vivere in una grotta, sur una montagna, a far l'eremita, lontano, lontano
da questa gente bestiale.
- Usted
farà quello che sarà più conveniente por el servicio de su magestad, -
rispose gravemente il gran cancelliere.
- Sua
maestà non vorrà la mia morte, - replicava il vicario: - in una grotta, in una
grotta; lontano da costoro.
Che
avvenisse poi di questo suo proponimento non lo dice il nostro autore, il
quale, dopo avere accompagnato il pover'uomo in castello, non fa più menzione
de' fatti suoi.
La
folla rimasta indietro cominciò a sbandarsi, a diramarsi a destra e a sinistra,
per questa e per quella strada. Chi andava a casa, a accudire anche alle sue
faccende; chi s'allontanava, per respirare un po' al largo, dopo tante ore di
stretta; chi, in cerca d'amici, per ciarlare de' gran fatti della giornata. Lo
stesso sgombero s'andava facendo dall'altro sbocco della strada, nella quale la
gente restò abbastanza rada perché quel drappello di spagnoli potesse, senza
trovar resistenza, avanzarsi, e postarsi alla casa del vicario. Accosto a
quella stava ancor condensato il fondaccio, per dir così, del tumulto; un
branco di birboni, che malcontenti d'una fine così fredda e così imperfetta
d'un così grand'apparato, parte brontolavano, parte bestemmiavano, parte
tenevan consiglio, per veder se qualche cosa si potesse ancora intraprendere;
e, come per provare, andavano urtacchiando e pigiando quella povera porta,
ch'era stata di nuovo appuntellata alla meglio. All'arrivar del drappello,
tutti coloro, chi diritto diritto, chi baloccandosi, e come a stento, se
n'andarono dalla parte opposta, lasciando il campo libero a' soldati, che lo
presero, e vi si postarono, a guardia della casa e della strada. Ma tutte le
strade del contorno erano seminate di crocchi: dove c'eran due o tre persone
ferme, se ne fermavano tre, quattro, venti altre: qui qualcheduno si staccava;
là tutto un crocchio si moveva insieme: era come quella nuvolaglia che talvolta
rimane sparsa, e gira per l'azzurro del cielo, dopo una burrasca; e fa dire a
chi guarda in su: questo tempo non è rimesso bene. Pensate poi che babilonia di
discorsi. Chi raccontava con enfasi i casi particolari che aveva visti; chi
raccontava ciò che lui stesso aveva fatto; chi si rallegrava che la cosa fosse
finita bene, e lodava Ferrer, e pronosticava guai seri per il vicario; chi,
sghignazzando, diceva: - non abbiate paura, che non l'ammazzeranno: il lupo non
mangia la carne del lupo -; chi più stizzosamente mormorava che non s'eran
fatte le cose a dovere, ch'era un inganno, e ch'era stata una pazzia il far
tanto chiasso, per lasciarsi poi canzonare in quella maniera.
Intanto
il sole era andato sotto, le cose diventavan tutte d'un colore; e molti,
stanchi della giornata e annoiati di ciarlare al buio, tornavano verso casa. Il
nostro giovine, dopo avere aiutato il passaggio della carrozza, finché c'era
stato bisogno d'aiuto, e esser passato anche lui dietro a quella, tra le file
de' soldati, come in trionfo, si rallegrò quando la vide correr liberamente, e
fuor di pericolo; fece un po' di strada con la folla, e n'uscì, alla prima
cantonata, per respirare anche lui un po' liberamente. Fatto ch'ebbe pochi
passi al largo, in mezzo all'agitazione di tanti sentimenti, di tante immagini,
recenti e confuse, sentì un gran bisogno di mangiare e di riposarsi; e cominciò
a guardare in su, da una parte e dall'altra, cercando un'insegna d'osteria;
giacché, per andare al convento de' cappuccini, era troppo tardi. Camminando
così con la testa per aria, si trovò a ridosso a un crocchio; e fermatosi,
sentì che vi discorrevan di congetture, di disegni, per il giorno dopo. Stato
un momento a sentire, non poté tenersi di non dire anche lui la sua; parendogli
che potesse senza presunzione proporre qualche cosa chi aveva fatto tanto. E
persuaso, per tutto ciò che aveva visto in quel giorno, che ormal, per mandare
a effetto una cosa, bastasse farla entrare in grazia a quelli che giravano per
le strade, - signori miei! - gridò, in tono d'esordio: - devo dire anch'io il
mio debol parere? Il mio debol parere è questo: che non è solamente nell'affare
del pane che si fanno delle bricconerie: e giacché oggi s'è visto chiaro che, a
farsi sentire, s'ottiene quel che è giusto; bisogna andar avanti così, fin che
non si sia messo rimedio a tutte quelle altre scelleratezze, e che il mondo
vada un po' più da cristiani. Non è vero, signori miei, che c'è una mano di
tiranni, che fanno proprio al rovescio de' dieci comandamenti, e vanno a cercar
la gente quieta, che non pensa a loro, per farle ogni male, e poi hanno sempre
ragione? anzi quando n'hanno fatta una più grossa del solito, camminano con la
testa più alta, che par che gli s'abbia a rifare il resto? Già anche in Milano
ce ne dev'essere la sua parte.
- Pur
troppo, - disse una voce.
- Lo
dicevo io, - riprese Renzo: - già le storie si raccontano anche da noi. E poi
la cosa parla da sé. Mettiamo, per esempio, che qualcheduno di costoro che
voglio dir io stia un po' in campagna, un po' in Milano: se è un diavolo là,
non vorrà esser un angiolo qui; mi pare. Dunque mi dicano un poco, signori
miei, se hanno mai visto uno di questi col muso all'inferriata. E quel
che è peggio (e questo lo posso dir io di sicuro), è che le gride ci sono,
stampate, per gastigarli: e non già gride senza costrutto; fatte benissimo, che
noi non potremmo trovar niente di meglio; ci son nominate le bricconerie
chiare, proprio come succedono; e a ciascheduna, il suo buon gastigo. E dice:
sia chi si sia, vili e plebei, e che so io. Ora, andate a dire ai dottori,
scribi e farisei, che vi facciano far giustizia, secondo che canta la grida: vi
dànno retta come il papa ai furfanti: cose da far girare il cervello a
qualunque galantuomo. Si vede dunque chiaramente che il re, e quelli che
comandano, vorrebbero che i birboni fossero gastigati; ma non se ne fa nulla,
perché c'è una lega. Dunque bisogna romperla; bisogna andar domattina da
Ferrer, che quello è un galantuomo, un signore alla mano; e oggi s'è potuto
vedere com'era contento di trovarsi con la povera gente, e come cercava di
sentir le ragioni che gli venivan dette, e rispondeva con buona grazia. Bisogna
andar da Ferrer, e dirgli come stanno le cose; e io, per la parte mia, gliene
posso raccontar delle belle; che ho visto io, co' miei occhi, una grida con
tanto d'arme in cima, ed era stata fatta da tre di quelli che possono, che
d'ognuno c'era sotto il suo nome bell'e stampato, e uno di questi nomi era Ferrer,
visto da me, co' miei occhi: ora, questa grida diceva proprio le cose giuste
per me; e un dottore al quale io gli dissi che dunque mi facesse render
giustizia, com'era l'intenzione di que' tre signori, tra i quali c'era anche
Ferrer, questo signor dottore, che m'aveva fatto veder la grida lui medesimo,
che è il più bello, ah! ah! pareva che gli dicessi delle pazzie. Son sicuro
che, quando quel caro vecchione sentirà queste belle cose; che lui non le può
saper tutte, specialmente quelle di fuori; non vorrà più che il mondo vada
così, e ci metterà un buon rimedio. E poi, anche loro, se fanno le gride,
devono aver piacere che s'ubbidisca: che è anche un disprezzo, un pitaffio col
loro nome, contarlo per nulla. E se i prepotenti non vogliono abbassar la testa,
e fanno il pazzo, siam qui noi per aiutarlo, come s'è fatto oggi. Non dico che
deva andar lui in giro, in carrozza, ad acchiappar tutti i birboni, prepotenti
e tiranni: sì; ci vorrebbe l'arca di Noè. Bisogna che lui comandi a chi tocca,
e non solamente in Milano, ma per tutto, che faccian le cose conforme dicon le
gride; e formare un buon processo addosso a tutti quelli che hanno commesso di
quelle bricconerie; e dove dice prigione, prigione; dove dice galera, galera; e
dire ai podestà che faccian davvero; se no, mandarli a spasso, e metterne de'
meglio: e poi, come dico, ci saremo anche noi a dare una mano. E ordinare a'
dottori che stiano a sentire i poveri e parlino in difesa della ragione. Dico
bene, signori miei?
Renzo
aveva parlato tanto di cuore, che, fin dall'esordio, una gran parte de'
radunati, sospeso ogni altro discorso, s'eran rivoltati a lui; e, a un certo
punto, tutti erano divenuti suoi uditori. Un grido confuso d'applausi, di -
bravo: sicuro: ha ragione: è vero pur troppo, - fu come la risposta
dell'udienza. Non mancaron però i critici. - Eh sì, - diceva uno: - dar retta
a' montanari: son tutti avvocati -; e se ne andava. - Ora, - mormorava un
altro, - ogni scalzacane vorrà dir la sua; e a furia di metter carne a fuoco,
non s'avrà il pane a buon mercato; che è quello per cui ci siam mossi -. Renzo
però non sentì che i complimenti; chi gli prendeva una mano, chi gli prendeva
l'altra. - A rivederci a domani. - Dove? - Sulla piazza del duomo. - Va bene. -
Va bene. - E qualcosa si farà. - E qualcosa si farà.
- Chi è
di questi bravi signori che voglia insegnarmi un'osteria, per mangiare un
boccone, e dormire da povero figliuolo? - disse Renzo.
- Son
qui io a servirvi, quel bravo giovine, - disse uno, che aveva ascoltata
attentamente la predica, e non aveva detto ancor nulla. - Conosco appunto
un'osteria che farà al caso vostro; e vi raccomanderò al padrone, che è mio
amico, e galantuomo.
- Qui
vicino? - domandò Renzo. - Poco distante, - rispose colui.
La
radunata si sciolse; e Renzo, dopo molte strette di mani sconosciute, s'avviò
con lo sconosciuto, ringraziandolo della sua cortesia.
- Di
che cosa? - diceva colui: - una mano lava l'altra, e tutt'e due lavano il viso.
Non siamo obbligati a far servizio al prossimo? - E camminando, faceva a Renzo,
in aria di discorso, ora una, ora un'altra domanda. - Non per sapere i fatti
vostri; ma voi mi parete molto stracco: da che paese venite?
-
Vengo, - rispose Renzo, - fino, fino da Lecco.
- Fin
da Lecco? Di Lecco siete?
- Di
Lecco... cioè del territorio.
- Povero
giovine! per quanto ho potuto intendere da' vostri discorsi, ve n'hanno fatte
delle grosse.
- Eh!
caro il mio galantuomo! ho dovuto parlare con un po' di politica, per non dire
in pubblico i fatti miei; ma... basta, qualche giorno si saprà; e allora... Ma
qui vedo un'insegna d'osteria; e, in fede mia, non ho voglia d'andar più
lontano.
- No,
no! venite dov'ho detto io, che c'è poco, - disse la guida: - qui non istareste
bene.
- Eh,
sì; - rispose il giovine: - non sono un signorino avvezzo a star nel cotone:
qualcosa alla buona da mettere in castello, e un saccone, mi basta: quel che mi
preme è di trovar presto l'uno e l'altro. Alla provvidenza! - Ed entrò in un
usciaccio, sopra il quale pendeva l'insegna della luna piena. - Bene; vi
condurrò qui, giacché vi piace così, - disse lo sconosciuto; e gli andò dietro.
- Non
occorre che v'incomodiate di più, - rispose Renzo. - Però, - soggiunse, - se
venite a bere un bicchiere con me, mi fate piacere.
-
Accetterò le vostre grazie, - rispose colui; e andò, come più pratico del
luogo, innanzi a Renzo, per un cortiletto; s'accostò all'uscio che metteva in
cucina, alzò il saliscendi, aprì, e v'entrò col suo compagno. Due lumi a mano,
pendenti da due pertiche attaccate alla trave del palco, vi spandevano una
mezza luce. Molta gente era seduta, non però in ozio, su due panche, di qua e
di là d'una tavola stretta e lunga, che teneva quasi tutta una parte della
stanza: a intervalli, tovaglie e piatti; a intervalli, carte voltate e
rivoltate, dadi buttati e raccolti; fiaschi e bicchieri per tutto. Si vedevano
anche correre berlinghe, reali e parpagliole, che, se avessero potuto
parlare, avrebbero detto probabilmente: "noi eravamo stamattina nella
ciotola d'un fornaio, o nelle tasche di qualche spettatore del tumulto, che tutt'intento
a vedere come andassero gli affari pubblici, si dimenticava di vigilar le sue
faccendole private". Il chiasso era grande. Un garzone girava innanzi e
indietro, in fretta e in furia, al servizio di quella tavola insieme e
tavoliere: l'oste era a sedere sur una piccola panca, sotto la cappa del
cammino, occupato, in apparenza, in certe figure che faceva e disfaceva nella
cenere, con le molle; ma in realtà intento a tutto ciò che accadeva intorno a
lui. S'alzò, al rumore del saliscendi; e andò incontro ai soprarrivati. Vista
ch'ebbe la guida, "maledetto!" disse tra sé: "che tu m'abbia a
venir sempre tra' piedi, quando meno ti vorrei!" Data poi un'occhiata in
fretta a Renzo, disse, ancora tra sé: "non ti conosco; ma venendo con un
tal cacciatore, o cane o lepre sarai: quando avrai detto due parole, ti
conoscerò". Però, di queste riflessioni nulla trasparve sulla faccia
dell'oste, la quale stava immobile come un ritratto: una faccia pienotta e
lucente, con una barbetta folta, rossiccia, e due occhietti chiari e fissi.
- Cosa
comandan questi signori? - disse ad alta voce.
- Prima
di tutto, un buon fiasco di vino sincero, - disse Renzo: - e poi un boccone -.
Così dicendo, si buttò a sedere sur una panca, verso la cima della tavola, e
mandò un - ah! - sonoro, come se volesse dire: fa bene un po' di panca, dopo
essere stato, tanto tempo, ritto e in faccende. Ma gli venne subito in mente
quella panca e quella tavola, a cui era stato seduto l'ultima volta, con Lucia
e con Agnese: e mise un sospiro. Scosse poi la testa, come per iscacciar quel
pensiero: e vide venir l'oste col vino. Il compagno s'era messo a sedere in
faccia a Renzo. Questo gli mescé subito da bere, dicendo: per bagnar le labbra
-. E riempito l'altro bicchiere, lo tracannò in un sorso.
- Cosa
mi darete da mangiare? - disse poi all'oste.
- Ho
dello stufato: vi piace? - disse questo.
- Sì,
bravo; dello stufato.
-
Sarete servito, - disse l'oste a Renzo; e al garzone: - servite questo
forestiero -. E s'avviò verso il cammino. - Ma... - riprese poi, tornando verso
Renzo: - ma pane, non ce n'ho in questa giornata.
- Al
pane, - disse Renzo, ad alta voce e ridendo, - ci ha pensato la provvidenza -.
E tirato fuori il terzo e ultimo di que' pani raccolti sotto la croce di san
Dionigi, l'alzò per aria, gridando: - ecco il pane della provvidenza!
All'esclamazione,
molti si voltarono; e vedendo quel trofeo in aria, uno gridò: - viva il pane a
buon mercato!
- A
buon mercato? - disse Renzo: - gratis et amore.
-
Meglio, meglio.
- Ma, -
soggiunse subito Renzo, - non vorrei che lor signori pensassero a male. Non è
ch'io l'abbia, come si suol dire, sgraffignato. L'ho trovato in terra; e se
potessi trovare anche il padrone, son pronto a pagarglielo.
-
Bravo! bravo! - gridarono, sghignazzando più forte, i compagnoni; a nessuno de'
quali passò per la mente che quelle parole fossero dette davvero.
-
Credono ch'io canzoni; ma l'è proprio così, - disse Renzo alla sua guida; e,
girando in mano quel pane, soggiunse: - vedete come l'hanno accomodato; pare
una schiacciata: ma ce n'era del prossimo! Se ci si trovavan di quelli che han
l'ossa un po' tenere, saranno stati freschi -. E subito, divorati tre o quattro
bocconi di quel pane, gli mandò dietro un secondo bicchier di vino; e
soggiunse: - da sé non vuol andar giù questo pane. Non ho avuto mai la gola
tanto secca. S'è fatto un gran gridare!
-
Preparate un buon letto a questo bravo giovine, - disse la guida: - perché ha
intenzione di dormir qui.
-
Volete dormir qui? - domandò l'oste a Renzo, avvicinandosi alla tavola.
-
Sicuro, - rispose Renzo: - un letto alla buona; basta che i lenzoli sian di
bucato; perché son povero figliuolo, ma avvezzo alla pulizia.
- Oh,
in quanto a questo! - disse l'oste: andò al banco, ch'era in un angolo della
cucina; e ritornò, con un calamaio e un pezzetto di carta bianca in una mano, e
una penna nell'altra.
- Cosa
vuol dir questo? - esclamò Renzo, ingoiando un boccone dello stufato che il
garzone gli aveva messo davanti, e sorridendo poi con maraviglia, soggiunse: -
è il lenzolo di bucato, codesto?
L'oste,
senza rispondere, posò sulla tavola il calamaio e la carta; poi appoggiò sulla
tavola medesima il braccio sinistro e il gomito destro; e, con la penna in
aria, e il viso alzato verso Renzo, gli disse: - fatemi il piacere di dirmi il
vostro nome, cognome e patria.
- Cosa?
- disse Renzo: - cosa c'entrano codeste storie col letto?
- Io fo
il mio dovere, - disse l'oste, guardando in viso alla guida: - noi siamo
obbligati a render conto di tutte le persone che vengono a alloggiar da noi: nome
e cognome, e di che nazione sarà, a che negozio viene, se ha seco armi...
quanto tempo ha di fermarsi in questa città... Son parole della grida.
Prima
di rispondere, Renzo votò un altro bicchiere: era il terzo; e d'ora in poi ho
paura che non li potremo più contare. Poi disse: - ah ah! avete la grida! E io
fo conto d'esser dottor di legge; e allora so subito che caso si fa delle
gride.
- Dico
davvero, - disse l'oste, sempre guardando il muto compagno di Renzo; e, andato
di nuovo al banco, ne levò dalla cassetta un gran foglio, un proprio esemplare
della grida; e venne a spiegarlo davanti agli occhi di Renzo.
- Ah!
ecco! - esclamò questo, alzando con una mano il bicchiere riempito di nuovo, e
rivotandolo subito, e stendendo poi l'altra mano, con un dito teso, verso la
grida: - ecco quel bel foglio di messale. Me ne rallegro moltissimo. La conosco
quell'arme; so cosa vuol dire quella faccia d'ariano, con la corda al collo -.
(In cima alle gride si metteva allora l'arme del governatore; e in quella di
don Gonzalo Fernandez de Cordova, spiccava un re moro incatenato per la gola).
- Vuol dire, quella faccia: comanda chi può, e ubbidisce chi vuole. Quando
questa faccia avrà fatto andare in galera il signor don... basta, lo so io;
come dice in un altro foglio di messale compagno a questo; quando avrà fatto in
maniera che un giovine onesto possa sposare una giovine onesta che è contenta
di sposarlo, allora le dirò il mio nome a questa faccia; le darò anche un bacio
per di più. Posso aver delle buone ragioni per non dirlo, il mio nome. Oh
bella! E se un furfantone, che avesse al suo comando una mano d'altri furfanti:
perché se fosse solo... - e qui finì la frase con un gesto: - se un furfantone
volesse saper dov'io sono, per farmi qualche brutto tiro, domando io se questa
faccia si moverebbe per aiutarmi. Devo dire i fatti miei! Anche questa è nuova.
Son venuto a Milano per confessarmi, supponiamo; ma voglio confessarmi da un
padre cappuccino, per modo di dire, e non da un oste.
L'oste
stava zitto, e seguitava a guardar la guida, la quale non faceva dimostrazione
di sorte veruna. Renzo, ci dispiace il dirlo, tracannò un altro bicchiere, e
proseguì: - ti porterò una ragione, il mio caro oste, che ti capaciterà. Se le
gride che parlan bene, in favore de' buoni cristiani, non contano; tanto meno
devon contare quelle che parlan male. Dunque leva tutti quest'imbrogli, e porta
in vece un altro fiasco; perché questo è fesso -. Così dicendo, lo percosse
leggermente con le nocca, e soggiunse: - senti, senti, oste, come crocchia.
Anche
questa volta, Renzo aveva, a poco a poco, attirata l'attenzione di quelli che
gli stavan d'intorno: e anche questa volta, fu applaudito dal suo uditorio.
- Cosa
devo fare? - disse l'oste, guardando quello sconosciuto, che non era tale per
lui.
- Via,
via, - gridaron molti di que' compagnoni: - ha ragione quel giovine: son tutte
angherie, trappole, impicci: legge nuova Oggi, legge nuova. In mezzo a queste
grida, lo sconosciuto, dando all'oste un'occhiata di rimprovero, per
quell'interrogazione troppo scoperta, disse: - lasciatelo un po' fare a suo
modo: non fate scene.
- Ho
fatto il mio dovere, - disse l'oste, forte; e poi tra se: "ora ho le
spalle al muro". E prese la carta, la penna, il calamaio, la grida, e
il fiasco voto, per consegnarlo al garzone.
- Porta
del medesimo, - disse Renzo: - che lo trovo galantuomo; e lo metteremo a letto
come l'altro, senza domandargli nome e cognome, e di che nazione sarà, e cosa
viene a fare, e se ha a stare un pezzo in questa città.
- Del
medesimo, - disse l'oste al garzone, dandogli il fiasco; e ritornò a sedere
sotto la cappa del cammino. "Altro che lepre!" pensava, istoriando di
nuovo la cenere: "e in che mani sei capitato! Pezzo d'asino! se vuoi
affogare, affoga; ma l'oste della luna piena non deve andarne di mezzo, per le
tue pazzie".
Renzo
ringraziò la guida, e tutti quegli altri che avevan prese le sue parti. - Bravi
amici! - disse: - ora vedo proprio che i galantuomini si dànno la mano, e si
sostengono -. Poi, spianando la destra per aria sopra la tavola, e mettendosi
di nuovo in attitudine di predicatore, - gran cosa, - esclamò, - che tutti
quelli che regolano il mondo, voglian fare entrar per tutto carta, penna e
calamaio! Sempre la penna per aria! Grande smania che hanno que' signori
d'adoprar la penna!
- Ehi,
quel galantuomo di campagna! volete saperne la ragione? - disse ridendo uno di
que' giocatori, che vinceva.
-
Sentiamo un poco, - rispose Renzo.
- La
ragione è questa, - disse colui: - che que' signori son loro che mangian
l'oche, e si trovan lì tante penne, tante penne, che qualcosa bisogna che ne
facciano.
Tutti
si misero a ridere, fuor che il compagno che perdeva.
- To',
- disse Renzo: - è un poeta costui. Ce n'è anche qui de' poeti: già ne nasce
per tutto. N'ho una vena anch'io, e qualche volta ne dico delle curiose... ma
quando le cose vanno bene.
Per
capire questa baggianata del povero Renzo, bisogna sapere che, presso il volgo
di Milano, e del contado ancora più, poeta non significa già, come per tutti i
galantuomini, un sacro ingegno, un abitator di Pindo, un allievo delle Muse;
vuol dire un cervello bizzarro e un po' balzano, che, ne' discorsi e ne' fatti,
abbia più dell'arguto e del singolare che del ragionevole. Tanto quel
guastamestieri del volgo è ardito a manomettere le parole, e a far dir loro le
cose più lontane dal loro legittimo significato! Perché, vi domando io, cosa ci
ha che fare poeta con cervello balzano?
- Ma la
ragione giusta la dirò io, - soggiunse Renzo: - è perché la penna la tengon
loro: e così, le parole che dicon loro, volan via, e spariscono; le parole che
dice un povero figliuolo, stanno attenti bene, e presto presto le infilzan per
aria, con quella penna, e te le inchiodano sulla carta, per servirsene, a tempo
e luogo. Hanno poi anche un'altra malizia; che, quando vogliono imbrogliare un
povero figliuolo, che non abbia studiato, ma che abbia un po' di... so io quel
che voglio dire... - e, per farsi intendere, andava picchiando, e come
arietando la fronte con la punta dell'indice; - e s'accorgono che comincia a
capir l'imbroglio, taffete, buttan dentro nel discorso qualche parola in
latino, per fargli perdere il filo, per confondergli la testa. Basta; se ne
deve smetter dell'usanze! Oggi, a buon conto, s'è fatto tutto in volgare, e
senza carta, penna e calamaio; e domani, se la gente saprà regolarsi, se ne
farà anche delle meglio: senza torcere un capello a nessuno, però; tutto per
via di giustizia.
Intanto
alcuni di que' compagnoni s'eran rimessi a giocare, altri a mangiare, molti a
gridare; alcuni se n'andavano; altra gente arrivava; l'oste badava agli uni e
agli altri: tutte cose che non hanno che fare con la nostra storia. Anche la
sconosciuta guida non vedeva l'ora d'andarsene; non aveva, a quel che paresse,
nessun affare in quel luogo; eppure non voleva partire prima d'aver
chiacchierato un altro poco con Renzo in particolare. Si voltò a lui, riattaccò
il discorso del pane; e dopo alcune di quelle frasi che, da qualche tempo,
correvano per tutte le bocche, venne a metter fuori un suo progetto. - Eh! se
comandassi io, - disse, - lo troverei il verso di fare andar le cose bene.
- Come
vorreste fare? - domandò Renzo, guardandolo con due occhietti brillanti più del
dovere, e storcendo un po' la bocca, come per star più attento.
- Come
vorrei fare? - disse colui: - vorrei che ci fosse pane per tutti; tanto per i
poveri, come per i ricchi.
- Ah!
così va bene, - disse Renzo.
- Ecco
come farei. Una meta onesta, che tutti ci potessero campare. E poi, distribuire
il pane in ragione delle bocche: perché c'è degl'ingordi indiscreti, che
vorrebbero tutto per loro, e fanno a ruffa raffa, pigliano a buon conto; e poi
manca il pane alla povera gente. Dunque dividere il pane. E come si fa? Ecco:
dare un bel biglietto a ogni famiglia, in proporzion delle bocche, per andare a
prendere il pane dal fornaio. A me, per esempio, dovrebbero rilasciare un
biglietto in questa forma: Ambrogio Fusella, di professione spadaio, con moglie
e quattro figliuoli, tutti in età da mangiar pane (notate bene): gli si dia
pane tanto, e paghi soldi tanti. Ma far le cose giuste, sempre in ragion delle
bocche. A voi, per esempio, dovrebbero fare un biglietto per... il vostro nome?
-
Lorenzo Tramaglino, - disse il giovine; il quale, invaghito del progetto, non
fece attenzione ch'era tutto fondato su carta, penna e calamaio; e che, per
metterlo in opera, la prima cosa doveva essere di raccogliere i nomi delle
persone.
-
Benissimo, - disse lo sconosciuto: - ma avete moglie e figliuoli?
-
Dovrei bene... figliuoli no... troppo presto... ma la moglie... se il mondo
andasse come dovrebbe andare...
- Ah
siete solo! Dunque abbiate pazienza, ma una porzione più piccola.
- È
giusto; ma se presto, come spero... e con l'aiuto di Dio.. Basta; quando avessi
moglie anch'io?
-
Allora si cambia il biglietto, e si cresce la porzione. Come v'ho detto; sempre
in ragion delle bocche, - disse lo sconosciuto, alzandosi.
- Così
va bene, - gridò Renzo; e continuò, gridando e battendo il pugno sulla tavola:
- e perché non la fanno una legge così?
- Cosa
volete che vi dica? Intanto vi do la buona notte, e me ne vo; perché penso che
la moglie e i figliuoli m'aspetteranno da un pezzo.
- Un
altro gocciolino, un altro gocciolino, - gridava Renzo, riempiendo in fretta il
bicchiere di colui; e subito alzatosi, e acchiappatolo per una falda del
farsetto, tirava forte, per farlo seder di nuovo. - Un altro gocciolino: non mi
fate quest'affronto.
Ma
l'amico, con una stratta, si liberò, e lasciando Renzo fare un guazzabuglio
d'istanze e di rimproveri, disse di nuovo: - buona notte, - e se n'andò. Renzo
seguitava ancora a predicargli, che quello era già in istrada; e poi ripiombò
sulla panca. Fissò gli occhi su quel bicchiere che aveva riempito; e, vedendo
passar davanti alla tavola il garzone, gli accennò di fermarsi, come se avesse
qualche affare da comunicargli; poi gli accennò il bicchiere, e con una
pronunzia lenta e solenne, spiccando le parole in un certo modo particolare,
disse: - ecco, l'avevo preparato per quel galantuomo: vedete; pieno raso,
proprio da amico; ma non l'ha voluto. Alle volte, la gente ha dell'idee
curiose. Io non ci ho colpa: il mio buon cuore l'ho fatto vedere. Ora, giacché
la cosa è fatta, non bisogna lasciarlo andare a male -. Così detto, lo prese, e
lo votò in un sorso.
- Ho
inteso, - disse il garzone, andandosene.
- Ah!
avete inteso anche voi, - riprese Renzo: - dunque è vero. Quando le ragioni son
giuste...!
Qui è
necessario tutto l'amore, che portiamo alla verità, per farci proseguire
fedelmente un racconto di così poco onore a un personaggio tanto principale, si
potrebbe quasi dire al primo uomo della nostra storia. Per questa stessa
ragione d'imparzialità, dobbiamo però anche avvertire ch'era la prima volta,
che a Renzo avvenisse un caso simile: e appunto questo suo non esser uso a
stravizi fu cagione in gran parte che il primo gli riuscisse così fatale. Que'
pochi bicchieri che aveva buttati giù da principio, l'uno dietro l'altro,
contro il suo solito, parte per quell'arsione che si sentiva, parte per una
certa alterazione d'animo, che non gli lasciava far nulla con misura, gli
diedero subito alla testa: a un bevitore un po' esercitato non avrebbero fatto
altro che levargli la sete. Su questo il nostro anonimo fa una osservazione,
che noi ripeteremo: e conti quel che può contare. Le abitudini temperate e
oneste, dice, recano anche questo vantaggio, che, quanto più sono inveterate e
radicate in un uomo, tanto più facilmente, appena appena se n'allontani, se ne
risente subito; dimodoché se ne ricorda poi per un pezzo; e anche uno
sproposito gli serve di scola.
Comunque
sia, quando que' primi fumi furono saliti alla testa di Renzo, vino e parole
continuarono a andare, l'uno in giù e l'altre in su, senza misura né regola: e,
al punto a cui l'abbiam lasciato, stava già come poteva. Si sentiva una gran
voglia di parlare: ascoltatori, o almeno uomini presenti che potesse prender
per tali, non ne mancava; e, per qualche tempo, anche le parole eran venute via
senza farsi pregare, e s'eran lasciate collocare in un certo qual ordine. Ma a
poco a poco, quella faccenda di finir le frasi cominciò a divenirgli fieramente
difficile. Il pensiero, che s'era presentato vivo e risoluto alla sua mente,
s'annebbiava e svaniva tutt'a un tratto; e la parola, dopo essersi fatta
aspettare un pezzo, non era quella che fosse al caso. In queste angustie, per
uno di que' falsi istinti che, in tante cose, rovinan gli uomini, ricorreva a
quel benedetto fiasco. Ma di che aiuto gli potesse essere il fiasco, in una
tale circostanza, chi ha fior di senno lo dica.
Noi
riferiremo soltanto alcune delle moltissime parole che mandò fuori, in quella sciagurata
sera: le molte più che tralasciamo, disdirebbero troppo; perché, non solo non
hanno senso, ma non fanno vista d'averlo: condizione necessaria in un libro
stampato.
- Ah
oste, oste! - ricominciò, accompagnandolo con l'occhio intorno alla tavola, o
sotto la cappa del cammino; talvolta fissandolo dove non era, e parlando sempre
in mezzo al chiasso della brigata: - oste che tu sei! Non posso mandarla giù...
quel tiro del nome, cognome e negozio. A un figliuolo par mio...! Non ti sei
portato bene. Che soddisfazione, che sugo, che gusto... di mettere in carta un
povero figliuolo? Parlo bene, signori? Gli osti dovrebbero tenere dalla parte
de' buoni figliuoli... Senti, senti, oste; ti voglio fare un paragone... per la
ragione... Ridono eh? Ho un po' di brio, sì... ma le ragioni le dico giuste.
Dimmi un poco; chi è che ti manda avanti la bottega? I poveri figliuoli, n'è
vero? dico bene? Guarda un po' se que' signori delle gride vengono mai da te a
bere un bicchierino.
- Tutta
gente che beve acqua, - disse un vicino di Renzo.
-
Vogliono stare in sé, - soggiunse un altro, - per poter dir le bugie a dovere.
- Ah! -
gridò Renzo: - ora è il poeta che ha parlato. Dunque intendete anche voi altri
le mie ragioni. Rispondi dunque, oste: e Ferrer, che è il meglio di tutti, è
mai venuto qui a fare un brindisi, e a spendere un becco d'un quattrino? E quel
cane assassino di don...? Sto zitto, perché sono in cervello anche troppo.
Ferrer e il padre Crrr... so io, son due galantuomini; ma ce n'è pochi de'
galantuomini. I vecchi peggio de' giovani; e i giovani... peggio ancora de'
vecchi. Però, son contento che non si sia fatto sangue: oibò; barbarie, da
lasciarle fare al boia. Pane; oh questo sì. Ne ho ricevuti degli urtoni; ma...
ne ho anche dati. Largo! abbondanza! viva!... Eppure, anche Ferrer... qualche
parolina in latino... siés baraòs trapolorum... Maledetto vizio! Viva!
giustizia! pane! ah, ecco le parole giuste!... Là ci volevano que'
galantuomini... quando scappò fuori quel maledetto ton ton ton, e poi ancora
ton ton ton. Non si sarebbe fuggiti, ve', allora. Tenerlo lì quel signor
curato... So io a chi penso!
A
questa parola, abbassò la testa, e stette qualche tempo, come assorto in un
pensiero: poi mise un gran sospiro, e alzò il viso, con due occhi inumiditi e
lustri, con un certo accoramento così svenevole, così sguaiato, che guai se chi
n'era l'oggetto avesse potuto vederlo un momento. Ma quegli omacci che già
avevan cominciato a prendersi spasso dell'eloquenza appassionata e imbrogliata
di Renzo, tanto più se ne presero della sua aria compunta; i più vicini
dicevano agli altri: guardate; e tutti si voltavano a lui; tanto che divenne lo
zimbello della brigata. Non già che tutti fossero nel loro buon senno, o nel
loro qual si fosse senno ordinario; ma, per dire il vero, nessuno n'era tanto
uscito, quanto il povero Renzo: e per di più era contadino. Si misero, or l'uno
or l'altro, a stuzzicarlo con domande sciocche e grossolane, con cerimonie
canzonatorie. Renzo, ora dava segno d'averselo per male, ora prendeva la cosa
in ischerzo, ora, senza badare a tutte quelle voci, parlava di tutt'altro, ora
rispondeva, ora interrogava; sempre a salti, e fuor di proposito. Per buona
sorte, in quel vaneggiamento, gli era però rimasta come un'attenzione istintiva
a scansare i nomi delle persone; dimodoché anche quello che doveva esser più
altamente fitto nella sua memoria, non fu proferito: ché troppo ci
dispiacerebbe se quel nome, per il quale anche noi sentiamo un po' d'affetto e
di riverenza, fosse stato strascinato per quelle boccacce, fosse divenuto
trastullo di quelle lingue sciagurate.
L'oste,
vedendo che il gioco andava in lungo, s'era accostato a Renzo; e pregando, con
buona grazia, quegli altri che lo lasciassero stare, l'andava scotendo per un
braccio, e cercava di fargli intendere e di persuaderlo che andasse a dormire.
Ma Renzo tornava sempre da capo col nome e cognome, e con le gride, e co' buoni
figliuoli. Però quelle parole: letto e dormire, ripetute al suo orecchio, gli
entraron finalmente in testa; gli fecero sentire un po' più distintamente il
bisogno di ciò che significavano, e produssero un momento di lucido intervallo.
Quel po' di senno che gli tornò, gli fece in certo modo capire che il più se
n'era andato: a un di presso come l'ultimo moccolo rimasto acceso
d'un'illuminazione, fa vedere gli altri spenti. Si fece coraggio; stese le
mani, e le appuntellò sulla tavola; tentò, una e due volte, d'alzarsi; sospirò,
barcollò; alla terza, sorretto dall'oste, si rizzò. Quello, reggendolo
tuttavia, lo fece uscire di tra la tavola e la panca; e, preso con una mano un
lume, con l'altra, parte lo condusse, parte lo tirò, alla meglio, verso l'uscio
di scala. Lì Renzo, al chiasso de' saluti che coloro gli urlavan dietro, si
voltò in fretta; e se il suo sostenitore non fosse stato ben lesto a tenerlo
per un braccio, la voltata sarebbe stata un capitombolo; si voltò dunque, e,
con l'altro braccio che gli rimaneva libero, andava trinciando e iscrivendo
nell'aria certi saluti, a guisa d'un nodo di Salomone.
-
Andiamo a letto, a letto, - disse l'oste, strascicandolo; gli fece imboccar
l'uscio; e con più fatica ancora, lo tirò in cima di quella scaletta, e poi
nella camera che gli aveva destinata. Renzo, visto il letto che l'aspettava, si
rallegrò; guardò amorevolmente l'oste, con due occhietti che ora scintillavan
più che mai, ora s'eclissavano, come due lucciole; cercò d'equilibrarsi sulle
gambe; e stese la mano al viso dell'oste, per prendergli il ganascino, in segno
d'amicizia e di riconoscenza; ma non gli riuscì. - Bravo oste! - gli riuscì
però di dire: - ora vedo che sei un galantuomo: questa è un'opera buona, dare
un letto a un buon figliuolo; ma quella figura che m'hai fatta, sul nome e
cognome, quella non era da galantuomo. Per buona sorte che anch'io son furbo la
mia parte...
L'oste,
il quale non pensava che colui potesse ancor tanto connettere; l'oste che, per
lunga esperienza, sapeva quanto gli uomini, in quello stato, sian più soggetti
del solito a cambiar di parere, volle approfittare di quel lucido intervallo,
per fare un altro tentativo. - Figliuolo caro, - disse, con una voce e con un
fare tutto gentile: - non l'ho fatto per seccarvi, né per sapere i fatti
vostri. Cosa volete? è legge: anche noi bisogna ubbidire; altrimenti siamo i
primi a portarne la pena. È meglio contentarli, e... Di che si tratta
finalmente? Gran cosa! dir due parole. Non per loro, ma per fare un piacere a
me: via; qui tra noi, a quattr'occhi, facciam le nostre cose; ditemi il vostro
nome, e... e poi andate a letto col cuor quieto.
- Ah
birbone! - esclamò Renzo: - mariolo! tu mi torni ancora in campo con
quell'infamità del nome, cognome e negozio!
- Sta'
zitto, buffone; va' a letto, - diceva l'oste.
Ma
Renzo continuava più forte: - ho inteso: sei della lega anche tu. Aspetta,
aspetta, che t'accomodo io -. E voltando la testa verso la scaletta, cominciava
a urlare più forte ancora: - amici! l'oste è della...
- Ho
detto per celia, - gridò questo sul viso di Renzo, spingendolo verso il letto:
- per celia; non hai inteso che ho detto per celia?
- Ah!
per celia: ora parli bene. Quando hai detto per celia... Son proprio celie -. E
cadde bocconi sul letto.
-
Animo; spogliatevi; presto, - disse l'oste, e al consiglio aggiunse l'aiuto;
che ce n'era bisogno. Quando Renzo si fu levato il farsetto (e ce ne volle),
l'oste l'agguantò subito, e corse con le mani alle tasche, per vedere se c'era
il morto. Lo trovò: e pensando che, il giorno dopo, il suo ospite avrebbe avuto
a fare i conti con tutt'altri
E che
con lui, e che quel morto sarebbe probabilmente caduto in mani di dove un oste
non avrebbe potuto farlo uscire; volle provarsi se almeno gli riusciva di
concluder quest'altro affare.
- Voi
siete un buon figliuolo, un galantuomo; n'è vero? - disse.
- Buon
figliuolo, galantuomo, - rispose Renzo, facendo tuttavia litigar le dita co'
bottoni de' panni che non s'era ancor potuto levare.
- Bene,
- replicò l'oste: - saldate ora dunque quel poco conticino, perché domani io
devo uscire per certi miei affari...
-
Quest'è giusto, - disse Renzo. - Son furbo, ma galantuomo... Ma i danari?
Andare a cercare i danari ora!
-
Eccoli qui, - disse l'oste: e, mettendo in opera tutta la sua pratica, tutta la
sua pazienza, tutta la sua destrezza, gli riuscì di fare il conto con Renzo, e
di pagarsi.
- Dammi
una mano, ch'io possa finir di spogliarmi, oste, - disse Renzo. - Lo vedo
anch'io, ve', che ho addosso un gran sonno.
L'oste
gli diede l'aiuto richiesto; gli stese per di più la coperta addosso, e gli
disse sgarbatamente - buona notte, - che già quello russava. Poi, per quella
specie d'attrattiva, che alle volte ci tiene a considerare un oggetto di
stizza, al pari che un oggetto d'amore, e che forse non è altro che il
desiderio di conoscere ciò che opera fortemente sull'animo nostro, si fermò un
momento a contemplare l'ospite così noioso per lui, alzandogli il lume sul
viso, e facendovi, con la mano stesa, ribatter sopra la luce; in quell'atto a
un di presso che vien dipinta Psiche, quando sta a spiare furtivamente le forme
del consorte sconosciuto. - Pezzo d'asino! - disse nella sua mente al povero
addormentato: - sei andato proprio a cercartela. Domani poi, mi saprai dire che
bel gusto ci avrai. Tangheri, che volete girare il mondo, senza saper da che
parte si levi il sole; per imbrogliar voi e il prossimo.
Così
detto o pensato, ritirò il lume, si mosse, uscì dalla camera, e chiuse l'uscio
a chiave. Sul pianerottolo della scala, chiamò l'ostessa; alla quale disse che
lasciasse i figliuoli in guardia a una loro servetta, e scendesse in cucina, a
far le sue veci. - Bisogna ch'io vada fuori, in grazia d'un forestiero capitato
qui, non so come diavolo, per mia disgrazia, - soggiunse; e le raccontò in
compendio il noioso accidente. Poi soggiunse ancora: - occhio a tutto; e sopra
tutto prudenza, in questa maledetta giornata. Abbiamo laggiù una mano di
scapestrati che, tra il bere, e tra che di natura sono sboccati, ne dicon di
tutti i colori. Basta, se qualche temerario...
- Oh!
non sono una bambina, e so anch'io quel che va fatto. Finora, mi pare che non
si possa dire...
- Bene,
bene; e badar che paghino; e tutti que' discorsi che fanno, sul vicario di
provvisione e il governatore e Ferrer e i decurioni e i cavalieri e Spagna e
Francia e altre simili corbellerie, far vista di non sentire; perché, se si
contraddice, la può andar male subito; e se si dà ragione, la può andar male in
avvenire: e già sai anche tu che qualche volta quelli che le dicon più
grosse... Basta; quando si senton certe proposizioni, girar la testa, e dire:
vengo; come se qualcheduno chiamasse da un'altra parte. Io cercherò di tornare
più presto che posso.
Ciò
detto, scese con lei in cucina, diede un'occhiata in giro, per veder se c'era
novità di rilievo; staccò da un cavicchio il cappello e la cappa, prese un
randello da un cantuccio, ricapitolò, con un'altra occhiata alla moglie,
l'istruzioni che le aveva date; e uscì. Ma, già nel far quelle operazioni,
aveva ripreso, dentro di sé, il filo dell'apostrofe cominciata al letto del
povero Renzo; e la proseguiva, camminando in istrada.
"Testardo
d'un montanaro!" Ché, per quanto Renzo avesse voluto tener nascosto
l'esser suo, questa qualità si manifestava da sé, nelle parole, nella
pronunzia, nell'aspetto e negli atti. "Una giornata come questa, a forza
di politica, a forza d'aver giudizio, io n'uscivo netto; e dovevi venir tu sulla
fine, a guastarmi l'uova nel paniere. Manca osterie in Milano, che tu dovessi
proprio capitare alla mia? Fossi almeno capitato solo; che avrei chiuso un
occhio, per questa sera; e domattina t'avrei fatto intender la ragione. Ma no
signore; in compagnia ci vieni; e in compagnia d'un bargello, per far
meglio!"
A ogni
passo, l'oste incontrava o passeggieri scompagnati, o coppie, o brigate di
gente, che giravano susurrando. A questo punto della sua muta allocuzione, vide
venire una pattuglia di soldati; e tirandosi da parte, per lasciarli passare,
li guardò con la coda dell'occhio, e continuò tra sé: "eccoli i
gastigamatti. E tu, pezzo d'asino, per aver visto un po' di gente in giro a far
baccano, ti sei cacciato in testa che il mondo abbia a mutarsi. E su questo bel
fondamento, ti sei rovinato te, e volevi anche rovinar me; che non è giusto. Io
facevo di tutto per salvarti; e tu, bestia, in contraccambio, c'è mancato poco
che non m'hai messo sottosopra l'osteria. Ora toccherà a te a levarti
d'impiccio: per me ci penso io. Come se io volessi sapere il tuo nome per una
mia curiosità! Cosa m'importa a me che tu ti chiami Taddeo o Bartolommeo? Ci ho
un bel gusto anch'io a prender la penna in mano! ma non siete voi altri soli a
voler le cose a modo vostro. Lo so anch'io che ci son delle gride che non
contan nulla: bella novità, da venircela a dire un montanaro! Ma tu non sai che
le gride contro gli osti contano. E pretendi girare il mondo, e parlare; e non
sai che, a voler fare a modo suo, e impiparsi delle gride, la prima cosa è di
parlarne con gran riguardo. E per un povero oste che fosse del tuo parere, e
non domandasse il nome di chi capita a favorirlo, sai tu, bestia, cosa c'è di
bello? Sotto pena a qual si voglia dei detti osti, tavernai ed altri, come
sopra, di trecento scudi: sì, son lì che covano trecento scudi; e per
ispenderli così bene; da esser applicati, per i due terzi alla regia Camera,
e l'altro all'accusatore o delatore: quel bel cecino! Ed in caso di
inabilità, cinque anni di galera, e maggior pena, pecuniaria o corporale,
all'arbitrio di sua eccellenza. Obbligatissimo alle sue grazie".
A
queste parole, l'oste toccava la soglia del palazzo di giustizia.
Lì,
come a tutti gli altri ufizi, c'era un gran da fare: per tutto s'attendeva a
dar gli ordini che parevan più atti a preoccupare il giorno seguente, a levare
i pretesti e l'ardire agli animi vogliosi di nuovi tumulti, ad assicurare la
forza nelle mani solite a adoprarla. S'accrebbe la soldatesca alla casa del
vicario; gli sbocchi della strada furono sbarrati di travi, trincerati di
carri. S'ordinò a tutti i fornai che facessero pane senza intermissione; si
spedirono staffette a' paesi circonvicini, con ordini di mandar grano alla
città; a ogni forno furono deputati nobili, che vi si portassero di buon
mattino, a invigilare sulla distribuzione e a tenere a freno gl'inquieti, con
l'autorità della presenza, e con le buone parole. Ma per dar, come si dice, un
colpo al cerchio e uno alla botte, e render più efficaci i consigli con un po'
di spavento, si pensò anche a trovar la maniera di metter le mani addosso a
qualche sedizioso: e questa era principalmente la parte del capitano di
giustizia; il quale, ognuno può pensare che sentimenti avesse per le
sollevazioni e per i sollevati, con una pezzetta d'acqua vulneraria sur uno
degli organi della profondità metafisica. I suoi bracchi erano in campo fino
dal principio del tumulto: e quel sedicente Ambrogio Fusella era, come ha detto
l'oste, un bargello travestito, mandato in giro appunto per cogliere sul fatto qualcheduno
da potersi riconoscere, e tenerlo in petto, e appostarlo, e acchiapparlo poi, a
notte affatto quieta, o il giorno dopo. Sentite quattro parole di quella
predica di Renzo, colui gli aveva fatto subito assegnamento sopra; parendogli
quello un reo buon uomo, proprio quel che ci voleva. Trovandolo poi nuovo
affatto del paese, aveva tentato il colpo maestro di condurlo caldo caldo alle
carceri, come alla locanda più sicura della città; ma gli andò fallito, come
avete visto. Poté però portare a casa la notizia sicura del nome, cognome e
patria, oltre cent'altre belle notizie congetturali; dimodoché, quando l'oste
capitò lì, a dir ciò che sapeva intorno a Renzo, ne sapevan già più di lui.
Entrò nella solita stanza, e fece la sua deposizione: come era giunto ad
alloggiar da lui un forestiero, che non aveva mai voluto manifestare il suo
nome.
- Avete
fatto il vostro dovere a informar la giustizia -; disse un notaio criminale,
mettendo giu la penna, - ma già lo sapevamo.
"Bel
segreto!" pensò l'oste: "ci vuole un gran talento!" - E sappiamo
anche, - continuò il notaio, - quel riverito nome.
"Diavolo!
il nome poi, com'hanno fatto?" pensò l'oste questa volta.
- Ma
voi, - riprese l'altro, con volto serio, - voi non dite tutto sinceramente.
- Cosa
devo dire di più?
- Ah!
ah! sappiamo benissimo che colui ha portato nella vostra osteria una quantità
di pane rubato, e rubato con violenza, per via di saccheggio e di sedizione.
- Vien
uno con un pane in tasca; so assai dov'è andato a prenderlo. Perché, a parlar
come in punto di morte, posso dire di non avergli visto che un pane solo.
- Già;
sempre scusare, difendere: chi sente voi altri, son tutti galantuomini. Come
potete provare che quel pane fosse di buon acquisto?
- Cosa
ho da provare io? io non c'entro: io fo l'oste.
- Non
potrete però negare che codesto vostro avventore non abbia avuta la temerità di
proferir parole ingiuriose contro le gride, e di fare atti mali e indecenti
contro l'arme di sua eccellenza.
- Mi
faccia grazia, vossignoria: come può mai essere mio avventore, se lo vedo per
la prima volta? È il diavolo, con rispetto parlando, che l'ha mandato a casa
mia: e se lo conoscessi, vossignoria vede bene che non avrei avuto bisogno di
domandargli il suo nome.
- Però,
nella vostra osteria, alla vostra presenza, si son dette cose di fuoco: parole
temerarie, proposizioni sediziose, mormorazioni, strida, clamori.
- Come
vuole vossignoria ch'io badi agli spropositi che posson dire tanti urloni che
parlan tutti insieme? Io devo attendere a' miei interessi, che sono un pover'uomo.
E poi vossignoria sa bene che chi è di lingua sciolta, per il solito è anche
lesto di mano, tanto più quando sono una brigata, e...
- Sì,
sì; lasciateli fare e dire: domani, domani, vedrete se gli sarà passato il
ruzzo. Cosa credete?
- Io
non credo nulla.
- Che
la canaglia sia diventata padrona di Milano?
- Oh
giusto!
-
Vedrete, vedrete.
-
Intendo benissimo: il re sarà sempre il re; ma chi avrà riscosso, avrà
riscosso: e naturalmente un povero padre di famiglia non ha voglia di
riscotere. Lor signori hanno la forza: a lor signori tocca.
- Avete
ancora molta gente in casa?
- Un
visibilio.
- E
quel vostro avventore cosa fa? Continua a schiamazzare, a metter su la gente, a
preparar tumulti per domani?
- Quel
forestiero, vuol dire vossignoria: è andato a letto.
-
Dunque avete molta gente... Basta; badate a non lasciarlo scappare.
"Che
devo fare il birro io?" pensò l'oste; ma non disse né sì né no.
-
Tornate pure a casa; e abbiate giudizio, - riprese il notaio.
- Io ho
sempre avuto giudizio. Vossignoria può dire se ho mai dato da fare alla
giustizia.
- E non
crediate che la giustizia abbia perduta la sua forza.
- Io?
per carità! io non credo nulla: abbado a far l'oste.
- La
solita canzone: non avete mai altro da dire.
- Che
ho da dire altro? La verità è una sola.
-
Basta; per ora riteniamo ciò che avete deposto; se verrà poi il caso,
informerete più minutamente la giustizia, intorno a ciò che vi potrà venir
domandato.
- Cosa
ho da informare? io non so nulla; appena appena ho la testa da attendere ai
fatti miei.
-
Badate a non lasciarlo partire.
- Spero
che l'illustrissimo signor capitano saprà che son venuto subito a fare il mio
dovere. Bacio le mani a vossignoria.
Allo
spuntar del giorno, Renzo russava da circa sett'ore, ed era ancora, poveretto!
sul più bello, quando due forti scosse alle braccia, e una voce che dappiè del
letto gridava : - Lorenzo Tramaglino! - , lo fecero riscotere. Si risentì,
ritirò le braccia, aprì gli occhi a stento; e vide ritto appiè del letto un
uomo vestito di nero, e due armati, uno di qua, uno di là del capezzale. E, tra
la sorpresa, e il non esser desto bene, e la spranghetta di quel vino che
sapete, rimase un momento come incantato; e credendo di sognare, e non
piacendogli quel sogno, si dimenava, come per isvegliarsi affatto.
- Ah!
avete sentito una volta, Lorenzo Tramaglino? - disse l'uomo dalla cappa nera,
quel notaio medesimo della sera avanti. - Animo dunque; levatevi, e venite con
noi.
-
Lorenzo Tramaglino! - disse Renzo Tramaglino: - cosa vuol dir questo? Cosa
volete da me? Chi v'ha detto il mio nome?
- Meno
ciarle, e fate presto, - disse uno de' birri che gli stavano a fianco,
prendendogli di nuovo il braccio.
- Ohe!
che prepotenza è questa? - gridò Renzo, ritirando il braccio. - Oste! o l'oste!
- Lo
portiam via in camicia? - disse ancora quel birro, voltandosi al notaio.
- Avete
inteso? - disse questo a Renzo: - si farà così, se non vi levate subito subito,
per venir con noi.
- E
perché? - domandò Renzo.
- Il
perché lo sentirete dal signor capitano di giustizia.
- Io? Io
sono un galantuomo: non ho fatto nulla; e mi maraviglio...
-
Meglio per voi, meglio per voi; così, in due parole sarete spicciato, e potrete
andarvene per i fatti vostri.
- Mi
lascino andare ora, - disse Renzo: - io non ho che far nulla con la giustizia.
- Orsù,
finiamola! - disse un birro.
- Lo
portiamo via davvero? - disse l'altro.
-
Lorenzo Tramaglino! - disse il notaio.
- Come
sa il mio nome, vossignoria?
- Fate
il vostro dovere, - disse il notaio a' birri; i quali misero subito le mani
addosso a Renzo, per tirarlo fuori del letto.
- Eh!
non toccate la carne d'un galantuomo, che...! Mi so vestir da me.
-
Dunque vestitevi subito, - disse il notaio.
- Mi
vesto, - rispose Renzo; e andava di fatti raccogliendo qua e là i panni sparsi
sul letto, come gli avanzi d'un naufragio sul lido. E cominciando a metterseli,
proseguiva tuttavia dicendo: - ma io non ci voglio andare dal capitano di
giustizia. Non ho che far nulla con lui. Giacché mi si fa quest'affronto
ingiustamente, voglio esser condotto da Ferrer. Quello lo conosco, so che è un
galantuomo; e m'ha dell'obbligazioni.
- Sì,
sì, figliuolo, sarete condotto da Ferrer, - rispose il notaio. In altre
circostanze, avrebbe riso, proprio di gusto, d'una richiesta simile; ma non era
momento da ridere. Già nel venire, aveva visto per le strade un certo
movimento, da non potersi ben definire se fossero rimasugli d'una sollevazione
non del tutto sedata, o princìpi d'una nuova: uno sbucar di persone, un
accozzarsi, un andare a brigate, un far crocchi. E ora, senza farne sembiante,
o cercando almeno di non farlo, stava in orecchi, e gli pareva che il ronzìo
andasse crescendo. Desiderava dunque di spicciarsi; ma avrebbe anche voluto
condur via Renzo d'amore e d'accordo; giacché, se si fosse venuti a guerra
aperta con lui, non poteva esser certo, quando fossero in istrada, di trovarsi
tre contr'uno. Perciò dava d'occhio a' birri, che avessero pazienza, e non
inasprissero il giovine; e dalla parte sua, cercava di persuaderlo con buone
parole. Il giovine intanto, mentre si vestiva adagino adagino, richiamandosi,
come poteva, alla memoria gli avvenimenti del giorno avanti, indovinava bene, a
un di presso, che le gride e il nome e il cognome dovevano esser la causa di
tutto; ma come diamine colui lo sapeva quel nome? E che diamine era accaduto in
quella notte, perché la giustizia avesse preso tant'animo, da venire a colpo
sicuro, a metter le mani addosso a uno de' buoni figliuoli che, il giorno
avanti, avevan tanta voce in capitolo? e che non dovevano esser tutti
addormentati, poiché Renzo s'accorgeva anche lui d'un ronzìo crescente nella
strada. Guardando poi in viso il notaio, vi scorgeva in pelle in pelle la
titubazione che costui si sforzava invano di tener nascosta. Onde, così per
venire in chiaro delle sue congetture, e scoprir paese, come per tirare in
lungo, e anche per tentare un colpo, disse: - vedo bene cos'è l'origine di
tutto questo: gli è per amor del nome e del cognome. Ier sera veramente ero un
po' allegro: questi osti alle volte hanno certi vini traditori; e alle volte,
come dico, si sa, quando il vino è giù, è lui che parla. Ma, se non si tratta
d'altro, ora son pronto a darle ogni soddisfazione. E poi, già lei lo sa il mio
nome. Chi diamine gliel ha detto?
-
Bravo, figliuolo, bravo! - rispose il notaio, tutto manieroso: - vedo che avete
giudizio; e, credete a me che son del mestiere, voi siete più furbo che
tant'altri. È la miglior maniera d'uscirne presto e bene: con codeste buone
disposizioni, in due parole siete spicciato, e lasciato in libertà. Ma io,
vedete figliuolo, ho le mani legate, non posso rilasciarvi qui, come vorrei.
Via, fate presto, e venite pure senza timore; che quando vedranno chi siete; e
poi io dirò... Lasciate fare a me... Basta; sbrigatevi, figliuolo.
- Ah!
lei non può: intendo, - disse Renzo; e continuava a vestirsi, rispingendo con
de' cenni i cenni che i birri facevano di mettergli le mani addosso, per farlo
spicciare.
-
Passeremo dalla piazza del duomo? - domandò poi al notaio.
- Di
dove volete; per la più corta, affine di lasciarvi più presto in libertà, -
disse quello, rodendosi dentro di sé, di dover lasciar cadere in terra quella
domanda misteriosa di Renzo, che poteva divenire un tema di cento
interrogazioni. "Quando uno nasce disgraziato!" pensava. "Ecco;
mi viene alle mani uno che, si vede, non vorrebbe altro che cantare; e, un po'
di respiro che s'avesse, così extra formam, accademicamente, in via di
discorso amichevole, gli si farebbe confessar, senza corda, quel che uno
volesse; un uomo da condurlo in prigione già bell'e esaminato, senza che se ne
fosse accorto: e un uomo di questa sorte mi deve per l'appunto capitare in un
momento così angustiato. Eh! non c'è scampo", continuava a pensare,
tendendo gli orecchi, e piegando la testa all'indietro: "non c'è rimedio;
e' risica d'essere una giornata peggio di ieri". Ciò che lo fece pensar
così, fu un rumore straordinario che si sentì nella strada: e non poté tenersi
di non aprir l'impannata, per dare un'occhiatina. Vide ch'era un crocchio di
cittadini, i quali, all'intimazione di sbandarsi, fatta loro da una pattuglia,
avevan da principio risposto con cattive parole, e finalmente si separavan
continuando a brontolare; e quel che al notaio parve un segno mortale, i
soldati eran pieni di civiltà. Chiuse l'impannata, e stette un momento in forse,
se dovesse condur l'impresa a termine, o lasciar Renzo in guardia de' due
birri, e correr dal capitano di giustizia, a render conto di ciò che accadeva.
"Ma", pensò subito, "mi si dirà che sono un buon a nulla, un
pusillanime, e che dovevo eseguir gli ordini. Siamo in ballo; bisogna ballare.
Malannaggia la furia! Maledetto il mestiere!"
Renzo
era levato; i due satelliti gli stavano a' fianchi. Il notaio accennò a costoro
che non lo sforzasser troppo, e disse a lui: - da bravo, figliuolo; a noi,
spicciatevi.
Anche
Renzo sentiva, vedeva e pensava. Era ormai tutto vestito, salvo il farsetto,
che teneva con una mano, frugando con l'altra nelle tasche. - Ohe! - disse,
guardando il notaio, con un viso molto significante: - qui c'era de' soldi e
una lettera. Signor mio!
- Vi
sarà dato ogni cosa puntualmente, - disse il notaio, dopo adempite quelle poche
formalità. Andiamo, andiamo.
- No,
no, no, - disse Renzo, tentennando il capo: - questa non mi va: voglio la roba
mia, signor mio. Renderò conto delle mie azioni; ma voglio la roba mia.
-
Voglio farvi vedere che mi fido di voi: tenete, e fate presto, - disse il
notaio, levandosi di seno, e consegnando, con un sospiro, a Renzo le cose
sequestrate. Questo, riponendole al loro posto, mormorava tra' denti: - alla
larga! bazzicate tanto co' ladri, che avete un poco imparato il mestiere -. I
birri non potevan più stare alle mosse; ma il notaio li teneva a freno con gli
occhi, e diceva intanto tra sé: "se tu arrivi a metter piede dentro quella
soglia, l'hai da pagar con usura, l'hai da pagare".
Mentre
Renzo si metteva il farsetto, e prendeva il cappello, il notaio fece cenno a un
de' birri, che s'avviasse per la scala; gli mandò dietro il prigioniero, poi
l'altro amico; poi si mosse anche lui. In cucina che furono, mentre Renzo dice:
- e quest'oste benedetto dove s'è cacciato? - il notaio fa un altro cenno a'
birri; i quali afferrano, l'uno la destra, l'altro la sinistra del giovine, e
in fretta in fretta gli legano i polsi con certi ordigni, per quell'ipocrita
figura d'eufemismo, chiamati manichini. Consistevano questi (ci dispiace di
dover dlscendere a particolari indegni della gravità storica; ma la chiarezza
lo richiede), consistevano in una cordicella lunga un po' più che il giro d'un
polso ordinario, la quale aveva nelle cime due pezzetti di legno, come due
piccole stanghette. La cordicella circondava il polso del paziente; i legnetti,
passati tra il medio e l'anulare del prenditore, gli rimanevano chiusi in
pugno, di modo che, girandoli, ristringeva la legatura, a volontà; e con ciò
aveva mezzo, non solo d'assicurare la presa, ma anche di martirizzare un
ricalcitrante: e a questo fine, la cordicella era sparsa di nodi.
Renzo
si divincola, grida: - che tradimento è questo? A un galantuomo...! - Ma il
notaio, che per ogni tristo fatto aveva le sue buone parole, - abbiate
pazienza, - diceva: - fanno il loro dovere. Cosa volete? son tutte formalità; e
anche noi non possiamo trattar la gente a seconda del nostro cuore. Se non si
facesse quello che ci vien comandato, staremmo freschi noi altri, peggio di
voi. Abbiate pazienza.
Mentre
parlava, i due a cui toccava a fare, diedero una girata a' legnetti. Renzo
s'acquietò, come un cavallo bizzarro che si sente il labbro stretto tra le
morse, e esclamò: - pazienza!
- Bravo
figliuolo! - disse il notaio: - questa è la vera maniera d'uscirne a bene. Cosa
volete? è una seccatura; lo vedo anch'io; ma, portandovi bene, in un momento ne
siete fuori. E giacché vedo che siete ben disposto, e io mi sento inclinato a
aiutarvi, voglio darvi anche un altro parere, per vostro bene. Credete a me,
che son pratico di queste cose: andate via diritto diritto, senza guardare in
qua e in là, senza farvi scorgere: così nessuno bada a voi, nessuno s'avvede di
quel che è; e voi conservate il vostro onore. Di qui a un'ora voi siete in
libertà: c'è tanto da fare, che avranno fretta anche loro di sbrigarvi: e poi
parlerò io... Ve n'andate per i fatti vostri; e nessuno saprà che siete stato
nelle mani della giustizia. E voi altri, - continuò poi, voltandosi a' birri,
con un viso severo: - guardate bene di non fargli male, perché lo proteggo io:
il vostro dovere bisogna che lo facciate; ma ricordatevi che è un galantuomo,
un giovine civile, il quale, di qui a poco, sarà in libertà; e che gli deve
premere il suo onore. Andate in maniera che nessuno s'avveda di nulla: come se
foste tre galantuomini che vanno a spasso -. E, con tono imperativo, e con
sopracciglio minaccioso, concluse: - m'avete inteso -. Voltatosi poi a Renzo,
col sopracciglio spianato, e col viso divenuto a un tratto ridente, che pareva
volesse dire: oh noi sì che siamo amici!, gli bisbigliò di nuovo: - giudizio;
fate a mio modo: andate raccolto e quieto; fidatevi di chi vi vuol bene:
andiamo -. E la comitiva s'avviò.
Però,
di tante belle parole Renzo, non ne credette una: né che il notaio volesse più
bene a lui che a' birri, né che prendesse tanto a cuore la sua riputazione, né
che avesse intenzion d'aiutarlo: capì benissimo che il galantuomo, temendo che
si presentasse per la strada qualche buona occasione di scappargli dalle mani,
metteva innanzi que' bei motivi, per istornar lui dallo starci attento e da
approfittarne. Dimodoché tutte quelle esortazioni non servirono ad altro che a
confermarlo nel disegno che già aveva in testa, di far tutto il contrario.
Nessuno
concluda da ciò che il notaio fosse un furbo inesperto e novizio; perché
s'ingannerebbe. Era un furbo matricolato, dice il nostro storico, il quale pare
che fosse nel numero de' suoi amici: ma, in quel momento, si trovava con
l'animo agitato. A sangue freddo, vi so dir io come si sarebbe fatto beffe di
chi, per indurre un altro a fare una cosa per sé sospetta, fosse andato
suggerendogliela e inculcandogliela caldamente, con quella miserabile finta di
dargli un parere disinteressato, da amico. Ma è una tendenza generale degli
uomini, quando sono agitati e angustiati, e vedono ciò che un altro potrebbe
fare per levarli d'impiccio, di chiederglielo con istanza e ripetutamente e con
ogni sorte di pretesti; e i furbi, quando sono angustiati e agitati, cadono
anche loro sotto questa legge comune. Quindi è che, in simili circostanze,
fanno per lo più una così meschina figura. Que' ritrovati maestri, quelle belle
malizie, con le quali sono avvezzi a vincere, che son diventate per loro quasi
una seconda natura, e che, messe in opera a tempo, e condotte con la pacatezza
d'animo, con la serenità di mente necessarie, fanno il colpo così bene e così
nascostamente, e conosciute anche, dopo la riuscita, riscotono l'applauso
universale; i poverini quando sono alle strette, le adoprano in fretta,
all'impazzata, senza garbo né grazia. Di maniera che a uno che li veda
ingegnarsi e arrabattarsi a quel modo, fanno pietà e movon le risa, e l'uomo
che pretendono allora di mettere in mezzo, quantunque meno accorto di loro,
scopre benissimo tutto il loro gioco, e da quegli artifizi ricava lume per sé,
contro di loro. Perciò non si può mai abbastanza raccomandare a' furbi di
professione di conservar sempre il loro sangue freddo, o d'esser sempre i più
forti, che è la più sicura.
Renzo
adunque, appena furono in istrada, cominciò a girar gli occhi in qua e in là, a
sporgersi con la persona, a destra e a sinistra, a tender gli orecchi. Non
c'era però concorso straordinario; e benché sul viso di più d'un passeggiero si
potesse legger facilmente un certo non so che di sedizioso, pure ognuno andava
diritto per la sua strada; e sedizione propriamente detta, non c'era.
-
Giudizio, giudizio! - gli susurrava il notaio dietro le spalle: - il vostro
onore; l'onore, figliuolo -. Ma quando Renzo, badando attentamente a tre che
venivano con visi accesi, sentì che parlavan d'un forno, di farina nascosta, di
giustizia, cominciò anche a far loro de' cenni col viso, e a tossire in quel
modo che indica tutt'altro che un raffreddore. Quelli guardarono più
attentamente la comitiva, e si fermarono; con loro si fermarono altri che
arrivavano; altri, che gli eran passati davanti, voltatisi al bisbiglìo,
tornavano indietro, e facevan coda.
-
Badate a voi; giudizio, figliuolo; peggio per voi vedete; non guastate i fatti
vostri; l'onore, la riputazione, - continuava a susurrare il notaio. Renzo
faceva peggio. I birri, dopo essersi consultati con l'occhio, pensando di far
bene (ognuno è soggetto a sbagliare), gli diedero una stretta di manichini.
- Ahi!
ahi! ahi! - grida il tormentato: al grido, la gente s'affolla intorno;
n'accorre da ogni parte della strada: la comitiva si trova incagliata. - È un
malvivente, - bisbigliava il notaio a quelli che gli erano a ridosso: - è un
ladro colto sul fatto. Si ritirino, lascin passar la giustizia -. Ma Renzo,
visto il bel momento, visti i birri diventar bianchi, o almeno pallidi,
"se non m'aiuto ora, pensò, mio danno". E subito alzò la voce: -
figliuoli! mi menano in prigione, perché ieri ho gridato: pane e giustizia. Non
ho fatto nulla; son galantuomo: aiutatemi, non m'abbandonate, figliuoli!
Un
mormorìo favorevole, voci più chiare di protezione s'alzano in risposta: i
birri sul principio comandano, poi chiedono, poi pregano i più vicini
d'andarsene, e di far largo: la folla in vece incalza e pigia sempre più.
Quelli, vista la mala parata, lascian andare i manichini, e non si curan più
d'altro che di perdersi nella folla, per uscirne inosservati. Il notaio
desiderava ardentemente di far lo stesso; ma c'era de' guai, per amor della
cappa nera. Il pover'uomo, pallido e sbigottito, cercava di farsi piccino
piccino, s'andava storcendo, per isgusciar fuor della folla; ma non poteva
alzar gli occhi, che non se ne vedesse venti addosso. Studiava tutte le maniere
di comparire un estraneo che, passando di lì a caso, si fosse trovato stretto
nella calca, come una pagliucola nel ghiaccio; e riscontrandosi a viso a viso
con uno che lo guardava fisso, con un cipiglio peggio degli altri, lui,
composta la bocca al sorriso, con un suo fare sciocco, gli domandò: - cos'è
stato?
- Uh
corvaccio! - rispose colui. - Corvaccio! corvaccio! - risonò all'intorno. Alle
grida s'aggiunsero gli urtoni; di maniera che, in poco tempo, parte con le
gambe proprie, parte con le gomita altrui, ottenne ciò che più gli premeva in
quel momento, d'esser fuori di quel serra serra.
-
Scappa, scappa, galantuomo: lì c'è un convento, ecco là una chiesa; di qui, di
là, - si grida a Renzo da ogni parte. In quanto allo scappare, pensate se aveva
bisogno di consigli. Fin dal primo momento che gli era balenato in mente una
speranza d'uscir da quell'unghie, aveva cominciato a fare i suoi conti, e
stabilito, se questo gli riusciva, d'andare senza fermarsi, fin che non fosse
fuori, non solo della città, ma del ducato. "Perché", aveva pensato,
"il mio nome l'hanno su' loro libracci, in qualunque maniera l'abbiano
avuto; e col nome e cognome, mi vengono a prendere quando vogliono". E in
quanto a un asilo, non vi si sarebbe cacciato che quando avesse avuto i birri
alle spalle. "Perché, se posso essere uccel di bosco", aveva anche
pensato, "non voglio diventare uccel di gabbia". Aveva dunque
disegnato per suo rifugio quel paese nel territorio di Bergamo, dov'era
accasato quel suo cugino Bortolo, se ve ne rammentate, che più volte l'aveva
invitato a andar là. Ma trovar la strada, lì stava il male. Lasciato in una
parte sconosciuta d'una città si può dire sconosciuta, Renzo non sapeva neppure
da che porta s'uscisse per andare a Bergamo; e quando l'avesse saputo, non sapeva
poi andare alla porta. Fu lì lì per farsi insegnar la strada da qualcheduno de'
suoi liberatori; ma siccome nel poco tempo che aveva avuto per meditare su'
casi suoi, gli eran passate per la mente certe idee su quello spadaio così
obbligante, padre di quattro figliuoli, così, a buon conto, non volle
manifestare i suoi disegni a una gran brigata, dove ce ne poteva essere qualche
altro di quel conio; e risolvette subito d'allontanarsi in fretta di lì: che la
strada se la farebbe poi insegnare, in luogo dove nessuno sapesse chi era, né
il perché la domandasse. Disse a' suoi liberatori: - grazie tante, figliuoli:
siate benedetti, - e, uscendo per il largo che gli fu fatto immediatamente,
prese la rincorsa, e via; dentro per un vicolo, giù per una stradetta, galoppò
un pezzo, senza saper dove. Quando gli parve d'essersi allontanato abbastanza,
rallentò il passo, per non dar sospetto; e cominciò a guardare in qua e in là,
per isceglier la persona a cui far la sua domanda, una faccia che ispirasse
confidenza. Ma anche qui c'era dell'imbroglio. La domanda per sé era sospetta;
il tempo stringeva; i birri, appena liberati da quel piccolo intoppo, dovevan
senza dubbio essersi rimessi in traccia del loro fuggitivo; la voce di quella
fuga poteva essere arrivata fin là; e in tali strette, Renzo dovette fare forse
dieci giudizi fisionomici, prima di trovar la figura che gli paresse a
proposito. Quel grassotto, che stava ritto sulla soglia della sua bottega, a
gambe larghe, con le mani di dietro, con la pancia in fuori, col mento in aria,
dal quale pendeva una gran pappagorgia, e che, non avendo altro che fare,
andava alternativamente sollevando sulla punta de' piedi la sua massa
tremolante, e lasciandola ricadere sui calcagni, aveva un viso di cicalone
curioso, che, in vece di dar delle risposte, avrebbe fatto delle
interrogazioni. Quell'altro che veniva innanzi, con gli occhi fissi, e col
labbro in fuori, non che insegnar presto e bene la strada a un altro, appena
pareva conoscer la sua. Quel ragazzotto, che, a dire il vero, mostrava d'esser
molto sveglio, mostrava però d'essere anche più malizioso; e probabilmente
avrebbe avuto un gusto matto a far andare un povero contadino dalla parte
opposta a quella che desiderava. Tant'è vero che all'uomo impicciato, quasi
ogni cosa è un nuovo impiccio! Visto finalmente uno che veniva in fretta, pensò
che questo, avendo probabilmente qualche affare pressante, gli risponderebbe
subito, senz'altre chiacchiere; e sentendolo parlar da sé, giudicò che dovesse
essere un uomo sincero. Gli s'accostò, e disse: - di grazia, quel signore, da
che parte si va per andare a Bergamo?
- Per
andare a Bergamo? Da porta orientale.
-
Grazie tante; e per andare a porta orientale?
-
Prendete questa strada a mancina; vi troverete sulla piazza del duomo; poi...
- Basta,
signore; il resto lo so. Dio gliene renda merito -. E diviato s'incamminò dalla
parte che gli era stata indicata. L'altro gli guardò dietro un momento, e,
accozzando nel suo pensiero quella maniera di camminare con la domanda, disse
tra sé: "o n'ha fatta una, o qualcheduno la vuol fare a lui".
Renzo
arriva sulla piazza del duomo; l'attraversa, passa accanto a un mucchio di
cenere e di carboni spenti, e riconosce gli avanzi del falò di cui era stato
spettatore il giorno avanti; costeggia gli scalini del duomo, rivede il forno
delle grucce, mezzo smantellato, e guardato da soldati; e tira diritto per la
strada da cui era venuto insieme con la folla; arriva al convento de'
cappuccini; dà un'occhiata a quella piazza e alla porta della chiesa, e dice
tra sé, sospirando: "m'aveva però dato un buon parere quel frate di ieri:
che stessi in chiesa a aspettare, e a fare un po' di bene".
Qui,
essendosi fermato un momento a guardare attentamente alla porta per cui doveva
passare, e vedendovi, così da lontano, molta gente a guardia, e avendo la
fantasia un po' riscaldata (bisogna compatirlo; aveva i suoi motivi), provò una
certa ripugnanza ad affrontare quel passo. Si trovava così a mano un luogo
d'asilo, e dove, con quella lettera, sarebbe ben raccomandato; fu tentato
fortemente d'entrarvi. Ma, subito ripreso animo, pensò: "uccel di bosco,
fin che si può. Chi mi conosce? Di ragione, i birri non si saran fatti in
pezzi, per andarmi ad aspettare a tutte le porte". Si voltò, per vedere se
mai venissero da quella parte: non vide né quelli, né altri che paressero
occuparsi di lui. Va innanzi; rallenta quelle gambe benedette, che volevan
sempre correre, mentre conveniva soltanto camminare; e adagio adagio,
fischiando in semitono, arriva alla porta.
C'era,
proprio sul passo, un mucchio di gabellini, e, per rinforzo, anche de'
micheletti spagnoli; ma stavan tutti attenti verso il di fuori, per non
lasciare entrar di quelli che, alla notizia d'una sommossa, v'accorrono, come i
corvi al campo dove è stata data battaglia; di maniera che Renzo, con un'aria
indifferente, con gli occhi bassi, e con un andare così tra il viandante e uno
che vada a spasso, uscì, senza che nessuno gli dicesse nulla; ma il cuore di
dentro faceva un gran battere. Vedendo a diritta una viottola, entrò in quella,
per evitare la strada maestra; e camminò un pezzo prima di voltarsi neppure
indietro.
Cammina,
cammina; trova cascine, trova villaggi, tira innanzi senza domandarne il nome;
è certo d'allontanarsi da Milano, spera d'andar verso Bergamo; questo gli basta
per ora. Ogni tanto, si voltava indietro; ogni tanto, andava anche guardando e
strofinando or l'uno or l'altro polso, ancora un po' indolenziti, e segnati in
giro d'una striscia rosseggiante, vestigio della cordicella. I suoi pensieri
erano, come ognuno può immaginarsi, un guazzabuglio di pentimenti,
d'inquietudini, di rabbie, di tenerezze; era uno studio faticoso di
raccapezzare le cose dette e fatte la sera avanti, di scoprir la parte segreta
della sua dolorosa storia, e sopra tutto come avean potuto risapere il suo
nome. I suoi sospetti cadevan naturalmente sullo spadaio, al quale si
rammentava bene d'averlo spiattellato. E ripensando alla maniera con cui gliel
aveva cavato di bocca, e a tutto il fare di colui, e a tutte quell'esibizioni
che riuscivan sempre a voler saper qualcosa, il sospetto diveniva quasi
certezza. Se non che si rammentava poi anche, in confuso, d'aver, dopo la
partenza dello spadaio, continuato a cicalare; con chi, indovinala grillo; di
cosa, la memoria, per quanto venisse esaminata, non lo sapeva dire: non sapeva
dir altro che d'essersi in quel tempo trovata fuor di casa. Il poverino si
smarriva in quella ricerca: era come un uomo che ha sottoscritti molti fogli
bianchi, e gli ha affidati a uno che credeva il fior de' galantuomini; e
scoprendolo poi un imbroglione, vorrebbe conoscere lo stato de' suoi affari:
che conoscere? è un caos. Un altro studio penoso era quello di far
sull'avvenire un disegno che gli potesse piacere: quelli che non erano in aria,
eran tutti malinconici.
Ma ben
presto, lo studio più penoso fu quello di trovar la strada. Dopo aver camminato
un pezzo, si può dire, alla ventura, vide che da sé non ne poteva uscire.
Provava bensì una certa ripugnanza a metter fuori quella parola Bergamo, come
se avesse un non so che di sospetto, di sfacciato; ma non si poteva far di
meno. Risolvette dunque di rivolgersi, come aveva fatto in Milano, al primo
viandante la cui fisonomia gli andasse a genio; e così fece.
- Siete
fuor di strada, - gli rispose questo; e, pensatoci un poco, parte con parole,
parte co' cenni, gl'indicò il giro che doveva fare, per rimettersi sulla strada
maestra. Renzo lo ringraziò, fece le viste di far come gli era stato detto,
prese in fatti da quella parte, con intenzione però d'avvicinarsi bensì a quella
benedetta strada maestra, di non perderla di vista, di costeggiarla più che
fosse possibile; ma senza mettervi piede. Il disegno era più facile da
concepirsi che da eseguirsi. La conclusione fu che, andando così da destra a
sinistra, e, come si dice, a zig zag, parte seguendo l'altre indicazioni che si
faceva coraggio a pescar qua e là, parte correggendole secondo i suoi lumi, e
adattandole al suo intento, parte lasciandosi guidar dalle strade in cui si
trovava incamminato, il nostro fuggitivo aveva fatte forse dodici miglia, che
non era distante da Milano più di sei; e in quanto a Bergamo, era molto se non
se n'era allontanato. Cominciò a persuadersi che, anche in quella maniera, non
se n'usciva a bene; e pensò a trovar qualche altro ripiego. Quello che gli
venne in mente, fu di scovar, con qualche astuzia, il nome di qualche paese
vicino al confine, e al quale si potesse andare per istrade comunali: e
domandando di quello, si farebbe insegnar la strada, senza seminar qua e là
quella domanda di Bergamo, che gli pareva puzzar tanto di fuga, di sfratto, di
criminale.
Mentre
cerca la maniera di pescar tutte quelle notizie, senza dar sospetto, vede
pendere una frasca da una casuccia solitaria, fuori d'un paesello. Da qualche
tempo, sentiva anche crescere il bisogno di ristorar le sue forze; pensò che lì
sarebbe il luogo di fare i due servizi in una volta; entrò. Non c'era che una
vecchia, con la rocca al fianco, e col fuso in mano. Chiese un boccone; gli fu
offerto un po' di stracchino e del vin buono: accettò lo stracchino, del vino
la ringraziò (gli era venuto in odio, per quello scherzo che gli aveva fatto la
sera avanti); e si mise a sedere, pregando la donna che facesse presto. Questa,
in un momento, ebbe messo in tavola; e subito dopo cominciò a tempestare il suo
ospite di domande, e sul suo essere, e sui gran fatti di Milano: ché la voce
n'era arrivata fin là. Renzo, non solo seppe schermirsi dalle domande, con
molta disinvoltura; ma, approfittandosi della difficoltà medesima, fece servire
al suo intento la curiosità della vecchia, che gli domandava dove fosse
incamminato.
- Devo
andare in molti luoghi, - rispose: - e, se trovo un ritaglio di tempo, vorrei
anche passare un momento da quel paese, piuttosto grosso, sulla strada di
Bergamo, vicino al confine, però nello stato di Milano... Come si chiama? -
"Qualcheduno ce ne sarà", pensava intanto tra sé.
-
Gorgonzola, volete dire, - rispose la vecchia.
-
Gorgonzola! - ripeté Renzo, quasi per mettersi meglio in mente la parola. - È
molto lontano di qui? - riprese poi.
- Non
lo so precisamente: saranno dieci, saranno dodici miglia. Se ci fosse
qualcheduno de' miei figliuoli, ve lo saprebbe dire.
- E
credete che ci si possa andare per queste belle viottole, senza prender la
strada maestra? dove c'è una polvere, una polvere! Tanto tempo che non piove!
- A me
mi par di sì: potete domandare nel primo paese che troverete andando a diritta
-. E glielo nominò.
- Va
bene; - disse Renzo; s'alzò, prese un pezzo di pane che gli era avanzato della
magra colazione, un pane ben diverso da quello che aveva trovato, il giorno
avanti, appiè della croce di san Dionigi; pagò il conto, uscì, e prese a
diritta. E, per non ve l'allungar più del bisogno, col nome di Gorgonzola in
bocca, di paese in paese, ci arrivò, un'ora circa prima di sera.
Già
cammin facendo, aveva disegnato di far lì un'altra fermatina, per fare un pasto
un po' più sostanzioso. Ilcorpo avrebbe anche gradito un po' di letto; ma prima
che contentarlo in questo, Renzo l'avrebbe lasciato cader rifinito sulla
strada. Il suo proposito era d'informarsi all'osteria, della distanza
dell'Adda, di cavar destramente notizia di qualche traversa che mettesse là, e
di rincamminarsi da quella parte, subito dopo essersi rinfrescato. Nato e
cresciuto alla seconda sorgente, per dir così, di quel fiume, aveva sentito dir
più volte, che, a un certo punto, e per un certo tratto, esso faceva confine
tra lo stato milanese e il veneto: del punto e del tratto non aveva un'idea
precisa; ma, allora come allora, l'affar più urgente era di passarlo, dovunque
si fosse. Se non gli riusciva in quel giorno, era risoluto di camminare fin che
l'ora e la lena glielo permettessero: e d'aspettar poi l'alba, in un campo, in
un deserto; dove piacesse a Dio; pur che non fosse un'osteria.
Fatti
alcuni passi in Gorgonzola, vide un'insegna, entrò; e all'oste, che gli venne
incontro, chiese un boccone, e una mezzetta di vino: le miglia di più, e il
tempo gli avevan fatto passare quell'odio così estremo e fanatico. - Vi prego
di far presto, soggiunse: - perché ho bisogno di rimettermi subito in istrada
-. E questo lo disse, non solo perché era vero, ma anche per paura che l'oste,
immaginandosi che volesse dormir lì, non gli uscisse fuori a domandar del nome
e del cognome, e donde veniva, e per che negozio... Alla larga!
L'oste
rispose a Renzo, che sarebbe servito; e questo si mise a sedere in fondo della
tavola, vicino all'uscio: il posto de' vergognosi.
C'erano
in quella stanza alcuni sfaccendati del paese, i quali, dopo aver discusse e
commentate le gran notizie di Milano del giorno avanti, si struggevano di
sapere un poco come fosse andata anche in quel giorno; tanto più che quelle
prime eran più atte a stuzzicar la curiosità, che a soddisfarla: una
sollevazione, né soggiogata né vittoriosa, sospesa più che terminata dalla
notte; una cosa tronca, la fine d'un atto piuttosto che d'un dramma. Un di
coloro si staccò dalla brigata, s'accostò al soprarrivato, e gli domandò se
veniva da Milano.
- Io? -
disse Renzo sorpreso, per prender tempo a rispondere.
- Voi,
se la domanda è lecita.
Renzo,
tentennando il capo, stringendo le labbra, e facendone uscire un suono
inarticolato, disse: - Milano, da quel che ho sentito dire... non dev'essere un
luogo da andarci in questi momenti, meno che per una gran necessità.
-
Continua dunque anche oggi il fracasso? - domandò, con più istanza, il curioso.
-
Bisognerebbe esser là, per saperlo, - disse Renzo.
- Ma
voi, non venite da Milano?
- Vengo
da Liscate, - rispose lesto il giovine, che intanto aveva pensata la sua
risposta. Ne veniva in fatti, a rigor di termini, perché c'era passato; e il
nome l'aveva saputo, a un certo punto della strada, da un viandante che gli
aveva indicato quel paese come il primo che doveva attraversare, per arrivare a
Gorgonzola.
- Oh! -
disse l'amico; come se volesse dire: faresti meglio a venir da Milano, ma
pazienza. - E a Liscate, - soggiunse, - non si sapeva niente di Milano?
-
Potrebb'essere benissimo che qualcheduno là sapesse qualche cosa, - rispose il
montanaro: - ma io non ho sentito dir nulla.
E
queste parole le proferì in quella maniera particolare che par che voglia dire:
ho finito. Il curioso ritornò al suo posto; e, un momento dopo, l'oste venne a
mettere in tavola.
-
Quanto c'è di qui all'Adda? - gli disse Renzo, mezzo tra' denti, con un fare da
addormentato, che gli abbiam visto qualche altra volta.
-
All'Adda, per passare? - disse l'oste.
-
Cioè... sì... all'Adda.
-
Volete passare dal ponte di Cassano, o sulla chiatta di Canonica?
- Dove
si sia... Domando così per curiosità.
- Eh,
volevo dire, perché quelli sono i luoghi dove passano i galantuomini, la gente
che può dar conto di sé.
- Va
bene: e quanto c'è?
- Fate
conto che, tanto a un luogo, come all'altro, poco più, poco meno, ci sarà sei
miglia.
- Sei
miglia! non credevo tanto, - disse Renzo. - E già, - e già, chi avesse bisogno
di prendere una scorciatoia, ci saranno altri luoghi da poter passare?
- Ce
n'è sicuro, - rispose l'oste, ficcandogli in viso due occhi pieni d'una
curiosità maliziosa. Bastò questo per far morir tra' denti al giovine l'altre
domande che aveva preparate. Si tirò davanti il piatto; e guardando la mezzetta
che l'oste aveva posata, insieme con quello, sulla tavola, disse: - il vino è
sincero?
Come
l'oro, - disse l'oste: - domandatene pure a tutta la gente del paese e del
contorno, che se n'intende: e poi, lo sentirete -. E così dicendo, tornò verso
la brigata.
"Maledetti
gli osti!" esclamò Renzo tra sé: "più ne conosco, peggio li
trovo". Non ostante, si mise a mangiare con grand'appetito, stando, nello
stesso tempo, in orecchi, senza che paresse suo fatto, per veder di scoprir
paese, di rilevare come si pensasse colà sul grand'avvenimento nel quale egli
aveva avuta non piccola parte, e d'osservare specialmente se, tra que'
parlatori, ci fosse qualche galantuomo, a cui un povero figliuolo potesse
fidarsi di domandar la strada, senza timore d'esser messo alle strette, e
forzato a ciarlare de' fatti suoi.
- Ma! -
diceva uno: - questa volta par proprio che i milanesi abbian voluto far
davvero. Basta; domani al più tardi, si saprà qualcosa.
- Mi
pento di non esser andato a Milano stamattina, - diceva un altro.
- Se
vai domani, vengo anch'io, - disse un terzo; poi un altro, poi un altro.
- Quel
che vorrei sapere, - riprese il primo, - è se que' signori di Milano penseranno
anche alla povera gente di campagna, o se faranno far la legge buona solamente
per loro. Sapete come sono eh? Cittadini superbi, tutto per loro: gli altri,
come se non ci fossero.
- La
bocca l'abbiamo anche noi, sia per mangiare, sia per dir la nostra ragione, -
disse un altro, con voce tanto più modesta, quanto più la proposizione era
avanzata: - e quando la cosa sia incamminata... - Ma credette meglio di non
finir la frase.
- Del
grano nascosto, non ce n'è solamente in Milano, - cominciava un altro, con
un'aria cupa e maliziosa; quando sentono avvicinarsi un cavallo. Corron tutti
all'uscio; e, riconosciuto colui che arrivava, gli vanno incontro. Era un
mercante di Milano, che, andando più volte l'anno a Bergamo, per i suoi
traffichi, era solito passar la notte in quell'osteria; e siccome ci trovava
quasi sempre la stessa compagnia, li conosceva tutti. Gli s'affollano intorno;
uno prende la briglia, un altro la staffa. - Ben arrivato, ben arrivato!
- Ben
trovati.
- Avete
fatto buon viaggio?
-
Bonissimo; e voi altri, come state?
- Bene,
bene. Che nuove ci portate di Milano?
- Ah!
ecco quelli delle novità, - disse il mercante, smontando, e lasciando il
cavallo in mano d'un garzone. - E poi, e poi, continuò, entrando con la
compagnia, - a quest'ora le saprete forse meglio di me.
- Non
sappiamo nulla, davvero, - disse più d'uno, mettendosi la mano al petto.
-
Possibile? - disse il mercante. - Dunque ne sentirete delle belle... o delle
brutte. Ehi, oste, il mio letto solito è in libertà? Bene: un bicchier di vino,
e il mio solito boccone, subito; perché voglio andare a letto presto, per
partir presto domattina, e arrivare a Bergamo per l'ora del desinare. E voi
altri, - continuò, mettendosi a sedere, dalla parte opposta a quella dove stava
Renzo, zitto e attento, - voi altri non sapete di tutte quelle diavolerie di
ieri?
- Di
ieri sì.
-
Vedete dunque, - riprese il mercante, - se le sapete le novità. Lo dicevo io
che, stando qui sempre di guardia, per frugar quelli che passano...
- Ma
oggi, com'è andata oggi?
- Ah
oggi. Non sapete niente d'oggi?
-
Niente affatto: non è passato nessuno.
-
Dunque lasciatemi bagnar le labbra; e poi vi dirò le cose d'oggi. Sentirete -.
Empì il bicchiere, lo prese con una mano, poi con le prime due dita dell'altra
sollevò i baffi, poi si lisciò la barba, bevette, e riprese: - oggi, amici
cari, ci mancò poco, che non fosse una giornata brusca come ieri, o peggio. E
non mi par quasi vero d'esser qui a chiacchierar con voi altri; perché avevo
già messo da parte ogni pensiero di viaggio, per restare a guardar la mia
povera bottega.
- Che
diavolo c'era? - disse uno degli ascoltanti.
-
Proprio il diavolo: sentirete -. E trinciando la pietanza che gli era stata
messa davanti, e poi mangiando, continuò il suo racconto. I compagni, ritti di
qua e di là della tavola, lo stavano a sentire, con la bocca aperta; Renzo, al
suo posto, senza che paresse suo fatto, stava attento, forse più di tutti,
masticando adagio adagio gli ultimi suoi bocconi.
-
Stamattina dunque que' birboni che ieri avevano fatto quel chiasso orrendo, si
trovarono a' posti convenuti (già c'era un'intelligenza: tutte cose preparate);
si riunirono, e ricominciarono quella bella storia di girare di strada in
strada, gridando per tirar altra gente. Sapete che è come quando si spazza, con
riverenza parlando, la casa; il mucchio del sudiciume ingrossa quanto più va
avanti. Quando parve loro d'esser gente abbastanza, s'avviarono verso la casa
del signor vicario di provvisione; come se non bastassero le tirannie che gli
hanno fatte ieri: a un signore di quella sorte! oh che birboni! E la roba che
dicevan contro di lui! Tutte invenzioni: un signor dabbene, puntuale; e io lo
posso dire, che son tutto di casa, e lo servo di panno per le livree della
servitù. S'incamminaron dunque verso quella casa: bisognava veder che canaglia,
che facce: figuratevi che son passati davanti alla mia bottega: facce che... i
giudei della Via Crucis non ci son per nulla. E le cose che uscivan da
quelle bocche! da turarsene gli orecchi, se non fosse stato che non tornava
conto di farsi scorgere. Andavan dunque con la buona intenzione di dare il
sacco; ma... - E qui, alzata in aria, e stesa la mano sinistra, si mise la
punta del pollice alla punta del naso.
- Ma? -
dissero forse tutti gli ascoltatori.
- Ma, -
continuò il mercante, - trovaron la strada chiusa con travi e con carri, e,
dietro quella barricata, una bella fila di micheletti, con gli archibusi
spianati, per riceverli come si meritavano. Quando videro questo
bell'apparato... Cosa avreste fatto voi altri?
-
Tornare indietro.
- Sicuro;
e così fecero. Ma vedete un poco se non era il demonio che li portava. Son lì
sul Cordusio, vedon lì quel forno che fin da ieri, avevan voluto saccheggiare;
e cosa si faceva in quella bottega? si distribuiva il pane agli avventori;
c'era de' cavalieri, e fior di cavalieri, a invigilare che tutto andasse bene;
e costoro (avevano il diavolo addosso vi dico, e poi c'era chi gli aizzava),
costoro, dentro come disperati; piglia tu, che piglio anch'io: in un batter
d'occhio, cavalieri, fornai, avventori, pani, banco, panche, madie, casse,
sacchi, frulloni, crusca, farina, pasta, tutto sottosopra.
- E i
micheletti?
- I
micheletti avevan la casa del vicario da guardare: non si può cantare e portar
la croce. Fu in un batter d'occhio, vi dico: piglia piglia; tutto ciò che c'era
buono a qualcosa, fu preso. E poi torna in campo quel bel ritrovato di ieri, di
portare il resto sulla piazza, e di farne una fiammata. E già cominciavano, i
manigoldi, a tirar fuori roba; quando uno più manigoldo degli altri, indovinate
un po' con che bella proposta venne fuori.
- Con
che cosa?
- Di
fare un mucchio di tutto nella bottega, e di dar fuoco al mucchio e alla casa
insieme. Detto fatto...
- Ci
han dato fuoco?
-
Aspettate. Un galantuomo del vicinato ebbe un'ispirazione dal cielo. Corse su
nelle stanze, cercò d'un Crocifisso, lo trovò, l'attaccò all'archetto d'una
finestra, prese da capo d'un letto due candele benedette, le accese, e le mise
sul davanzale, a destra e a sinistra del Crocifisso. La gente guarda in su. In
un Milano, bisogna dirla, c'è ancora del timor di Dio; tutti tornarono in sé.
La più parte, voglio dire; c'era bensì de' diavoli che, per rubare, avrebbero
dato fuoco anche al paradiso; ma visto che la gente non era del loro parere,
dovettero smettere, e star cheti. Indovinate ora chi arrivò all'improvviso.
Tutti i monsignori del duomo, in processione, a croce alzata, in abito corale;
e monsignor Mazenta, arciprete, comincio a predicare da una parte, e monsignor
Settala, penitenziere, da un'altra, e gli altri anche loro: ma, brava gente! ma
cosa volete fare? ma è questo l'esempio che date a' vostri figliuoli? ma
tornate a casa; ma non sapete che il pane è a buon mercato, più di prima? ma
andate a vedere, che c'è l'avviso sulle cantonate.
- Era
vero?
-
Diavolo! Volete che i monsignori del duomo venissero in cappa magna a dir delle
fandonie?
- E la
gente cosa fece?
- A
poco a poco se n'andarono; corsero alle cantonate; e, chi sapeva leggere, la
c'era proprio la meta. Indovinate un poco: un pane d'ott'once, per un soldo.
- Che
bazza!
- La
vigna è bella; pur che la duri. Sapete quanta farina hanno mandata a male, tra
ieri e stamattina? Da mantenerne il ducato per due mesi.
- E per
fuori di Milano, non s'è fatta nessuna legge buona?
- Quel
che s'è fatto per Milano, è tutto a spese della città. Non so che vi dire: per
voi altri sarà quel che Dio vorrà. A buon conto, i fracassi son finiti. Non
v'ho detto tutto; ora viene il buono.
- Cosa
c'è ancora?
- C'è
che, ier sera o stamattina che sia, ne sono stati agguantati molti; e subito
s'è saputo che i capi saranno impiccati. Appena cominciò a spargersi questa
voce, ognuno andava a casa per la più corta, per non arrischiare d'esser nel
numero. Milano, quand'io ne sono uscito, pareva un convento di frati.
-
Gl'impiccheranno poi davvero?
-
Eccome! e presto, - rispose il mercante.
- E la
gente cosa farà? - domandò ancora colui che aveva fatta l'altra domanda.
- La
gente? anderà a vedere, - disse il mercante. - Avevan tanta voglia di veder
morire un cristiano all'aria aperta, che volevano, birboni! far la festa al
signor vicario di provvisione. In vece sua, avranno quattro tristi, serviti con
tutte le formalità, accompagnati da' cappuccini, e da' confratelli della buona
morte; e gente che se l'è meritato. È una provvidenza, vedete; era una cosa
necessaria. Cominciavan già a prender il vizio d'entrar nelle botteghe, e di
servirsi, senza metter mano alla borsa; se li lasciavan fare, dopo il pane
sarebbero venuti al vino, e così di mano in mano... Pensate se coloro volevano
smettere, di loro spontanea volontà, una usanza così comoda. E vi so dir io
che, per un galantuomo che ha bottega aperta, era un pensier poco allegro.
-
Davvero, - disse uno degli ascoltatori. - Davvero, - ripeteron gli altri, a una
voce.
- E, -
continuò il mercante, asciugandosi la barba col tovagliolo, - l'era ordita da
un pezzo: c'era una lega, sapete?
- C'era
una lega?
- C'era
una lega. Tutte cabale ordite da' navarrini, da quel cardinale là di Francia,
sapete chi voglio dire, che ha un certo nome mezzo turco, e che ogni giorno ne
pensa una, per far qualche dispetto alla corona di Spagna. Ma sopra tutto,
tende a far qualche tiro a Milano; perché vede bene, il furbo, che qui sta la
forza del re.
- Già.
- Ne
volete una prova? Chi ha fatto il più gran chiasso, eran forestieri; andavano
in giro facce, che in Milano non s'eran mai vedute. Anzi mi dimenticavo di
dirvene una che m'è stata data per certa. La giustizia aveva acchiappato uno in
un'osteria... - Renzo, il quale non perdeva un ette di quel discorso, al tocco
di questa corda, si sentì venir freddo, e diede un guizzo, prima che potesse
pensare a contenersi. Nessuno però se n'avvide; e il dicitore, senza
interrompere il filo del racconto, seguitò: - uno che non si sa bene ancora da
che parte fosse venuto, da chi fosse mandato, né che razza d'uomo si fosse; ma
certo era uno de' capi. Già ieri, nel forte del baccano, aveva fatto il
diavolo; e poi, non contento di questo, s'era messo a predicare, e a proporre,
così una galanteria, che s'ammazzassero tutti i signori. Birbante! Chi farebbe
viver la povera gente, quando i signori fossero ammazzati? La giustizia, che
l'aveva appostato, gli mise l'unghie addosso; gli trovarono un fascio di
lettere; e lo menavano in gabbia; ma che? i suoi compagni, che facevan la ronda
intorno all'osteria, vennero in gran numero, e lo liberarono, il manigoldo.
- E
cosa n'è stato?
- Non
si sa; sarà scappato, o sarà nascosto in Milano: son gente che non ha né casa
né tetto, e trovan per tutto da alloggiare e da rintanarsi: però finché il
diavolo può, e vuole aiutarli: ci dan poi dentro quando meno se lo pensano;
perché, quando la pera è matura, convien che caschi. Per ora si sa di sicuro
che le lettere son rimaste in mano della giustizia, e che c'è descritta tutta
la cabala; e si dice che n'anderà di mezzo molta gente. Peggio per loro; che
hanno messo a soqquadro mezzo Milano, e volevano anche far peggio. Dicono che i
fornai son birboni. Lo so anch'io; ma bisogna impiccarli per via di giustizia.
C'è del grano nascosto. Chi non lo sa? Ma tocca a chi comanda a tener buone
spie, e andarlo a disotterrare, e mandare anche gl'incettatori a dar calci
all'aria, in compagnia de' fornai. E se chi comanda non fa nulla, tocca alla
città a ricorrere; e se non dànno retta alla prima, ricorrere ancora; ché a
forza di ricorrere s'ottiene; e non metter su un'usanza così scellerata
d'entrar nelle botteghe e ne' fondachi, a prender la roba a man salva.
A Renzo
quel poco mangiare era andato in tanto veleno. Gli pareva mill'anni d'esser
fuori e lontano da quell'osteria, da quel paese; e più di dieci volte aveva
detto a sé stesso: andiamo, andiamo. Ma quella paura di dar sospetto, cresciuta
allora oltremodo, e fatta tiranna di tutti i suoi pensieri, l'aveva tenuto
sempre inchiodato sulla panca. In quella perplessità, pensò che il ciarlone
doveva poi finire di parlar di lui; e concluse tra sé, di moversi, appena
sentisse attaccare qualche altro discorso.
- E per
questo, - disse uno della brigata, - io che so come vanno queste faccende, e
che ne' tumulti i galantuomini non ci stanno bene, non mi son lasciato vincere
dalla curiosità, e son rimasto a casa mia.
- E io,
mi son mosso? - disse un altro.
- Io? -
soggiunse un terzo: - se per caso mi fossi trovato in Milano, avrei lasciato
imperfetto qualunque affare, e sarei tornato subito a casa mia. Ho moglie e
figliuoli; e poi, dico la verità, i baccani non mi piacciono.
A
questo punto, l'oste, ch'era stato anche lui a sentire, andò verso l'altra cima
della tavola, per veder cosa faceva quel forestiero. Renzo colse l'occasione,
chiamò l'oste con un cenno, gli chiese il conto, lo saldò senza tirare,
quantunque l'acque fossero molto basse; e, senza far altri discorsi, andò
diritto all'uscio, passò la soglia, e, a guida della Provvidenza, s'incamminò
dalla parte opposta a quella per cui era venuto.
Basta
spesso una voglia, per non lasciar ben avere un uomo; pensate poi due alla
volta, l'una in guerra coll'altra. Il povero Renzo n'aveva, da molte ore, due
tali in corpo, come sapete: la voglia di correre, e quella di star nascosto: e
le sciagurate parole del mercante gli avevano accresciuta oltremodo l'una e
l'altra a un colpo. Dunque la sua avventura aveva fatto chiasso; dunque lo
volevano a qualunque patto; chi sa quanti birri erano in campo per dargli la
caccia! quali ordini erano stati spediti di frugar ne' paesi, nell'osterie, per
le strade! Pensava bensì che finalmente i birri che lo conoscevano, eran due
soli, e che il nome non lo portava scritto in fronte; ma gli tornavano in mente
certe storie che aveva sentite raccontare, di fuggitivi colti e scoperti per
istrane combinazioni, riconosciuti all'andare, all'aria sospettosa, ad altri
segnali impensati: tutto gli faceva ombra. Quantunque, nel momento che usciva
di Gorgonzola, scoccassero le ventiquattro, e le tenebre che venivano innanzi,
diminuissero sempre più que' pericoli, ciò non ostante prese contro voglia la
strada maestra, e si propose d'entrar nella prima viottola che gli paresse
condur dalla parte dove gli premeva di riuscire. Sul principio, incontrava
qualche viandante; ma, pieno la fantasia di quelle brutte apprensioni, non ebbe
cuore d'abbordarne nessuno, per informarsi della strada. "Ha detto sei
miglia, colui, - pensava: - se andando fuor di strada, dovessero anche diventar
otto o dieci, le gambe che hanno fatte l'altre, faranno anche queste. Verso
Milano non vo di certo; dunque vo verso l'Adda. Cammina, cammina, o presto o
tardi ci arriverò. L'Adda ha buona voce; e, quando le sarò vicino, non ho più
bisogno di chi me l'insegni. Se qualche barca c'è, da poter passare, passo
subito, altrimenti mi fermerò fino alla mattina, in un campo, sur una pianta,
come le passere: meglio sur una pianta, che in prigione".
Ben
presto vide aprirsi una straducola a mancina; e v'entrò. A quell'ora, se si
fosse abbattuto in qualcheduno, non avrebbe più fatte tante cerimonie per farsi
insegnar la strada; ma non sentiva anima vivente. Andava dunque dove la strada
lo conduceva; e pensava.
"Io
fare il diavolo! Io ammazzare tutti i signori! Un fascio di lettere, io! I miei
compagni che mi stavano a far la guardia! Pagherei qualche cosa a trovarmi a
viso a viso con quel mercante, di là dall'Adda (ah quando l'avrò passata
quest'Adda benedetta!), e fermarlo, e domandargli con comodo dov'abbia pescate
tutte quelle belle notizie. Sappiate ora, mio caro signore, che la cosa è
andata così e così, e che il diavolo ch'io ho fatto, è stato d'aiutar Ferrer,
come se fosse stato un mio fratello; sappiate che que' birboni che, a sentir
voi, erano i miei amici, perché, in un certo momento, io dissi una parola da buon
cristiano, mi vollero fare un brutto scherzo; sappiate che, intanto che voi
stavate a guardar la vostra bottega, io mi faceva schiacciar le costole, per
salvare il vostro signor vicario di provvisione, che non l'ho mai né visto né
conosciuto. Aspetta che mi mova un'altra volta, per aiutar signori... È vero
che bisogna farlo per l'anima: son prossimo anche loro. E quel gran fascio di
lettere, dove c'era tutta la cabala, e che adesso è in mano della giustizia,
come voi sapete di certo; scommettiamo che ve lo fo comparir qui, senza l'aiuto
del diavolo? Avreste curiosità di vederlo quel fascio? Eccolo qui... Una
lettera sola?... Sì signore, una lettera sola; e questa lettera, se lo volete
sapere, l'ha scritta un religioso che vi può insegnar la dottrina, quando si
sia; un religioso che, senza farvi torto, val più un pelo della sua barba che
tutta la vostra; e è scritta, questa lettera, come vedete, a un altro
religioso, un uomo anche lui... Vedete ora quali sono i furfanti miei amici. E
imparate a parlare un'altra volta; principalmente quando si tratta del
prossimo".
Ma dopo
qualche tempo, questi pensieri ed altri simili cessarono affatto: le
circostanze presenti occupavan tutte le facoltà del povero pellegrino. La paura
d'essere inseguito o scoperto, che aveva tanto amareggiato il viaggio in pieno
giorno, non gli dava ormai più fastidio; ma quante cose rendevan questo molto
più noioso! Le tenebre, la solitudine, la stanchezza cresciuta, e ormai
dolorosa; tirava una brezzolina sorda, uguale, sottile, che doveva far poco
servizio a chi si trovava ancora indosso quegli stessi vestiti che s'era messi
per andare a nozze in quattro salti, e tornare subito trionfante a casa sua; e,
ciò che rendeva ogni cosa più grave, quell'andare alla ventura, e, per dir
così, al tasto, cercando un luogo di riposo e di sicurezza.
Quando
s'abbatteva a passare per qualche paese, andava adagio adagio, guardando però
se ci fosse ancora qualche uscio aperto; ma non vide mai altro segno di gente
desta, che qualche lumicino trasparente da qualche impannata. Nella strada fuor
dell'abitato, si soffermava ogni tanto; stava in orecchi, per veder se sentiva
quella benedetta voce dell'Adda; ma invano. Altre voci non sentiva, che un
mugolìo di cani, che veniva da qualche cascina isolata, vagando per l'aria,
lamentevole insieme e minaccioso. Al suo avvicinarsi a qualcheduna di quelle,
il mugolìo si cambiava in un abbaiar frettoloso e rabbioso: nel passar davanti
alla porta, sentiva, vedeva quasi, il bestione, col muso al fessolino della
porta, raddoppiar gli urli: cosa che gli faceva andar via la tentazione di
picchiare, e di chieder ricovero. E forse, anche senza i cani, non ci si
sarebbe risolto. "Chi è là? - pensava: - cosa volete a quest'ora? Come
siete venuto qui? Fatevi conoscere. Non c'è osterie da alloggiare? Ecco,
andandomi bene, quel che mi diranno, se picchio: quand'anche non ci dorma
qualche pauroso che, a buon conto, si metta a gridare: aiuto! al ladro! Bisogna
aver subito qualcosa di chiaro da rispondere: e cosa ho da rispondere io? Chi sente
un rumore la notte, non gli viene in testa altro che ladri, malviventi,
trappole: non si pensa mai che un galantuomo possa trovarsi in istrada di
notte, se non è un cavaliere in carrozza". Allora serbava quel partito
all'estrema necessità, e tirava innanzi, con la speranza di scoprire almeno
l'Adda, se non passarla, in quella notte; e di non dover andarne alla cerca, di
giorno chiaro.
Cammina,
cammina; arrivò dove la campagna coltivata moriva in una sodaglia sparsa di
felci e di scope. Gli parve, se non indizio, almeno un certo qual argomento di
fiume vicino, e s'inoltrò per quella, seguendo un sentiero che l'attraversava.
Fatti pochi passi, si fermò ad ascoltare; ma ancora invano. La noia del viaggio
veniva accresciuta dalla salvatichezza del luogo, da quel non veder più né un
gelso, né una vite, né altri segni di coltura umana, che prima pareva quasi che
gli facessero una mezza compagnia. Ciò non ostante andò avanti; e siccome nella
sua mente cominciavano a suscitarsi certe immagini, certe apparizioni, lasciatevi
in serbo dalle novelle sentite raccontar da bambino, così, per discacciarle, o
per acquietarle, recitava, camminando, dell'orazioni per i morti.
A poco
a poco, si trovò tra macchie più alte, di pruni, di quercioli, di marruche.
Seguitando a andare avanti, e allungando il passo, con più impazienza che
voglia, cominciò a veder tra le macchie qualche albero sparso; e andando
ancora, sempre per lo stesso sentiero, s'accorse d'entrare in un bosco. Provava
un certo ribrezzo a inoltrarvisi; ma lo vinse, e contro voglia andò avanti; ma
più che s'inoltrava, più il ribrezzo cresceva, più ogni cosa gli dava fastidio.
Gli alberi che vedeva in lontananza, gli rappresentavan figure strane, deformi,
mostruose; l'annoiava l'ombra delle cime leggermente agitate, che tremolava sul
sentiero illuminato qua e là dalla luna; lo stesso scrosciar delle foglie
secche che calpestava o moveva camminando, aveva per il suo orecchio un non so
che d'odioso. Le gambe provavano come una smania, un impulso di corsa, e nello
stesso tempo pareva che durassero fatica a regger la persona. Sentiva la brezza
notturna batter più rigida e maligna sulla fronte e sulle gote; se la sentiva
scorrer tra i panni e le carni, e raggrinzarle, e penetrar più acuta nelle ossa
rotte dalla stanchezza, e spegnervi quell'ultimo rimasuglio di vigore. A un
certo punto, quell'uggia, quell'orrore indefinito con cui l'animo combatteva da
qualche tempo, parve che a un tratto lo soverchiasse. Era per perdersi affatto;
ma atterrito, più che d'ogni altra cosa, del suo terrore, richiamò al cuore gli
antichi spiriti, e gli comandò che reggesse. Così rinfrancato un momento, si
fermò su due piedi a deliberare; risolveva d'uscir subito di lì per la strada
già fatta, d'andar diritto all'ultimo paese per cui era passato, di tornar tra
gli uomini, e di cercare un ricovero, anche all'osteria. E stando così fermo,
sospeso il fruscìo de' piedi nel fogliame, tutto tacendo d'intorno a lui,
cominciò a sentire un rumore, un mormorìo, un mormorìo d'acqua corrente. Sta in
orecchi; n'è certo; esclama: - è l'Adda! - Fu il ritrovamento d'un amico, d'un
fratello, d'un salvatore. La stanchezza quasi scomparve, gli tornò il polso,
sentì il sangue scorrer libero e tepido per tutte le vene, sentì crescer la
fiducia de' pensieri, e svanire in gran parte quell'incertezza e gravità delle
cose; e non esitò a internarsi sempre più nel bosco, dietro all'amico rumore.
Arrivò
in pochi momenti all'estremità del piano, sull'orlo d'una riva profonda; e
guardando in giù tra le macchie che tutta la rivestivano, vide l'acqua
luccicare e correre. Alzando poi lo sguardo, vide il vasto piano dell'altra
riva, sparso di paesi, e al di là i colli, e sur uno di quelli una gran macchia
biancastra, che gli parve dover essere una città, Bergamo sicuramente. Scese un
po' sul pendìo, e, separando e diramando, con le mani e con le braccia, il
prunaio, guardò giù, se qualche barchetta si movesse nel fiume, ascoltò se
sentisse batter de' remi; ma non vide né sentì nulla. Se fosse stato qualcosa
di meno dell'Adda, Renzo scendeva subito, per tentarne il guado; ma sapeva bene
che l'Adda non era fiume da trattarsi così in confidenza.
Perciò
si mise a consultar tra sé, molto a sangue freddo, sul partito da prendere.
Arrampicarsi sur una pianta, e star lì a aspettar l'aurora, per forse sei ore
che poteva ancora indugiare, con quella brezza, con quella brina, vestito così,
c'era più che non bisognasse per intirizzir davvero. Passeggiare innanzi e
indietro, tutto quel tempo, oltre che sarebbe stato poco efficace aiuto contro
il rigore del sereno, era un richieder troppo da quelle povere gambe, che già
avevano fatto più del loro dovere. Gli venne in mente d'aver veduto, in uno de'
campi più vicini alla sodaglia, una di quelle capanne coperte di paglia,
costrutte di tronchi e di rami, intonacati poi con la mota, dove i contadini
del milanese usan, l'estate, depositar la raccolta, e ripararsi la notte a
guardarla: nell'altre stagioni, rimangono abbandonate. La disegnò subito per
suo albergo; si rimise sul sentiero, ripassò il bosco, le macchie, la sodaglia;
e andò verso la capanna. Un usciaccio intarlato e sconnesso, era rabbattuto,
senza chiave né catenaccio; Renzo l'aprì, entrò; vide sospeso per aria, e
sostenuto da ritorte di rami, un graticcio, a foggia d'hamac; ma non sl curò di
salirvi. Vide in terra un po' di paglia; e pensò che, anche lì, una dormitina
sarebbe ben saporita.
Prima
però di sdraiarsi su quel letto che la Provvidenza gli aveva preparato, vi
s'inginocchiò, a ringraziarla di quel benefizio, e di tutta l'assistenza che
aveva avuta da essa, in quella terribile giornata. Disse poi le sue solite
divozioni; e per di più, chiese perdono a Domeneddio di non averle dette la
sera avanti; anzi, per dir le sue parole, d'essere andato a dormire come un
cane, e peggio. "E per questo, - soggiunse poi tra sé; appoggiando le mani
sulla paglia, e d'inginocchioni mettendosi a giacere: - per questo, m'è
toccata, la mattina, quella bella svegliata". Raccolse poi tutta la paglia
che rimaneva all'intorno, e se l'accomodò addosso, facendosene, alla meglio,
una specie di coperta, per temperare il freddo, che anche là dentro si faceva
sentir molto bene; e vi si rannicchiò sotto, con l'intenzione di dormire un bel
sonno, parendogli d'averlo comprato anche più caro del dovere.
Ma
appena ebbe chiusi gli occhi, cominciò nella sua memoria o nella sua fantasia
(il luogo preciso non ve lo saprei dire), cominciò, dico, un andare e venire di
gente, così affollato, così incessante, che addio sonno. Il mercante, il
notaio, i birri, lo spadaio, l'oste, Ferrer, il vicario, la brigata
dell'osteria, tutta quella turba delle strade, poi don Abbondio, poi don
Rodrigo: tutta gente con cui Renzo aveva che dire.
Tre
sole immagini gli si presentavano non accompagnate da alcuna memoria amara,
nette d'ogni sospetto, amabili in tutto; e due principalmente, molto differenti
al certo, ma strettamente legate nel cuore del giovine: una treccia nera e una
barba bianca. Ma anche la consolazione che provava nel fermare sopra di esse il
pensiero, era tutt'altro che pretta e tranquilla. Pensando al buon frate,
sentiva più vivamente la vergogna delle proprie scappate, della turpe
intemperanza, del bel caso che aveva fatto de' paterni consigli di lui; e
contemplando l'immagine di Lucia! non ci proveremo a dire ciò che sentisse: il
lettore conosce le circostanze; se lo figuri. E quella povera Agnese, come
l'avrebbe potuta dimenticare? Quell'Agnese, che l'aveva scelto, che l'aveva già
considerato come una cosa sola con la sua unica figlia, e prima di ricever da
lui il titolo di madre, n'aveva preso il linguaggio e il cuore, e dimostrata
co' fatti la premura. Ma era un dolore di più, e non il meno pungente, quel
pensiero, che, in grazia appunto di così amorevoli intenzioni, di tanto bene
che voleva a lui, la povera donna si trovava ora snidata, quasi raminga,
incerta dell'avvenire, e raccoglieva guai e travagli da quelle cose appunto da
cui aveva sperato il riposo e la giocondità degli ultimi suoi anni. Che notte,
povero Renzo! Quella che doveva esser la quinta delle sue nozze! Che stanza! Che
letto matrimoniale! E dopo qual giornata! E per arrivare a qual domani, a qual
serie di giorni! "Quel che Dio vuole, - rispondeva ai pensieri che gli
davan più noia: - quel che Dio vuole. Lui sa quel che fa: c'è anche per noi.
Vada tutto in isconto de' miei peccati. Lucia è tanto buona! non vorrà poi
farla patire un pezzo, un pezzo, un pezzo!"
Tra
questi pensieri, e disperando ormai d'attaccar sonno, e facendosegli il freddo
sentir sempre più, a segno ch'era costretto ogni tanto a tremare e a battere i
denti, sospirava la venuta del giorno, e misurava con impazienza il lento
scorrer dell'ore. Dico misurava, perché, ogni mezz'ora, sentiva in quel vasto
silenzio, rimbombare i tocchi d'un orologio: m'immagino che dovesse esser
quello di Trezzo. E la prima volta che gli ferì gli orecchi quello scocco, così
inaspettato, senza che potesse avere alcuna idea del luogo donde venisse, gli
fece un senso misterioso e solenne, come d'un avvertimento che venisse da
persona non vista, con una voce sconosciuta.
Quando
finalmente quel martello ebbe battuto undici tocchi, ch'era l'ora disegnata da
Renzo per levarsi, s'alzò mezzo intirizzito, si mise inginocchioni, disse, e
con più fervore del solito, le divozioni della mattina, si rizzò, si stirò in
lungo e in largo, scosse la vita e le spalle, come per mettere insieme tutte le
membra, che ognuno pareva che facesse da sé, soffiò in una mano, poi
nell'altra, se le stropicciò, aprì l'uscio della capanna; e, per la prima cosa,
diede un'occhiata in qua e in là, per veder se c'era nessuno. E non vedendo
nessuno, cercò con l'occhio il sentiero della sera avanti; lo riconobbe subito,
e prese per quello.
Il
cielo prometteva una bella giornata: la luna, in un canto, pallida e senza
raggio, pure spiccava nel campo immenso d'un bigio ceruleo, che, giù giù verso
l'oriente, s'andava sfumando leggermente in un giallo roseo. Più giù,
all'orizzonte, si stendevano, a lunghe falde ineguali, poche nuvole, tra
l'azzurro e il bruno, le più basse orlate al di sotto d'una striscia quasi di
fuoco, che di mano in mano si faceva più viva e tagliente: da mezzogiorno,
altre nuvole ravvolte insieme, leggieri e soffici, per dir così, s'andavan
lumeggiando di mille colori senza nome: quel cielo di Lombardia, così bello
quand'è bello, così splendido, così in pace. Se Renzo si fosse trovato lì
andando a spasso, certo avrebbe guardato in su, e ammirato quell'albeggiare
così diverso da quello ch'era solito vedere ne' suoi monti; ma badava alla sua
strada, e camminava a passi lunghi, per riscaldarsi, e per arrivar presto.
Passa i campi, passa la sodaglia, passa le macchie, attraversa il bosco,
guardando in qua e in là, e ridendo e vergognandosi nello stesso tempo, del
ribrezzo che vi aveva provato poche ore prima; è sul ciglio della riva, guarda
giù; e, di tra i rami, vede una barchetta di pescatore, che veniva adagio,
contr'acqua, radendo quella sponda. Scende subito per la più corta, tra i
pruni; è sulla riva; dà una voce leggiera leggiera al pescatore; e, con
l'intenzione di far come se chiedesse un servizio di poca importanza, ma, senza
avvedersene, in una maniera mezzo supplichevole, gli accenna che approdi. Il
pescatore gira uno sguardo lungo la riva, guarda attentamente lungo l'acqua che
viene, si volta a guardare indietro, lungo l'acqua che va, e poi dirizza la prora
verso Renzo, e approda. Renzo che stava sull'orlo della riva, quasi con un
piede nell'acqua, afferra la punta del battello, ci salta dentro, e dice: - mi
fareste il servizio, col pagare, di tragittarmi di là? - Il pescatore l'aveva
indovinato, e già voltava da quella parte. Renzo, vedendo sul fondo della barca
un altro remo, si china, e l'afferra.
-
Adagio, adagio, - disse il padrone; ma nel veder poi con che garbo il giovine
aveva preso lo strumento, e sl disponeva a maneggiarlo, - ah, ah, - riprese: -
siete del mestiere.
- Un
pochino, - rispose Renzo, e ci si mise con un vigore e con una maestria, più
che da dilettante. E senza mai rallentare, dava ogni tanto un'occhiata ombrosa
alla riva da cui s'allontanavano, e poi una impaziente a quella dov'eran rivolti,
e si coceva di non poterci andar per la più corta; ché la corrente era, in quel
luogo, troppo rapida, per tagliarla direttamente; e la barca, parte rompendo,
parte secondando il filo dell'acqua, doveva fare un tragitto diagonale. Come
accade in tutti gli affari un po' imbrogliati, che le difficoltà alla prima si
presentino all'ingrosso, e nell'eseguire poi, vengan fuori per minuto, Renzo,
ora che l'Adda era, si può dir, passata, gli dava fastidio il non saper di
certo se lì essa fosse confine, o se, superato quell'ostacolo, gliene rimanesse
un altro da superare. Onde, chiamato il pescatore, e accennando col capo quella
macchia biancastra che aveva veduta la notte avanti, e che allora gli appariva
ben più distinta, disse: - è Bergamo, quel paese?
- La
città di Bergamo, - rispose il pescatore.
- E
quella riva lì, è bergamasca?
- Terra
di san Marco.
- Viva
san Marco! - esclamò Renzo. Il pescatore non disse nulla.
Toccano
finalmente quella riva; Renzo vi si slancia; ringrazia Dio tra sé, e poi con la
bocca il barcaiolo; mette le mani in tasca, tira fuori una berlinga, che,
attese le circostanze, non fu un piccolo sproprio, e la porge al galantuomo; il
quale, data ancora una occhiata alla riva milanese, e al fiume di sopra e di
sotto, stese la mano, prese la mancia, la ripose, poi strinse le labbra, e per
di più ci mise il dito in croce, accompagnando quel gesto con un'occhiata
espressiva; e disse poi : - buon viaggio - , e tornò indietro.
Perché
la così pronta e discreta cortesia di costui verso uno sconosciuto non faccia
troppo maravigliare il lettore, dobbiamo informarlo che quell'uomo, pregato
spesso d'un simile servizio da contrabbandieri e da banditi, era avvezzo a
farlo; non tanto per amore del poco e incerto guadagno che gliene poteva
venire, quanto per non farsi de' nemici in quelle classi. Lo faceva, dico, ogni
volta che potesse esser sicuro che non lo vedessero né gabellieri, né birri, né
esploratori. Così, senza voler più bene ai primi che ai secondi, cercava di
soddisfarli tutti, con quell'imparzialità, che è la dote ordinaria di chi è
obbligato a trattar con cert'uni, e soggetto a render conto a cert'altri.
Renzo
si fermò un momentino sulla riva a contemplar la riva opposta, quella terra che
poco prima scottava tanto sotto i suoi piedi. "Ah! ne son proprio fuori! -
fu il suo primo pensiero. - Sta' lì, maledetto paese", fu il secondo,
l'addio alla patria. Ma il terzo corse a chi lasciava in quel paese. Allora
incrociò le braccia sul petto, mise un sospiro, abbassò gli occhi sull'acqua
che gli scorreva a' piedi, e pensò "è passata sotto il ponte!" Così,
all'uso del suo paese, chiamava, per antonomasia, quello di Lecco. "Ah
mondo birbone! Basta; quel che Dio vuole".
Voltò
le spalle a que' tristi oggetti, e s'incamminò, prendendo per punto di mira la
macchia biancastra sul pendìo del monte, finché trovasse qualcheduno da farsi
insegnar la strada giusta. E bisognava vedere con che disinvoltura s'accostava
a' viandanti, e, senza tanti rigiri, nominava il paese dove abitava quel suo
cugino. Dal primo a cui si rivolse, seppe che gli rimanevano ancor nove miglia
da fare.
Quel
viaggio non fu lieto. Senza parlare de' guai che Renzo portava con sé, il suo
occhio veniva ogni momento rattristato da oggetti dolorosi, da' quali dovette
accorgersi che troverebbe nel paese in cui s'inoltrava, la penuria che aveva
lasciata nel suo. Per tutta la strada, e più ancora nelle terre e ne' borghi,
incontrava a ogni passo poveri, che non eran poveri di mestiere, e mostravan la
miseria più nel viso che nel vestiario: contadini, montanari, artigiani,
famiglie intere; e un misto ronzìo di preghiere, di lamenti e di vagiti. Quella
vista, oltre la compassione e la malinconia, lo metteva anche in pensiero de'
casi suoi.
"Chi
sa, - andava meditando, - se trovo da far bene? se c'è lavoro, come negli anni
passati? Basta; Bortolo mi voleva bene, è un buon figliuolo, ha fatto danari,
m'ha invitato tante volte; non m'abbandonerà. E poi, la Provvidenza m'ha
aiutato finora; m'aiuterà anche per l'avvenire".
Intanto
l'appetito, risvegliato già da qualche tempo, andava crescendo di miglio in
miglio; e quantunque Renzo, quando cominciò a dargli retta, sentisse di poter
reggere, senza grand'incomodo, per quelle due o tre che gli potevan rimanere;
pensò, da un'altra parte, che non sarebbe una bella cosa di presentarsi al
cugino, come un pitocco, e dirgli, per primo complimento: dammi da mangiare. Si
levò di tasca tutte le sue ricchezze, le fece scorrere sur una mano, tirò la
somma. Non era un conto che richiedesse una grande aritmetica; ma però c'era abbondantemente
da fare una mangiatina. Entrò in un'osteria a ristorarsi lo stomaco; e in
fatti, pagato che ebbe, gli rimase ancor qualche soldo.
Nell'uscire,
vide, accanto alla porta, che quasi v'inciampava, sdraiate in terra, più che
sedute, due donne, una attempata, un'altra più giovine, con un bambino, che,
dopo aver succhiata invano l'una e l'altra mammella, piangeva, piangeva; tutti
del color della morte: e ritto, vicino a loro, un uomo, nel viso del quale e
nelle membra, si potevano ancora vedere i segni d'un'antica robustezza, domata
e quasi spenta dal lungo disagio. Tutt'e tre stesero la mano verso colui che
usciva con passo franco, e con l'aspetto rianimato: nessuno parlò; che poteva
dir di più una preghiera?
- La
c'è la Provvidenza! - disse Renzo; e, cacciata subito la mano in tasca, la votò
di que' pochi soldi; li mise nella mano che si trovò più vicina, e riprese la
sua strada.
La
refezione e l'opera buona (giacché siam composti d'anima e di corpo) avevano
riconfortati e rallegrati tutti i suoi pensieri. Certo, dall'essersi così
spogliato degli ultimi danari, gli era venuto più di confidenza per l'avvenire,
che non gliene avrebbe dato il trovarne dieci volte tanti. Perché, se a
sostenere in quel giorno que' poverini che mancavano sulla strada, la Provvidenza
aveva tenuti in serbo proprio gli ultimi quattrini d'un estraneo, fuggitivo,
incerto anche lui del come vivrebbe; chi poteva credere che volesse poi
lasciare in secco colui del quale s'era servita a ciò, e a cui aveva dato un
sentimento così vivo di sé stessa, così efficace, così risoluto? Questo era, a
un di presso, il pensiero del giovine; però men chiaro ancora di quello ch'io
l'abbia saputo esprimere. Nel rimanente della strada, ripensando a' casi suoi,
tutto gli si spianava. La carestia doveva poi finire: tutti gli anni si miete:
intanto aveva il cugino Bortolo e la propria abilità: aveva, per di più, a casa
un po' di danaro, che si farebbe mandar subito. Con quello, alla peggio,
camperebbe, giorno per giorno, finché tornasse l'abbondanza. "Ecco poi
tornata finalmente l'abbondanza, - proseguiva Renzo nella sua fantasia: -
rinasce la furia de' lavori: i padroni fanno a gara per aver degli operai
milanesi, che son quelli che sanno bene il mestiere; gli operai milanesi alzan
la cresta; chi vuol gente abile, bisogna che la paghi; si guadagna da vivere
per più d'uno, e da metter qualcosa da parte; e si fa scrivere alle donne che
vengano... E poi, perché aspettar tanto? Non è vero che, con quel poco che
abbiamo in serbo, si sarebbe campati là, anche quest'inverno? Così camperemo
qui. De' curati ce n'è per tutto. Vengono quelle due care donne: si mette su
casa. Che piacere, andar passeggiando su questa stessa strada tutti insieme!
andar fino all'Adda in baroccio, e far merenda sulla riva, proprio sulla riva,
e far vedere alle donne il luogo dove mi sono imbarcato, il prunaio da cui sono
sceso, quel posto dove sono stato a guardare se c'era un battello".
Arriva
al paese del cugino; nell'entrare, anzi prima di mettervi piede, distingue una
casa alta alta, a più ordini di finestre lunghe lunghe; riconosce un filatoio,
entra, domanda ad alta voce, tra il rumore dell'acqua cadente e delle rote, se
stia lì un certo Bortolo Castagneri.
- Il
signor Bortolo! Eccolo là.
"Signore?
buon segno", pensa Renzo; vede il cugino, gli corre incontro. Quello si
volta, riconosce il giovine, che gli dice: - son qui -. Un oh! di sorpresa, un
alzar di braccia, un gettarsele al collo scambievolmente. Dopo quelle prime
accoglienze, Bortolo tira il nostro giovine lontano dallo strepito degli
ordigni, e dagli occhi de' curiosi, in un'altra stanza, e gli dice: - ti vedo
volentieri; ma sei un benedetto figliuolo. T'avevo invitato tante volte; non
sei mai voluto venire; ora arrivi in un momento un po' critico.
- Se te
lo devo dire, non sono venuto via di mia volontà, disse Renzo; e, con la più
gran brevità, non però senza molta commozione, gli raccontò la dolorosa storia.
È un
altro par di maniche, - disse Bortolo. - Oh povero Renzo! Ma tu hai fatto
capitale di me; e io non t'abbandonerò. Veramente, ora non c'è ricerca
d'operai; anzi appena appena ognuno tiene i suoi, per non perderli e disviare
il negozio; ma il padrone mi vuol bene, e ha della roba. E, a dirtela, in gran
parte la deve a me, senza vantarmi: lui il capitale, e io quella poca abilità.
Sono il primo lavorante, sai? e poi, a dirtela, sono il factotum. Povera
Lucia Mondella! Me ne ricordo, come se fosse ieri: una buona ragazza! sempre la
più composta in chiesa; e quando si passava da quella sua casuccia... Mi par di
vederla, quella casuccia, appena fuor del paese, con un bel fico che passava il
muro...
- No,
no; non ne parliamo.
-
Volevo dire che, quando si passava da quella casuccia, sempre si sentiva
quell'aspo, che girava, girava, girava. E quel don Rodrigo! già, anche al mio
tempo, era per quella strada; ma ora fa il diavolo affatto, a quel che vedo:
fin che Dio gli lascia la briglia sul collo. Dunque, come ti dicevo, anche qui
si patisce un po' la fame... A proposito, come stai d'appetito?
- Ho
mangiato poco fa, per viaggio.
- E a
danari, come stiamo?
Renzo
stese una mano, l'avvicinò alla bocca, e vi fece scorrer sopra un piccol
soffio.
- Non
importa, - disse Bortolo: - n'ho io: e non ci pensare, che, presto presto,
cambiandosi le cose, se Dio vorrà, me li renderai, e te n'avanzerà anche per
te.
- Ho
qualcosina a casa; e me li farò mandare.
- Va
bene; e intanto fa' conto di me. Dio m'ha dato del bene, perché faccia del
bene; e se non ne fo a' parenti e agli amici, a chi ne farò?
- L'ho
detto io della Provvidenza! - esclamò Renzo, stringendo affettuosamente la mano
al buon cugino.
-
Dunque, - riprese questo, - in Milano hanno fatto tutto quel chiasso. Mi paiono
un po' matti coloro. Già, n'era corsa la voce anche qui; ma voglio che tu mi
racconti poi la cosa più minutamente. Eh! n'abbiamo delle cose da discorrere.
Qui però, vedi, la va più quietamente, e si fanno le cose con un po' più di
giudizio. La citta ha comprate duemila some di grano da un mercante che sta a
Venezia: grano che vien di Turchia; ma, quando si tratta di mangiare, la non si
guarda tanto per il sottile. Ora senti un po' cosa nasce: nasce che i rettori
di Verona e di Brescia chiudono i passi, e dicono: di qui non passa grano. Che
ti fanno i bergamaschi? Spediscono a Venezia Lorenzo Torre, un dottore, ma di
quelli! È partito in fretta, s'è presentato al doge, e ha detto: che idea è
venuta a que' signori rettori? Ma un discorso! un discorso, dicono, da dare
alle stampe. Cosa vuol dire avere un uomo che sappia parlare! Subito un ordine
che si lasci passare il grano; e i rettori, non solo lasciarlo passare, ma
bisogna che lo facciano scortare; ed è in viaggio. E s'è pensato anche al
contado. Giovanbatista Biava, nunzio di Bergamo in Venezia (un uomo anche
quello!) ha fatto intendere al senato che, anche in campagna, si pativa la
fame; e il senato ha concesso quattro mila staia di miglio. Anche questo aiuta
a far pane. E poi, lo vuoi sapere? se non ci sarà pane, mangeremo del
companatico. Il Signore m'ha dato del bene, come ti dico. Ora ti condurrò dal
mio padrone: gli ho parlato di te tante volte, e ti farà buona accoglienza. Un
buon bergamascone all'antica, un uomo di cuor largo. Veramente, ora non
t'aspettava; ma quando sentirà la storia... E poi gli operai sa tenerli di
conto, perché la carestia passa, e il negozio dura. Ma prima di tutto, bisogna
che t'avverta d'una cosa. Sai come ci chiamano in questo paese, noi altri dello
stato di Milano?
- Come
ci chiamano?
- Ci
chiaman baggiani.
- Non è
un bel nome.
-
Tant'è: chi è nato nel milanese, e vuol vivere nel bergamasco, bisogna
prenderselo in santa pace. Per questa gente, dar del baggiano a un milanese, è
come dar dell'illustrissimo a un cavaliere.
- Lo
diranno, m'immagino, a chi se lo vorrà lasciar dire.
-
Figliuolo mio, se tu non sei disposto a succiarti del baggiano a tutto pasto,
non far conto di poter viver qui. Bisognerebbe esser sempre col coltello in
mano: e quando, supponiamo, tu n'avessi ammazzati due, tre, quattro, verrebbe
poi quello che ammazzerebbe te: e allora, che bel gusto di comparire al
tribunal di Dio, con tre o quattro omicidi sull'anima!
- E un
milanese che abbia un po' di... - e qui picchiò la fronte col dito, come aveva
fatto nell'osteria della luna piena. - Voglio dire, uno che sappia bene il suo
mestiere?
-
Tutt'uno: qui è un baggiano anche lui. Sai come dice il mio padrone, quando
parla di me co' suoi amici? "Quel baggiano è stato la man di Dio, per il
mio negozio; se non avessi quel baggiano, sarei ben impicciato". L'è
usanza così.
- L'è
un'usanza sciocca. E vedendo quello che sappiam fare (ché finalmente chi ha
portata qui quest'arte, e chi la fa andare, siamo noi), possibile che non si
sian corretti?
-
Finora no: col tempo può essere; i ragazzi che vengon su; ma gli uomini fatti,
non c'è rimedio: hanno preso quel vizio; non lo smetton più. Cos'è poi
finalmente? Era ben un'altra cosa quelle galanterie che t'hanno fatte, e il di
più che ti volevan fare i nostri cari compatriotti.
- Già,
è vero: se non c'è altro di male...
- Ora
che sei persuaso di questo, tutto anderà bene. Vieni dal padrone, e coraggio.
Tutto
in fatti andò bene, e tanto a seconda delle promesse di Bortolo, che crediamo
inutile di farne particolar relazione. E fu veramente provvidenza; perché la
roba e i quattrini che Renzo aveva lasciati in casa, vedremo or ora quanto
fosse da farci assegnamento.
Quello
stesso giorno, 13 di novembre, arriva un espresso al signor podestà di Lecco, e
gli presenta un dispaccio del signor capitano di giustizia, contenente un
ordine di fare ogni possibile e più opportuna inquisizione, per iscoprire se un
certo giovine nominato Lorenzo Tramaglino, filatore di seta, scappato dalle
forze praedicti egregii domini capitanei, sia tornato, palam vel clam,
al suo paese, ignotum quale per l'appunto, verum in territorio Leuci:
quod si compertum fuerit sic esse, cerchi il detto signor podestà, quanta
maxima diligentia fieri poterit, d'averlo nelle mani, e, legato a dovere, videlizet
con buone manette, attesa l'esperimentata insufficienza de' manichini per il
nominato soggetto, lo faccia condurre nelle carceri, e lo ritenga lì, sotto
buona custodia, per farne consegna a chi sarà spedito a prenderlo; e tanto nel
caso del sì, come nel caso del no, accedatis ad domum praedicti Laurentii
Tramaliini; et, facta debita diligentia, quidquid ad rem repertum fuerit
auferatis; et informationes de illius prava qualitate, vita, et complicibus
sumatis; e di tutto il detto e il fatto, il trovato e il non trovato, il
preso e il lasciato, diligenter referatis. Il signor podestà, dopo
essersi umanamente cerziorato che il soggetto non era tornato in paese, fa
chiamare il console del villaggio, e si fa condur da lui alla casa indicata,
con gran treno di notaio e di birri. La casa è chiusa; chi ha le chiavi non
c'è, o non si lascia trovare. Si sfonda l'uscio; si fa la debita diligenza,
vale a dire che si fa come in una città presa d'assalto. La voce di quella
spedizione si sparge immediatamente per tutto il contorno; viene agli orecchi
del padre Cristoforo; il quale, attonito non meno che afflitto, domanda al
terzo e al quarto, per aver qualche lume intorno alla cagione d'un fatto così
inaspettato; ma non raccoglie altro che congetture in aria, e scrive subito al
padre Bonaventura, dal quale spera di poter ricevere qualche notizia più
precisa. Intanto i parenti e gli amici di Renzo vengono citati a deporre ciò
che posson sapere della sua prava qualità: aver nome Tramaglino è una
disgrazia, una vergogna, un delitto: il paese è sottosopra. A poco a poco, si
viene a sapere che Renzo è scappato dalla giustizia, nel bel mezzo di Milano, e
poi scomparso; corre voce che abbia fatto qualcosa di grosso; ma la cosa poi
non si sa dire, o si racconta in cento maniere. Quanto più è grossa, tanto meno
vien creduta nel paese, dove Renzo è conosciuto per un bravo giovine: i più
presumono, e vanno susurrandosi agli orecchi l'uno con l'altro, che è una
macchina mossa da quel prepotente di don Rodrigo, per rovinare il suo povero
rivale. Tant'è vero che, a giudicar per induzione, e senza la necessaria
cognizione de' fatti, si fa alle volte gran torto anche ai birbanti.
Ma noi,
co' fatti alla mano, come si suol dire, possiamo affermare che, se colui non
aveva avuto parte nella sciagura di Renzo, se ne compiacque però, come se fosse
opera sua, e ne trionfò co' suoi fidati, e principalmente col conte Attilio.
Questo, secondo i suoi primi disegni, avrebbe dovuto a quell'ora trovarsi già
in Milano; ma, alle prime notizie del tumulto, e della canaglia che girava per
le strade, in tutt'altra attitudine che di ricever bastonate, aveva creduto
bene di trattenersi in campagna, fino a cose quiete. Tanto più che, avendo
offeso molti, aveva qualche ragion di temere che alcuno de' tanti, che solo per
impotenza stavano cheti, non prendesse animo dalle circostanze, e giudicasse il
momento buono da far le vendette di tutti. Questa sospensione non fu di lunga
durata: l'ordine venuto da Milano dell'esecuzione da farsi contro Renzo era già
un indizio che le cose avevan ripreso il corso ordinario; e, quasi nello stesso
tempo, se n'ebbe la certezza positiva. Il conte Attilio partì immediatamente,
animando il cugino a persister nell'impresa, a spuntar l'impegno, e
promettendogli che, dal canto suo, metterebbe subito mano a sbrigarlo dal
frate; al qual affare, il fortunato accidente dell'abietto rivale doveva fare
un gioco mirabile. Appena partito Attilio, arrivò il Griso da Monza sano e
salvo, e riferì al suo padrone ciò che aveva potuto raccogliere: che Lucia era
ricoverata nel tal monastero, sotto la protezione della tal signora; e stava
sempre nascosta, come se fosse una monaca anche lei, non mettendo mai piede
fuor della porta, e assistendo alle funzioni di chiesa da una finestrina con la
grata: cosa che dispiaceva a molti, i quali avendo sentito motivar non so che
di sue avventure, e dir gran cose del suo viso, avrebbero voluto un poco vedere
come fosse fatto.
Questa
relazione mise il diavolo addosso a don Rodrigo, o, per dir meglio, rendé più
cattivo quello che già ci stava di casa. Tante circostanze favorevoli al suo
disegno infiammavano sempre più la sua passione, cioè quel misto di puntiglio,
di rabbia e d'infame capriccio, di cui la sua passione era composta. Renzo
assente, sfrattato, bandito, di maniera che ogni cosa diventava lecita contro
di lui, e anche la sua sposa poteva esser considerata, in certo modo, come roba
di rubello: il solo uomo al mondo che volesse e potesse prender le sue parti, e
fare un rumore da esser sentito anche lontano e da persone alte, l'arrabbiato
frate, tra poco sarebbe probabilmente anche lui fuor del caso di nuocere. Ed
ecco che un nuovo impedimento, non che contrappesare tutti que' vantaggi, li
rendeva, si può dire, inutili. Un monastero di Monza, quand'anche non ci fosse
stata una principessa, era un osso troppo duro per i denti di don Rodrigo; e
per quanto egli ronzasse con la fantasia intorno a quel ricovero, non sapeva
immaginar né via né verso d'espugnarlo, né con la forza, né per insidie. Fu
quasi quasi per abbandonar l'impresa; fu per risolversi d'andare a Milano,
allungando anche la strada, per non passar neppure da Monza; e a Milano, gettarsi
in mezzo agli amici e ai divertimenti, per discacciar, con pensieri affatto
allegri, quel pensiero divenuto ormai tutto tormentoso. Ma, ma, ma, gli amici;
piano un poco con questi amici. In vece d'una distrazione, poteva aspettarsi di
trovar nella loro compagnia, nuovi dispiaceri: perché Attilio certamente
avrebbe già preso la tromba, e messo tutti in aspettativa. Da ogni parte gli
verrebbero domandate notizie della montanara: bisognava render ragione. S'era
voluto, s'era tentato; cosa s'era ottenuto? S'era preso un impegno: un impegno
un po' ignobile, a dire il vero: ma, via, uno non può alle volte regolare i
suoi capricci; il punto è di soddisfarli; e come s'usciva da quest'impegno?
Dandola vinta a un villano e a un frate! Uh! E quando una buona sorte
inaspettata, senza fatica del buon a nulla, aveva tolto di mezzo l'uno, e un
abile amico l'altro, il buon a nulla non aveva saputo valersi della
congiuntura, - e si ritirava vilmente dall'impresa. Ce n'era più del bisogno,
per non alzar mai più il viso tra i galantuomini, o avere ogni momento la spada
alle mani. E poi, come tornare, o come rimanere in quella villa, in quel paese,
dove, lasciando da parte i ricordi incessanti e pungenti della passione, si
porterebbe lo sfregio d'un colpo fallito? dove, nello stesso tempo, sarebbe
cresciuto l'odio pubblico, e scemata la riputazion del potere? dove sul viso
d'ogni mascalzone, anche in mezzo agl'inchini, si potrebbe leggere un amaro:
l'hai ingoiata, ci ho gusto? La strada dell'iniquità, dice qui il manoscritto,
è larga; ma questo non vuol dire che sia comoda: ha i suoi buoni intoppi, i
suoi passi scabrosi; è noiosa la sua parte, e faticosa, benché vada all'ingiù.
A don
Rodrigo, il quale non voleva uscirne, né dare addietro, né fermarsi, e non
poteva andare avanti da sé, veniva bensì in mente un mezzo con cui potrebbe: ed
era di chieder l'aiuto d'un tale, le cui mani arrivavano spesso dove non
arrivava la vista degli altri: un uomo o un diavolo, per cui la difficoltà
dell'imprese era spesso uno stimolo a prenderle sopra di sé. Ma questo partito
aveva anche i suoi inconvenienti e i suoi rischi, tanto più gravi quanto meno
si potevano calcolar prima; giacché nessuno avrebbe saputo prevedere fin dove
anderebbe, una volta che si fosse imbarcato con quell'uomo, potente ausiliario
certamente, ma non meno assoluto e pericoloso condottiere.
Tali
pensieri tennero per più giorni don Rodrigo tra un sì e un no, l'uno e l'altro
più che noiosi. Venne intanto una lettera del cugino, la quale diceva che la
trama era ben avviata. Poco dopo il baleno, scoppiò il tuono; vale a dire che,
una bella mattina, si sentì che il padre Cristoforo era partito dal convento di
Pescarenico. Questo buon successo così pronto, la lettera d'Attilio che faceva
un gran coraggio, e minacciava di gran canzonature, fecero inclinar sempre più
don Rodrigo al partito rischioso: ciò che gli diede l'ultima spinta, fu la
notizia inaspettata che Agnese era tornata a casa sua: un impedimento di meno
vicino a Lucia. Rendiam conto di questi due avvenimenti, cominciando
dall'ultimo.
Le due
povere donne s'erano appena accomodate nel loro ricovero, che si sparse per
Monza, e per conseguenza anche nel monastero, la nuova di quel gran fracasso di
Milano; e dietro alla nuova grande, una serie infinita di particolari, che andavano
crescendo e variandosi ogni momento. La fattoressa, che, dalla sua casa, poteva
tenere un orecchio alla strada, e uno al monastero, raccoglieva notizie di qui,
notizie di lì, e ne faceva parte all'ospiti.
- Due,
sei, otto, quattro, sette ne hanno messi in prigione; gl'impiccheranno, parte
davanti al forno delle grucce, parte in cima alla strada dove c'è la casa del
vicario di provvisione... Ehi, ehi, sentite questa! n'è scappato uno, che è di
Lecco, o di quelle parti. Il nome non lo so; ma verrà qualcheduno che me lo
saprà dire; per veder se lo conoscete.
Quest'annunzio,
con la circostanza d'esser Renzo appunto arrivato in Milano nel giorno fatale,
diede qualche inquietudine alle donne, e principalmente a Lucia; ma pensate
cosa fu quando la fattoressa venne a dir loro: - e proprio del vostro paese
quello che se l'è battuta, per non essere impiccato; un filatore di seta, che
si chiama Tramaglino: lo conoscete?
A
Lucia, ch'era a sedere, orlando non so che cosa, cadde il lavoro di mano;
impallidì, si cambiò tutta, di maniera che la fattoressa se ne sarebbe avvista
certamente, se le fosse stata più vicina. Ma era ritta sulla soglia con Agnese;
la quale, conturbata anche lei, però non tanto, poté star forte; e, per
risponder qualcosa, disse che, in un piccolo paese, tutti si conoscono, e che
lo conosceva; ma che non sapeva pensare come mai gli fosse potuta seguire una
cosa simile; perché era un giovine posato. Domandò poi se era scappato di
certo, e dove.
-
Scappato, lo dicon tutti; dove, non si sa; può essere che l'accalappino ancora,
può essere che sia in salvo; ma se gli torna sotto l'unghie, il vostro giovine
posato...
Qui,
per buona sorte, la fattoressa fu chiamata, e se n'andò: figuratevi come
rimanessero la madre e la figlia. Più d'un giorno, dovettero la povera donna e
la desolata fanciulla stare in una tale incertezza, a mulinare sul come, sul
perché, sulle conseguenze di quel fatto doloroso, a commentare, ognuna tra sé,
o sottovoce tra loro, quando potevano, quelle terribili parole.
Un
giovedì finalmente, capitò al monastero un uomo a cercar d'Agnese. Era un
pesciaiolo di Pescarenico, che andava a Milano, secondo l'ordinario, a spacciar
la sua mercanzia; e il buon frate Cristoforo l'aveva pregato che, passando per
Monza, facesse una scappata al monastero, salutasse le donne da parte sua,
raccontasse loro quel che si sapeva del tristo caso di Renzo, raccomandasse
loro d'aver pazienza, e confidare in Dio; e che lui povero frate non si
dimenticherebbe certamente di loro, e spierebbe l'occasione di poterle aiutare;
e intanto non mancherebbe, ogni settimana, di far loro saper le sue nuove, per
quel mezzo, o altrimenti. Intorno a Renzo, il messo non seppe dir altro di
nuovo e di certo, se non la visita fattagli in casa, e le ricerche per averlo
nelle mani; ma insieme ch'erano andate tutte a voto, e si sapeva di certo che
s'era messo in salvo sul bergamasco. Una tale certezza, e non fa bisogno di
dirlo, fu un gran balsamo per Lucia: d'allora in poi le sue lacrime scorsero
più facili e più dolci; provò maggior conforto negli sfoghi segreti con la
madre; e in tutte le sue preghiere, c'era mescolato un ringraziamento.
Gertrude
la faceva venire spesso in un suo parlatorio privato, e la tratteneva talvolta
lungamente, compiacendosi dell'ingenuità e della dolcezza della poverina, e nel
sentirsi ringraziare e benedire ogni momento. Le raccontava anche, in
confidenza, una parte (la parte netta) della sua storia, di ciò che aveva
patito, per andar lì a patire; e quella prima maraviglia sospettosa di Lucia
s'andava cambiando in compassione. Trovava in quella storia ragioni più che
sufficienti a spiegar ciò che c'era d'un po' strano nelle maniere della sua
benefattrice; tanto più con l'aiuto di quella dottrina d'Agnese su' cervelli
de' signori. Per quanto però si sentisse portata a contraccambiare la
confidenza che Gertrude le dimostrava, non le passò neppur per la testa di
parlarle delle sue nuove inquietudini, della sua nuova disgrazia, di dirle chi
fosse quel filatore scappato; per non rischiare di spargere una voce così piena
di dolore e di scandolo. Si schermiva anche, quanto poteva, dal rispondere alle
domande curiose di quella, sulla storia antecedente alla promessa; ma qui non
eran ragioni di prudenza. Era perché alla povera innocente quella storia pareva
più spinosa, più difficile da raccontarsi, di tutte quelle che aveva sentite, e
che credesse di poter sentire dalla signora. In queste c'era tirannia, insidie,
patimenti; cose brutte e dolorose, ma che pur si potevan nominare: nella sua
c'era mescolato per tutto un sentimento, una parola, che non le pareva
possibile di proferire, parlando di sé; e alla quale non avrebbe mai trovato da
sostituire una perifrasi che non le paresse sfacciata: l'amore!
Qualche
volta, Gertrude quasi s'indispettiva di quello star così sulle difese; ma vi
traspariva tanta amorevolezza, tanto rispetto, tanta riconoscenza, e anche
tanta fiducia! Qualche volta forse, quel pudore così delicato, così ombroso, le
dispiaceva ancor più per un altro verso; ma tutto si perdeva nella soavità d'un
pensiero che le tornava ogni momento, guardando Lucia: "a questa fo del
bene". Ed era vero; perché, oltre il ricovero, que' discorsi, quelle
carezze famigliari erano di non poco conforto a Lucia. Un altro ne trovava nel
lavorar di continuo; e pregava sempre che le dessero qualcosa da fare: anche
nel parlatorio, portava sempre qualche lavoro da tener le mani in esercizio:
ma, come i pensieri dolorosi si caccian per tutto! cucendo, cucendo, ch'era un
mestiere quasi nuovo per lei, le veniva ogni poco in mente il suo aspo; e
dietro all'aspo, quante cose!
Il
secondo giovedì, tornò quel pesciaiolo o un altro messo, co' saluti del padre
Cristoforo, e con la conferma della fuga felice di Renzo. Notizie più positive
intorno a' suoi guai, nessuna; perché, come abbiam detto al lettore, il
cappuccino aveva sperato d'averle dal suo confratello di Milano, a cui l'aveva
raccomandato; e questo rispose di non aver veduto né la persona, né la lettera;
che uno di campagna era bensì venuto al convento, a cercar di lui; ma che, non
avendocelo trovato, era andato via, e non era più comparso.
Il
terzo giovedì, non si vide nessuno; e, per le povere donne, fu non solo una
privazione d'un conforto desiderato e sperato, ma, come accade per ogni piccola
cosa a chi è afflitto e impicciato, una cagione d'inquietudine, di cento
sospetti molesti. Già prima d'allora, Agnese aveva pensato a fare una scappata
a casa; questa novità di non vedere l'ambasciatore promesso, la fece risolvere.
Per Lucia era una faccenda seria il rimanere distaccata dalla gonnella della
madre; ma la smania di saper qualche cosa, e la sicurezza che trovava in
quell'asilo così guardato e sacro, vinsero le sue ripugnanze. E fu deciso tra
loro che Agnese anderebbe il giorno seguente ad aspettar sulla strada il
pesciaiolo che doveva passar di lì, tornando da Milano; e gli chiederebbe in
cortesia un posto sul baroccio, per farsi condurre a' suoi monti. Lo trovò in
fatti, gli domandò se il padre Cristoforo non gli aveva data qualche
commissione per lei: il pesciaiolo, tutto il giorno avanti la sua partenza era
stato a pescare, e non aveva saputo niente del padre. La donna non ebbe bisogno
di pregare, per ottenere il piacere che desiderava: prese congedo dalla signora
e dalla figlia, non senza lacrime, promettendo di mandar subito le sue nuove, e
di tornar presto; e partì.
Nel
viaggio, non accadde nulla di particolare. Riposarono parte della notte in
un'osteria, secondo il solito; ripartirono innanzi giorno; e arrivaron di
buon'ora a Pescarenico. Agnese smontò sulla piazzetta del convento, lasciò
andare il suo conduttore con molti: Dio ve ne renda merito; e giacché era lì,
volle, prima d'andare a casa, vedere il suo buon frate benefattore. Sonò il
campanello; chi venne a aprire, fu fra Galdino, quel delle noci.
- Oh!
la mia donna, che vento v'ha portata?
- Vengo
a cercare il padre Cristoforo.
- Il
padre Cristoforo? Non c'è.
- Oh!
starà molto a tornare?
-
Ma...? - disse il frate, alzando le spalle, e ritirando nel cappuccio la testa
rasa.
- Dov'è
andato?
- A
Rimini.
- A?
- A
Rimini.
- Dov'è
questo paese?
- Eh eh
eh! - rispose il frate, trinciando verticalmente l'aria con la mano distesa,
per significare una gran distanza.
- Oh
povera me! Ma perché è andato via così all'improvviso?
-
Perché ha voluto così il padre provinciale.
- E
perché mandarlo via? che faceva tanto bene qui? Oh Signore!
- Se i
superiori dovessero render conto degli ordini che dànno, dove sarebbe
l'ubbidienza, la mia donna?
- Sì;
ma questa e la mia rovina.
-
Sapete cosa sarà? Sarà che a Rimini avranno avuto bisogno d'un buon predicatore
(ce n'abbiamo per tutto; ma alle volte ci vuol quell'uomo fatto apposta); il
padre provinciale di là avrà scritto al padre provinciale di qui, se aveva un
soggetto così e così; e il padre provinciale avrà detto: qui ci vuole il padre
Cristoforo. Dev'esser proprio così, vedete.
- Oh
poveri noi! Ouand'è partito?
-
Ierlaltro.
- Ecco!
s'io davo retta alla mia ispirazione di venir via qualche giorno prima! E non
si sa quando possa tornare? così a un di presso?
- Eh la
mia donna! lo sa il padre provinciale; se lo sa anche lui. Quando un nostro
padre predicatore ha preso il volo, non si può prevedere su che ramo potrà
andarsi a posare. Li cercan di qua, li cercan di là: e abbiamo conventi in
tutte le quattro parti del mondo. Supponete che, a Rimini, il padre Cristoforo
faccia un gran fracasso col suo quaresimale: perché non predica sempre a
braccio, come faceva qui, per i pescatori e i contadini: per i pulpiti delle
città, ha le sue belle prediche scritte; e fior di roba. Si sparge la voce, da
quelle parti, di questo gran predicatore; e lo possono cercare da... da che so
io? E allora, bisogna mandarlo; perché noi viviamo della carità di tutto il
mondo, ed è giusto che serviamo tutto il mondo.
Oh
Signore! Signore! - esclamò di nuovo Agnese, quasi piangendo: - come devo fare,
senza quell'uomo? Era quello che ci faceva da padre! Per noi è una rovina.
-
Sentite, buona donna; il padre Cristoforo era veramente un uomo; ma ce
n'abbiamo degli altri, sapete? pieni di carità e di talento, e che sanno
trattare ugualmente co' signori e co' poveri. Volete il padre Atanasio? volete
il padre Girolamo? volete il padre Zaccaria? È un uomo di vaglia, vedete, il
padre Zaccaria. E non istate a badare, come fanno certi ignoranti, che sia così
mingherlino, con una vocina fessa, e una barbetta misera misera: non dico per
predicare, perché ognuno ha i suoi doni; ma per dar pareri, è un uomo, sapete?
- Oh
per carità! - esclamò Agnese, con quel misto di gratitudine e d'impazienza, che
si prova a un'esibizione in cui si trovi più la buona volontà altrui, che la
propria convenienza: - cosa m'importa a me che uomo sia o non sia un altro,
quando quel pover'uomo che non c'è più, era quello che sapeva le nostre cose, e
aveva preparato tutto per aiutarci?
-
Allora, bisogna aver pazienza.
- Questo
lo so, - rispose Agnese: - scusate dell'incomodo.
- Di
che cosa, la mia donna? mi dispiace per voi. E se vi risolvete di cercar
qualcheduno de' nostri padri, il convento è qui che non si move. Ehi, mi
lascerò poi veder presto, per la cerca dell'olio.
- State
bene, - disse Agnese; e s'incamminò verso il suo paesetto, desolata, confusa,
sconcertata, come il povero cieco che avesse perduto il suo bastone.
Un po'
meglio informati che fra Galdino, noi possiamo dire come andò veramente la
cosa. Attilio, appena arrivato a Milano, andò, come aveva promesso a don
Rodrigo, a far visita al loro comune zio del Consiglio segreto. (Era una
consulta, composta allora di tredici personaggi di toga e di spada, da cui il
governatore prendeva parere, e che, morendo uno di questi, o venendo mutato,
assumeva temporaneamente il governo). Il conte zio, togato, e uno degli anziani
del consiglio, vi godeva un certo credito; ma nel farlo valere, e nel farlo
rendere con gli altri, non c'era il suo compagno. Un parlare ambiguo, un tacere
significativo, un restare a mezzo, uno stringer d'occhi che esprimeva: non
posso parlare; un lusingare senza promettere, un minacciare in cerimonia; tutto
era diretto a quel fine; e tutto, o più o meno, tornava in pro. A segno che
fino a un: io non posso niente in questo affare: detto talvolta per la pura
verità, ma detto in modo che non gli era creduto, serviva ad accrescere il
concetto, e quindi la realtà del suo potere: come quelle scatole che si vedono
ancora in qualche bottega di speziale, con su certe parole arabe, e dentro non
c'è nulla; ma servono a mantenere il credito alla bottega. Quello del conte
zio, che, da gran tempo, era sempre andato crescendo a lentissimi gradi,
ultimamente aveva fatto in una volta un passo, come si dice, di gigante, per
un'occasione straordinaria, un viaggio a Madrid, con una missione alla corte;
dove, che accoglienza gli fosse fatta, bisognava sentirlo raccontar da lui. Per
non dir altro, il conte duca l'aveva trattato con una degnazione particolare, e
ammesso alla sua confidenza, a segno d'avergli una volta domandato, in
presenza, si può dire, di mezza la corte come gli piacesse Madrid, e d'avergli
un'altra volta detto a quattr'occhi, nel vano d'una finestra, che il duomo di
Milano era il tempio più grande che fosse negli stati del re.
Fatti i
suoi complimenti al conte zio, e presentatigli quelli del cugino, Attilio, con
un suo contegno serio, che sapeva prendere a tempo, disse: - credo di fare il
mio dovere, senza mancare alla confidenza di Rodrigo, avvertendo il signore zio
d'un affare che, se lei non ci mette una mano, può diventar serio, e portar
delle conseguenze...
-
Qualcheduna delle sue, m'immagino.
- Per
giustizia, devo dire che il torto non è dalla parte di mio cugino. Ma è
riscaldato; e, come dico, non c'è che il signore zio, che possa...
-
Vediamo, vediamo.
- C'è
da quelle parti un frate cappuccino che l'ha con Rodrigo e la cosa è arrivata a
un punto che...
-
Quante volte v'ho detto, all'uno e all'altro, che i frati bisogna lasciarli
cuocere nel loro brodo? Basta il da fare che dànno a chi deve... a chi tocca...
- E qui soffiò. - Ma voi altri che potete scansarli...
-
Signore zio, in questo, è mio dovere di dirle che Rodrigo l'avrebbe scansato,
se avesse potuto. E il frate che l'ha con lui, che l'ha preso a provocarlo in
tutte la maniere...
- Che
diavolo ha codesto frate con mio nipote?
- Prima
di tutto, è una testa inquieta, conosciuto per tale, e che fa professione di
prendersela coi cavalieri. Costui protegge, dirige, che so io? una contadinotta
di là; e ha per questa creatura una carità, una carità... non dico pelosa, ma
una carità molto gelosa, sospettosa, permalosa.
-
Intendo, - disse il conte zio; e sur un certo fondo di goffaggine, dipintogli
in viso dalla natura, velato poi e ricoperto, a più mani, di politica, balenò
un raggio di malizia, che vi faceva un bellissimo vedere.
- Ora,
da qualche tempo, - continuò Attilio, - s'è cacciato in testa questo frate, che
Rodrigo avesse non so che disegni sopra questa...
- S'è
cacciato in testa, s'è cacciato in testa: lo conosco anch'io il signor don
Rodrigo; e ci vuol altro avvocato che vossignoria, per giustificarlo in queste
materie.
-
Signore zio, che Rodrigo possa aver fatto qualche scherzo a quella creatura,
incontrandola per la strada, non sarei lontano dal crederlo: è giovine, e
finalmente non è cappuccino; ma queste son bazzecole da non trattenerne il
signore zio; il serio è che il frate s'è messo a parlar di Rodrigo come si
farebbe d'un mascalzone, cerca d'aizzargli contro tutto il paese...
- E gli
altri frati?
- Non
se ne impicciano, perché lo conoscono per una testa calda, e hanno tutto il
rispetto per Rodrigo; ma, dall'altra parte, questo frate ha un gran credito
presso i villani, perché fa poi anche il santo, e...
-
M'immagino che non sappia che Rodrigo è mio nipote.
- Se lo
sa! Anzi questo è quel che gli mette più il diavolo addosso.
- Come?
Come?
-
Perché, e lo va dicendo lui, ci trova più gusto a farla vedere a Rodrigo,
appunto perché questo ha un protettor naturale, di tanta autorita come
vossignoria: e che lui se la ride de' grandi e de' politici, e che il cordone
di san Francesco tien legate anche le spade, e che...
- Oh
frate temerario! Come si chiama costui?
- Fra
Cristoforo da *** - disse Attilio; e il conte zio, preso da una cassetta del
suo tavolino, un libriccino di memorie, vi scrisse, soffiando, soffiando, quel
povero nome. Intanto Attilio seguitava: - è sempre stato di quell'umore,
costui: si sa la sua vita. Era un plebeo che, trovandosi aver quattro soldi,
voleva competere coi cavalieri del suo paese; e, per rabbia di non poterla
vincer con tutti, ne ammazzò uno; onde, per iscansar la forca, si fece frate.
- Ma
bravo! ma bene! La vedremo, la vedremo, - diceva il conte zio, seguitando a
soffiare.
- Ora
poi, - continuava Attilio, - è più arrabbiato che mai, perché gli è andato a
monte un disegno che gli premeva molto molto: e da questo il signore zio capirà
che uomo sia. Voleva costui maritare quella sua creatura: fosse per levarla dai
pericoli del mondo, lei m'intende, o per che altro si fosse, la voleva maritare
assolutamente; e aveva trovato il... l'uomo: un'altra sua creatura, un
soggetto, che, forse e senza forse, anche il signore zio lo conoscerà di nome;
perché tengo per certo che il Consiglio segreto avrà dovuto occuparsi di quel
degno soggetto.
- Chi è
costui?
- Un
filatore di seta, Lorenzo Tramaglino, quello che...
-
Lorenzo Tramaglino! - esclamò il conte zio. - Ma bene! ma bravo, padre!
Sicuro... infatti..., aveva una lettera per un... Peccato che... Ma non
importa; va bene. E perché il signor don Rodrigo non mi dice nulla di tutto
questo? perché lascia andar le cose tant'avanti, e non si rivolge a chi lo può
e vuole dirigere e sostenere?
- Dirò
il vero anche in questo, - proseguiva Attilio. - Da una parte, sapendo quante
brighe, quante cose ha per la testa il signore zio... - (questo, soffiando, vi
mise la mano, come per significare la gran fatica ch'era a farcele star tutte)
- s'è fatto scrupolo di darle una briga di più. E poi, dirò tutto: da quello
che ho potuto capire, è così irritato, così fuor de' gangheri, così stucco
delle villanie di quel frate, che ha più voglia di farsi giustizia da sé, in
qualche maniera sommaria, che d'ottenerla in una maniera regolare, dalla
prudenza e dal braccio del signore zio. Io ho cercato di smorzare; ma vedendo
che la cosa andava per le brutte, ho creduto che fosse mio dovere d'avvertir di
tutto il signore zio, che alla fine è il capo e la colonna della casa...
-
Avresti fatto meglio a parlare un poco prima.
- È
vero; ma io andavo sperando che la cosa svanirebbe da sé, o che il frate
tornerebbe finalmente in cervello, o che se n'anderebbe da quel convento, come
accade di questi frati, che ora sono qua, ora sono là; e allora tutto sarebbe
finito. Ma...
- Ora
toccherà a me a raccomodarla.
- Così
ho pensato anch'io. Ho detto tra me: il signore zio, con la sua avvedutezza,
con la sua autorità, saprà lui prevenire uno scandolo, e insieme salvar l'onore
di Rodrigo, che è poi anche il suo. Questo frate, dicevo io, l'ha sempre col
cordone di san Francesco; ma per adoprarlo a proposito, il cordone di san
Francesco, non è necessario d'averlo intorno alla pancia. Il signore zio ha
cento mezzi ch'io non conosco: so che il padre provinciale ha, com'è giusto,
una gran deferenza per lui; e se il signore zio crede che in questo caso il
miglior ripiego sia di far cambiar aria al frate, lui con due parole...
- Lasci
il pensiero a chi tocca, vossignoria, - disse un po' ruvidamente il conte zio.
- Ah è
vero! - esclamò Attilio, con una tentennatina di testa, e con un sogghigno di
compassione per sé stesso. - Son io l'uomo da dar pareri al signore zio! Ma è
la passione che ho della riputazione del casato che mi fa parlare. E ho anche
paura d'aver fatto un altro male, - soggiunse con un'aria pensierosa: - ho
paura d'aver fatto torto a Rodrigo nel concetto del signore zio. Non mi darei
pace, se fossi cagione di farle pensare che Rodrigo non abbia tutta quella fede
in lei, tutta quella sommissione che deve avere. Creda, signore zio, che in
questo caso è proprio...
- Via,
via; che torto, che torto tra voi altri due? che sarete sempre amici, finché
l'uno non metta giudizio. Scapestrati, scapestrati, che sempre ne fate una; e a
me tocca di rattopparle: che... mi fareste dire uno sproposito, mi date più da
pensare voi altri due, che, - e qui immaginatevi che soffio mise, - tutti
questi benedetti affari di stato.
Attilio
fece ancora qualche scusa, qualche promessa, qualche complimento; poi si
licenziò, e se n'andò, accompagnato da un - e abbiamo giudizio, - ch'era la
formola di commiato del conte zio per i suoi nipoti.
Chi,
vedendo in un campo mal coltivato, un'erbaccia, per esempio un bel lapazio,
volesse proprio sapere se sia venuto da un seme maturato nel campo stesso, o
portatovi dal vento, o lasciatovi cader da un uccello, per quanto ci pensasse,
non ne verrebbe mai a una conclusione. Così anche noi non sapremmo dire se dal
fondo naturale del suo cervello, o dall'insinuazione d'Attilio, venisse al
conte zio la risoluzione di servirsi del padre provinciale per troncare nella
miglior maniera quel nodo imbrogliato. Certo è che Attilio non aveva detta a
caso quella parola; e quantunque dovesse aspettarsi che, a un suggerimento così
scoperto, la boria ombrosa del conte zio avrebbe ricalcitrato, a ogni modo
volle fargli balenar dinanzi l'idea di quel ripiego, e metterlo sulla strada,
dove desiderava che andasse. Dall'altra parte, il ripiego era talmente adattato
all'umore del conte zio, talmente indicato dalle circostanze, che, senza
suggerimento di chi si sia, si può scommettere che l'avrebbe trovato da sé. Si
trattava che, in una guerra pur troppo aperta, uno del suo nome, un suo nipote,
non rimanesse al di sotto: punto essenzialissimo alla riputazione del potere
che gli stava tanto a cuore. La soddisfazione che il nipote poteva prendersi da
sé, sarebbe stata un rimedio peggior del male, una sementa di guai; e bisognava
impedirla, in qualunque maniera, e senza perder tempo. Comandargli che partisse
in quel momento dalla sua villa; già non avrebbe ubbidito; e quand'anche
avesse, era un cedere il campo, una ritirata della casa dinanzi a un convento.
Ordini, forza legale, spauracchi di tal genere, non valevano contro un
avversario di quella condizione: il clero regolare e secolare era affatto
immune da ogni giurisdizione laicale; non solo le persone, ma i luoghi ancora
abitati da esso: come deve sapere anche chi non avesse letta altra storia che
la presente; che starebbe fresco. Tutto quel che si poteva contro un tale
avversario era cercar d'allontanarlo, e il mezzo a ciò era il padre provinciale,
in arbitrio del quale era l'andare e lo stare di quello.
Ora,
tra il padre provinciale e il conte zio passava un'antica conoscenza: s'eran
veduti di rado, ma sempre con gran dimostrazioni d'amicizia, e con esibizioni
sperticate di servizi. E alle volte, è meglio aver che fare con uno che sia
sopra a molti individui, che con un solo di questi, il quale non vede che la
sua causa, non sente che la sua passione, non cura che il suo punto; mentre
l'altro vede in un tratto cento relazioni, cento conseguenze, cento interessi,
cento cose da scansare, cento cose da salvare; e si può quindi prendere da
cento parti.
Tutto
ben ponderato, il conte zio invitò un giorno a pranzo il padre provinciale, e
gli fece trovare una corona di commensali assortiti con un intendimento
sopraffino. Oualche parente de' più titolati, di quelli il cui solo casato era
un gran titolo; e che, col solo contegno, con una certa sicurezza nativa, con
una sprezzatura signorile, parlando di cose grandi con termini famigliari,
riuscivano, anche senza farlo apposta, a imprimere e rinfrescare, ogni momento,
l'idea della superiorità e della potenza; e alcuni clienti legati alla casa per
una dipendenza ereditaria, e al personaggio per una servitù di tutta la vita; i
quali, cominciando dalla minestra a dir di sì, con la bocca, con gli occhi, con
gli orecchi, con tutta la testa, con tutto il corpo, con tutta l'anima, alle
frutte v'avevan ridotto un uomo a non ricordarsi più come si facesse a dir di
no.
A
tavola, il conte padrone fece cader ben presto il discorso sul tema di Madrid.
A Roma si va per più strade; a Madrid egli andava per tutte. Parlò della corte,
del conte duca, de' ministri, della famiglia del governatore; delle cacce del
toro, che lui poteva descriver benissimo, perché le aveva godute da un posto
distinto; dell'Escuriale di cui poteva render conto a un puntino, perché un
creato del conte duca l'aveva condotto per tutti i buchi. Per qualche tempo,
tutta la compagnia stette, come un uditorio, attenta a lui solo, poi si divise
in colloqui particolari; e lui allora continuò a raccontare altre di quelle
belle cose, come in confidenza, al padre provinciale che gli era accanto, e che
lo lasciò dire, dire e dire. Ma a un certo punto, diede una giratina al
discorso, lo staccò da Madrid, e di corte in corte, di dignità in dignità, lo
tirò sul cardinal Barberini, ch'era cappuccino, e fratello del papa allora
sedente, Urbano VIII: niente meno. Il conte zio dovette anche lui lasciar
parlare un poco, e stare a sentire, e ricordarsi che finalmente, in questo
mondo, non c'era soltanto i personaggi che facevan per lui. Poco dopo alzati da
tavola, pregò il padre provinciale di passar con lui in un'altra stanza.
Due
potestà, due canizie, due esperienze consumate si trovavano a fronte. Il
magnifico signore fece sedere il padre molto reverendo, sedette anche lui, e
cominciò: - stante l'amicizia che passa tra di noi, ho creduto di far parola a
vostra paternità d'un affare di comune interesse, da concluder tra di noi,
senz'andar per altre strade, che potrebbero... E perciò, alla buona, col cuore
in mano, le dirò di che si tratta; e in due parole son certo che anderemo
d'accordo. Mi dica: nel loro convento di Pescarenico c'è un padre Cristoforo da
***?
Il
provinciale fece cenno di sì.
- Mi
dica un poco vostra paternità, schiettamente, da buon amico... questo
soggetto... questo padre... Di persona io non lo conosco; e sì che de' padri
cappuccini ne conosco parecchi: uomini d'oro, zelanti, prudenti, umili: sono
stato amico dell'ordine fin da ragazzo... Ma in tutte le famiglie un po'
numerose... c'è sempre qualche individuo, qualche testa... E questo padre
Cristoforo, so da certi ragguagli che è un uomo... un po' amico de'
contrasti... che non ha tutta quella prudenza, tutti que' riguardi...
Scommetterei che ha dovuto dar più d'una volta da pensare a vostra paternità.
"Ho
inteso: è un impegno, - pensava intanto il provinciale: - colpa mia; lo sapevo
che quel benedetto Cristoforo era un soggetto da farlo girare di pulpito in
pulpito, e non lasciarlo fermare mesi in un luogo, specialmente in conventi di
campagna".
- Oh! -
disse poi: - mi dispiace davvero di sentire che vostra magnificenza abbia in un
tal concetto il padre Cristoforo; mentre, per quanto ne so io, è un
religioso... esemplare in convento, e tenuto in molta stima anche di fuori.
-
Intendo benissimo; vostra paternità deve... Però, però, da amico sincero,
voglio avvertirla d'una cosa che le sarà utile di sapere; e se anche ne fosse
già informata, posso, senza mancare ai miei doveri, metterle sott'occhio certe
conseguenze... possibili: non dico di più. Questo padre Cristoforo, sappiamo
che proteggeva un uomo di quelle parti, un uomo... vostra paternità n'avrà
sentito parlare; quello che, con tanto scandolo, scappò dalle mani della
giustizia, dopo aver fatto, in quella terribile giornata di san Martino,
cose... cose... Lorenzo Tramaglino!
"Ahi!"
pensò il provinciale; e disse: - questa circostanza mi riesce nuova; ma vostra
magnificenza sa bene che una parte del nostro ufizio è appunto d'andare in
cerca de' traviati, per ridurli...
- Va
bene; ma la protezione de' traviati d'una certa specie...! Son cose spinose,
affari delicati... - E qui, in vece di gonfiar le gote e di soffiare, strinse
le labbra, e tirò dentro tant'aria quanta ne soleva mandar fuori, soffiando. E
riprese: - ho creduto bene di darle un cenno su questa circostanza, perche se
mai sua eccellenza... Potrebbe esser fatto qualche passo a Roma... non so
niente... e da Roma venirle...
- Son
ben tenuto a vostra magnificenza di codesto avviso; però son certo che, se si
prenderanno informazioni su questo proposito, si troverà che il padre
Cristoforo non avrà avuto che fare con l'uomo che lei dice, se non a fine di
mettergli il cervello a partito. Il padre Cristoforo, lo conosco.
- Già
lei sa meglio di me che soggetto fosse al secolo, le cosette che ha fatte in
gioventù.
- È la
gloria dell'abito questa, signor conte, che un uomo, il quale al secolo ha
potuto far dir di sé, con questo indosso, diventi un altro. E da che il padre
Cristoforo porta quest'abito...
-
Vorrei crederlo: lo dico di cuore: vorrei crederlo; ma alle volte, come dice il
proverbio... l'abito non fa il monaco.
Il
proverbio non veniva in taglio esattamente; ma il conte l'aveva sostituito in
fretta a un altro che gli era venuto sulla punta della lingua: il lupo cambia
il pelo, ma non il vizio.
- Ho
de' riscontri, - continuava, - ho de' contrassegni...
- Se
lei sa positivamente, - disse il provinciale, - che questo religioso abbia
commesso qualche errore (tutti si può mancare), avrò per un vero favore
l'esserne informato. Son superiore: indegnamente; ma lo sono appunto per
correggere, per rimediare.
- Le
dirò: insieme con questa circostanza dispiacevole della protezione aperta di
questo padre per chi le ho detto, c'è un'altra cosa disgustosa, e che potrebbe...
Ma, tra di noi, accomoderemo tutto in una volta. C'è, dico, che lo stesso padre
Cristoforo ha preso a cozzare con mio nipote, don Rodrigo ***.
- Oh!
questo mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace davvero.
- Mio
nipote è giovine, vivo, si sente quello che è, non è avvezzo a esser
provocato...
- Sarà
mio dovere di prender buone informazioni d'un fatto simile. Come ho già detto a
vostra magnificenza, e parlo con un signore che non ha meno giustizia che
pratica di mondo, tutti siamo di carne, soggetti a sbagliare... tanto da una
parte, quanto dall'altra: e se il padre Cristoforo avrà mancato...
- Veda
vostra paternità; son cose, come io le dicevo, da finirsi tra di noi, da
seppellirsi qui, cose che a rimestarle troppo... si fa peggio. Lei sa cosa
segue: quest'urti, queste picche, principiano talvolta da una bagattella, e
vanno avanti, vanno avanti... A voler trovarne il fondo, o non se ne viene a
capo, o vengon fuori cent'altri imbrogli. Sopire, troncare, padre molto
reverendo: troncare, sopire. Mio nipote è giovine; il religioso, da quel che
sento, ha ancora tutto lo spirito, le... inclinazioni d'un giovine: e tocca a
noi, che abbiamo i nostri anni... pur troppo eh, padre molto reverendo?...
Chi
fosse stato lì a vedere, in quel punto, fu come quando, nel mezzo d'un'opera
seria, s'alza, per isbaglio, uno scenario, prima del tempo, e si vede un
cantante che, non pensando, in quel momento, che ci sia un pubblico al mondo,
discorre alla buona con un suo compagno. Il viso, l'atto, la voce del conte
zio, nel dir quel pur troppo!, tutto fu naturale: lì non c'era politica:
era proprio vero che gli dava noia d'avere i suoi anni. Non già che piangesse i
passatempi, il brio, l'avvenenza della gioventù: frivolezze, sciocchezze,
miserie! La cagion del suo dispiacere era ben più soda e importante: era che
sperava un certo posto più alto, quando fosse vacato; e temeva di non arrivare
a tempo. Ottenuto che l'avesse, si poteva esser certi che non si sarebbe più
curato degli anni, non avrebbe desiderato altro, e sarebbe morto contento, come
tutti quelli che desideran molto una cosa, assicurano di voler fare, quando
siano arrivati a ottenerla.
Ma per
lasciarlo parlar lui, - tocca a noi, - continuò, - a aver giudizio per i
giovani, e a rassettar le loro malefatte. Per buona sorte, siamo ancora a
tempo; la cosa non ha fatto chiasso; è ancora il caso d'un buon principiis
obsta. Allontanare il fuoco dalla paglia. Alle volte un soggetto che, in un
luogo, non fa bene, o che può esser causa di qualche inconveniente, riesce a
maraviglia in un altro. Vostra paternità saprà ben trovare la nicchia
conveniente a questo religioso. C'è giusto anche l'altra circostanza, che possa
esser caduto in sospetto di chi... potrebbe desiderare che fosse rimosso: e,
collocandolo in qualche posto un po' lontanetto, facciamo un viaggio e due
servizi; tutto s'accomoda da sé, o per dir meglio, non c'è nulla di guasto.
Questa
conclusione, il padre provinciale se l'aspettava fino dal principio del
discorso. "Eh già! - pensava tra sé: - vedo dove vuoi andar a parare:
delle solite; quando un povero frate è preso a noia da voi altri, o da uno di
voi altri, o vi dà ombra, subito, senza cercar se abbia torto o ragione, il
superiore deve farlo sgomberare".
E
quando il conte ebbe finito, e messo un lungo soffio, che equivaleva a un punto
fermo, - intendo benissimo, - disse il provinciale, - quel che il signor conte
vuol dire; ma prima di fare un passo...
È un
passo e non è un passo, padre molto reverendo: è una cosa naturale, una cosa
ordinaria; e se non si prende questo ripiego, e subito, prevedo un monte di
disordini, un'iliade di guai. Uno sproposito... mio nipote non crederei... ci
son io, per questo... Ma, al punto a cui la cosa è arrivata, se non la
tronchiamo noi, senza perder tempo, con un colpo netto, non è possibile che si
fermi, che resti segreta... e allora non è più solamente mio nipote... Si
stuzzica un vespaio, padre molto reverendo. Lei vede; siamo una casa, abbiamo
attinenze...
-
Cospicue.
- Lei
m'intende: tutta gente che ha sangue nelle vene, e che, a questo mondo... è
qualche cosa. C'entra il puntiglio; diviene un affare comune; e allora... anche
chi è amico della pace... Sarebbe un vero crepacuore per me, di dovere... di
trovarmi... io che ho sempre avuta tanta propensione per i padri cappuccini...!
Loro padri, per far del bene, come fanno con tanta edificazione del pubblico,
hanno bisogno di pace, di non aver contese, di stare in buona armonia con
chi... E poi, hanno de' parenti al secolo... e questi affaracci di puntiglio,
per poco che vadano in lungo, s'estendono, si ramificano, tiran dentro... mezzo
mondo. Io mi trovo in questa benedetta carica, che m'obbliga a sostenere un
certo decoro... Sua eccellenza... i miei signori colleghi... tutto diviene
affar di corpo... tanto più con quell'altra circostanza... Lei sa come vanno
queste cose.
-
Veramente, - disse il padre provinciale, - il padre Cristoforo è predicatore; e
avevo già qualche pensiero... Mi si richiede appunto... Ma in questo momento,
in tali circostanze, potrebbe parere una punizione; e una punizione prima
d'aver ben messo in chiaro...
- No
punizione, no: un provvedimento prudenziale, un ripiego di comune convenienza,
per impedire i sinistri che potrebbero... mi sono spiegato.
- Tra
il signor conte e me, la cosa rimane in questi termini; intendo. Ma, stando il
fatto come fu riferito a vostra magnificenza, è impossibile, mi pare, che nel
paese non sia traspirato qualcosa. Per tutto c'è degli aizzatori, de'
mettimale, o almeno de' curiosi maligni che, se posson vedere alle prese
signori e religiosi, ci hanno un gusto matto; e fiutano, interpretano,
ciarlano... Ognuno ha il suo decoro da conservare; e io poi, come superiore
(indegno), ho un dovere espresso... L'onor dell'abito... non è cosa mia... è un
deposito del quale... Il suo signor nipote, giacché è così alterato, come dice
vostra magnificenza, potrebbe prender la cosa come una soddisfazione data a
lui, e... non dico vantarsene, trionfarne, ma...
- Le
pare, padre molto reverendo? Mio nipote è un cavaliere che nel mondo è
considerato... secondo il suo grado e il dovere: ma davanti a me è un ragazzo;
e non farà né più né meno di quello che gli prescriverò io. Le dirò di più: mio
nipote non ne saprà nulla. Che bisogno abbiamo noi di render conto? Son cose
che facciamo tra di noi, da buoni amici; e tra di noi hanno da rimanere. Non si
dia pensiero di ciò. Devo essere avvezzo a non parlare -. E soffiò. - In quanto
ai cicaloni, - riprese, - che vuol che dicano? Un religioso che vada a
predicare in un altro paese, è cosa così ordinaria! E poi, noi che vediamo...
noi che prevediamo... noi che ci tocca... non dobbiamo poi curarci delle
ciarle.
- Però,
affine di prevenirle, sarebbe bene che, in quest'occasione, il suo signor
nipote facesse qualche dimostrazione, desse qualche segno palese d'amicizia, di
riguardo... non per noi, ma per l'abito...
-
Sicuro, sicuro; quest'è giusto... Però non c'è bisogno: so che i cappuccini son
sempre accolti come si deve da mio nipote. Lo fa per inclinazione: è un genio
in famiglia: e poi sa di far cosa grata a me. Del resto, in questo caso...
qualcosa di straordinario... è troppo giusto. Lasci fare a me, padre molto
reverendo; che comanderò a mio nipote... Cioè bisognerà insinuargli con
prudenza, affinché non s'avveda di quel che è passato tra di noi. Perché non
vorrei alle volte che mettessimo un impiastro dove non c'è ferita. E per quel
che abbiamo concluso, quanto più presto sarà, meglio. E se si trovasse qualche
nicchia un po' lontana... per levar proprio ogni occasione...
- Mi
vien chiesto per l'appunto un predicatore da Rimini; e fors'anche, senz'altro
motivo, avrei potuto metter gli occhi...
- Molto
a proposito, molto a proposito. E quando...?
-
Giacché la cosa si deve fare, si farà presto.
-
Presto, presto, padre molto reverendo: meglio oggi che domani. E, - continuava
poi, alzandosi da sedere, - se posso qualche cosa, tanto io, come la mia
famiglia, per i nostri buoni padri cappuccini...
-
Conosciamo per prova la bontà della casa, - disse il padre provinciale,
alzatosi anche lui, e avviandosi verso l'uscio, dietro al suo vincitore.
-
Abbiamo spento una favilla, - disse questo, soffermandosi, - una favilla, padre
molto reverendo, che poteva destare un grand'incendio. Tra buoni amici, con due
parole s'accomodano di gran cose.
Arrivato
all'uscio, lo spalancò, e volle assolutamente che il padre provinciale andasse
avanti: entrarono nell'altra stanza, e si riunirono al resto della compagnia.
Un
grande studio, una grand'arte, di gran parole, metteva quel signore nel
maneggio d'un affare; ma produceva poi anche effetti corrispondenti. Infatti,
col colloquio che abbiam riferito, riuscì a far andar fra Cristoforo a piedi da
Pescarenico a Rimini, che è una bella passeggiata.
Una
sera, arriva a Pescarenico un cappuccino di Milano, con un plico per il padre
guardiano. C'è dentro l'obbedienza per fra Cristoforo, di portarsi a Rimini,
dove predicherà la quaresima. La lettera al guardiano porta l'istruzione
d'insinuare al detto frate che deponga ogni pensiero d'affari che potesse avere
avviati nel paese da cui deve partire, e che non vi mantenga corrispondenze: il
frate latore dev'essere il compagno di viaggio. Il guardiano non dice nulla la
sera; la mattina, fa chiamar fra Cristoforo, gli fa vedere l'obbedienza, gli
dice che vada a prender la sporta, il bastone, il sudario e la cintura, e con
quel padre compagno che gli presenta, si metta poi subito in viaggio.
Se fu
un colpo per il nostro frate, lo lascio pensare a voi. Renzo, Lucia, Agnese,
gli vennero subito in mente; e esclamò, per dir così, dentro di sé: "oh
Dio! cosa faranno que' meschini, quando io non sarò più qui!" Ma alzò gli
occhi al cielo, e s'accusò d'aver mancato di fiducia, d'essersi creduto
necessario a qualche cosa. Mise le mani in croce sul petto, in segno
d'ubbidienza, e chinò la testa davanti al padre guardiano; il quale lo tirò poi
in disparte, e gli diede quell'altro avviso, con parole di consiglio, e con
significazione di precetto. Fra Cristoforo andò alla sua cella, prese la
sporta, vi ripose il breviario, il suo quaresimale, e il pane del perdono,
s'allacciò la tonaca con la sua cintura di pelle, si licenziò da' suoi
confratelli che si trovavano in convento, andò da ultimo a prender la
benedizione del guardiano, e col compagno, prese la strada che gli era stata
prescritta.
Abbiamo
detto che don Rodrigo, intestato più che mai di venire a fine della sua bella
impresa, s'era risoluto di cercare il soccorso d'un terribile uomo. Di costui
non possiam dare né il nome, né il cognome, né un titolo, e nemmeno una
congettura sopra nulla di tutto ciò: cosa tanto più strana, che del personaggio
troviamo memoria in più d'un libro (libri stampati, dico) di quel tempo. Che il
personaggio sia quel medesimo, l'identità de' fatti non lascia luogo a
dubitarne; ma per tutto un grande studio a scansarne il nome, quasi avesse
dovuto bruciar la penna, la mano dello scrittore. Francesco Rivola, nella vita
del cardinal Federigo Borromeo, dovendo parlar di quell'uomo, lo chiama
"un signore altrettanto potente per ricchezze, quanto nobile per
nascita", e fermi lì. Giuseppe Ripamonti, che, nel quinto libro della
quinta decade della sua Storia Patria, ne fa più distesa menzione, lo
nomina uno, costui, colui, quest'uomo, quel personaggio. "Riferirò",
dice, nel suo bel latino, da cui traduciamo come ci riesce, "il caso d'un
tale che, essendo de' primi tra i grandi della città, aveva stabilita la sua
dimora in una campagna, situata sul confine; e lì, assicurandosi a forza di
delitti, teneva per niente i giudizi, i giudici, ogni magistratura, la
sovranità; menava una vita affatto indipendente; ricettatore di forusciti,
foruscito un tempo anche lui; poi tornato, come se niente fosse..." Da
questo scrittore prenderemo qualche altro passo, che ci venga in taglio per
confermare e per dilucidare il racconto del nostro anonimo; col quale tiriamo
avanti
Fare
ciò ch'era vietato dalle leggi, o impedito da una forza qualunque; esser
arbitro, padrone negli affari altrui, senz'altro interesse che il gusto di
comandare; esser temuto da tutti, aver la mano da coloro ch'eran soliti averla
dagli altri; tali erano state in ogni tempo le passioni principali di costui.
Fino dall'adolescenza, allo spettacolo e al rumore di tante prepotenze, di
tante gare, alla vista di tanti tiranni, provava un misto sentimento di sdegno
e d'invidia impaziente. Giovine, e vivendo in città, non tralasciava occasione,
anzi n'andava in cerca, d'aver che dire co' più famosi di quella professione,
d'attraversarli, per provarsi con loro, e farli stare a dovere, o tirarli a
cercare la sua amicizia. Superiore di ricchezze e di seguito alla più parte, e
forse a tutti d'ardire e di costanza, ne ridusse molti a ritirarsi da ogni
rivalità, molti ne conciò male, molti n'ebbe amici; non già amici del pari, ma,
come soltanto potevan piacere a lui, amici subordinati, che si riconoscessero
suoi inferiori, che gli stessero alla sinistra. Nel fatto però, veniva anche
lui a essere il faccendiere, lo strumento di tutti coloro: essi non mancavano
di richiedere ne' loro impegni l'opera d'un tanto ausiliario; per lui,
tirarsene indietro sarebbe stato decadere dalla sua riputazione, mancare al suo
assunto. Di maniera che, per conto suo, e per conto d'altri, tante ne fece che,
non bastando né il nome, né il parentado, né gli amici, né la sua audacia a
sostenerlo contro i bandi pubblici, e contro tante animosità potenti, dovette
dar luogo, e uscir dallo stato. Credo che a questa circostanza si riferisca un
tratto notabile raccontato dal Ripamonti. "Una volta che costui ebbe a
sgomberare il paese, la segretezza che usò, il rispetto, la timidezza, furon
tali: attraversò la città a cavallo, con un seguito di cani, a suon di tromba;
e passando davanti al palazzo di corte, lasciò alla guardia un'imbasciata
d'impertinenze per il governatore".
Nell'assenza,
non ruppe le pratiche, né tralasciò le corrispondenze con que' suoi tali amici,
i quali rimasero uniti con lui, per tradurre letteralmente dal Ripamonti,
"in lega occulta di consigli atroci, e di cose funeste". Pare anzi
che allora contraesse con più alte persone, certe nuove terribili pratiche,
delle quali lo storico summentovato parla con una brevità misteriosa.
"Anche alcuni principi esteri, - dice, - si valsero più volte dell'opera
sua, per qualche importante omicidio, e spesso gli ebbero a mandar da lontano
rinforzi di gente che servisse sotto i suoi ordini".
Finalmente
(non si sa dopo quanto tempo), o fosse levato il bando, per qualche potente
intercessione, o l'audacia di quell'uomo gli tenesse luogo d'immunità, si
risolvette di tornare a casa, e vi tornò difatti; non però in Milano, ma in un
castello confinante col territorio bergamasco, che allora era, come ognun sa,
stato veneto. "Quella casa - cito ancora il Ripamonti, - era come
un'officina di mandati sanguinosi: servitori, la cui testa era messa a taglia,
e che avevan per mestiere di troncar teste: né cuoco, né sguattero dispensati
dall'omicidio: le mani de' ragazzi insanguinate". Oltre questa bella
famiglia domestica, n'aveva, come afferma lo stesso storico, un'altra di
soggetti simili, dispersi e posti come a quartiere in vari luoghi de' due stati
sul lembo de' quali viveva, e pronti sempre a' suoi ordini.
Tutti i
tiranni, per un bel tratto di paese all'intorno, avevan dovuto, chi in
un'occasione e chi in un'altra, scegliere tra l'amicizia e l'inimicizia di quel
tiranno straordinario. Ma ai primi che avevano voluto provar di resistergli, la
gli era andata così male, che nessuno si sentiva più di mettersi a quella
prova. E neppur col badare a' fatti suoi, con lo stare a sé, uno non poteva
rimanere indipendente da lui. Capitava un suo messo a intimargli che
abbandonasse la tale impresa, che cessasse di molestare il tal debitore, o cose
simili: bisognava rispondere sì o no. Quando una parte, con un omaggio
vassallesco, era andata a rimettere in lui un affare qualunque, l'altra parte
si trovava a quella dura scelta, o di stare alla sua sentenza, o di dichiararsi
suo nemico; il che equivaleva a esser, come si diceva altre volte, tisico in
terzo grado. Molti, avendo il torto, ricorrevano a lui per aver ragione in
effetto; molti anche, avendo ragione, per preoccupare un così gran patrocinio,
e chiuderne l'adito all'avversario: gli uni e gli altri divenivano più
specialmente suoi dipendenti. Accadde qualche volta che un debole oppresso,
vessato da un prepotente, si rivolse a lui; e lui, prendendo le parti del
debole, forzò il prepotente a finirla, a riparare il mal fatto, a chiedere
scusa; o, se stava duro, gli mosse tal guerra, da costringerlo a sfrattar dai
luoghi che aveva tiranneggiati, o gli fece anche pagare un più pronto e più
terribile fio. E in quei casi, quel nome tanto temuto e abborrito era stato
benedetto un momento: perché, non dirò quella giustizia, ma quel rimedio, quel
compenso qualunque, non si sarebbe potuto, in que' tempi, aspettarlo da
nessun'altra forza né privata, né pubblica. Più spesso, anzi per l'ordinario, la
sua era stata ed era ministra di voleri iniqui, di soddisfazioni atroci, di
capricci superbi. Ma gli usi così diversi di quella forza producevan sempre
l'effetto medesimo, d'imprimere negli animi una grand'idea di quanto egli
potesse volere e eseguire in onta dell'equità e dell'iniquità, quelle due cose
che metton tanti ostacoli alla volontà degli uomini, e li fanno così spesso
tornare indietro. La fama de' tiranni ordinari rimaneva per lo più ristretta in
quel piccolo tratto di paese dov'erano i più ricchi e i più forti: ogni
distretto aveva i suoi; e si rassomigliavan tanto, che non c'era ragione che la
gente s'occupasse di quelli che non aveva a ridosso. Ma la fama di questo
nostro era già da gran tempo diffusa in ogni parte del milanese: per tutto, la sua
vita era un soggetto di racconti popolari; e il suo nome significava qualcosa
d'irresistibile, di strano, di favoloso. Il sospetto che per tutto s'aveva de'
suoi collegati e de' suoi sicari, contribuiva anch'esso a tener viva per tutto
la memoria di lui. Non eran più che sospetti; giacché chi avrebbe confessata
apertamente una tale dipendenza? ma ogni tiranno poteva essere un suo
collegato, ogni malandrino, uno de' suoi; e l'incertezza stessa rendeva più
vasta l'opinione, e più cupo il terrore della cosa. E ogni volta che in qualche
parte si vedessero comparire figure di bravi sconosciute e più brutte
dell'ordinario, a ogni fatto enorme di cui non si sapesse alla prima indicare o
indovinar l'autore, si proferiva, si mormorava il nome di colui che noi, grazie
a quella benedetta, per non dir altro, circospezione de' nostri autori, saremo
costretti a chiamare l'innominato.
Dal
castellaccio di costui al palazzotto di don Rodrigo, non c'era più di sette
miglia: e quest'ultimo, appena divenuto padrone e tiranno, aveva dovuto vedere
che, a così poca distanza da un tal personaggio, non era possibile far quel
mestiere senza venire alle prese, o andar d'accordo con lui. Gli s'era perciò
offerto e gli era divenuto amico, al modo di tutti gli altri, s'intende; gli aveva
reso più d'un servizio (il manoscritto non dice di più); e n'aveva riportate
ogni volta promesse di contraccambio e d'aiuto, in qualunque occasione. Metteva
però molta cura a nascondere una tale amicizia, o almeno a non lasciare
scorgere quanto stretta, e di che natura fosse. Don Rodrigo voleva bensì fare
il tiranno, ma non il tiranno salvatico: la professione era per lui un mezzo,
non uno scopo: voleva dimorar liberamente in città, godere i comodi, gli
spassi, gli onori della vita civile; e perciò bisognava che usasse certi
riguardi, tenesse di conto parenti, coltivasse l'amicizia di persone alte,
avesse una mano sulle bilance della giustizia, per farle a un bisogno
traboccare dalla sua parte, o per farle sparire, o per darle anche, in qualche
occasione, sulla testa di qualcheduno che in quel modo si potesse servir più
facilmente che con l'armi della violenza privata. Ora, l'intrinsichezza, diciam
meglio, una lega con un uomo di quella sorte, con un aperto nemico della forza
pubblica, non gli avrebbe certamente fatto buon gioco a ciò, specialmente
presso il conte zio. Però quel tanto d'una tale amicizia che non era possibile
di nascondere, poteva passare per una relazione indispensabile con un uomo la
cui inimicizia era troppo pericolosa; e così ricevere scusa dalla necessità:
giacché chi ha l'assunto di provvedere, e non n'ha la volontà, o non ne trova
il verso, alla lunga acconsente che altri provveda da sé, fino a un certo
segno, a' casi suoi; e se non acconsente espressamente, chiude un occhio.
Una
mattina, don Rodrigo uscì a cavallo, in treno da caccia, con una piccola scorta
di bravi a piedi; il Griso alla staffa, e quattro altri in coda; e s'avviò al
castello dell'innominato.
Il
castello dell'innominato era a cavaliere a una valle angusta e uggiosa, sulla
cima d'un poggio che sporge in fuori da un'aspra giogaia di monti, ed è, non si
saprebbe dir bene, se congiunto ad essa o separatone, da un mucchio di massi e
di dirupi, e da un andirivieni di tane e di precipizi, che si prolungano anche
dalle due parti. Quella che guarda la valle è la sola praticabile; un pendìo
piuttosto erto, ma uguale e continuato; a prati in alto; nelle falde a campi,
sparsi qua e là di casucce. Il fondo è un letto di ciottoloni, dove scorre un
rigagnolo o torrentaccio, secondo la stagione: allora serviva di confine ai due
stati. I gioghi opposti, che formano, per dir così, l'altra parete della valle,
hanno anch'essi un po' di falda coltivata; il resto è schegge e macigni, erte
ripide, senza strada e nude, meno qualche cespuglio ne' fessi e sui ciglioni.
Dall'alto
del castellaccio, come l'aquila dal suo nido insanguinato, il selvaggio signore
dominava all'intorno tutto lo spazio dove piede d'uomo potesse posarsi, e non
vedeva mai nessuno al di sopra di sé, né più in alto. Dando un'occhiata in
giro, scorreva tutto quel recinto, i pendìi, il fondo, le strade praticate là
dentro. Quella che, a gomiti e a giravolte, saliva al terribile domicilio, si
spiegava davanti a chi guardasse di lassù, come un nastro serpeggiante: dalle
finestre, dalle feritoie, poteva il signore contare a suo bell'agio i passi di
chi veniva, e spianargli l'arme contro, cento volte. E anche d'una grossa
compagnia, avrebbe potuto, con quella guarnigione di bravi che teneva lassù,
stenderne sul sentiero, o farne ruzzolare al fondo parecchi, prima che uno
arrivasse a toccar la cima. Del resto, non che lassù, ma neppure nella valle, e
neppur di passaggio, non ardiva metter piede nessuno che non fosse ben visto
dal padrone del castello. Il birro poi che vi si fosse lasciato vedere, sarebbe
stato trattato come una spia nemica che venga colta in un accampamento. Si
raccontavano le storie tragiche degli ultimi che avevano voluto tentar
l'impresa; ma eran già storie antiche; e nessuno de' giovani si rammentava d'aver
veduto nella valle uno di quella razza, né vivo, né morto.
Tale è
la descrizione che l'anonimo fa del luogo: del nome, nulla; anzi, per non
metterci sulla strada di scoprirlo, non dice niente del viaggio di don Rodrigo,
e lo porta addirittura nel mezzo della valle, appiè del poggio, all'imboccatura
dell'erto e tortuoso sentiero. Lì c'era una taverna, che si sarebbe anche
potuta chiamare un corpo di guardia. Sur una vecchia insegna che pendeva sopra
l'uscio, era dipinto da tutt'e due le parti un sole raggiante; ma la voce
pubblica, che talvolta ripete i nomi come le vengono insegnati, talvolta li
rifà a modo suo, non chiamava quella taverna che col nome della Malanotte.
Al
rumore d'una cavalcatura che s'avvicinava, comparve sulla soglia un
ragazzaccio, armato come un saracino; e data un'occhiata, entrò ad informare
tre sgherri, che stavan giocando, con certe carte sudice e piegate in forma di
tegoli. Colui che pareva il capo s'alzò, s'affacciò all'uscio, e, riconosciuto
un amico del suo padrone, lo salutò rispettosamente. Don Rodrigo, resogli con
molto garbo il saluto, domandò se il signore si trovasse al castello; e
rispostogli da quel caporalaccio, che credeva di sì, smontò da cavallo, e buttò
la briglia al Tiradritto, uno del suo seguito. Si levò lo schioppo, e lo
consegnò al Montanarolo, come per isgravarsi d'un peso inutile, e salir più
lesto; ma, in realtà, perché sapeva bene, che su quell'erta non era permesso
d'andar con lo schioppo. Si cavò poi di tasca alcune berlinghe, e le diede al
Tanabuso, dicendogli: - voi altri state ad aspettarmi; e intanto starete un po'
allegri con questa brava gente -. Cavò finalmente alcuni scudi d'oro, e li mise
in mano al caporalaccio, assegnandone metà a lui, e metà da dividersi tra i
suoi uomini. Finalmente, col Griso, che aveva anche lui posato lo schioppo,
cominciò a piedi la salita. Intanto i tre bravi sopraddetti, e lo Squinternotto
ch'era il quarto (oh! vedete che bei nomi, da serbarceli con tanta cura),
rimasero coi tre dell'innominato, e con quel ragazzo allevato alle forche, a
giocare, a trincare, e a raccontarsi a vicenda le loro prodezze.
Un
altro bravaccio dell'innominato, che saliva, raggiunse poco dopo don Rodrigo;
lo guardò, lo riconobbe, e s'accompagnò con lui; e gli risparmiò così la noia
di dire il suo nome, e di rendere altro conto di sé a quant'altri avrebbe
incontrati, che non lo conoscessero. Arrivato al castello, e introdotto
(lasciando però il Griso alla porta), fu fatto passare per un andirivieni di
corridoi bui, e per varie sale tappezzate di moschetti, di sciabole e di
partigiane, e in ognuna delle quali c'era di guardia qualche bravo; e, dopo
avere alquanto aspettato, fu ammesso in quella dove si trovava l'innominato.
Questo
gli andò incontro, rendendogli il saluto, e insieme guardandogli le mani e il
viso, come faceva per abitudine, e ormai quasi involontariamente, a chiunque
venisse da lui, per quanto fosse de' più vecchi e provati amici. Era grande,
bruno, calvo; bianchi i pochi capelli che gli rimanevano; rugosa la faccia: a
prima vista, gli si sarebbe dato più de' sessant'anni che aveva; ma il
contegno, le mosse, la durezza risentita de' lineamenti, il lampeggiar
sinistro, ma vivo degli occhi, indicavano una forza di corpo e di animo, che
sarebbe stata straordinaria in un giovine.
Don
Rodrigo disse che veniva per consiglio e per aiuto; che, trovandosi in un
impegno difficile, dal quale il suo onore non gli permetteva di ritirarsi,
s'era ricordato delle promesse di quell'uomo che non prometteva mai troppo, né
invano; e si fece ad esporre il suo scellerato imbroglio. L'innominato che ne
sapeva già qualcosa, ma in confuso, stette a sentire con attenzione, e come
curioso di simili storie, e per essere in questa mischiato un nome a lui noto e
odiosissimo, quello di fra Cristoforo, nemico aperto de' tiranni, e in parole
e, dove poteva, in opere. Don Rodrigo, sapendo con chi parlava, si mise poi a
esagerare le difficoltà dell'impresa; la distanza del luogo, un monastero, la
signora!... A questo, l'innominato, come se un demonio nascosto nel suo cuore gliel
avesse comandato, interruppe subitamente, dicendo che prendeva l'impresa sopra
di sé. Prese l'appunto del nome della nostra povera Lucia, e licenziò don
Rodrigo, dicendo: - tra poco avrete da me l'avviso di quel che dovrete fare.
Se il
lettore si ricorda di quello sciagurato Egidio che abitava accanto al monastero
dove la povera Lucia stava ricoverata, sappia ora che costui era uno de' più
stretti ed intimi colleghi di scelleratezze che avesse l'innominato: perciò
questo aveva lasciata correre così prontamente e risolutamente la sua parola.
Ma appena rimase solo, si trovò, non dirò pentito, ma indispettito d'averla
data. Già da qualche tempo cominciava a provare, se non un rimorso, una
cert'uggia delle sue scelleratezze. Quelle tante ch'erano ammontate, se non
sulla sua coscienza, almeno nella sua memoria, si risvegliavano ogni volta che
ne commettesse una di nuovo, e si presentavano all'animo brutte e troppe: era
come il crescere e crescere d'un peso già incomodo. Una certa ripugnanza
provata ne' primi delitti, e vinta poi, e scomparsa quasi affatto, tornava ora
a farsi sentire. Ma in que' primi tempi, l'immagine d'un avvenire lungo,
indeterminato, il sentimento d'una vitalità vigorosa, riempivano l'animo d'una
fiducia spensierata: ora all'opposto, i pensieri dell'avvenire eran quelli che
rendevano più noioso il passato. "Invecchiare! morire! e poi?" E,
cosa notabile! l'immagine della morte, che, in un pericolo vicino, a fronte
d'un nemico, soleva raddoppiar gli spiriti di quell'uomo, e infondergli un'ira piena
di coraggio, quella stessa immagine, apparendogli nel silenzio della notte,
nella sicurezza del suo castello, gli metteva addosso una costernazione
repentina. Non era la morte minacciata da un avversario mortale anche lui; non
si poteva rispingerla con armi migliori, e con un braccio più pronto; veniva
sola, nasceva di dentro; era forse ancor lontana, ma faceva un passo ogni
momento; e, intanto che la mente combatteva dolorosamente per allontanarne il
pensiero, quella s'avvicinava. Ne' primi tempi, gli esempi così frequenti, lo
spettacolo, per dir così, continuo della violenza, della vendetta,
dell'omicidio, ispirandogli un'emulazione feroce, gli avevano anche servito
come d'una specie d'autorità contro la coscienza: ora, gli rinasceva ogni tanto
nell'animo l'idea confusa, ma terribile, d'un giudizio individuale, d'una
ragione indipendente dall'esempio; ora, l'essere uscito dalla turba volgare de'
malvagi, l'essere innanzi a tutti, gli dava talvolta il sentimento d'una
solitudine tremenda. Quel Dio di cui aveva sentito parlare, ma che, da gran
tempo, non si curava di negare né di riconoscere, occupato soltanto a vivere
come se non ci fosse, ora, in certi momenti d'abbattimento senza motivo, di
terrore senza pericolo, gli pareva sentirlo gridar dentro di sé: Io sono però.
Nel primo bollor delle passioni, la legge che aveva, se non altro, sentita
annunziare in nome di Lui, non gli era parsa che odiosa: ora, quando gli
tornava d'improvviso alla mente, la mente, suo malgrado, la concepiva come una
cosa che ha il suo adempimento. Ma, non che aprirsi con nessuno su questa sua
nuova inquietudine, la copriva anzi profondamente, e la mascherava con
l'apparenze d'una più cupa ferocia; e con questo mezzo, cercava anche di
nasconderla a se stesso, o di soffogarla. Invidiando (giacché non poteva
annientarli né dimenticarli) que' tempi in cui era solito commettere l'iniquità
senza rimorso, senz'altro pensiero che della riuscita, faceva ogni sforzo per
farli tornare, per ritenere o per riafferrare quell'antica volontà, pronta,
superba, imperturbata, per convincer se stesso ch'era ancor quello.
Così in
quest'occasione, aveva subito impegnata la sua parola a don Rodrigo, per
chiudersi l'adito a ogni esitazione. Ma appena partito costui, sentendo scemare
quella fermezza che s'era comandata per promettere, sentendo a poco a poco
venirsi innanzi nella mente pensieri che lo tentavano di mancare a quella
parola, e l'avrebbero condotto a scomparire in faccia a un amico, a un complice
secondario; per troncare a un tratto quel contrasto penoso, chiamò il Nibbio,
uno de' più destri e arditi ministri delle sue enormità, e quello di cui era
solito servirsi per la corrispondenza con Egidio. E, con aria risoluta, gli
comandò che montasse subito a cavallo, andasse diritto a Monza, informasse
Egidio dell'impegno contratto, e richiedesse il suo aiuto per adempirlo.
Il
messo ribaldo tornò più presto che il suo padrone non se l'aspettasse, con la
risposta d'Egidio: che l'impresa era facile e sicura; gli si mandasse subito
una carrozza, con due o tre bravi ben travisati; e lui prendeva la cura di
tutto il resto, e guiderebbe la cosa. A quest'annunzio, l'innominato, comunque
stesse di dentro, diede ordine in fretta al Nibbio stesso, che disponesse tutto
secondo aveva detto Egidio, e andasse con due altri che gli nominò, alla
spedizione.
Se per
rendere l'orribile servizio che gli era stato chiesto, Egidio avesse dovuto far
conto de' soli suoi mezzi ordinari, non avrebbe certamente data così subito una
promessa così decisa. Ma, in quell'asilo stesso dove pareva che tutto dovesse
essere ostacolo, l'atroce giovine aveva un mezzo noto a lui solo; e ciò che per
gli altri sarebbe stata la maggior difficoltà, era strumento per lui. Noi
abbiamo riferito come la sciagurata signora desse una volta retta alle sue
parole; e il lettore può avere inteso che quella volta non fu l'ultima, non fu
che un primo passo in una strada d'abbominazione e di sangue. Quella stessa
voce, che aveva acquistato forza e, direi quasi, autorità dal delitto, le
impose ora il sagrifizio dell'innocente che aveva in custodia.
La
proposta riuscì spaventosa a Gertrude. Perder Lucia per un caso impreveduto,
senza colpa, le sarebbe parsa una sventura, una punizione amara: e le veniva
comandato di privarsene con una scellerata perfidia, di cambiare in un nuovo
rimorso un mezzo di espiazione. La sventurata tentò tutte le strade per
esimersi dall'orribile comando; tutte, fuorché la sola ch'era sicura, e che le
stava pur sempre aperta davanti. Il delitto è un padrone rigido e inflessibile,
contro cui non divien forte se non chi se ne ribella interamente. A questo
Gertrude non voleva risolversi; e ubbidì.
Era il
giorno stabilito; l'ora convenuta s'avvicinava; Gertrude, ritirata con Lucia
nel suo parlatorio privato, le faceva più carezze dell'ordinario, e Lucia le
riceveva e le contraccambiava con tenerezza crescente: come la pecora,
tremolando senza timore sotto la mano del pastore che la palpa e la strascina
mollemente, si volta a leccar quella mano; e non sa che, fuori della stalla,
l'aspetta il macellaio, a cui il pastore l'ha venduta un momento prima.
- Ho
bisogno d'un gran servizio; e voi sola potete farmelo. Ho tanta gente a' miei
comandi; ma di cui mi fidi, nessuno. Per un affare di grand'importanza, che vi
dirò poi, ho bisogno di parlar subito subito con quel padre guardiano de'
cappuccini che v'ha condotta qui da me, la mia povera Lucia; ma è anche
necessario che nessuno sappia che l'ho mandato a chiamare io. Non ho che voi
per far segretamente quest'imbasciata.
Lucia
fu atterrita d'una tale richiesta; e con quella sua suggezione, ma senza
nascondere una gran maraviglia, addusse subito, per disimpegnarsene, le ragioni
che la signora doveva intendere, che avrebbe dovute prevedere: senza la madre,
senza nessuno, per una strada solitaria, in un paese sconosciuto... Ma
Gertrude, ammaestrata a una scola infernale, mostrò tanta maraviglia anche lei,
e tanto dispiacere di trovare una tal ritrosia nella persona di cui credeva
poter far più conto, figurò di trovar così vane quelle scuse! di giorno chiaro,
quattro passi, una strada che Lucia aveva fatta pochi giorni prima, e che,
quand'anche non l'avesse mai veduta, a insegnargliela, non la poteva
sbagliare!... Tanto disse, che la poverina, commossa e punta a un tempo, si
lasciò sfuggir di bocca: - e bene; cosa devo fare?
-
Andate al convento de' cappuccini: - e le descrisse la strada di nuovo: - fate
chiamare il padre guardiano, ditegli, da solo a solo, che venga da me subito
subito; ma che non dica a nessuno che son io che lo mando a chiamare.
- Ma
cosa dirò alla fattoressa, che non m'ha mai vista uscire, e mi domanderà dove
vo?
-
Cercate di passare senz'esser vista; e se non vi riesce, ditele che andate alla
chiesa tale, dove avete promesso di fare orazione.
Nuova
difficoltà per la povera giovine: dire una bugia; ma la signora si mostrò di
nuovo così afflitta delle ripulse, le fece parer così brutta cosa l'anteporre
un vano scrupolo alla riconoscenza, che Lucia, sbalordita più che convinta, e
soprattutto commossa più che mai, rispose: - e bene; anderò. Dio m'aiuti! - E
si mosse.
Quando
Gertrude, che dalla grata la seguiva con l'occhio fisso e torbido, la vide
metter piede sulla soglia, come sopraffatta da un sentimento irresistibile,
aprì la bocca, e disse: - sentite, Lucia! Questa si voltò, e tornò verso la grata.
Ma già un altro pensiero, un pensiero avvezzo a predominare, aveva vinto di
nuovo nella mente sciagurata di Gertrude. Facendo le viste di non esser
contenta dell'istruzioni già date, spiegò di nuovo a Lucia la strada che doveva
tenere, e la licenziò dicendo: - fate ogni cosa come v'ho detto, e tornate
presto -. Lucia partì.
Passò
inosservata la porta del chiostro, prese la strada, con gli occhi bassi,
rasente al muro; trovò, con l'indicazioni avute e con le proprie rimembranze,
la porta del borgo, n'uscì, andò tutta raccolta e un po' tremante, per la
strada maestra, arrivò in pochi momenti a quella che conduceva al convento; e
la riconobbe. Quella strada era, ed è tutt'ora, affondata, a guisa d'un letto
di fiume, tra due alte rive orlate di macchie, che vi forman sopra una specie
di volta. Lucia, entrandovi, e vedendola affatto solitaria, sentì crescere la
paura, e allungava il passo; ma poco dopo si rincorò alquanto, nel vedere una
carrozza da viaggio ferma, e accanto a quella, davanti allo sportello aperto,
due viaggiatori che guardavano in qua e in là, come incerti della strada.
Andando avanti, sentì uno di que' due, che diceva: - ecco una buona giovine che
c'insegnerà la strada -. Infatti, quando fu arrivata alla carrozza, quel
medesimo, con un fare più gentile che non fosse l'aspetto, si voltò, e disse: -
quella giovine, ci sapreste insegnar la strada di Monza?
-
Andando di lì, vanno a rovescio, - rispondeva la poverina:
- Monza
è di qua... - e si voltava, per accennar col dito; quando l'altro compagno (era
il Nibbio), afferrandola d'improvviso per la vita, l'alzò da terra. Lucia girò
la testa indietro atterrita, e cacciò un urlo; il malandrino la mise per forza
nella carrozza: uno che stava a sedere davanti, la prese e la cacciò, per
quanto lei si divincolasse e stridesse, a sedere dirimpetto a sé: un altro,
mettendole un fazzoletto alla bocca, le chiuse il grido in gola. In tanto il
Nibbio entrò presto presto anche lui nella carrozza: lo sportello si chiuse, e
la carrozza partì di carriera. L'altro che le aveva fatta quella domanda
traditora, rimasto nella strada, diede un'occhiata in qua e in là, per veder se
fosse accorso qualcheduno agli urli di Lucia: non c'era nessuno; saltò sur una
riva, attaccandosi a un albero della macchia, e disparve. Era costui uno
sgherro d'Egidio; era stato, facendo l'indiano, sulla porta del suo padrone,
per veder quando Lucia usciva dal monastero; l'aveva osservata bene, per
poterla riconoscere; ed era corso, per una scorciatoia, ad aspettarla al posto
convenuto.
Chi potrà
ora descrivere il terrore, l'angoscia di costei, esprimere ciò che passava nel
suo animo? Spalancava gli occhi spaventati, per ansietà di conoscere la sua
orribile situazione, e li richiudeva subito, per il ribrezzo e per il terrore
di que' visacci: si storceva, ma era tenuta da tutte le parti: raccoglieva
tutte le sue forze, e dava delle stratte, per buttarsi verso lo sportello; ma
due braccia nerborute la tenevano come conficcata nel fondo della carrozza;
quattro altre manacce ve l'appuntellavano. Ogni volta che aprisse la bocca per
cacciare un urlo, il fazzoletto veniva a soffogarglielo in gola. Intanto tre
bocche d'inferno, con la voce più umana che sapessero formare, andavan
ripetendo: - zitta, zitta, non abbiate paura, non vogliamo farvi male -. Dopo
qualche momento d'una lotta così angosciosa, parve che s'acquietasse; allentò
le braccia, lasciò cader la testa all'indietro, alzò a stento le palpebre,
tenendo l'occhio immobile; e quegli orridi visacci che le stavan davanti le
parvero confondersi e ondeggiare insieme in un mescuglio mostruoso: le fuggì il
colore dal viso; un sudor freddo glielo coprì; s'abbandonò, e svenne.
- Su,
su, coraggio, - diceva il Nibbio. - Coraggio, coraggio, - ripetevan gli altri
due birboni; ma lo smarrimento d'ogni senso preservava in quel momento Lucia
dal sentire i conforti di quelle orribili voci.
-
Diavolo! par morta, - disse uno di coloro: - se fosse morta davvero?
- Oh!
morta! - disse l'altro: - è uno di quegli svenimenti che vengono alle donne. Io
so che, quando ho voluto mandare all'altro mondo qualcheduno, uomo o donna che
fosse, c'è voluto altro.
- Via!
- disse il Nibbio: - attenti al vostro dovere, e non andate a cercar altro.
Tirate fuori dalla cassetta i tromboni, e teneteli pronti; che in questo bosco
dove s'entra ora, c'è sempre de' birboni annidati. Non così in mano, diavolo!
riponeteli dietro le spalle, stesi: non vedete che costei è un pulcin bagnato
che basisce per nulla? Se vede armi, è capace di morir davvero. E quando sarà
rinvenuta, badate bene di non farle paura; non la toccate, se non vi fo segno;
a tenerla basto io. E zitti: lasciate parlare a me.
Intanto
la carrozza, andando sempre di corsa, s'era inoltrata nel bosco.
Dopo
qualche tempo, la povera Lucia cominciò a risentirsi, come da un sonno profondo
e affannoso, e aprì gli occhi. Penò alquanto a distinguere gli spaventosi
oggetti che la circondavano, a raccogliere i suoi pensieri: alfine comprese di
nuovo la sua terribile situazione. Il primo uso che fece delle poche forze
ritornatele, fu di buttarsi ancora verso lo sportello, per slanciarsi fuori; ma
fu ritenuta, e non poté che vedere un momento la solitudine selvaggia del luogo
per cui passava. Cacciò di nuovo un urlo; ma il Nibbio, alzando la manaccia col
fazzoletto, - via, - le disse, più dolcemente che poté; - state zitta, che sarà
meglio per voi: non vogliamo farvi male; ma se non istate zitta, vi faremo star
noi.
-
Lasciatemi andare! Chi siete voi? Dove mi conducete? Perché m'avete presa?
Lasciatemi andare, lasciatemi andare!
- Vi
dico che non abbiate paura: non siete una bambina, e dovete capire che noi non
vogliamo farvi male. Non vedete che avremmo potuto ammazzarvi cento volte, se
avessimo cattive intenzioni? Dunque state quieta.
- No,
no, lasciatemi andare per la mia strada: io non vi conosco.
- Vi
conosciamo noi.
- Oh
santissima Vergine! come mi conoscete? Lasciatemi andare, per carità. Chi siete
voi? Perché m'avete presa?
-
Perché c'è stato comandato.
- Chi?
chi? chi ve lo può aver comandato?
-
Zitta! - disse con un visaccio severo il Nibbio: - a noi non si fa di codeste
domande.
Lucia
tentò un'altra volta di buttarsi d'improvviso allo sportello; ma vedendo ch'era
inutile, ricorse di nuovo alle preghiere; e con la testa bassa, con le gote
irrigate di lacrime, con la voce interrotta dal pianto, con le mani giunte
dinanzi alle labbra, - oh - diceva: - per l'amor di Dio, e della Vergine
santissima, lasciatemi andare! Cosa v'ho fatto di male io? Sono una povera
creatura che non v'ha fatto niente. Quello che m'avete fatto voi, ve lo perdono
di cuore; e pregherò Dio per voi. Se avete anche voi una figlia, una moglie,
una madre, pensate quello che patirebbero, se fossero in questo stato.
Ricordatevi che dobbiamo morir tutti, e che un giorno desidererete che Dio vi
usi misericordia. Lasciatemi andare, lasciatemi qui: il Signore mi farà trovar
la mia strada.
- Non
possiamo.
- Non
potete? Oh Signore! perché non potete? Dove volete condurmi? Perché? ...
- Non
possiamo: è inutile: non abbiate paura, che non vogliamo farvi male: state
quieta, e nessuno vi toccherà.
Accorata,
affannata, atterrita sempre più nel vedere che le sue parole non facevano
nessun colpo, Lucia si rivolse a Colui che tiene in mano il cuore degli uomini,
e può, quando voglia, intenerire i più duri. Si strinse il più che poté, nel
canto della carrozza, mise le braccia in croce sul petto, e pregò qualche tempo
con la mente; poi, tirata fuori la corona, cominciò a dire il rosario, con più
fede e con più affetto che non avesse ancor fatto in vita sua. Ogni tanto,
sperando d'avere impetrata la misericordia che implorava, si voltava a ripregar
coloro; ma sempre inutilmente. Poi ricadeva ancora senza sentimenti, poi si
riaveva di nuovo, per rivivere a nuove angosce. Ma ormai non ci regge il cuore
a descriverle più a lungo: una pietà troppo dolorosa ci affretta al termine di
quel viaggio, che durò più di quattr'ore; e dopo il quale avremo altre ore
angosciose da passare. Trasportiamoci al castello dove l'infelice era
aspettata.
Era
aspettata dall'innominato, con un'inquietudine, con una sospension d'animo
insolita. Cosa strana! quell'uomo, che aveva disposto a sangue freddo di tante
vite, che in tanti suoi fatti non aveva contato per nulla i dolori da lui
cagionati, se non qualche volta per assaporare in essi una selvaggia voluttà di
vendetta, ora, nel metter le mani addosso a questa sconosciuta, a questa povera
contadina, sentiva come un ribrezzo, direi quasi un terrore. Da un'alta
finestra del suo castellaccio, guardava da qualche tempo verso uno sbocco della
valle; ed ecco spuntar la carrozza, e venire innanzi lentamente: perché quel
primo andar di carriera aveva consumata la foga, e domate le forze de' cavalli.
E benché, dal punto dove stava a guardare, la non paresse più che una di quelle
carrozzine che si dànno per balocco ai fanciulli, la riconobbe subito, e si
sentì il cuore batter più forte.
"Ci
sarà? - pensò subito; e continuava tra sé: - che noia mi dà costei!
Liberiamocene".
E
voleva chiamare uno de' suoi sgherri, e spedirlo subito incontro alla carrozza,
a ordinare al Nibbio che voltasse, e conducesse colei al palazzo di don
Rodrigo. Ma un no imperioso che risonò nella sua mente, fece svanire quel
disegno. Tormentato però dal bisogno di dar qualche ordine, riuscendogli
intollerabile lo stare aspettando oziosamente quella carrozza che veniva avanti
passo passo, come un tradimento, che so io? come un gastigo, fece chiamare una
sua vecchia donna.
Era
costei nata in quello stesso castello, da un antico custode di esso, e aveva
passata lì tutta la sua vita. Ciò che aveva veduto e sentito fin dalle fasce,
le aveva impresso nella mente un concetto magnifico e terribile del potere de'
suoi padroni; e la massima principale che aveva attinta dall'istruzioni e dagli
esempi, era che bisognava ubbidirli in ogni cosa, perché potevano far del gran
male e del gran bene. L'idea del dovere, deposta come un germe nel cuore di
tutti gli uomini, svolgendosi nel suo, insieme co' sentimenti d'un rispetto,
d'un terrore, d'una cupidigia servile, s'era associata e adattata a quelli.
Quando l'innominato, divenuto padrone, cominciò a far quell'uso spaventevole
della sua forza, costei ne provò da principio un certo ribrezzo insieme e un
sentimento più profondo di sommissione. Col tempo, s'era avvezzata a ciò che
aveva tutto il giorno davanti agli occhi e negli orecchi: la volontà potente e
sfrenata d'un così gran signore, era per lei come una specie di giustizia
fatale. Ragazza già fatta, aveva sposato un servitor di casa, il quale, poco
dopo, essendo andato a una spedizione rischiosa, lasciò l'ossa sur una strada,
e lei vedova nel castello. La vendetta che il signore ne fece subito, le diede
una consolazione feroce, e le accrebbe l'orgoglio di trovarsi sotto una tal
protezione. D'allora in poi, non mise piede fuor del castello, che molto di
rado; e a poco a poco non le rimase del vivere umano quasi altre idee salvo
quelle che ne riceveva in quel luogo. Non era addetta ad alcun servizio
particolare, ma, in quella masnada di sgherri, ora l'uno ora l'altro, le davan
da fare ogni poco; ch'era il suo rodimento. Ora aveva cenci da rattoppare, ora
da preparare in fretta da mangiare a chi tornasse da una spedizione, ora feriti
da medicare. I comandi poi di coloro, i rimproveri, i ringraziamenti, eran
conditi di beffe e d'improperi: vecchia, era il suo appellativo usuale; gli
aggiunti, che qualcheduno sempre ci se n'attaccava, variavano secondo le
circostanze e l'umore dell'amico. E colei, disturbata nella pigrizia, e
provocata nella stizza, ch'erano due delle sue passioni predominanti,
contraccambiava alle volte que' complimenti con parole, in cui Satana avrebbe
riconosciuto più del suo ingegno, che in quelle de' provocatori.
- Tu
vedi laggiù quella carrozza! - le disse il signore.
- La
vedo, - rispose la vecchia, cacciando avanti il mento appuntato, e aguzzando
gli occhi infossati, come se cercasse di spingerli su gli orli dell'occhiaie.
- Fa
allestir subito una bussola, entraci, e fatti portare alla Malanotte. Subito
subito; che tu ci arrivi prima di quella carrozza: già la viene avanti col
passo della morte. In quella carrozza c'è... ci dev'essere... una giovine. Se
c'è, dì al Nibbio, in mio nome, che la metta nella bussola, e lui venga su
subito da me. Tu starai nella bussola, con quella... giovine; e quando sarete
quassù, la condurrai nella tua camera. Se ti domanda dove la meni, di chi è il
castello, guarda di non...
- Oh! -
disse la vecchia.
- Ma, -
continuò l'innominato, - falle coraggio.
- Cosa
le devo dire?
- Cosa
le devi dire? Falle coraggio, ti dico. Tu sei venuta a codesta età, senza
sapere come si fa coraggio a una creatura, quando sI vuole! Hai tu mai sentito
affanno di cuore? Hai tu mai avuto paura? Non sai le parole che fanno piacere
in que' momenti? Dille di quelle parole: trovale, alla malora. Va'.
E
partita che fu, si fermò alquanto alla finestra, con gli occhi fissi a quella
carrozza, che già appariva più grande di molto; poi gli alzo al sole, che in
quel momento si nascondeva dietro la montagna; poi guardò le nuvole sparse al
di sopra, che di brune si fecero, quasi a un tratto, di fuoco. Si ritirò,
chiuse la finestra, e si mise a camminare innanzi e indietro per la stanza, con
un passo di viaggiatore frettoloso.
La
vecchia era corsa a ubbidire e a comandare, con l'autorità di quel nome che, da
chiunque fosse pronunziato in quel luogo, li faceva spicciar tutti; perché a
nessuno veniva in testa che ci fosse uno tanto ardito da servirsene falsamente.
Si trovò infatti alla Malanotte un po' prima che la carrozza ci arrivasse; e
vistala venire, uscì di bussola, fece segno al cocchiere che fermasse,
s'avvicinò allo sportello; e al Nibbio, che mise il capo fuori, riferì
sottovoce gli ordini del padrone.
Lucia,
al fermarsi della carrozza, si scosse, e rinvenne da una specie di letargo. Si
sentì da capo rimescolare il sangue, spalancò la bocca e gli occhi, e guardò. Il
Nibbio s'era tirato indietro; e la vecchia, col mento sullo sportello,
guardando Lucia, diceva: - venite, la mia giovine; venite, poverina; venite con
me, che ho ordine di trattarvi bene e di farvi coraggio.
Al
suono d'una voce di donna, la poverina provò un conforto, un coraggio
momentaneo; ma ricadde subito in uno spavento più cupo. - Chi siete? - disse
con voce tremante, fissando lo sguardo attonito in viso alla vecchia.
-
Venite, venite, poverina, - andava questa ripetendo. Il Nibbio e gli altri due,
argomentando dalle parole e dalla voce così straordinariamente raddolcita di
colei, quali fossero l'intenzioni del signore, cercavano di persuader con le
buone l'oppressa a ubbidire. Ma lei seguitava a guardar fuori; e benché il
luogo selvaggio e sconosciuto, e la sicurezza de' suoi guardiani non le
lasciassero concepire speranza di soccorso, apriva non ostante la bocca per
gridare; ma vedendo il Nibbio far gli occhiacci del fazzoletto, ritenne il
grido, tremò, si storse, fu presa e messa nella bussola. Dopo, c'entrò la
vecchia; il Nibbio disse ai due altri manigoldi che andassero dietro, e prese
speditamente la salita, per accorrere ai comandi del padrone.
- Chi
siete? - domandava con ansietà Lucia al ceffo sconosciuto e deforme: - perché
son con voi? dove sono? dove mi conducete?
- Da
chi vuol farvi del bene, - rispondeva la vecchia, - da un gran... Fortunati
quelli a cui vuol far del bene! Buon per voi, buon per voi. Non abbiate paura,
state allegra, ché m'ha comandato di farvi coraggio. Glielo direte, eh? che
v'ho fatto coraggio?
- Chi
è? perché? che vuol da me? Io non son sua. Ditemi dove sono; lasciatemi andare;
dite a costoro che mi lascino andare, che mi portino in qualche chiesa. Oh! voi
che siete una donna, in nome di Maria Vergine...!
Quel
nome santo e soave, già ripetuto con venerazione ne' primi anni, e poi non più
invocato per tanto tempo, né forse sentito proferire, faceva nella mente della
sciagurata che lo sentiva in quel momento, un'impressione confusa, strana,
lenta, come la rimembranza della luce, in un vecchione accecato da bambino.
Intanto
l'innominato, ritto sulla porta del castello, guardava in giù; e vedeva la
bussola venir passo passo, come prima la carrozza, e avanti, a una distanza che
cresceva ogni momento, salir di corsa il Nibbio. Quando questo fu in cima, il
signore gli accennò che lo seguisse; e andò con lui in una stanza del castello.
-
Ebbene? - disse, fermandosi lì.
- Tutto
a un puntino, - rispose, inchinandosi, il Nibbio: - l'avviso a tempo, la donna
a tempo, nessuno sul luogo, un urlo solo, nessuno comparso, il cocchiere
pronto, i cavalli bravi, nessun incontro: ma...
- Ma
che?
- Ma...
dico il vero, che avrei avuto più piacere che l'ordine fosse stato di darle una
schioppettata nella schiena, senza sentirla parlare, senza vederla in viso.
- Cosa?
cosa? che vuoi tu dire?
-
Voglio dire che tutto quel tempo, tutto quel tempo... M'ha fatto troppa
compassione.
-
Compassione! Che sai tu di compassione? Cos'è la compassione?
- Non
l'ho mai capito così bene come questa volta: è una storia la compassione un
poco come la paura: se uno la lascia prender possesso, non è più uomo.
-
Sentiamo un poco come ha fatto costei per moverti a compassione.
- O
signore illustrissimo! tanto tempo...! piangere, pregare, e far cert'occhi, e
diventar bianca bianca come morta, e poi singhiozzare, e pregar di nuovo, e
certe parole...
"Non
la voglio in casa costei, - pensava intanto l'innominato.
- Sono
stato una bestia a impegnarmi; ma ho promesso, ho promesso. Quando sarà
lontana..." E alzando la testa, in atto di comando, verso il Nibbio, -
ora, - gli disse, - metti da parte la compassione: monta a cavallo, prendi un
compagno, due se vuoi; e va' di corsa a casa di quel don Rodrigo che tu sai.
Digli che mandi... ma subito subito, perché altrimenti...
Ma un
altro no interno più imperioso del primo gli proibì di finire. - No, -
disse con voce risoluta, quasi per esprimere a se stesso il comando di quella
voce segreta, - no: va' a riposarti; e domattina... farai quello che ti dirò!
"Un
qualche demonio ha costei dalla sua, - pensava poi, rimasto solo, ritto, con le
braccia incrociate sul petto, e con lo sguardo immobile sur una parte del
pavimento, dove il raggio della luna, entrando da una finestra alta, disegnava
un quadrato di luce pallida, tagliata a scacchi dalle grosse inferriate, e
intagliata più minutamente dai piccoli compartimenti delle vetriate. - Un
qualche demonio, o... un qualche angelo che la protegge... Compassione al
Nibbio!... Domattina, domattina di buon'ora, fuor di qui costei; al suo
destino, e non se ne parli più, e, - proseguiva tra sé, con quell'animo con cui
si comanda a un ragazzo indocile, sapendo che non ubbidirà, - e non ci si pensi
più. Quell'animale di don Rodrigo non mi venga a romper la testa con
ringraziamenti; che... non voglio più sentir parlar di costei. L'ho servito
perché... perché ho promesso: e ho promesso perché... è il mio destino. Ma
voglio che me lo paghi bene questo servizio, colui. Vediamo un poco..."
E
voleva almanaccare cosa avrebbe potuto richiedergli di scabroso, per compenso,
e quasi per pena; ma gli si attraversaron di nuovo alla mente quelle parole:
compassione al Nibbio! "Come può aver fatto costei? - continuava,
strascinato da quel pensiero. - Voglio vederla... Eh! no... Sì, voglio
vederla".
E d'una
stanza in un'altra, trovò una scaletta, e su a tastone, andò alla camera della
vecchia, e picchiò all'uscio con un calcio.
- Chi
è?
- Apri.
A
quella voce, la vecchia fece tre salti; e subito si sentì scorrere il paletto
negli anelli, e l'uscio si spalancò. L'innominato, dalla soglia, diede
un'occhiata in giro; e, al lume d'una lucerna che ardeva sur un tavolino, vide
Lucia rannicchiata in terra, nel canto il più lontano dall'uscio.
- Chi
t'ha detto che tu la buttassi là come un sacco di cenci, sciagurata? - disse
alla vecchia, con un cipiglio iracondo.
- S'è
messa dove le è piaciuto, - rispose umilmente colei: - io ho fatto di tutto per
farle coraggio: lo può dire anche lei; ma non c'è stato verso.
-
Alzatevi, - disse l'innominato a Lucia, andandole vicino. Ma Lucia, a cui il
picchiare, l'aprire, il comparir di quell'uomo, le sue parole, avevan messo un
nuovo spavento nell'animo spaventato, stava più che mai raggomitolata nel
cantuccio, col viso nascosto tra le mani, e non movendosi, se non che tremava
tutta.
-
Alzatevi, ché non voglio farvi del male... e posso farvi del bene, - ripeté il
signore... - Alzatevi! - tonò poi quella voce, sdegnata d'aver due volte
comandato invano.
Come
rinvigorita dallo spavento, l'infelicissima si rizzò subito inginocchioni; e
giungendo le mani, come avrebbe fatto davanti a un'immagine, alzò gli occhi in
viso all'innominato, e riabbassandoli subito, disse: - son qui: m'ammazzi.
- V'ho
detto che non voglio farvi del male, - rispose, con voce mitigata,
l'innominato, fissando quel viso turbato dall'accoramento e dal terrore.
-
Coraggio, coraggio, - diceva la vecchia: - se ve lo dice lui, che non vuol
farvi del male...
- E
perché, - riprese Lucia con una voce, in cui, col tremito della paura, si
sentiva una certa sicurezza dell'indegnazione disperata, - perché mi fa patire
le pene dell'inferno? Cosa le ho fatto io?...
-
V'hanno forse maltrattata? Parlate.
- Oh
maltrattata! M'hanno presa a tradimento, per forza! perché? perché m'hanno
presa? perché son qui? dove sono? Sono una povera creatura: cosa le ho fatto?
In nome di Dio...
- Dio,
Dio, - interruppe l'innominato: - sempre Dio: coloro che non possono difendersi
da sé, che non hanno la forza, sempre han questo Dio da mettere in campo, come
se gli avessero parlato. Cosa pretendete con codesta vostra parola? Di
farmi...? - e lasciò la frase a mezzo.
- Oh
Signore! pretendere! Cosa posso pretendere io meschina, se non che lei mi usi
misericordia? Dio perdona tante cose, per un'opera di misericordia! Mi lasci
andare; per carità mi lasci andare! Non torna conto a uno che un giorno deve
morire di far patir tanto una povera creatura. Oh! lei che può comandare, dica
che mi lascino andare! M'hanno portata qui per forza. Mi mandi con questa donna
a *** dov'è mia madre. Oh Vergine santissima! mia madre! mia madre, per carità,
mia madre! Forse non è lontana di qui... ho veduto i miei monti! Perché lei mi
fa patire? Mi faccia condurre in una chiesa. Pregherò per lei, tutta la mia
vita. Cosa le costa dire una parola? Oh ecco! vedo che si move a compassione:
dica una parola, la dica. Dio perdona tante cose, per un'opera di misericordia!
"Oh
perché non è figlia d'uno di que' cani che m'hanno bandito! - pensava
l'innominato: - d'uno di que' vili che mi vorrebbero morto! che ora godrei di
questo suo strillare; e in vece..."
- Non
iscacci una buona ispirazione! - proseguiva fervidamente Lucia, rianimata dal
vedere una cert'aria d'esitazione nel viso e nel contegno del suo tiranno. - Se
lei non mi fa questa carità, me la farà il Signore: mi farà morire, e per me
sarà finita; ma lei!... Forse un giorno anche lei... Ma no, no; pregherò sempre
io il Signore che la preservi da ogni male. Cosa le costa dire una parola? Se
provasse lei a patir queste pene...!
- Via,
fatevi coraggio, - interruppe l'innominato, con una dolcezza che fece
strasecolar la vecchia. - V'ho fatto nessun male? V'ho minacciata?
- Oh
no! Vedo che lei ha buon cuore, e che sente pietà di questa povera creatura. Se
lei volesse, potrebbe farmi paura più di tutti gli altri, potrebbe farmi
morire; e in vece mi ha... un po' allargato il cuore. Dio gliene renderà
merito. Compisca l'opera di misericordia: mi liberi, mi liberi.
-
Domattina...
- Oh mi
liberi ora, subito...
-
Domattina ci rivedremo, vi dico. Via, intanto fatevi coraggio. Riposate. Dovete
aver bisogno di mangiare. Ora ve ne porteranno.
- No,
no; io moio se alcuno entra qui: io moio. Mi conduca lei in chiesa... que'
passi Dio glieli conterà.
- Verrà
una donna a portarvi da mangiare, - disse l'innominato; e dettolo, rimase
stupito anche lui che gli fosse venuto in mente un tal ripiego, e che gli fosse
nato il bisogno di cercarne uno, per rassicurare una donnicciola.
- E tu,
- riprese poi subito, voltandosi alla vecchia, - falle coraggio che mangi;
mettila a dormire in questo letto: e se ti vuole in compagnia, bene;
altrimenti, tu puoi ben dormire una notte in terra. Falle coraggio, ti dico;
tienla allegra. E che non abbia a lamentarsi di te!
Così
detto, si mosse rapidamente verso l'uscio. Lucia s'alzò e corse per
trattenerlo, e rinnovare la sua preghiera; ma era sparito.
- Oh
povera me! Chiudete, chiudete subito -. E sentito ch'ebbe accostare i battenti
e scorrere il paletto, tornò a rannicchiarsi nel suo cantuccio. - Oh povera me!
- esclamò di nuovo singhiozzando: - chi pregherò ora? Dove sono? Ditemi voi,
ditemi per carità, chi è quel signore... quello che m'ha parlato?
- Chi
è, eh? chi è? Volete ch'io ve lo dica. Aspetta ch'io te lo dica. Perché vi
protegge, avete messo su superbia; e volete esser soddisfatta voi, e farne
andar di mezzo me. Domandatene a lui. S'io vi contentassi anche in questo, non
mi toccherebbe di quelle buone parole che avete sentite voi. - Io son vecchia,
son vecchia, - continuò, mormorando tra i denti. - Maledette le giovani, che
fanno bel vedere a piangere e a ridere, e hanno sempre ragione -. Ma sentendo
Lucia singhiozzare, e tornandole minaccioso alla mente il comando del padrone,
si chinò verso la povera rincantucciata, e, con voce raddolcita, riprese: -
via, non v'ho detto niente di male: state allegra. Non mi domandate di quelle
cose che non vi posso dire; e del resto, state di buon animo. Oh se sapeste
quanta gente sarebbe contenta di sentirlo parlare come ha parlato a voi! State
allegra, che or ora verrà da mangiare; e io che capisco... nella maniera che
v'ha parlato, ci sarà della roba buona. E poi anderete a letto, e... mi
lascerete un cantuccino anche a me, spero, - soggiunse, con una voce, suo
malgrado, stizzosa.
- Non
voglio mangiare, non voglio dormire. Lasciatemi stare; non v'accostate; non
partite di qui!
- No,
no, via, - disse la vecchia, ritirandosi, e mettendosi a sedere sur una
seggiolaccia, donde dava alla poverina certe occhiate di terrore e d'astio
insieme; e poi guardava il suo covo, rodendosi d'esserne forse esclusa per
tutta la notte, e brontolando contro il freddo. Ma si rallegrava col pensiero
della cena, e con la speranza che ce ne sarebbe anche per lei. Lucia non
s'avvedeva del freddo, non sentiva la fame, e come sbalordita, non aveva de'
suoi dolori, de' suoi terrori stessi, che un sentimento confuso, simile all'immagini
sognate da un febbricitante.
Si
riscosse quando sentì picchiare; e, alzando la faccia atterrita, gridò: - chi
è? chi è? Non venga nessuno!
-
Nulla, nulla; buone nuove, - disse la vecchia: - è Marta che porta da mangiare.
-
Chiudete, chiudete! - gridava Lucia.
- Ih!
subito, subito, - rispondeva la vecchia; e presa una paniera dalle mani di
quella Marta, la mandò via, richiuse, e venne a posar la paniera sur una tavola
nel mezzo della camera. Invitò poi più volte Lucia che venisse a goder di
quella buona roba. Adoprava le parole più efficaci, secondo lei, a mettere
appetito alla poverina, prorompeva in esclamazioni sulla squisitezza de' cibi:
- di que' bocconi che, quando le persone come noi possono arrivare a
assaggiarne, se ne ricordan per un pezzo! Del vino che beve il padrone co' suoi
amici... quando capita qualcheduno di quelli...! e vogliono stare allegri! Ehm!
- Ma vedendo che tutti gl'incanti riuscivano inutili, - siete voi che non
volete, - disse. - Non istate poi a dirgli domani ch'io non v'ho fatto
coraggio. Mangerò io; e ne resterà più che abbastanza per voi, per quando
metterete giudizio, e vorrete ubbidire -. Così detto, si mise a mangiare
avidamente. Saziata che fu, s'alzò, andò verso il cantuccio, e, chinandosi
sopra Lucia, l'invitò di nuovo a mangiare, per andar poi a letto.
- No,
no, non voglio nulla, - rispose questa, con voce fiacca e come sonnolenta. Poi,
con più risolutezza, riprese: - è serrato l'uscio? è serrato bene? - E dopo
aver guardato in giro per la camera, s'alzò, e, con le mani avanti, con passo
sospettoso, andava verso quella parte.
La
vecchia ci corse prima di lei, stese la mano al paletto, lo scosse, e disse: -
sentite? vedete? è serrato bene? siete contenta ora?
- Oh
contenta! contenta io qui! - disse Lucia, rimettendosi di nuovo nel suo
cantuccio. - Ma il Signore lo sa che ci sono!
-
Venite a letto: cosa volete far lì, accucciata come un cane? S'è mai visto
rifiutare i comodi, quando si possono avere?
- No,
no; lasciatemi stare.
- Siete
voi che lo volete. Ecco, io vi lascio il posto buono: mi metto sulla sponda;
starò incomoda per voi. Se volete venire a letto, sapete come avete a fare.
Ricordatevi che v'ho pregata più volte -. Così dicendo, si cacciò sotto
vestita; e tutto tacque.
Lucia
stava immobile in quel cantuccio, tutta in un gomitolo, con le ginocchia
alzate, con le mani appoggiate sulle ginocchia, e col viso nascosto nelle mani.
Non era il suo né sonno né veglia, ma una rapida successione, una torbida
vicenda di pensieri, d'immaginazioni, di spaventi. Ora, più presente a se
stessa, e rammentandosi più distintamente gli orrori veduti e sofferti in
quella giornata, s'applicava dolorosamente alle circostanze dell'oscura e
formidabile realtà in cui si trovava avviluppata; ora la mente, trasportata in
una regione ancor più oscura, si dibatteva contro i fantasmi nati
dall'incertezza e dal terrore. Stette un pezzo in quest'angoscia; alfine, più
che mai stanca e abbattuta, stese le membra intormentite, si sdraiò, o cadde
sdraiata, e rimase alquanto in uno stato più somigliante a un sonno vero. Ma
tutt'a un tratto si risentì, come a una chiamata interna, e provò il bisogno di
risentirsi interamente, di riaver tutto il suo pensiero, di conoscere dove
fosse, come, perché. Tese l'orecchio a un suono: era il russare lento, arrantolato
della vecchia; spalancò gli occhi, e vide un chiarore fioco apparire e sparire
a vicenda: era il lucignolo della lucerna, che, vicino a spegnersi, scoccava
una luce tremola, e subito la ritirava, per dir così, indietro, come è il
venire e l'andare dell'onda sulla riva: e quella luce, fuggendo dagli oggetti,
prima che prendessero da essa rilievo e colore distinto, non rappresentava allo
sguardo che una successione di guazzabugli. Ma ben presto le recenti
impressioni, ricomparendo nella mente, l'aiutarono a distinguere ciò che
appariva confuso al senso. L'infelice risvegliata riconobbe la sua prigione:
tutte le memorie dell'orribil giornata trascorsa, tutti i terrori
dell'avvenire, l'assalirono in una volta: quella nuova quiete stessa dopo tante
agitazioni, quella specie di riposo, quell'abbandono in cui era lasciata, le
facevano un nuovo spavento: e fu vinta da un tale affanno, che desiderò di
morire. Ma in quel momento, si rammentò che poteva almen pregare, e insieme con
quel pensiero, le spuntò in cuore come un'improvvisa speranza. Prese di nuovo
la sua corona, e ricominciò a dire il rosario; e, di mano in mano che la
preghiera usciva dal suo labbro tremante, il cuore sentiva crescere una fiducia
indeterminata. Tutt'a un tratto, le passò per la mente un altro pensiero; che
la sua orazione sarebbe stata più accetta e più certamente esaudita, quando,
nella sua desolazione, facesse anche qualche offerta. Si ricordò di quello che
aveva di più caro, o che di più caro aveva avuto; giacché, in quel momento, l'animo
suo non poteva sentire altra affezione che di spavento, né concepire altro
desiderio che della liberazione; se ne ricordò, e risolvette subito di farne un
sacrifizio. S'alzò, e si mise in ginocchio, e tenendo giunte al petto le mani,
dalle quali pendeva la corona, alzò il viso e le pupille al cielo, e disse: - o
Vergine santissima! Voi, a cui mi sono raccomandata tante volte, e che tante
volte m'avete consolata! Voi che avete patito tanti dolori, e siete ora tanto
gloriosa, e avete fatti tanti miracoli per i poveri tribolati; aiutatemi!
fatemi uscire da questo pericolo, fatemi tornar salva con mia madre, Madre del
Signore; e fo voto a voi di rimaner vergine; rinunzio per sempre a quel mio
poveretto, per non esser mai d'altri che vostra.
Proferite
queste parole, abbassò la testa, e si mise la corona intorno al collo, quasi
come un segno di consacrazione, e una salvaguardia a un tempo, come un'armatura
della nuova milizia a cui s'era ascritta. Rimessasi a sedere in terra, sentì
entrar nell'animo una certa tranquillità, una più larga fiducia. Le venne in
mente quel domattina ripetuto dallo sconosciuto potente, e le parve di
sentire in quella parola una promessa di salvazione. I sensi affaticati da
tanta guerra s'assopirono a poco a poco in quell'acquietamento di pensieri: e
finalmente, già vicino a giorno, col nome della sua protettrice tronco tra le
labbra, Lucia s'addormentò d'un sonno perfetto e continuo.
Ma
c'era qualchedun altro in quello stesso castello, che avrebbe voluto fare
altrettanto, e non poté mai. Partito, o quasi scappato da Lucia, dato l'ordine
per la cena di lei, fatta una consueta visita a certi posti del castello,
sempre con quell'immagine viva nella mente, e con quelle parole risonanti
all'orecchio, il signore s'era andato a cacciare in camera, s'era chiuso dentro
in fretta e in furia, come se avesse avuto a trincerarsi contro una squadra di
nemici; e spogliatosi, pure in furia, era andato a letto. Ma quell'immagine,
più che mai presente, parve che in quel momento gli dicesse: tu non dormirai.
"Che sciocca curiosità da donnicciola, - pensava, - m'è venuta di vederla?
Ha ragione quel bestione del Nibbio; uno non è più uomo; è vero, non è più
uomo!... Io?... io non son più uomo, io? Cos'è stato? che diavolo m'è venuto
addosso? che c'è di nuovo? Non lo sapevo io prima d'ora, che le donne
strillano? Strillano anche gli uomini alle volte, quando non si possono
rivoltare. Che diavolo! non ho mai sentito belar donne?"
E qui,
senza che s'affaticasse molto a rintracciare nella memoria, la memoria da sé
gli rappresentò più d'un caso in cui né preghi né lamenti non l'avevano punto
smosso dal compire le sue risoluzioni. Ma la rimembranza di tali imprese, non
che gli ridonasse la fermezza, che già gli mancava, di compir questa; non che
spegnesse nell'animo quella molesta pietà; vi destava in vece una specie di
terrore, una non so qual rabbia di pentimento. Di maniera che gli parve un
sollievo il tornare a quella prima immagine di Lucia, contro la quale aveva
cercato di rinfrancare il suo coraggio. "È viva costei, - pensava, - è
qui; sono a tempo; le posso dire: andate, rallegratevi; posso veder quel viso
cambiarsi, le posso anche dire: perdonatemi... Perdonatemi? io domandar
perdono? a una donna? io...! Ah, eppure! se una parola, una parola tale mi
potesse far bene, levarmi d'addosso un po' di questa diavoleria, la direi; eh!
sento che la direi. A che cosa son ridotto! Non son più uomo, non son più
uomo!... Via! - disse, poi, rivoltandosi arrabbiatamente nel letto divenuto
duro duro, sotto le coperte divenute pesanti pesanti: - via! sono sciocchezze
che mi son passate per la testa altre volte. Passerà anche questa".
E per
farla passare, andò cercando col pensiero qualche cosa importante, qualcheduna
di quelle che solevano occuparlo fortemente, onde applicarvelo tutto; ma non ne
trovò nessuna. Tutto gli appariva cambiato: ciò che altre volte stimolava più
fortemente i suoi desidèri, ora non aveva più nulla di desiderabile: la
passione, come un cavallo divenuto tutt'a un tratto restìo per un'ombra, non
voleva più andare avanti. Pensando all'imprese avviate e non finite, in vece
d'animarsi al compimento, in vece d'irritarsi degli ostacoli (ché l'ira in quel
momento gli sarebbe parsa soave), sentiva una tristezza, quasi uno spavento de'
passi già fatti. Il tempo gli s'affacciò davanti voto d'ogni intento, d'ogni
occupazione, d'ogni volere, pieno soltanto di memorie intollerabili; tutte
l'ore somiglianti a quella che gli passava così lenta, così pesante sul capo.
Si schierava nella fantasia tutti i suoi malandrini, e non trovava da comandare
a nessuno di loro una cosa che gl'importasse; anzi l'idea di rivederli, di
trovarsi tra loro, era un nuovo peso, un'idea di schifo e d'impiccio. E se
volle trovare un'occupazione per l'indomani, un'opera fattibile, dovette
pensare che all'indomani poteva lasciare in libertà quella poverina.
"La
libererò, sì; appena spunta il giorno, correrò da lei, e le dirò: andate,
andate. La farò accompagnare... E la promessa? e l'impegno? e don Rodrigo?...
Chi è don Rodrigo?"
A guisa
di chi è colto da una interrogazione inaspettata e imbarazzante d'un superiore,
l'innominato pensò subito a rispondere a questa che s'era fatta lui stesso, o
piuttosto quel nuovo lui, che cresciuto terribilmente a un tratto, sorgeva come
a giudicare l'antico. Andava dunque cercando le ragioni per cui, prima quasi
d'esser pregato, s'era potuto risolvere a prender l'impegno di far tanto
patire, senz'odio, senza timore, un'infelice sconosciuta, per servire colui;
ma, non che riuscisse a trovar ragioni che in quel momento gli paressero buone
a scusare il fatto, non sapeva quasi spiegare a se stesso come ci si fosse
indotto. Quel volere, piuttosto che una deliberazione, era stato un movimento
istantaneo dell'animo ubbidiente a sentimenti antichi, abituali, una
conseguenza di mille fatti antecedenti; e il tormentato esaminator di se
stesso, per rendersi ragione d'un sol fatto, si trovò ingolfato nell'esame di
tutta la sua vita. Indietro, indietro, d'anno in anno, d'impegno in impegno, di
sangue in sangue, di scelleratezza in scelleratezza: ognuna ricompariva
all'animo consapevole e nuovo, separata da' sentimenti che l'avevan fatta
volere e commettere; ricompariva con una mostruosità che que' sentimenti non
avevano allora lasciato scorgere in essa. Eran tutte sue, eran lui: l'orrore di
questo pensiero, rinascente a ognuna di quell'immagini, attaccato a tutte,
crebbe fino alla disperazione. S'alzò in furia a sedere, gettò in furia le mani
alla parete accanto al letto, afferrò una pistola, la staccò, e... al momento
di finire una vita divenuta insopportabile, il suo pensiero sorpreso da un
terrore, da un'inquietudine, per dir così, superstite, si slanciò nel tempo che
pure continuerebbe a scorrere dopo la sua fine. S'immaginava con raccapriccio
il suo cadavere sformato, immobile, in balìa del più vile sopravvissuto; la
sorpresa, la confusione nel castello, il giorno dopo: ogni cosa sottosopra;
lui, senza forza, senza voce, buttato chi sa dove. Immaginava i discorsi che se
ne sarebber fatti lì, d'intorno, lontano; la gioia de' suoi nemici. Anche le
tenebre, anche il silenzio, gli facevan veder nella morte qualcosa di più
tristo, di spaventevole; gli pareva che non avrebbe esitato, se fosse stato di
giorno, all'aperto, in faccia alla gente: buttarsi in un fiume e sparire. E
assorto in queste contemplazioni tormentose, andava alzando e riabbassando, con
una forza convulsiva del pollice, il cane della pistola; quando gli balenò in
mente un altro pensiero. "Se quell'altra vita di cui m'hanno parlato
quand'ero ragazzo, di cui parlano sempre, come se fosse cosa sicura; se quella
vita non c'è, se è un'invenzione de' preti; che fo io? perché morire?
cos'importa quello che ho fatto? cos'importa? è una pazzia la mia... E se c'è
quest'altra vita...!"
A un
tal dubbio, a un tal rischio, gli venne addosso una disperazione più nera, più
grave, dalla quale non si poteva fuggire, neppur con la morte. Lasciò cader
l'arme, e stava con le mani ne' capelli, battendo i denti, tremando. Tutt'a un
tratto, gli tornarono in mente parole che aveva sentite e risentite, poche ore
prima: "Dio perdona tante cose, per un'opera di misericordia!" E non
gli tornavan già con quell'accento d'umile preghiera, con cui erano state
proferite; ma con un suono pieno d'autorità, e che insieme induceva una lontana
speranza. Fu quello un momento di sollievo: levò le mani dalle tempie, e, in
un'attitudine più composta, fissò gli occhi della mente in colei da cui aveva
sentite quelle parole; e la vedeva, non come la sua prigioniera, non come una
supplichevole, ma in atto di chi dispensa grazie e consolazioni. Aspettava
ansiosamente il giorno, per correre a liberarla, a sentire dalla bocca di lei
altre parole di refrigerio e di vita; s'immaginava di condurla lui stesso alla
madre. "E poi? che farò domani, il resto della giornata? che farò doman
l'altro? che farò dopo doman l'altro? E la notte? la notte, che tornerà tra
dodici ore! Oh la notte! no, no, la notte!" E ricaduto nel vòto penoso
dell'avvenire, cercava indarno un impiego del tempo, una maniera di passare i
giorni, le notti. Ora si proponeva d'abbandonare il castello, e d'andarsene in
paesi lontani, dove nessun lo conoscesse, neppur di nome; ma sentiva che lui,
lui sarebbe sempre con sé: ora gli rinasceva una fosca speranza di ripigliar
l'animo antico, le antiche voglie; e che quello fosse come un delirio
passeggiero; ora temeva il giorno, che doveva farlo vedere a' suoi così
miserabilmente mutato; ora lo sospirava, come se dovesse portar la luce anche
ne' suoi pensieri. Ed ecco, appunto sull'albeggiare, pochi momenti dopo che
Lucia s'era addormentata, ecco che, stando così immoto a sedere, sentì
arrivarsi all'orecchio come un'onda di suono non bene espresso, ma che pure
aveva non so che d'allegro. Stette attento, e riconobbe uno scampanare a festa
lontano; e dopo qualche momento, sentì anche l'eco del monte, che ogni tanto
ripeteva languidamente il concento, e si confondeva con esso. Di lì a poco,
sente un altro scampanìo più vicino, anche quello a festa; poi un altro.
"Che allegria c'è? cos'hanno di bello tutti costoro?" Saltò fuori da
quel covile di pruni; e vestitosi a mezzo, corse a aprire una finestra, e
guardò. Le montagne eran mezze velate di nebbia; il cielo, piuttosto che
nuvoloso, era tutto una nuvola cenerognola; ma, al chiarore che pure andava a
poco a poco crescendo, si distingueva, nella strada in fondo alla valle, gente
che passava, altra che usciva dalle case, e s'avviava, tutti dalla stessa
parte, verso lo sbocco, a destra del castello, tutti col vestito delle feste, e
con un'alacrità straordinaria.
"Che
diavolo hanno costoro? che c'è d'allegro in questo maledetto paese? dove va
tutta quella canaglia?" E data una voce a un bravo fidato che dormiva in
una stanza accanto, gli domandò qual fosse la cagione di quel movimento.
Quello, che ne sapeva quanto lui, rispose che anderebbe subito a informarsene.
Il signore rimase appoggiato alla finestra, tutto intento al mobile spettacolo.
Erano uomini, donne, fanciulli, a brigate, a coppie, soli; uno, raggiungendo
chi gli era avanti, s'accompagnava con lui; un altro, uscendo di casa, s'univa
col primo che rintoppasse; e andavano insieme, come amici a un viaggio
convenuto. Gli atti indicavano manifestamente una fretta e una gioia comune; e
quel rimbombo non accordato ma consentaneo delle varie campane, quali più,
quali meno vicine, pareva, per dir così, la voce di que' gesti, e il
supplimento delle parole che non potevano arrivar lassù. Guardava, guardava; e
gli cresceva in cuore una più che curiosità di saper cosa mai potesse
comunicare un trasporto uguale a tanta gente diversa.
Poco
dopo, il bravo venne a riferire che, il giorno avanti, il cardinal Federigo
Borromeo, arcivescovo di Milano, era arrivato a ***, e ci starebbe tutto quel
giorno; e che la nuova sparsa la sera di quest'arrivo ne' paesi d'intorno aveva
invogliati tutti d'andare a veder quell'uomo; e si scampanava più per allegria,
che per avvertir la gente. Il signore, rimasto solo, continuò a guardar nella
valle, ancor più pensieroso. "Per un uomo! Tutti premurosi, tutti allegri,
per vedere un uomo! E però ognuno di costoro avrà il suo diavolo che lo
tormenti. Ma nessuno, nessuno n'avrà uno come il mio; nessuno avrà passata una
notte come la mia! Cos'ha quell'uomo, per render tanta gente allegra? Qualche
soldo che distribuirà così alla ventura... Ma costoro non vanno tutti per
l'elemosina. Ebbene, qualche segno nell'aria, qualche parola... Oh se le avesse
per me le parole che possono consolare! se...! Perché non vado anch'io? Perché
no?... Anderò, anderò; e gli voglio parlare: a quattr'occhi gli voglio parlare.
Cosa gli dirò? Ebbene, quello che, quello che... Sentirò cosa sa dir lui,
quest'uomo!"
Fatta
così in confuso questa risoluzione, finì in fretta di vestirsi, mettendosi una
sua casacca d'un taglio che aveva qualche cosa del militare; prese la terzetta
rimasta sul letto, e l'attaccò alla cintura da una parte; dall'altra, un'altra
che staccò da un chiodo della parete; mise in quella stessa cintura il suo
pugnale; e staccata pur dalla parete una carabina famosa quasi al par di lui,
se la mise ad armacollo; prese il cappello, uscì di camera; e andò prima di
tutto a quella dove aveva lasciata Lucia. Posò fuori la carabina in un
cantuccio vicino all'uscio, e picchiò, facendo insieme sentir la sua voce. La
vecchia scese il letto in un salto, e corse ad aprire. Il signore entrò, e data
un'occhiata per la camera, vide Lucia rannicchiata nel suo cantuccio e quieta.
-
Dorme? - domandò sotto voce alla vecchia: - là, dorme? eran questi i miei
ordini, sciagurata?
- Io ho
fatto di tutto, - rispose quella: - ma non ha mai voluto mangiare, non è mai
voluta venire...
-
Lasciala dormire in pace; guarda di non la disturbare; e quando si sveglierà...
Marta verrà qui nella stanza vicina; e tu manderai a prendere qualunque cosa
che costei possa chiederti. Quando si sveglierà... dille che io... che il
padrone è partito per poco tempo, che tornerà, e che... farà tutto quello che
lei vorrà.
La
vecchia rimase tutta stupefatta pensando tra sé: "che sia qualche
principessa costei?"
Il
signore uscì, riprese la sua carabina, mandò Marta a far anticamera, mandò il
primo bravo che incontrò a far la guardia, perché nessun altro che quella donna
mettesse piede nella camera; e poi uscì dal castello, e prese la scesa, di
corsa.
Il
manoscritto non dice quanto ci fosse dal castello al paese dov'era il cardinale;
ma dai fatti che siam per raccontare, risulta che non doveva esser più che una
lunga passeggiata. Dal solo accorrere de' valligiani, e anche di gente più
lontana, a quel paese, questo non si potrebbe argomentare; giacché nelle
memorie di quel tempo troviamo che da venti e più miglia veniva gente in folla,
per veder Federigo.
I bravi
che s'abbattevano sulla salita, si fermavano rispettosamente al passar del
signore, aspettando se mai avesse ordini da dar loro, o se volesse prenderli
seco, per qualche spedizione; e non sapevan che si pensare della sua aria, e
dell'occhiate che dava in risposta a' loro inchini.
Quando
fu nella strada pubblica, quello che faceva maravigliare i passeggieri, era di
vederlo senza seguito. Del resto, ognuno gli faceva luogo, prendendola larga,
quanto sarebbe bastato anche per il seguito, e levandosi rispettosamente il
cappello. Arrivato al paese, trovò una gran folla; ma il suo nome passò subito
di bocca in bocca; e la folla s'apriva. S'accostò a uno, e gli domandò dove fosse
il cardinale. - In casa del curato, - rispose quello, inchinandosi, e gl'indicò
dov'era. Il signore andò là, entrò in un cortiletto dove c'eran molti preti,
che tutti lo guardarono con un'attenzione maravigliata e sospettosa. Vide
dirimpetto un uscio spalancato, che metteva in un salottino, dove molti altri
preti eran congregati. Si levò la carabina, e l'appoggiò in un canto del
cortile; poi entrò nel salottino: e anche lì, occhiate, bisbigli, un nome
ripetuto, e silenzio. Lui, voltatosi a uno di quelli, gli domandò dove fosse il
cardinale; e che voleva parlargli.
- Io
son forestiero, - rispose l'interrogato, e data un'occhiata intorno, chiamò il
cappellano crocifero, che in un canto del salottino, stava appunto dicendo
sotto voce a un suo compagno: - colui? quel famoso? che ha a far qui colui?
alla larga! - Però, a quella chiamata che risonò nel silenzio generale, dovette
venire l'innominato, stette a sentir quel che voleva, e alzando con una
curiosità inquieta gli occhi su quel viso, e riabbassandoli subito, rimase lì
un poco, poi disse o balbettò: - non saprei se monsignore illustrissimo... in
questo momento... si trovi... sia... possa... Basta, vado a vedere -. E andò a
malincorpo a far l'imbasciata nella stanza vicina, dove si trovava il
cardinale.
A questo
punto della nostra storia, noi non possiam far a meno di non fermarci qualche
poco, come il viandante, stracco e tristo da un lungo camminare per un terreno
arido e salvatico, si trattiene e perde un po' di tempo all'ombra d'un
bell'albero, sull'erba, vicino a una fonte d'acqua viva. Ci siamo abbattuti in
un personaggio, il nome e la memoria del quale, affacciandosi, in qualunque
tempo alla mente, la ricreano con una placida commozione di riverenza, e con un
senso giocondo di simpatia: ora, quanto più dopo tante immagini di dolore, dopo
la contemplazione d'una moltiplice e fastidiosa perversità! Intorno a questo
personaggio bisogna assolutamente che noi spendiamo quattro parole: chi non si
curasse di sentirle, e avesse però voglia d'andare avanti nella storia, salti
addirittura al capitolo seguente.
Federigo
Borromeo, nato nel 1564, fu degli uomini rari in qualunque tempo, che abbiano
impiegato un ingegno egregio, tutti i mezzi d'una grand'opulenza, tutti i
vantaggi d'una condizione privilegiata, un intento continuo, nella ricerca e
nell'esercizio del meglio. La sua vita è come un ruscello che, scaturito
limpido dalla roccia, senza ristagnare né intorbidarsi mai, in un lungo corso
per diversi terreni, va limpido a gettarsi nel fiume. Tra gli agi e le pompe,
badò fin dalla puerizia a quelle parole d'annegazione e d'umiltà, a quelle
massime intorno alla vanità de' piaceri, all'ingiustizia dell'orgoglio, alla
vera dignità e a' veri beni, che, sentite o non sentite ne' cuori, vengono
trasmesse da una generazione all'altra, nel più elementare insegnamento della
religione. Badò, dico, a quelle parole, a quelle massime, le prese sul serio,
le gustò, le trovò vere; vide che non potevan dunque esser vere altre parole e
altre massime opposte, che pure si trasmettono di generazione in generazione,
con la stessa sicurezza, e talora dalle stesse labbra; e propose di prender per
norma dell'azioni e de' pensieri quelle che erano il vero. Persuaso che la vita
non è già destinata ad essere un peso per molti, e una festa per alcuni, ma per
tutti un impiego, del quale ognuno renderà conto, cominciò da fanciullo a
pensare come potesse render la sua utile e santa.
Nel
1580 manifestò la risoluzione di dedicarsi al ministero ecclesiastico, e ne
prese l'abito dalle mani di quel suo cugino Carlo, che una fama, già fin
d'allora antica e universale, predicava santo. Entrò poco dopo nel collegio
fondato da questo in Pavia, e che porta ancora il nome del loro casato; e lì,
applicandosi assiduamente alle occupazioni che trovò prescritte, due altre ne
assunse di sua volontà; e furono d'insegnar la dottrina cristiana ai più rozzi
e derelitti del popolo, e di visitare, servire, consolare e soccorrere
gl'infermi. Si valse dell'autorità che tutto gli conciliava in quel luogo, per
attirare i suoi compagni a secondarlo in tali opere; e in ogni cosa onesta e
profittevole esercitò come un primato d'esempio, un primato che le sue doti
personali sarebbero forse bastate a procacciargli, se fosse anche stato
l'infimo per condizione. I vantaggi d'un altro genere, che la sua gli avrebbe
potuto procurare, non solo non li ricercò, ma mise ogni studio a schivarli.
Volle una tavola piuttosto povera che frugale, usò un vestiario piuttosto
povero che semplice; a conformità di questo, tutto il tenore della vita e il
contegno. Ne credette mai di doverlo mutare, per quanto alcuni congiunti
gridassero e si lamentassero che avvilisse così la dignità della casa. Un'altra
guerra ebbe a sostenere con gl'istitutori, i quali, furtivamente e come per
sorpresa, cercavano di mettergli davanti, addosso, intorno, qualche
suppellettile più signorile, qualcosa che lo facesse distinguer dagli altri, e
figurare come il principe del luogo: o credessero di farsi alla lunga ben
volere con ciò; o fossero mossi da quella svisceratezza servile che s'invanisce
e si ricrea nello splendore altrui; o fossero di que' prudenti che s'adombrano
delle virtù come de' vizi, predicano sempre che la perfezione sta nel mezzo; e
il mezzo lo fissan giusto in quel punto dov'essi sono arrivati, e ci stanno comodi.
Federigo, non che lasciarsi vincere da que' tentativi, riprese coloro che li
facevano; e ciò tra la pubertà e la giovinezza.
Che,
vivente il cardinal Carlo, maggior di lui di ventisei anni, davanti a quella
presenza grave, solenne, ch'esprimeva così al vivo la santità, e ne rammentava
le opere, e alla quale, se ce ne fosse stato bisogno, avrebbe aggiunto autorità
ogni momento l'ossequio manifesto e spontaneo de' circostanti, quali e quanti
si fossero, Federigo fanciullo e giovinetto cercasse di conformarsi al contegno
e al pensare d'un tal superiore, non è certamente da farsene maraviglia; ma è
bensì cosa molto notabile che, dopo la morte di lui, nessuno si sia potuto
accorgere che a Federigo, allor di vent'anni, fosse mancata una guida e un
censore. La fama crescente del suo ingegno, della sua dottrina e della sua
pietà, la parentela e gl'impegni di più d'un cardinale potente, il credito
della sua famiglia, il nome stesso, a cui Carlo aveva quasi annessa nelle menti
un'idea di santità e di preminenza, tutto ciò che deve, e tutto ciò che può
condurre gli uomini alle dignità ecclesiastiche, concorreva a
pronosticargliele. Ma egli, persuaso in cuore di ciò che nessuno il quale
professi cristianesimo può negar con la bocca, non ci esser giusta superiorità
d'uomo sopra gli uomini, se non in loro servizio, temeva le dignità, e cercava
di scansarle; non certamente perché sfuggisse di servire altrui; che poche vite
furono spese in questo come la sua; ma perché non si stimava abbastanza degno
né capace di così alto e pericoloso servizio. Perciò, venendogli, nel 1595,
proposto da Clemente VIII l'arcivescovado di Milano, apparve fortemente
turbato, e ricusò senza esitare. Cedette poi al comando espresso del papa.
Tali
dimostrazioni, e chi non lo sa? non sono né difficili né rare; e l'ipocrisia
non ha bisogno d'un più grande sforzo d'ingegno per farle, che la buffoneria
per deriderle a buon conto, in ogni caso. Ma cessan forse per questo d'esser
l'espressione naturale d'un sentimento virtuoso e sapiente? La vita è il
paragone delle parole: e le parole ch'esprimono quel sentimento, fossero anche
passate sulle labbra di tutti gl'impostori e di tutti i beffardi del mondo,
saranno sempre belle, quando siano precedute e seguite da una vita di
disinteresse e di sacrifizio.
In
Federigo arcivescovo apparve uno studio singolare e continuo di non prender per
sé, delle ricchezze, del tempo, delle cure, di tutto se stesso in somma, se non
quanto fosse strettamente necessario. Diceva, come tutti dicono, che le rendite
ecclesiastiche sono patrimonio de' poveri: come poi intendesse infatti una tal
massima, si veda da questo. Volle che si stimasse a quanto poteva ascendere il
suo mantenimento e quello della sua servitù; e dettogli che seicento scudi
(scudo si chiamava allora quella moneta d'oro che, rimanendo sempre dello
stesso peso e titolo, fu poi detta zecchino), diede ordine che tanti se ne
contasse ogni anno dalla sua cassa particolare a quella della mensa; non
credendo che a lui ricchissimo fosse lecito vivere di quel patrimonio. Del suo
poi era così scarso e sottile misuratore a se stesso, che badava di non
ismettere un vestito, prima che fosse logoro affatto: unendo però, come fu
notato da scrittori contemporanei, al genio della semplicità quello d'una
squisita pulizia: due abitudini notabili infatti, in quell'età sudicia e
sfarzosa. Similmente, affinché nulla si disperdesse degli avanzi della sua
mensa frugale, gli assegnò a un ospizio di poveri; e uno di questi, per suo
ordine, entrava ogni giorno nella sala del pranzo a raccoglier ciò che fosse
rimasto. Cure, che potrebbero forse indur concetto d'una virtù gretta, misera,
angustiosa, d'una mente impaniata nelle minuzie, e incapace di disegni elevati;
se non fosse in piedi questa biblioteca ambrosiana, che Federigo ideò con sì animosa
lautezza, ed eresse, con tanto dispendio, da' fondamenti; per fornir la quale
di libri e di manoscritti, oltre il dono de' già raccolti con grande studio e
spesa da lui, spedì otto uomini, de' più colti ed esperti che poté avere, a
farne incetta, per l'Italia, per la Francia, per la Spagna, per la Germania,
per le Fiandre, nella Grecia, al Libano, a Gerusalemme. Così riuscì a radunarvi
circa trentamila volumi stampati, e quattordicimila manoscritti. Alla
biblioteca unì un collegio di dottori (furon nove, e pensionati da lui fin che
visse; dopo, non bastando a quella spesa l'entrate ordinarie, furon ristretti a
due); e il loro ufizio era di coltivare vari studi, teologia, storia, lettere,
antichità ecclesiastiche, lingue orientali, con l'obbligo ad ognuno di
pubblicar qualche lavoro sulla materia assegnatagli; v'unì un collegio da lui
detto trilingue, per lo studio delle lingue greca, latina e italiana; un
collegio d'alunni, che venissero istruiti in quelle facoltà e lingue, per
insegnarle un giorno; v'unì una stamperia di lingue orientali, dell'ebraica
cioè, della caldea, dell'arabica, della persiana, dell'armena; una galleria di
quadri, una di statue, e, una scuola delle tre principali arti del disegno. Per
queste, poté trovar professori già formati; per il rimanente, abbiam visto che
da fare gli avesse dato la raccolta de' libri e de' manoscritti; certo più
difficili a trovarsi dovevano essere i tipi di quelle lingue, allora molto men
coltivate in Europa che al presente; più ancora de' tipi, gli uomini. Basterà
il dire che, di nove dottori, otto ne prese tra i giovani alunni del seminario;
e da questo si può argomentare che giudizio facesse degli studi consumati e
delle riputazioni fatte di quel tempo: giudizio conforme a quello che par che
n'abbia portato la posterità, col mettere gli uni e le altre in dimenticanza.
Nelle regole che stabilì per l'uso e per il governo della biblioteca, si vede
un intento d'utilità perpetua, non solamente bello in sé, ma in molte parti
sapiente e gentile molto al di là dell'idee e dell'abitudini comuni di quel
tempo. Prescrisse al bibliotecario che mantenesse commercio con gli uomini più
dotti d'Europa, per aver da loro notizie dello stato delle scienze, e avviso
de' libri migliori che venissero fuori in ogni genere, e farne acquisto; gli
prescrisse d'indicare agli studiosi i libri che non conoscessero, e potesser
loro esser utili; ordinò che a tutti, fossero cittadini o forestieri, si desse
comodità e tempo di servirsene, secondo il bisogno. Una tale intenzione deve
ora parere ad ognuno troppo naturale, e immedesimata con la fondazione d'una
biblioteca: allora non era così. E in una storia dell'ambrosiana, scritta (col
costrutto e con l'eleganze comuni del secolo) da un Pierpaolo Bosca, che vi fu
bibliotecario dopo la morte di Federigo, vien notato espressamente, come cosa
singolare, che in questa libreria, eretta da un privato, quasi tutta a sue
spese, i libri fossero esposti alla vista del pubblico, dati a chiunque li
chiedesse, e datogli anche da sedere, e carta, penne e calamaio, per prender
gli appunti che gli potessero bisognare; mentre in qualche altra insigne
biblioteca pubblica d'Italia, i libri non erano nemmen visibili, ma chiusi in
armadi, donde non si levavano se non per gentilezza de' bibliotecari, quando si
sentivano di farli vedere un momento; di dare ai concorrenti il comodo di
studiare, non se n'aveva neppur l'idea. Dimodoché arricchir tali biblioteche
era un sottrar libri all'uso comune: una di quelle coltivazioni, come ce n'era
e ce n'è tuttavia molte, che isteriliscono il campo.
Non
domandate quali siano stati gli effetti di questa fondazione del Borromeo sulla
coltura pubblica: sarebbe facile dimostrare in due frasi, al modo che si
dimostra, che furon miracolosi, o che non furon niente; cercare e spiegare,
fino a un certo segno, quali siano stati veramente, sarebbe cosa di molta
fatica, di poco costrutto, e fuor di tempo. Ma pensate che generoso, che
giudizioso, che benevolo, che perseverante amatore del miglioramento umano,
dovesse essere colui che volle una tal cosa, la volle in quella maniera, e
l'eseguì, in mezzo a quell'ignorantaggine, a quell'inerzia, a quell'antipatia
generale per ogni applicazione studiosa, e per conseguenza in mezzo ai cos'importa?
e c'era altro da pensare? e che bell'invenzione! e mancava
anche questa, e simili; che saranno certissimamente stati più che gli scudi
spesi da lui in quell'impresa; i quali furon centocinquemila, la più parte de'
suoi.
Per
chiamare un tal uomo sommamente benefico e liberale, può parer che non ci sia
bisogno di sapere se n'abbia spesi molt'altri in soccorso immediato de'
bisognosi; e ci son forse ancora di quelli che pensano che le spese di quel
genere, e sto per dire tutte le spese, siano la migliore e la più utile
elemosina. Ma Federigo teneva l'elemosina propriamente detta per un dovere
principalissimo; e qui, come nel resto, i suoi fatti furon consentanei
all'opinione. La sua vita fu un continuo profondere ai poveri; e a proposito di
questa stessa carestia di cui ha già parlato la nostra storia, avremo tra poco
occasione di riferire alcuni tratti, dai quali si vedrà che sapienza e che
gentilezza abbia saputo mettere anche in questa liberalità. De' molti esempi
singolari che d'una tale sua virtù hanno notati i suoi biografi, ne citeremo
qui un solo. Avendo risaputo che un nobile usava artifizi e angherie per far
monaca una sua figlia, la quale desiderava piuttosto di maritarsi, fece venire
il padre; e cavatogli di bocca che il vero motivo di quella vessazione era il
non avere quattromila scudi che, secondo lui, sarebbero stati necessari a
maritar la figlia convenevolmente, Federigo la dotò di quattromila scudi. Forse
a taluno parrà questa una larghezza eccessiva, non ben ponderata, troppo
condiscendente agli stolti capricci d'un superbo; e che quattromila scudi
potevano esser meglio impiegati in cent'altre maniere. A questo non abbiamo
nulla da rispondere, se non che sarebbe da desiderarsi che si vedessero spesso
eccessi d'una virtù così libera dall'opinioni dominanti (ogni tempo ha le sue),
così indipendente dalla tendenza generale, come, in questo caso, fu quella che
mosse un uomo a dar quattromila scudi, perché una giovine non fosse fatta
monaca.
La
carità inesausta di quest'uomo, non meno che nel dare, spiccava in tutto il suo
contegno. Di facile abbordo con tutti, credeva di dovere specialmente a quelli
che si chiamano di bassa condizione, un viso gioviale, una cortesia affettuosa;
tanto più, quanto ne trovan meno nel mondo. E qui pure ebbe a combattere co'
galantuomini del ne quid nimis, i quali, in ogni cosa, avrebbero voluto
farlo star ne' limiti, cioè ne' loro limiti. Uno di costoro, una volta che,
nella visita d'un paese alpestre e salvatico, Federigo istruiva certi poveri
fanciulli, e, tra l'interrogare e l'insegnare, gli andava amorevolmente accarezzando,
l'avvertì che usasse più riguardo nel far tante carezze a que' ragazzi, perche
eran troppo sudici e stomacosi: come se supponesse, il buon uomo, che Federigo
non avesse senso abbastanza per fare una tale scoperta, o non abbastanza
perspicacia, per trovar da sé quel ripiego così fino. Tale è, in certe
condizioni di tempi e di cose, la sventura degli uomini costituiti in certe
dignità: che mentre così di rado si trova chi gli avvisi de' loro mancamenti,
non manca poi gente coraggiosa a riprenderli del loro far bene. Ma il buon
vescovo, non senza un certo risentimento, rispose: - sono mie anime, e forse
non vedranno mai più la mia faccia; e non volete che gli abbracci?
Ben
raro però era il risentimento in lui, ammirato per la soavità de' suoi modi,
per una pacatezza imperturbabile, che si sarebbe attribuita a una felicità
straordinaria di temperamento; ed era l'effetto d'una disciplina costante sopra
un'indole viva e risentita. Se qualche volta si mostrò severo, anzi brusco, fu
co' pastori suoi subordinati che scoprisse rei d'avarizia o di negligenza o
d'altre tacce specialmente opposte allo spirito del loro nobile ministero. Per
tutto ciò che potesse toccare o il suo interesse, o la sua gloria temporale,
non dava mai segno di gioia, né di rammarico, né d'ardore, né d'agitazione:
mirabile se questi moti non si destavano nell'animo suo, più mirabile se vi si
destavano. Non solo da' molti conclavi ai quali assistette, riportò il concetto
di non aver mai aspirato a quel posto così desiderabile all'ambizione, e così
terribile alla pietà; ma una volta che un collega, il quale contava molto,
venne a offrirgli il suo voto e quelli della sua fazione (brutta parola, ma era
quella che usavano), Federigo rifiutò una tal proposta in modo, che quello
depose il pensiero, e si rivolse altrove. Questa stessa modestia,
quest'avversione al predominare apparivano ugualmente nell'occasioni più comuni
della vita. Attento e infaticabile a disporre e a governare, dove riteneva che
fosse suo dovere il farlo, sfuggì sempre d'impicciarsi negli affari altrui;
anzi si scusava a tutto potere dall'ingerirvisi ricercato: discrezione e
ritegno non comune, come ognuno sa, negli uomini zelatori del bene, qual era
Federigo.
Se
volessimo lasciarci andare al piacere di raccogliere i tratti notabili del suo
carattere, ne risulterebbe certamente un complesso singolare di meriti in
apparenza opposti, e certo difficili a trovarsi insieme. Però non ometteremo di
notare un'altra singolarità di quella bella vita: che, piena come fu
d'attività, di governo, di funzioni, d'insegnamento, d'udienze, di visite
diocesane, di viaggi, di contrasti, non solo lo studio c'ebbe una parte, ma ce
n'ebbe tanta, che per un letterato di professione sarebbe bastato. E infatti,
con tant'altri e diversi titoli di lode, Federigo ebbe anche, presso i suoi
contemporanei, quello d'uom dotto.
Non
dobbiamo però dissimulare che tenne con ferma persuasione, e sostenne in
pratica, con lunga costanza, opinioni, che al giorno d'oggi parrebbero a ognuno
piuttosto strane che mal fondate; dico anche a coloro che avrebbero una gran
voglia di trovarle giuste. Chi lo volesse difendere in questo, ci sarebbe
quella scusa così corrente e ricevuta, ch'erano errori del suo tempo, piuttosto
che suoi: scusa che, per certe cose, e quando risulti dall'esame particolare
de' fatti, può aver qualche valore, o anche molto; ma che applicata così nuda e
alla cieca, come si fa d'ordinario, non significa proprio nulla. E perciò, non
volendo risolvere con formole semplici questioni complicate, né allungar troppo
un episodio, tralasceremo anche d'esporle; bastandoci d'avere accennato così
alla sfuggita che, d'un uomo così ammirabile in complesso, noi non pretendiamo
che ogni cosa lo fosse ugualmente; perché non paia che abbiam voluto scrivere
un'orazion funebre.
Non è
certamente fare ingiuria ai nostri lettori il supporre che qualcheduno di loro
domandi se di tanto ingegno e di tanto studio quest'uomo abbia lasciato qualche
monumento. Se n'ha lasciati! Circa cento son l'opere che rimangon di lui, tra
grandi e piccole, tra latine e italiane, tra stampate e manoscritte, che si
serbano nella biblioteca da lui fondata: trattati di morale, orazioni,
dissertazioni di storia, d'antichità sacra e profana, di letteratura, d'arti e
d'altro. "E come mai, dirà codesto lettore, tante opere sono dimenticate,
o almeno così poco conosciute, così poco ricercate? Come mai, con tanto
ingegno, con tanto studio, con tanta pratica degli uomini e delle cose, con
tanto meditare, con tanta passione per il buono e per il bello, con tanto candor
d'animo, con tant'altre di quelle qualità che fanno il grande scrittore,
questo, in cento opere, non ne ha lasciata neppur una di quelle che son
riputate insigni anche da chi non le approva in tutto, e conosciute di titolo
anche da chi non le legge? Come mai, tutte insieme, non sono bastate a
procurare, almeno col numero, al suo nome una fama letteraria presso noi
posteri?"
La
domanda è ragionevole senza dubbio, e la questione, molto interessante; perché
le ragioni di questo fenomeno si troverebbero con l'osservar molti fatti
generali: e trovate, condurrebbero alla spiegazione di più altri fenomeni
simili. Ma sarebbero molte e prolisse: e poi se non v'andassero a genio? se vi
facessero arricciare il naso? Sicché sarà meglio che riprendiamo il filo della storia,
e che, in vece di cicalar più a lungo intorno a quest'uomo, andiamo a vederlo
in azione, con la guida del nostro autore.
Il
cardinal Federigo, intanto che aspettava l'ora d'andar in chiesa a celebrar gli
ufizi divini, stava studiando, com'era solito di fare in tutti i ritagli di
tempo; quando entrò il cappellano crocifero, con un viso alterato.
- Una
strana visita, strana davvero, monsignore illustrissimo!
- Chi
è? - domandò il cardinale.
-
Niente meno che il signor... - riprese il cappellano- e spiccando le sillabe
con una gran significazione, proferì quel nome che noi non possiamo scrivere ai
nostri lettori. Poi soggiunse: - è qui fuori in persona; e chiede nient'altro
che d'esser introdotto da vossignoria illustrissima.
- Lui!
- disse il cardinale, con un viso animato, chiudendo il libro, e alzandosi da
sedere: - venga! venga subito!
- Ma...
- replicò il cappellano, senza moversi: - vossignoria illustrissima deve sapere
chi è costui: quel bandito, quel famoso...
- E non
è una fortuna per un vescovo, che a un tal uomo sia nata la volontà di venirlo
a trovare?
- Ma...
- insistette il cappellano: - noi non possiamo mai parlare di certe cose,
perché monsignore dice che le son ciance: però quando viene il caso, mi pare
che sia un dovere... Lo zelo fa de' nemici, monsignore; e noi sappiamo
positivamente che più d'un ribaldo ha osato vantarsi che, un giorno o
l'altro...
- E che
hanno fatto? - interruppe il cardinale.
- Dico
che costui è un appaltatore di delitti, un disperato, che tiene corrispondenza
co' disperati più furiosi, e che può esser mandato...
- Oh,
che disciplina è codesta, - interruppe ancora sorridendo Federigo, - che i
soldati esortino il generale ad aver paura? - Poi, divenuto serio e pensieroso,
riprese: - san Carlo non si sarebbe trovato nel caso di dibattere se dovesse
ricevere un tal uomo: sarebbe andato a cercarlo. Fatelo entrar subito: ha già
aspettato troppo.
Il
cappellano si mosse, dicendo tra sé: "non c'è rimedio: tutti questi santi
sono ostinati".
Aperto
l'uscio, e affacciatosi alla stanza dov'era il signore e la brigata, vide
questa ristretta in una parte, a bisbigliare e a guardar di sott'occhio quello,
lasciato solo in un canto. S'avviò verso di lui; e intanto squadrandolo, come
poteva, con la coda dell'occhio, andava pensando che diavolo d'armeria poteva
esser nascosta sotto quella casacca; e che, veramente, prima d'introdurlo,
avrebbe dovuto proporgli almeno... ma non si seppe risolvere. Gli s'accostò, e
disse: - monsignore aspetta vossignoria. Si contenti di venir con me -. E
precedendolo in quella piccola folla, che subito fece ala, dava a destra e a
sinistra occhiate, le quali significavano: cosa volete? non lo sapete anche voi
altri, che fa sempre a modo suo?
Appena
introdotto l'innominato, Federigo gli andò incontro, con un volto premuroso e
sereno, e con le braccia aperte, come a una persona desiderata, e fece subito
cenno al cappellano che uscisse: il quale ubbidì.
I due
rimasti stettero alquanto senza parlare, e diversamente sospesi. L'innominato,
ch'era stato come portato lì per forza da una smania inesplicabile, piuttosto
che condotto da un determinato disegno, ci stava anche come per forza,
straziato da due passioni opposte, quel desiderio e quella speranza confusa di
trovare un refrigerio al tormento interno, e dall'altra parte una stizza, una
vergogna di venir lì come un pentito, come un sottomesso, come un miserabile, a
confessarsi in colpa, a implorare un uomo: e non trovava parole, né quasi ne
cercava. Però, alzando gli occhi in viso a quell'uomo, si sentiva sempre più
penetrare da un sentimento di venerazione imperioso insieme e soave, che,
aumentando la fiducia, mitigava il dispetto, e senza prender l'orgoglio di
fronte, l'abbatteva, e, dirò così, gl'imponeva silenzio.
La
presenza di Federigo era infatti di quelle che annunziano una superiorità, e la
fanno amare. Il portamento era naturalmente composto, e quasi involontariamente
maestoso, non incurvato né impigrito punto dagli anni; l'occhio grave e vivace,
la fronte serena e pensierosa; con la canizie, nel pallore, tra i segni
dell'astinenza, della meditazione, della fatica, una specie di floridezza
verginale: tutte le forme del volto indicavano che, in altre età, c'era stata
quella che più propriamente si chiama bellezza; l'abitudine de' pensieri solenni
e benevoli, la pace interna d'una lunga vita, l'amore degli uomini, la gioia
continua d'una speranza ineffabile, vi avevano sostituita una, direi quasi,
bellezza senile, che spiccava ancor più in quella magnifica semplicità della
porpora.
Tenne
anche lui, qualche momento, fisso nell'aspetto dell'innominato il suo sguardo
penetrante, ed esercitato da lungo tempo a ritrarre dai sembianti i pensieri;
e, sotto a quel fosco e a quel turbato, parendogli di scoprire sempre più
qualcosa di conforme alla speranza da lui concepita al primo annunzio d'una tal
visita, tutt'animato, - oh! - disse: - che preziosa visita è questa! e quanto
vi devo esser grato d'una sì buona risoluzione; quantunque per me abbia un po'
del rimprovero!
-
Rimprovero! - esclamò il signore maravigliato, ma raddolcito da quelle parole e
da quel fare, e contento che il cardinale avesse rotto il ghiaccio, e avviato
un discorso qualunque.
-
Certo, m'è un rimprovero, - riprese questo, - ch'io mi sia lasciato prevenir da
voi; quando, da tanto tempo, tante volte, avrei dovuto venir da voi io.
- Da
me, voi! Sapete chi sono? V'hanno detto bene il mio nome?
- E
questa consolazione ch'io sento, e che, certo, vi si manifesta nel mio aspetto,
vi par egli ch'io dovessi provarla all'annunzio, alla vista d'uno sconosciuto?
Siete voi che me la fate provare; voi, dico, che avrei dovuto cercare; voi che
almeno ho tanto amato e pianto, per cui ho tanto pregato; voi, de' miei figli,
che pure amo tutti e di cuore, quello che avrei più desiderato d'accogliere e
d'abbracciare, se avessi creduto di poterlo sperare. Ma Dio sa fare Egli solo
le maraviglie, e supplisce alla debolezza, alla lentezza de' suoi poveri servi.
L'innominato
stava attonito a quel dire così infiammato, a quelle parole, che rispondevano
tanto risolutamente a ciò che non aveva ancor detto, né era ben determinato di
dire; e commosso ma sbalordito, stava in silenzio. - E che? - riprese, ancor
più affettuosamente, Federigo: - voi avete una buona nuova da darmi, e me la
fate tanto sospirare?
- Una
buona nuova, io? Ho l'inferno nel cuore; e vi darò una buona nuova? Ditemi voi,
se lo sapete, qual è questa buona nuova che aspettate da un par mio.
- Che
Dio v'ha toccato il cuore, e vuol farvi suo, - rispose pacatamente il
cardinale.
- Dio!
Dio! Dio! Se lo vedessi! Se lo sentissi! Dov'è questo Dio?
- Voi
me lo domandate? voi? E chi più di voi l'ha vicino? Non ve lo sentite in cuore,
che v'opprime, che v'agita, che non vi lascia stare, e nello stesso tempo
v'attira, vi fa presentire una speranza di quiete, di consolazione, d'una
consolazione che sarà piena, immensa, subito che voi lo riconosciate, lo
confessiate, l'imploriate?
- Oh,
certo! ho qui qualche cosa che m'opprime, che mi rode! Ma Dio! Se c'è questo
Dio, se è quello che dicono, cosa volete che faccia di me?
Queste
parole furon dette con un accento disperato; ma Federigo, con un tono solenne,
come di placida ispirazione, rispose: - cosa può far Dio di voi? cosa vuol
farne? Un segno della sua potenza e della sua bontà: vuol cavar da voi una
gloria che nessun altro gli potrebbe dare. Che il mondo gridi da tanto tempo
contro di voi, che mille e mille voci detestino le vostre opere... -
(l'innominato si scosse, e rimase stupefatto un momento nel sentir quel
linguaggio così insolito, più stupefatto ancora di non provarne sdegno, anzi
quasi un sollievo); - che gloria, - proseguiva Federigo, - ne viene a Dio? Son
voci di terrore, son voci d'interesse; voci forse anche di giustizia, ma d'una
giustizia così facile, così naturale! alcune forse, pur troppo, d'invidia di codesta
vostra sciagurata potenza, di codesta, fino ad oggi, deplorabile sicurezza
d'animo. Ma quando voi stesso sorgerete a condannare la vostra vita, ad accusar
voi stesso, allora! allora Dio sarà glorificato! E voi domandate cosa Dio possa
far di voi? Chi son io pover'uomo, che sappia dirvi fin d'ora che profitto
possa ricavar da voi un tal Signore? cosa possa fare di codesta volontà
impetuosa, di codesta imperturbata costanza, quando l'abbia animata, infiammata
d'amore, di speranza, di pentimento? Chi siete voi, pover'uomo, che vi pensiate
d'aver saputo da voi immaginare e fare cose più grandi nel male, che Dio non
possa farvene volere e operare nel bene? Cosa può Dio far di voi? E perdonarvi?
e farvi salvo? e compire in voi l'opera della redenzione? Non son cose
magnifiche e degne di Lui? Oh pensate! se io omiciattolo, io miserabile, e pur
così pieno di me stesso, io qual mi sono, mi struggo ora tanto della vostra
salute, che per essa darei con gaudio (Egli m'è testimonio) questi pochi giorni
che mi rimangono; oh pensate! quanta, quale debba essere la carità di Colui che
m'infonde questa così imperfetta, ma così viva; come vi ami, come vi voglia
Quello che mi comanda e m'ispira un amore per voi che mi divora!
A
misura che queste parole uscivan dal suo labbro, il volto, lo sguardo, ogni
moto ne spirava il senso. La faccia del suo ascoltatore, di stravolta e
convulsa, si fece da principio attonita e intenta; poi si compose a una
commozione più profonda e meno angosciosa; i suoi occhi, che dall'infanzia più
non conoscevan le lacrime, si gonfiarono; quando le parole furon cessate, si
coprì il viso con le mani, e diede in un dirotto pianto, che fu come l'ultima e
più chiara risposta.
- Dio
grande e buono! - esclamò Federigo, alzando gli occhi e le mani al cielo: - che
ho mai fatto io, servo inutile, pastore sonnolento, perche Voi mi chiamaste a
questo convito di grazia, perche mi faceste degno d'assistere a un sì giocondo
prodigio! - Così dicendo, stese la mano a prender quella dell'innominato.
- No! -
gridò questo, - no! lontano, lontano da me voi: non lordate quella mano
innocente e benefica. Non sapete tutto ciò che ha fatto questa che volete
stringere.
-
Lasciate, - disse Federigo, prendendola con amorevole violenza, - lasciate
ch'io stringa codesta mano che riparerà tanti torti, che spargerà tante
beneficenze, che solleverà tanti afflitti, che si stenderà disarmata, pacifica,
umile a tanti nemici.
- È
troppo! - disse, singhiozzando, l'innominato. - Lasciatemi, monsignore; buon
Federigo, lasciatemi. Un popolo affollato v'aspetta; tant'anime buone,
tant'innocenti, tanti venuti da lontano, per vedervi una volta, per sentirvi: e
voi vi trattenete... con chi!
-
Lasciamo le novantanove pecorelle, - rispose il cardinale: - sono in sicuro sul
monte: io voglio ora stare con quella ch'era smarrita. Quell'anime son forse
ora ben più contente, che di vedere questo povero vescovo. Forse Dio, che ha
operato in voi il prodigio della misericordia, diffonde in esse una gioia di
cui non sentono ancora la cagione. Quel popolo è forse unito a noi senza
saperlo: forse lo Spirito mette ne' loro cuori un ardore indistinto di carità,
una preghiera ch'esaudisce per voi, un rendimento di grazie di cui voi siete
l'oggetto non ancor conosciuto -. Così dicendo, stese le braccia al collo dell'innominato;
il quale, dopo aver tentato di sottrarsi, e resistito un momento, cedette, come
vinto da quell'impeto di carità, abbracciò anche lui il cardinale, e abbandonò
sull'omero di lui il suo volto tremante e mutato. Le sue lacrime ardenti
cadevano sulla porpora incontaminata di Federigo; e le mani incolpevoli di
questo stringevano affettuosamente quelle membra, premevano quella casacca,
avvezza a portar l'armi della violenza e del tradimento.
L'innominato,
sciogliendosi da quell'abbraccio, si coprì di nuovo gli occhi con una mano, e,
alzando insieme la faccia, esclamò: - Dio veramente grande! Dio veramente
buono! io mi conosco ora, comprendo chi sono; le mie iniquità mi stanno
davanti; ho ribrezzo di me stesso; eppure...! eppure provo un refrigerio, una gioia,
sì una gioia, quale non ho provata mai in tutta questa mia orribile vita!
È un
saggio, - disse Federigo, - che Dio vi dà per cattivarvi al suo servizio, per
animarvi ad entrar risolutamente nella nuova vita in cui avrete tanto da
disfare, tanto da riparare, tanto da piangere! - Me sventurato! - esclamò il
signore, - quante, quante... cose, le quali non potrò se non piangere! Ma
almeno ne ho d'intraprese, d'appena avviate, che posso, se non altro, rompere a
mezzo: una ne ho, che posso romper subito, disfare, riparare.
Federigo
si mise in attenzione; e l'innominato raccontò brevemente, ma con parole
d'esecrazione anche più forti di quelle che abbiamo adoprato noi, la prepotenza
fatta a Lucia, i terrori, i patimenti della poverina, e come aveva implorato, e
la smania che quell'implorare aveva messa addosso a lui, e come essa era ancor
nel castello...
- Ah,
non perdiam tempo! - esclamò Federigo, ansante di pietà e di sollecitudine. -
Beato voi! Questo è pegno del perdono di Dio! far che possiate diventare strumento
di salvezza a chi volevate esser di rovina. Dio vi benedica! Dio v'ha
benedetto! Sapete di dove sia questa povera nostra travagliata?
Il
signore nominò il paese di Lucia.
- Non è
lontano di qui, - disse il cardinale: - lodato sia Dio; e probabilmente... -
Così dicendo, corse a un tavolino, e scosse un campanello. E subito entrò con
ansietà il cappellano crocifero, e per la prima cosa, guardò l'innominato; e
vista quella faccia mutata, e quegli occhi rossi di pianto, guardò il
cardinale; e sotto quell'inalterabile compostezza, scorgendogli in volto come
un grave contento, e una premura quasi impaziente, era per rimanere estatico
con la bocca aperta, se il cardinale non l'avesse subito svegliato da quella
contemplazione, domandandogli se, tra i parrochi radunati lì, si trovasse
quello di ***.
- C'è,
monsignore illustrissimo, - rispose il cappellano.
-
Fatelo venir subito, - disse Federigo, - e con lui il parroco qui della chiesa.
Il
cappellano uscì, e andò nella stanza dov'eran que' preti riuniti: tutti gli
occhi si rivolsero a lui. Lui, con la bocca tuttavia aperta, col viso ancor
tutto dipinto di quell'estasi, alzando le mani, e movendole per aria, disse: -
signori! signori! haec mutatio dexterae Excelsi-. E stette un momento
senza dir altro. Poi, ripreso il tono e la voce della carica, soggiunse: - sua
signoria illustrissima e reverendissima vuole il signor curato della
parrocchia, e il signor curato di ***.
Il
primo chiamato venne subito avanti, e nello stesso tempo, uscì di mezzo alla
folla un: - io? - strascicato, con un'intonazione di maraviglia.
- Non è
lei il signor curato di ***? - riprese il cappellano.
- Per
l'appunto; ma...
- Sua
signoria illustrissima e reverendissima vuol lei.
- Me? -
disse ancora quella voce, significando chiaramente in quel monosillabo: come ci
posso entrar io? Ma questa volta, insieme con la voce, venne fuori l'uomo, don
Abbondio in persona, con un passo forzato, e con un viso tra l'attonito e il
disgustato. Il cappellano gli fece un cenno con la mano, che voleva dire: a noi,
andiamo; ci vuol tanto? E precedendo i due curati, andò all'uscio, l'aprì, e
gl'introdusse.
Il
cardinale lasciò andar la mano dell'innominato, col quale intanto aveva
concertato quello che dovevan fare; si discostò un poco, e chiamò con un cenno
il curato della chiesa. Gli disse in succinto di che si trattava; e se saprebbe
trovar subito una buona donna che volesse andare in una lettiga al castello, a
prender Lucia: una donna di cuore e di testa, da sapersi ben governare in una
spedizione così nuova, e usar le maniere più a proposito, trovar le parole più
adattate, a rincorare, a tranquillizzare quella poverina, a cui, dopo tante
angosce, e in tanto turbamento, la liberazione stessa poteva metter nell'animo
una nuova confusione. Pensato un momento, il curato disse che aveva la persona
a proposito, e uscì. Il cardinale chiamò con un altro cenno il cappellano, al
quale ordinò che facesse preparare subito la lettiga e i lettighieri, e sellare
due mule. Uscito anche il cappellano, si voltò a don Abbondio.
Questo,
che già gli era vicino, per tenersi lontano da quell'altro signore, e che
intanto dava un'occhiatina di sotto in su ora all'uno ora all'altro, seguitando
a almanaccar tra sé che cosa mai potesse essere tutto quel rigirìo, s'accostò
di più, fece una riverenza, e disse: - m'hanno significato che vossignoria
illustrissima mi voleva me; ma io credo che abbiano sbagliato.
- Non
hanno sbagliato, - rispose Federigo: - ho una buona nuova da darvi, e un
consolante, un soavissimo incarico. Una vostra parrocchiana, che avrete pianta
per ismarrita, Lucia Mondella, è ritrovata, è qui vicino, in casa di questo mio
caro amico; e voi anderete ora con lui, e con una donna che il signor curato di
qui è andato a cercare, anderete, dico, a prendere quella vostra creatura, e
l'accompagnerete qui.
Don
Abbondio fece di tutto per nascondere la noia, che dico? l'affanno e
l'amaritudine che gli dava una tale proposta, o comando che fosse; e non
essendo più a tempo a sciogliere e a scomporre un versaccio già formato sulla
sua faccia, lo nascose, chinando profondamente la testa, in segno d'ubbidienza.
E non l'alzò che per fare un altro profondo inchino all'innominato, con
un'occhiata pietosa che diceva: sono nelle vostre mani: abbiate misericordia: parcere
subjectis.
Gli
domandò poi il cardinale, che parenti avesse Lucia.
- Di
stretti, e con cui viva, o vivesse, non ha che la madre, - rispose don
Abbondio.
- E
questa si trova al suo paese?
-
Monsignor, sì.
-
Giacché, - riprese Federigo, - quella povera giovine non potrà esser così presto
restituita a casa sua, le sarà una gran consolazione di veder subito la madre:
quindi, se il signor curato di qui non torna prima ch'io vada in chiesa, fatemi
voi il piacere di dirgli che trovi un baroccio o una cavalcatura; e spedisca un
uomo di giudizio a cercar quella donna, per condurla qui.
- E se
andassi io? - disse don Abbondio.
- No,
no, voi: v'ho già pregato d'altro, - rispose il cardinale.
-
Dicevo, - replicò don Abbondio, - per disporre quella povera madre. È una donna
molto sensitiva; e ci vuole uno che la conosca, e la sappia prendere per il suo
verso, per non farle male in vece di bene.
- E per
questo, vi prego d'avvertire il signor curato che scelga un uomo di proposito:
voi siete molto più necessario altrove, - rispose il cardinale. E avrebbe
voluto dire: quella povera giovine ha molto più bisogno di veder subito una
faccia conosciuta, una persona sicura, in quel castello, dopo tant'ore di
spasimo, e in una terribile oscurità dell'avvenire. Ma questa non era ragione
da dirsi così chiaramente davanti a quel terzo. Parve però strano al cardinale
che don Abbondio non l'avesse intesa per aria, anzi pensata da sé; e così fuor
di luogo gli parve la proposta e l'insistenza, che pensò doverci esser sotto
qualche cosa. Lo guardò in viso, e vi scoprì facilmente la paura di viaggiare
con quell'uomo tremendo, d'andare in quella casa, anche per pochi momenti.
Volendo quindi dissipare affatto quell'ombre codarde, e non piacendogli di
tirare in disparte il curato e di bisbigliar con lui in segreto, mentre il suo
nuovo amico era lì in terzo, pensò che il mezzo più opportuno era di far ciò
che avrebbe fatto anche senza questo motivo, parlare all'innominato medesimo; e
dalle sue risposte don Abbondio intenderebbe finalmente che quello non era più
uomo da averne paura. S'avvicinò dunque all'innominato, e con quell'aria di
spontanea confidenza, che si trova in una nuova e potente affezione, come in
un'antica intrinsichezza, - non crediate, - gli disse, - ch'io mi contenti di
questa visita per oggi. Voi tornerete, n'è vero? in compagnia di questo
ecclesiastico dabbene?
- S'io
tornerò? - rispose l'innominato: - quando voi mi rifiutaste, rimarrei ostinato
alla vostra porta, come il povero. Ho bisogno di parlarvi! ho bisogno di
sentirvi, di vedervi! ho bisogno di voi!
Federigo
gli prese la mano, gliela strinse, e disse: - favorirete dunque di restare a
desinare con noi. V'aspetto. Intanto, io vo a pregare, e a render grazie col
popolo; e voi a cogliere i primi frutti della misericordia.
Don
Abbondio, a quelle dimostrazioni, stava come un ragazzo pauroso, che veda uno
accarezzar con sicurezza un suo cagnaccio grosso, rabbuffato, con gli occhi
rossi, con un nomaccio famoso per morsi e per ispaventi, e senta dire al
padrone che il suo cane è un buon bestione, quieto, quieto: guarda il padrone,
e non contraddice né approva; guarda il cane, e non ardisce accostarglisi, per
timore che il buon bestione non gli mostri i denti, fosse anche per fargli le
feste; non ardisce allontanarsi, per non farsi scorgere; e dice in cuor suo: oh
se fossi a casa mia!
Al
cardinale, che s'era mosso per uscire, tenendo sempre per la mano e conducendo
seco l'innominato, diede di nuovo nell'occhio il pover'uomo, che rimaneva
indietro, mortificato, malcontento, facendo il muso senza volerlo. E pensando
che forse quel dispiacere gli potesse anche venire dal parergli d'esser
trascurato, e come lasciato in un canto, tanto più in paragone d'un facinoroso
così ben accolto, così accarezzato, se gli voltò nel passare, si fermò un
momento, e con un sorriso amorevole, gli disse: - signor curato, voi siete
sempre con me nella casa del nostro buon Padre; ma questo... questo perierat,
et inventus est.
- Oh
quanto me ne rallegro! - disse don Abbondio, facendo una gran riverenza a
tutt'e due in comune.
L'arcivescovo
andò avanti, spinse l'uscio, che fu subito spalancato di fuori da due
servitori, che stavano uno di qua e uno di là: e la mirabile coppia apparve
agli sguardi bramosi del clero raccolto nella stanza. Si videro que' due volti
sui quali era dipinta una commozione diversa, ma ugualmente profonda; una
tenerezza riconoscente, un'umile gioia nell'aspetto venerabile di Federigo; in
quello dell'innominato, una confusione temperata di conforto, un nuovo pudore,
una compunzione, dalla quale però traspariva tuttavia il vigore di quella
selvaggia e risentita natura. E si seppe poi, che a più d'uno de' riguardanti
era allora venuto in mente quel detto d'Isaia: il lupo e l'agnello andranno
ad un pascolo; il leone e il bue mangeranno insieme lo strame. Dietro
veniva don Abbondio, a cui nessuno badò.
Quando
furono nel mezzo della stanza, entrò dall'altra parte l'aiutante di camera del
cardinale, e gli s'accostò, per dirgli che aveva eseguiti gli ordini
comunicatigli dal cappellano; che la lettiga e le due mule eran preparate, e
s'aspettava soltanto la donna che il curato avrebbe condotta. Il cardinale gli
disse che, appena arrivato questo, lo facesse parlar subito con don Abbondio: e
tutto poi fosse agli ordini di questo e dell'innominato; al quale strinse di
nuovo la mano, in atto di commiato, dicendo: - v'aspetto -. Si voltò a salutar
don Abbondio, e s'avviò dalla parte che conduceva alla chiesa. Il clero gli
andò dietro, tra in folla e in processione: i due compagni di viaggio rimasero
soli nella stanza.
Stava
l'innominato tutto raccolto in sé, pensieroso, impaziente che venisse il
momento d'andare a levar di pene e di carcere la sua Lucia: sua ora in un senso
così diverso da quello che lo fosse il giorno avanti: e il suo viso esprimeva
un'agitazione concentrata, che all'occhio ombroso di don Abbondio poteva
facilmente parere qualcosa di peggio. Lo sogguardava, avrebbe voluto attaccare
un discorso amichevole; ma, "cosa devo dirgli? - pensava: - devo dirgli
ancora: mi rallegro? Mi rallegro di che? che essendo stato finora un demonio,
vi siate finalmente risoluto di diventare un galantuomo come gli altri? Bel
complimento! Eh eh eh! in qualunque maniera io le rigiri, le congratulazioni
non vorrebbero dir altro che questo. E se sarà poi vero che sia diventato
galantuomo: così a un tratto! Delle dimostrazioni se ne fanno tante a questo
mondo, e per tante cagioni! Che so io, alle volte? E intanto mi tocca a andar
con lui! in quel castello! Oh che storia! che storia! che storia! Chi me
l'avesse detto stamattina! Ah, se posso uscirne a salvamento, m'ha da sentire
la signora Perpetua, d'avermi cacciato qui per forza, quando non c'era
necessità, fuor della mia pieve: e che tutti i parrochi d'intorno accorrevano,
anche più da lontano; e che non bisognava stare indietro; e che questo, e che
quest'altro; e imbarcarmi in un affare di questa sorte! Oh povero me! Eppure
qualcosa bisognerà dirgli a costui". E pensa e ripensa, aveva trovato che
gli avrebbe potuto dire: non mi sarei mai aspettato questa fortuna
d'incontrarmi in una così rispettabile compagnia; e stava per aprir bocca,
quando entrò l'aiutante di camera, col curato del paese, il quale annunziò che
la donna era pronta nella lettiga; e poi si voltò a don Abbondio, per ricevere
da lui l'altra commissione del cardinale. Don Abbondio se ne sbrigò come poté,
in quella confusione di mente; e accostatosi poi all'aiutante, gli disse: - mi
dia almeno una bestia quieta; perché, dico la verità, sono un povero
cavalcatore.
- Si
figuri, - rispose l'aiutante, con un mezzo sogghigno: - è la mula del
segretario, che è un letterato.
-
Basta... - replicò don Abbondio, e continuò pensando: "il cielo me la
mandi buona".
Il
signore s'era incamminato di corsa, al primo avviso: arrivato all'uscio,
s'accorse di don Abbondio, ch'era rimasto indietro. Si fermò ad aspettarlo; e
quando questo arrivò frettoloso, in aria di chieder perdono, l'inchinò, e lo
fece passare avanti, con un atto cortese e umile: cosa che raccomodò alquanto
lo stomaco al povero tribolato. Ma appena messo piede nel cortiletto, vide
un'altra novità che gli guastò quella poca consolazione; vide l'innominato
andar verso un canto, prender per la canna, con una mano, la sua carabina, poi
per la cigna con l'altra, e, con un movimento spedito, come se facesse
l'esercizio, mettersela ad armacollo.
"Ohi!
ohi! ohi! - pensò don Abbondio: - cosa vuol farne di quell'ordigno, costui? Bel
cilizio, bella disciplina da convertito! E se gli salta qualche grillo? Oh che
spedizione! oh che spedizione!"
Se quel
signore avesse potuto appena sospettare che razza di pensieri passavano per la
testa al suo compagno, non si può dire cosa avrebbe fatto per rassicurarlo; ma
era lontano le mille miglia da un tal sospetto; e don Abbondio stava attento a
non far nessun atto che significasse chiaramente: non mi fido di vossignoria.
Arrivati all'uscio di strada, trovarono le due cavalcature in ordine:
l'innominato saltò su quella che gli fu presentata da un palafreniere.
- Vizi
non ne ha? - disse all'aiutante di camera don Abbondio, rimettendo in terra il
piede, che aveva già alzato verso la staffa.
- Vada
pur su di buon animo: è un agnello -. Don Abbondio, arrampicandosi alla sella,
sorretto dall'aiutante, su, su, su, è a cavallo.
La
lettiga, ch'era innanzi qualche passo, portata da due mule, si mosse, a una
voce del lettighiero; e la comitiva partì.
Si
doveva passar davanti alla chiesa piena zeppa di popolo, per una piazzetta
piena anch'essa d'altro popolo del paese e forestieri, che non avevan potuto
entrare in quella. Già la gran nuova era corsa; e all'apparir della comitiva, all'apparir
di quell'uomo, oggetto ancor poche ore prima di terrore e d'esecrazione, ora di
lieta maraviglia, s'alzò nella folla un mormorìo quasi d'applauso; e facendo
largo, si faceva insieme alle spinte, per vederlo da vicino. La lettiga passò,
l'innominato passò; e davanti alla porta spalancata della chiesa, si levò il
cappello, e chinò quella fronte tanto temuta, fin sulla criniera della mula,
tra il susurro di cento voci che dicevano: Dio la benedica! Don Abbondio si
levò anche lui il cappello, si chinò, si raccomandò al cielo; ma sentendo il
concerto solenne de' suoi confratelli che cantavano a distesa, provò
un'invidia, una mesta tenerezza, un accoramento tale, che durò fatica a tener
le lacrime.
Fuori
poi dell'abitato, nell'aperta campagna, negli andirivieni talvolta affatto
deserti della strada, un velo più nero si stese sui suoi pensieri. Altro
oggetto non aveva su cui riposar con fiducia lo sguardo, che il lettighiero, il
quale, essendo al servizio del cardinale, doveva essere certamente un uomo dabbene,
e insieme non aveva aria d'imbelle. Ogni tanto, comparivano viandanti, anche a
comitive, che accorrevano per vedere il cardinale; ed era un ristoro per don
Abbondio; ma passeggiero, ma s'andava verso quella valle tremenda, dove non
s'incontrerebbe che sudditi dell'amico: e che sudditi! Con l'amico avrebbe
desiderato ora più che mai d'entrare in discorso, tanto per tastarlo sempre
più, come per tenerlo in buona; ma vedendolo così soprappensiero, gliene
passava la voglia. Dovette dunque parlar con se stesso; ed ecco una parte di
ciò che il pover'uomo si disse in quel tragitto: ché, a scriver tutto, ci
sarebbe da farne un libro.
"È
un gran dire che tanto i santi come i birboni gli abbiano a aver l'argento vivo
addosso, e non si contentino d'esser sempre in moto loro, ma voglian tirare in
ballo, se potessero, tutto il genere umano; e che i più faccendoni mi devan
proprio venire a cercar me, che non cerco nessuno, e tirarmi per i capelli ne'
loro affari: io che non chiedo altro che d'esser lasciato vivere! Quel matto
birbone di don Rodrigo! Cosa gli mancherebbe per esser l'uomo il più felice di
questo mondo, se avesse appena un pochino di giudizio? Lui ricco, lui giovine,
lui rispettato, lui corteggiato: gli dà noia il bene stare; e bisogna che vada
accattando guai per sé e per gli altri. Potrebbe far l'arte di Michelaccio; no
signore: vuol fare il mestiere di molestar le femmine: il più pazzo, il più
ladro, il più arrabbiato mestiere di questo mondo; potrebbe andare in paradiso
in carrozza, e vuol andare a casa del diavolo a piè zoppo. E costui...!" E
qui lo guardava, come se avesse sospetto che quel costui sentisse i suoi
pensieri, "costui, dopo aver messo sottosopra il mondo con le
scelleratezze, ora lo mette sottosopra con la conversione... se sarà vero. Intanto
tocca a me a farne l'esperienza!... È finita: quando son nati con quella smania
in corpo, bisogna che faccian sempre fracasso. Ci vuol tanto a fare il
galantuomo tutta la vita, com'ho fatt'io? No signore: si deve squartare,
ammazzare, fare il diavolo... oh povero me!... e poi uno scompiglio, anche per
far penitenza. La penitenza, quando s'ha buona volontà, si può farla a casa
sua, quietamente, senza tant'apparato, senza dar tant'incomodo al prossimo. E
sua signoria illustrissima, subito subito, a braccia aperte, caro amico, amico
caro; stare a tutto quel che gli dice costui, come se l'avesse visto far
miracoli; e prendere addirittura una risoluzione, mettercisi dentro con le mani
e co' piedi, presto di qua, presto di là: a casa mia si chiama precipitazione.
E senza avere una minima caparra, dargli in mano un povero curato! questo si
chiama giocare un uomo a pari e caffo. Un vescovo santo, com'è lui, de' curati
dovrebbe esserne geloso, come della pupilla degli occhi suoi. Un pochino di
flemma, un pochino di prudenza, un pochino di carità, mi pare che possa stare
anche con la santità... E se fosse tutto un'apparenza? Chi può conoscer tutti i
fini degli uomini? e dico degli uomini come costui? A pensare che mi tocca a
andar con lui, a casa sua! Ci può esser sotto qualche diavolo: oh povero me! è
meglio non ci pensare. Che imbroglio è questo di Lucia? Che ci fosse un'intesa
con don Rodrigo? che gente! ma almeno la cosa sarebbe chiara. Ma come l'ha
avuta nell'unghie costui? Chi lo sa? È tutto un segreto con monsignore: e a me
che mi fanno trottare in questa maniera, non si dice nulla. Io non mi curo di
sapere i fatti degli altri; ma quando uno ci ha a metter la pelle, ha anche
ragione di sapere. Se fosse proprio per andare a prendere quella povera
creatura, pazienza! Benché, poteva ben condurla con sé addirittura. E poi, se è
così convertito, se è diventato un santo padre, che bisogno c'era di me? Oh che
caos! Basta; voglia il cielo che la sia così: sarà stato un incomodo grosso, ma
pazienza! Sarò contento anche per quella povera Lucia: anche lei deve averla
scampata grossa; sa il cielo cos'ha patito: la compatisco; ma è nata per la mia
rovina... Almeno potessi vedergli proprio in cuore a costui, come la pensa. Chi
lo può conoscere? Ecco lì, ora pare sant'Antonio nel deserto; ora pare Oloferne
in persona. Oh povero me! povero me! Basta: il cielo è in obbligo d'aiutarmi,
perché non mi ci son messo io di mio capriccio".
Infatti,
sul volto dell'innominato si vedevano, per dir così, passare i pensieri, come,
in un'ora burrascosa, le nuvole trascorrono dinanzi alla faccia del sole,
alternando ogni momento una luce arrabbiata e un freddo buio. L'animo, ancor
tutto inebriato dalle soavi parole di Federigo, e come rifatto e ringiovanito
nella nuova vita, s'elevava a quell'idee di misericordia, di perdono e d'amore;
poi ricadeva sotto il peso del terribile passato. Correva con ansietà a cercare
quali fossero le iniquità riparabili, cosa si potesse troncare a mezzo, quali i
rimedi più espedienti e più sicuri, come scioglier tanti nodi, che fare di
tanti complici: era uno sbalordimento a pensarci. A quella stessa spedizione,
ch'era la più facile e così vicina al termine, andava con un'impazienza mista
d'angoscia, pensando che intanto quella creatura pativa, Dio sa quanto, e che
lui, il quale pure si struggeva di liberarla, era lui che la teneva intanto a
patire. Dove c'eran due strade, il lettighiero si voltava, per saper quale
dovesse prendere: l'innominato gliel'indicava con la mano, e insieme accennava
di far presto.
Entrano
nella valle. Come stava allora il povero don Abbondio! Quella valle famosa,
della quale aveva sentito raccontar tante storie orribili, esserci dentro: que'
famosi uomini, il fiore della braveria d'Italia, quegli uomini senza paura e
senza misericordia, vederli in carne e in ossa; incontrarne uno o due o tre a
ogni voltata di strada. Si chinavano sommessamente al signore; ma certi visi
abbronzati! certi baffi irti! certi occhiacci, che a don Abbondio pareva che
volessero dire: fargli la festa a quel prete? A segno che, in un punto di somma
costernazione, gli venne detto tra sé: "gli avessi maritati! non mi poteva
accader di peggio". Intanto s'andava avanti per un sentiero sassoso, lungo
il torrente: al di là quel prospetto di balze aspre, scure, disabitate; al di
qua quella popolazione da far parer desiderabile ogni deserto: Dante non istava
peggio nel mezzo di Malebolge.
Passan
davanti la Malanotte; bravacci sull'uscio, inchini al signore, occhiate al suo
compagno e alla lettiga. Coloro non sapevan cosa si pensare: già la partenza
dell'innominato solo, la mattina, aveva dello straordinario; il ritorno non lo
era meno. Era una preda che conduceva? E come l'aveva fatta da sé? E come una
lettiga forestiera? E di chi poteva esser quella livrea? Guardavano, guardavano,
ma nessuno si moveva, perché questo era l'ordine che il padrone dava loro con
dell'occhiate.
Fanno
la salita, sono in cima. I bravi che si trovan sulla spianata e sulla porta, si
ritirano di qua e di là, per lasciare il passo libero: l'innominato fa segno
che non si movan di più; sprona, e passa davanti alla lettiga; accenna al
lettighiero e a don Abbondio che lo seguano; entra in un primo cortile, da
quello in un secondo; va verso un usciolino, fa stare indietro con un gesto un
bravo che accorreva per tenergli la staffa, e gli dice: - tu sta' costì, e non
venga nessuno -. Smonta, lega in fretta la mula a un'inferriata, va alla
lettiga, s'accosta alla donna, che aveva tirata la tendina, e le dice
sottovoce: - consolatela subito; fatele subito capire che è libera, in mano
d'amici. Dio ve ne renderà merito -. Poi fa cenno al lettighiero, che apra; poi
s'avvicina a don Abbondio, e, con un sembiante così sereno come questo non
gliel aveva ancor visto, né credeva che lo potesse avere, con dipintavi la gioia
dell'opera buona che finalmente stava per compire, gli dice, ancora sotto voce:
- signor curato, non le chiedo scusa dell'incomodo che ha per cagion mia: lei
lo fa per Uno che paga bene, e per questa sua poverina -. Ciò detto, prende con
una mano il morso, con l'altra la staffa, per aiutar don Abbondio a scendere.
Quel
volto, quelle parole, quell'atto, gli avevan dato la vita. Mise un sospiro, che
da un'ora gli s'aggirava dentro, senza mai trovar l'uscita; si chinò verso
l'innominato, rispose a voce bassa bassa: - le pare? Ma, ma, ma, ma,...! - e
sdrucciolò alla meglio dalla sua cavalcatura. L'innominato legò anche quella, e
detto al lettighiero che stesse lì a aspettare, si levò una chiave di tasca,
aprì l'uscio, entrò, fece entrare il curato e la donna, s'avviò davanti a loro
alla scaletta; e tutt'e tre salirono in silenzio.
Lucia
s'era risentita da poco tempo; e di quel tempo una parte aveva penato a
svegliarsi affatto, a separar le torbide visioni del sonno dalle memorie e
dall'immagini di quella realtà troppo somigliante a una funesta visione
d'infermo. La vecchia le si era subito avvicinata, e, con quella voce
forzatamente umile, le aveva detto: - ah! avete dormito? Avreste potuto dormire
in letto: ve l'ho pur detto tante volte ier sera -. E non ricevendo risposta,
aveva continuato, sempre con un tono di supplicazione stizzosa: - mangiate una
volta: abbiate giudizio. Uh come siete brutta! Avete bisogno di mangiare. E poi
se, quando torna, la piglia con me?
- No,
no; voglio andar via, voglio andar da mia madre. Il padrone me l'ha promesso,
ha detto: domattina. Dov'è il padrone?
- È
uscito; m'ha detto che tornerà presto, e che farà tutto quel che volete.
- Ha
detto così? ha detto così? Ebbene; io voglio andar da mia madre; subito,
subito.
Ed ecco
si sente un calpestìo nella stanza vicina; poi un picchio all'uscio. La vecchia
accorre, domanda: - chi è?
- Apri,
- risponde sommessamente la nota voce. La vecchia tira il paletto;
l'innominato, spingendo leggermente i battenti, fa un po' di spiraglio: ordina
alla vecchia di venir fuori, fa entrar subito don Abbondio con la buona donna.
Socchiude poi di nuovo l'uscio, si ferma dietro a quello, e manda la vecchia in
una parte lontana del castellaccio; come aveva già mandata via anche l'altra
donna che stava fuori, di guardia.
Tutto
questo movimento, quel punto d'aspetto, il primo apparire di persone nuove,
cagionarono un soprassalto d'agitazione a Lucia, alla quale, se lo stato
presente era intollerabile, ogni cambiamento però era motivo di sospetto e di
nuovo spavento. Guardò, vide un prete, una donna; si rincorò alquanto: guarda
più attenta: è lui, o non è lui? Riconosce don Abbondio, e rimane con gli occhi
fissi, come incantata. La donna, andatale vicino, si chinò sopra di lei, e,
guardandola pietosamente, prendendole le mani, come per accarezzarla e alzarla
a un tempo, le disse: - oh poverina! venite, venite con noi.
- Chi
siete? - le domandò Lucia; ma, senza aspettar la risposta, si voltò ancora a
don Abbondio, che s'era trattenuto discosto due passi, con un viso, anche lui,
tutto compassionevole; lo fissò di nuovo, e esclamò: - lei! è lei? il signor
curato? Dove siamo?... Oh povera me! son fuori di sentimento!
- No,
no, - rispose don Abbondio: - son io davvero: fatevi coraggio. Vedete? siam qui
per condurvi via. Son proprio il vostro curato, venuto qui apposta, a
cavallo...
Lucia,
come riacquistate in un tratto tutte le sue forze, si rizzò precipitosamente;
poi fissò ancora lo sguardo su que' due visi, e disse: - è dunque la Madonna
che vi ha mandati.
- Io
credo di sì, - disse la buona donna.
- Ma
possiamo andar via, possiamo andar via davvero? - riprese Lucia, abbassando la
voce, e con uno sguardo timido e sospettoso. - E tutta quella gente...? -
continuò, con le labbra contratte e tremanti di spavento e d'orrore: - e quel
signore...! quell'uomo...! Già, me l'aveva promesso...
- È qui
anche lui in persona, venuto apposta con noi, - disse don Abbondio: - è qui
fuori che aspetta. Andiamo presto; non lo facciamo aspettare, un par suo.
Allora,
quello di cui si parlava, spinse l'uscio, e si fece vedere; Lucia, che poco
prima lo desiderava, anzi, non avendo speranza in altra cosa del mondo, non
desiderava che lui, ora, dopo aver veduti visi, e sentite voci amiche, non poté
reprimere un subitaneo ribrezzo; si riscosse, ritenne il respiro, si strinse
alla buona donna, e le nascose il viso in seno. L'innominato, alla vista di
quell'aspetto sul quale già la sera avanti non aveva potuto tener fermo lo
sguardo, di quell'aspetto reso ora più squallido, sbattuto, affannato dal
patire prolungato e dal digiuno, era rimasto lì fermo, quasi sull'uscio; nel
veder poi quell'atto di terrore, abbassò gli occhi, stette ancora un momento
immobile e muto; indi rispondendo a ciò che la poverina non aveva detto, - è
vero, - esclamò: - perdonatemi!
- Viene
a liberarvi; non è più quello; è diventato buono: sentite che vi chiede
perdono? - diceva la buona donna all'orecchio di Lucia.
- Si
può dir di più? Via, su quella testa; non fate la bambina; che possiamo andar
presto, - le diceva don Abbondio. Lucia alzò la testa, guardò l'innominato, e,
vedendo bassa quella fronte, atterrato e confuso quello sguardo, presa da un
misto sentimento di conforto, di riconoscenza e di pietà, disse: - oh, il mio
signore! Dio le renda merito della sua misericordia!
- E a
voi, cento volte, il bene che mi fanno codeste vostre parole.
Così
detto, si voltò, andò verso l'uscio, e uscì il primo. Lucia, tutta rianimata,
con la donna che le dava braccio, gli andò dietro; don Abbondio in coda.
Scesero la scala, arrivarono all'uscio che metteva nel cortile. L'innominato lo
spalancò, andò alla lettiga, aprì lo sportello, e, con una certa gentilezza
quasi timida (due cose nuove in lui) sorreggendo il braccio di Lucia, l'aiutò
ad entrarvi, poi la buona donna. Slegò quindi la mula di don Abbondio, e
l'aiutò anche lui a montare.
- Oh
che degnazione! - disse questo; e montò molto più lesto che non avesse fatto la
prima volta. La comitiva si mosse quando l'innominato fu anche lui a cavallo.
La sua fronte s'era rialzata; lo sguardo aveva ripreso la solita espressione
d'impero. I bravi che incontrava, vedevan bene sul suo viso i segni d'un forte
pensiero, d'una preoccupazione straordinaria; ma non capivano, né potevan
capire più in là. Al castello, non si sapeva ancor nulla della gran mutazione
di quell'uomo; e per congettura, certo, nessun di coloro vi sarebbe arrivato.
La
buona donna aveva subito tirate le tendine della lettiga: prese poi
affettuosamente le mani di Lucia, s'era messa a confortarla, con parole di
pietà, di congratulazione e di tenerezza. E vedendo come, oltre la fatica di
tanto travaglio sofferto, la confusione e l'oscurità degli avvenimenti
impedivano alla poverina di sentir pienamente la contentezza della sua
liberazione, le disse quanto poteva trovar di più atto a distrigare, a
ravviare, per dir così, i suoi poveri pensieri. Le nominò il paese dove
andavano.
- Sì? -
disse Lucia, la qual sapeva ch'era poco discosto dal suo. - Ah Madonna
santissima, vi ringrazio! Mia madre! mia madre!
- La
manderemo a cercar subito, - disse la buona donna, la quale non sapeva che la
cosa era già fatta.
- Sì,
sì; che Dio ve ne renda merito... E voi, chi siete? Come siete venuta...
- M'ha
mandata il nostro curato, - disse la buona donna: - perché questo signore, Dio
gli ha toccato il cuore (sia benedetto!), ed è venuto al nostro paese, per
parlare al signor cardinale arcivescovo (che l'abbiamo là in visita, quel
sant'uomo), e s'è pentito de' suoi peccatacci, e vuol mutar vita; e ha detto al
cardinale che aveva fatta rubare una povera innocente, che siete voi, d'intesa
con un altro senza timor di Dio, che il curato non m'ha detto chi possa essere.
Lucia
alzò gli occhi al cielo.
- Lo
saprete forse voi, - continuò la buona donna: - basta; dunque il signor
cardinale ha pensato che, trattandosi d'una giovine, ci voleva una donna per
venire in compagnia, e ha detto al curato che ne cercasse una; e il curato, per
sua bontà, è venuto da me...
- Oh!
il Signore vi ricompensi della vostra carità!
- Che
dite mai, la mia povera giovine? E m'ha detto il signor curato, che vi facessi
coraggio, e cercassi di sollevarvi subito, e farvi intendere come il Signore
v'ha salvata miracolosamente...
- Ah
sì! proprio miracolosamente; per intercession della Madonna.
-
Dunque, che stiate di buon animo, e perdonare a chi v'ha fatto del male, e
esser contenta che Dio gli abbia usata misericordia, anzi pregare per lui; ché,
oltre all'acquistarne merito, vi sentirete anche allargare il cuore.
Lucia
rispose con uno sguardo che diceva di sì, tanto chiaro come avrebbero potuto
far le parole, e con una dolcezza che le parole non avrebbero saputa esprimere.
- Brava
giovine! - riprese la donna: - e trovandosi al nostro paese anche il vostro
curato (che ce n'è tanti tanti, di tutto il contorno, da mettere insieme
quattro ufizi generali), ha pensato il signor cardinale di mandarlo anche lui
in compagnia; ma è stato di poco aiuto. Già l'avevo sentito dire ch'era un uomo
da poco; ma in quest'occasione, ho dovuto proprio vedere che è più impicciato
che un pulcin nella stoppa.
- E questo...
- domandò Lucia, - questo che è diventato buono... chi è?
- Come!
non lo sapete? - disse la buona donna, e lo nominò.
- Oh
misericordia! - esclamò Lucia. Quel nome, quante volte l'aveva sentito ripetere
con orrore in più d'una storia, in cui figurava sempre come in altre storie
quello dell'orco! E ora, al pensiero d'essere stata nel suo terribil potere, e
d'essere sotto la sua guardia pietosa; al pensiero d'una così orrenda sciagura,
e d'una così improvvisa redenzione; a considerare di chi era quel viso che
aveva veduto burbero, poi commosso, poi umiliato, rimaneva come estatica,
dicendo solo, ogni poco: - oh misericordia!
- È una
gran misericordia davvero! - diceva la buona donna: - dev'essere un gran
sollievo per mezzo mondo. A pensare quanta gente teneva sottosopra; e ora, come
m'ha detto il nostro curato... e poi, solo a guardarlo in viso, è diventato un
santo! E poi si vedon subito le opere.
Dire
che questa buona donna non provasse molta curiosità di conoscere un po' più
distintamente la grand'avventura nella quale si trovava a fare una parte, non
sarebbe la verità. Ma bisogna dire a sua gloria che, compresa d'una pietà
rispettosa per Lucia, sentendo in certo modo la gravità e la dignità
dell'incarico che le era stato affidato, non pensò neppure a farle una domanda
indiscreta, ne oziosa: tutte le sue parole, in quel tragitto, furono di
conforto e di premura per la povera giovine.
- Dio
sa quant'è che non avete mangiato!
- Non
me ne ricordo più... Da un pezzo.
-
Poverina! Avrete bisogno di ristorarvi.
- Sì, -
rispose Lucia con voce fioca.
- A
casa mia, grazie a Dio, troveremo subito qualcosa. Fatevi coraggio, che ormai
c'è poco.
Lucia
si lasciava poi cader languida sul fondo della lettiga, come assopita; e allora
la buona donna la lasciava in riposo.
Per don
Abbondio questo ritorno non era certo così angoscioso come l'andata di poco
prima; ma non fu neppur esso un viaggio di piacere. Al cessar di quella
pauraccia, s'era da principio sentito tutto scarico, ma ben presto cominciarono
a spuntargli in cuore cent'altri dispiaceri; come, quand'è stato sbarbato un
grand'albero, il terreno rimane sgombro per qualche tempo, ma poi si copre
tutto d'erbacce. Era diventato più sensibile a tutto il resto; e tanto nel
presente, quanto ne' pensieri dell'avvenire, non gli mancava pur troppo materia
di tormentarsi. Sentiva ora, molto più che nell'andare, l'incomodo di quel modo
di viaggiare, al quale non era molto avvezzo; e specialmente sul principio,
nella scesa dal castello al fondo della valle. Il lettighiero, stimolato da'
cenni dell'innominato, faceva andar di buon passo le sue bestie; le due
cavalcature andavan dietro dietro, con lo stesso passo; onde seguiva che, a
certi luoghi più ripidi, il povero don Abbondio, come se fosse messo a leva per
di dietro, tracollava sul davanti, e, per reggersi, doveva appuntellarsi con la
mano all'arcione; e non osava però pregare che s'andasse più adagio, e
dall'altra parte avrebbe voluto esser fuori di quel paese più presto che fosse
possibile. Oltre di ciò, dove la strada era sur un rialto, sur un ciglione, la
mula, secondo l'uso de' pari suoi, pareva che facesse per dispetto a tener
sempre dalla parte di fuori, e a metter proprio le zampe sull'orlo; e don
Abbondio vedeva sotto di sé, quasi a perpendicolo, un salto, o come pensava
lui, un precipizio. "Anche tu, - diceva tra sé alla bestia, - hai quel
maledetto gusto d'andare a cercare i pericoli, quando c'è tanto sentiero!"
E tirava la briglia dall'altra parte; ma inutilmente. Sicché, al solito,
rodendosi di stizza e di paura, si lasciava condurre a piacere altrui. I bravi
non gli facevan più tanto spavento, ora che sapeva più di certo come la pensava
il padrone. "Ma, - rifletteva però, - se la notizia di questa gran
conversione si sparge qua dentro, intanto che ci siamo ancora, chi sa come
l'intenderanno costoro! Chi sa cosa nasce! Che s'andassero a immaginare che sia
venuto io a fare il missionario! Povero me! mi martirizzano!" Il cipiglio
dell'innominato non gli dava fastidio. "Per tenere a segno quelle facce
lì, - pensava, - non ci vuol meno di questa qui; lo capisco anch'io; ma perché
deve toccare a me a trovarmi tra tutti costoro!"
Basta;
s'arrivò in fondo alla scesa, e s'uscì finalmente anche dalla valle. La fronte
dell'innominato s'andò spianando. Anche don Abbondio prese una faccia più
naturale, sprigionò alquanto la testa di tra le spalle, sgranchì le braccia e
le gambe, si mise a stare un po' più sulla vita, che faceva un tutt'altro
vedere, mandò più larghi respiri, e, con animo più riposato, si mise a
considerare altri lontani pericoli. "Cosa dirà quel bestione di don
Rodrigo? Rimaner con tanto di naso a questo modo, col danno e con le beffe,
figuriamoci se la gli deve parere amara. Ora è quando fa il diavolo davvero.
Sta a vedere che se la piglia anche con me, perché mi son trovato dentro in
questa cerimonia. Se ha avuto cuore fin d'allora di mandare que' due demòni a
farmi una figura di quella sorte sulla strada, ora poi, chi sa cosa farà! Con
sua signoria illustrissima non la può prendere, che è un pezzo molto più grosso
di lui; lì bisognerà rodere il freno. Intanto il veleno l'avrà in corpo, e
sopra qualcheduno lo vorrà sfogare. Come finiscono queste faccende? I colpi
cascano sempre all'ingiù; i cenci vanno all'aria. Lucia, di ragione, sua
signoria illustrissima penserà a metterla in salvo: quell'altro poveraccio mal
capitato è fuor del tiro, e ha già avuto la sua: ecco che il cencio son
diventato io. La sarebbe barbara, dopo tant'incomodi, dopo tante agitazioni, e
senza acquistarne merito, che ne dovessi portar la pena io. Cosa farà ora sua
signoria illustrissima per difendermi, dopo avermi messo in ballo? Mi può star
mallevadore lui che quel dannato non mi faccia un'azione peggio della prima? E
poi, ha tanti affari per la testa! mette mano a tante cose! Come si può badare
a tutto? Lascian poi alle volte le cose più imbrogliate di prima. Quelli che
fanno il bene, lo fanno all'ingrosso: quand'hanno provata quella soddisfazione,
n'hanno abbastanza, e non si voglion seccare a star dietro a tutte le
conseguenze; ma coloro che hanno quel gusto di fare il male, ci mettono più
diligenza, ci stanno dietro fino alla fine, non prendon mai requie, perché
hanno quel canchero che li rode. Devo andar io a dire che son venuto qui per
comando espresso di sua signoria illustrissima, e non di mia volontà? Parrebbe
che volessi tenere dalla parte dell'iniquità. Oh santo cielo! Dalla parte
dell'iniquità io! Per gli spassi che la mi dà! Basta; il meglio sarà raccontare
a Perpetua la cosa com'è; e lascia poi fare a Perpetua a mandarla in giro. Purché
a monsignore non venga il grillo di far qualche pubblicità, qualche scena
inutile, e mettermici dentro anche me. A buon conto, appena siamo arrivati, se
è uscito di chiesa, vado a riverirlo in fretta in fretta; se no, lascio le mie
scuse, e me ne vo diritto diritto a casa mia. Lucia è bene appoggiata; di me
non ce n'è più bisogno; e dopo tant'incomodi, posso pretendere anch'io
d'andarmi a riposare. E poi... che non venisse anche curiosità a monsignore di
saper tutta la storia, e mi toccasse a render conto dell'affare del matrimonio!
Non ci mancherebbe altro. E se viene in visita anche alla mia parrocchia!...
Oh! sarà quel che sarà; non vo' confondermi prima del tempo: n'ho abbastanza
de' guai. Per ora vo a chiudermi in casa. Fin che monsignore si trova da queste
parti, don Rodrigo non avrà faccia di far pazzie. E poi... E poi? Ah! vedo che
i miei ultimi anni ho da passarli male!"
La
comitiva arrivò che le funzioni di chiesa non erano ancor terminate; passò per
mezzo alla folla medesima non meno commossa della prima volta; e poi si divise.
I due a cavallo voltarono sur una piazzetta di fianco, in fondo a cui era la
casa del parroco; la lettiga andò avanti verso quella della buona donna.
Don
Abbondio fece quello che aveva pensato: appena smontato, fece i più sviscerati
complimenti all'innominato, e lo pregò di volerlo scusar con monsignore; ché
lui doveva tornare alla parrocchia addirittura, per affari urgenti. Andò a
cercare quel che chiamava il suo cavallo, cioè il bastone che aveva lasciato in
un cantuccio del salotto, e s'incamminò. L'innominato stette a aspettare che il
cardinale tornasse di chiesa.
La
buona donna, fatta seder Lucia nel miglior luogo della sua cucina,
s'affaccendava a preparar qualcosa da ristorarla, ricusando, con una certa
rustichezza cordiale, i ringraziamenti e le scuse che questa rinnovava ogni
tanto.
Presto
presto, rimettendo stipa sotto un calderotto, dove notava un buon cappone, fece
alzare il bollore al brodo, e riempitane una scodella già guarnita di fette di
pane, poté finalmente presentarla a Lucia. E nel vedere la poverina a riaversi
a ogni cucchiaiata, si congratulava ad alta voce con se stessa che la cosa
fosse accaduta in un giorno in cui, com'essa diceva, non c'era il gatto nel
fuoco. - Tutti s'ingegnano oggi a far qualcosina, - aggiungeva: - meno que'
poveri poveri che stentano a aver pane di vecce e polenta di saggina; però oggi
da un signore così caritatevole sperano di buscar tutti qualcosa. Noi, grazie
al cielo, non siamo in questo caso: tra il mestiere di mio marito, e qualcosa
che abbiamo al sole, si campa. Sicché mangiate senza pensieri intanto; ché
presto il cappone sarà a tiro, e potrete ristorarvi un po' meglio -. Così
detto, ritornò ad accudire al desinare, e ad apparecchiare.
Lucia,
tornatele alquanto le forze, e acquietandosele sempre più l'animo, andava
intanto assettandosi, per un'abitudine, per un istinto di pulizia e di
verecondia: rimetteva e fermava le trecce allentate e arruffate, raccomodava il
fazzoletto sul seno, e intorno al collo. In far questo, le sue dita
s'intralciarono nella corona che ci aveva messa, la notte avanti; lo sguardo vi
corse; si fece nella mente un tumulto istantaneo; la memoria del voto, oppressa
fino allora e soffogata da tante sensazioni presenti, vi si suscitò
d'improvviso, e vi comparve chiara e distinta. Allora tutte le potenze del suo
animo, appena riavute, furon sopraffatte di nuovo, a un tratto: e se
quell'animo non fosse stato così preparato da una vita d'innocenza, di
rassegnazione e di fiducia, la costernazione che provò in quel momento, sarebbe
stata disperazione. Dopo un ribollimento di que' pensieri che non vengono con
parole, le prime che si formarono nella sua mente furono: "oh povera me,
cos'ho fatto!"
Ma non
appena l'ebbe pensate, ne risentì come uno spavento. Le tornarono in mente
tutte le circostanze del voto, l'angoscia intollerabile, il non avere una
speranza di soccorso, il fervore della preghiera, la pienezza del sentimento
con cui la promessa era stata fatta. E dopo avere ottenuta la grazia, pentirsi
della promessa, le parve un'ingratitudine sacrilega, una perfidia verso Dio e
la Madonna; le parve che una tale infedeltà le attirerebbe nuove e più
terribili sventure, in mezzo alle quali non potrebbe più sperare neppur nella
preghiera; e s'affrettò di rinnegare quel pentimento momentaneo. Si levò con
divozione la corona dal collo, e tenendola nella mano tremante, confermò,
rinnovò il voto, chiedendo nello stesso tempo, con una supplicazione accorata,
che le fosse concessa la forza d'adempirlo, che le fossero risparmiati i
pensieri e l'occasioni le quali avrebbero potuto, se non ismovere il suo animo,
agitarlo troppo. La lontananza di Renzo, senza nessuna probabilità di ritorno,
quella lontananza che fin allora le era stata così amara, le parve ora una
disposizione della Provvidenza, che avesse fatti andare insieme i due
avvenimenti per un fine solo; e si studiava di trovar nell'uno la ragione
d'esser contenta dell'altro. E dietro a quel pensiero, s'andava figurando
ugualmente che quella Provvidenza medesima, per compir l'opera, saprebbe trovar
la maniera di far che Renzo si rassegnasse anche lui, non pensasse più... Ma
una tale idea, appena trovata, mise sottosopra la mente ch'era andata a
cercarla. La povera Lucia, sentendo che il cuore era lì lì per pentirsi, ritornò
alla preghiera, alle conferme, al combattimento, dal quale s'alzò, se ci si
passa quest'espressione, come il vincitore stanco e ferito, di sopra il nemico
abbattuto: non dico ucciso.
Tutt'a
un tratto, si sente uno scalpiccìo, e un chiasso di voci allegre. Era la
famigliola che tornava di chiesa. Due bambinette e un fanciullo entran
saltando; si fermano un momento a dare un'occhiata curiosa a Lucia, poi corrono
alla mamma, e le s'aggruppano intorno: chi domanda il nome dell'ospite
sconosciuta, e il come e il perché; chi vuol raccontare le maraviglie vedute:
la buona donna risponde a tutto e a tutti con un - zitti, zitti -. Entra poi,
con un passo più quieto, ma con una premura cordiale dipinta in viso, il
padrone di casa. Era, se non l'abbiamo ancor detto, il sarto del villaggio, e
de' contorni; un uomo che sapeva leggere, che aveva letto in fatti più d'una
volta il Leggendario de' Santi, il Guerrin meschino e i Reali di Francia, e
passava, in quelle parti, per un uomo di talento e di scienza: lode però che rifiutava
modestamente, dicendo soltanto che aveva sbagliato la vocazione; e che se fosse
andato agli studi, in vece di tant'altri...! Con questo, la miglior pasta del
mondo. Essendosi trovato presente quando sua moglie era stata pregata dal
curato d'intraprendere quel viaggio caritatevole, non solo ci aveva data la sua
approvazione, ma le avrebbe fatto coraggio, se ce ne fosse stato bisogno. E ora
che la funzione, la pompa, il concorso, e soprattutto la predica del cardinale
avevano, come si dice, esaltati tutti i suoi buoni sentimenti, tornava a casa
con un'aspettativa, con un desiderio ansioso di sapere come la cosa fosse
riuscita, e di trovare la povera innocente salvata.
-
Guardate un poco, - gli disse, al suo entrare, la buona donna, accennando
Lucia; la quale fece il viso rosso, s'alzò, e cominciava a balbettar qualche
scusa. Ma lui, avvicinatosele, l'interruppe facendole una gran festa, e
esclamando: - ben venuta, ben venuta! Siete la benedizione del cielo in questa
casa. Come son contento di vedervi qui! Già ero sicuro che sareste arrivata a
buon porto; perché non ho mai trovato che il Signore abbia cominciato un
miracolo senza finirlo bene; ma son contento di vedervi qui. Povera giovine! Ma
è però una gran cosa d'aver ricevuto un miracolo!
Né si
creda che fosse lui il solo a qualificar così quell'avvenimento, perché aveva
letto il Leggendario: per tutto il paese e per tutt'i contorni non se ne parlò
con altri termini, fin che ce ne rimase la memoria. E, a dir la verità, con le
frange che vi s'attaccarono, non gli poteva convenire altro nome.
Accostatosi
Poi passo passo alla moglie, che staccava il calderotto dalla catena, le disse
sottovoce: - è andato bene ogni cosa?
-
Benone: ti racconterò poi tutto.
- Sì,
sì; con comodo.
Messo
poi subito in tavola, la padrona andò a prender Lucia, ve l'accompagnò, la fece
sedere; e staccata un'ala di quel cappone, gliela mise davanti; si mise a
sedere anche lei e il marito, facendo tutt'e due coraggio all'ospite abbattuta
e vergognosa, perché mangiasse. Il sarto cominciò, ai primi bocconi, a
discorrere con grand'enfasi, in mezzo all'interruzioni de' ragazzi, che
mangiavano ritti intorno alla tavola, e che in verità avevano viste troppe cose
straordinarie, per fare alla lunga la sola parte d'ascoltatori. Descriveva le cerimonie
solenni, poi saltava a parlare della conversione miracolosa. Ma ciò che gli
aveva fatto più impressione, e su cui tornava più spesso, era la predica del
cardinale.
- A
vederlo lì davanti all'altare, - diceva, - un signore di quella sorte, come un
curato...
- E
quella cosa d'oro che aveva in testa... - diceva una bambinetta.
- Sta'
zitta. A pensare, dico, che un signore di quella sorte, e un uomo tanto
sapiente, che, a quel che dicono, ha letto tutti i libri che ci sono, cosa a
cui non è mai arrivato nessun altro, né anche in Milano; a pensare che sappia
adattarsi a dir quelle cose in maniera che tutti intendano...
- Ho
inteso anch'io, - disse l'altra chiacchierina.
- Sta'
zitta! cosa vuoi avere inteso, tu?
- Ho
inteso che spiegava il Vangelo in vece del signor curato.
- Sta'
zitta. Non dico chi sa qualche cosa; ché allora uno è obbligato a intendere; ma
anche i più duri di testa, i più ignoranti, andavan dietro al filo del
discorso. Andate ora a domandar loro se saprebbero ripeter le parole che diceva:
sì; non ne ripescherebbero una; ma il sentimento lo hanno qui. E senza mai
nominare quel signore, come si capiva che voleva parlar di lui! E poi, per
capire, sarebbe bastato osservare quando aveva le lacrime agli occhi. E allora
tutta la gente a piangere...
- E
proprio vero, - scappò fuori il fanciullo: - ma perché piangevan tutti a quel
modo, come bambini?
- Sta'
zitto. E sì che c'è de' cuori duri in questo paese. E ha fatto proprio vedere
che, benché ci sia la carestia, bisogna ringraziare il Signore, ed esser
contenti: far quel che si può, industriarsi, aiutarsi, e poi esser contenti.
Perché la disgrazia non è il patire, e l'esser poveri; la disgrazia è il far
del male. E non son belle parole; perché si sa che anche lui vive da
pover'uomo, e si leva il pane di bocca per darlo agli affamati; quando potrebbe
far vita scelta, meglio di chi si sia. Ah! allora un uomo dà soddisfazione a
sentirlo discorrere; non come tant'altri, fate quello che dico, e non fate quel
che fo. E poi ha fatto proprio vedere che anche coloro che non son signori, se
hanno più del necessario, sono obbligati di farne parte a chi patisce.
Qui
interruppe il discorso da sé, come sorpreso da un pensiero. Stette un momento;
poi mise insieme un piatto delle vivande ch'eran sulla tavola, e aggiuntovi un
pane, mise il piatto in un tovagliolo, e preso questo per le quattro cocche,
disse alla sua bambinetta maggiore: - piglia qui -. Le diede nell'altra mano un
fiaschetto di vino, e soggiunse: - va' qui da Maria vedova; lasciale questa
roba, e dille che è per stare un po' allegra co' suoi bambini. Ma con buona
maniera, ve'; che non paia che tu le faccia l'elemosina. E non dir niente, se
incontri qualcheduno; e guarda di non rompere.
Lucia
fece gli occhi rossi, e sentì in cuore una tenerezza ricreatrice; come già da'
discorsi di prima aveva ricevuto un sollievo che un discorso fatto apposta non
le avrebbe potuto dare. L'animo attirato da quelle descrizioni, da quelle
fantasie di pompa, da quelle commozioni di pietà e di maraviglia, preso
dall'entusiasmo medesimo del narratore, si staccava da' pensieri dolorosi di
sé; e anche ritornandoci sopra, si trovava più forte contro di essi. Il
pensiero stesso del gran sacrifizio, non già che avesse perduto il suo amaro,
ma insiem con esso aveva un non so che d'una gioia austera e solenne.
Poco
dopo, entrò il curato del paese, e disse d'esser mandato dal cardinale a
informarsi di Lucia, ad avvertirla che monsignore voleva vederla in quel
giorno, e a ringraziare in suo nome il sarto e la moglie. E questi e quella,
commossi e confusi, non trovavan parole per corrispondere a tali dimostrazioni
d'un tal personaggio.
- E
vostra madre non è ancora arrivata? - disse il curato a Lucia.
- Mia
madre! - esclamò questa. Dicendole poi il curato, che l'aveva mandata a prendere,
d'ordine dell'arcivescovo, si mise il grembiule agli occhi, e diede in un
dirotto pianto, che durò un pezzo dopo che fu andato via il curato. Quando poi
gli affetti tumultuosi che le si erano suscitati a quell'annunzio, cominciarono
a dar luogo a pensieri più posati, la poverina si ricordò che quella
consolazione allora così vicina, di riveder la madre, una consolazione così
inaspettata poche ore prima, era stata da lei espressamente implorata in
quell'ore terribili, e messa quasi come una condizione al voto. Fatemi
tornar salva con mia madre, aveva detto; e queste parole le ricomparvero
ora distinte nella memoria. Si confermò più che mai nel proposito di mantener
la promessa, e si fece di nuovo, e più amaramente, scrupolo di quel povera
me! che le era scappato detto tra sé, nel primo momento.
Agnese
infatti, quando si parlava di lei, era già poco lontana. È facile pensare come
la povera donna fosse rimasta, a quell'invito così inaspettato, e a quella
notizia, necessariamente tronca e confusa, d'un pericolo, si poteva dir,
cessato, ma spaventoso; d'un caso terribile, che il messo non sapeva né
circostanziare né spiegare; e lei non aveva a che attaccarsi per ispiegarlo da
sé. Dopo essersi cacciate le mani ne' capelli, dopo aver gridato più volte: -
ah Signore! ah Madonna! -, dopo aver fatte al messo varie domande, alle quali
questo non sapeva che rispondere, era entrata in fretta e in furia nel
baroccio, continuando per la strada a esclamare e interrogare, senza profitto.
Ma, a un certo punto, aveva incontrato don Abbondio che veniva adagio adagio,
mettendo avanti, a ogni passo, il suo bastone. Dopo un - oh! - di tutt'e due le
parti, lui s'era fermato, lei aveva fatto fermare, ed era smontata; e s'eran
tirati in disparte in un castagneto che costeggiava la strada. Don Abbondio
l'aveva ragguagliata di ciò che aveva potuto sapere e dovuto vedere. La cosa
non era chiara; ma almeno Agnese fu assicurata che Lucia era affatto in salvo;
e respirò.
Dopo,
don Abbondio era voluto entrare in un altro discorso, e darle una lunga
istruzione sulla maniera di regolarsi con l'arcivescovo, se questo, com'era
probabile, avesse desiderato di parlar con lei e con la figliuola; e
soprattutto che non conveniva far parola del matrimonio... Ma Agnese,
accorgendosi che il brav'uomo non parlava che per il suo proprio interesse,
l'aveva piantato, senza promettergli, anzi senza risolver nulla; ché aveva
tutt'altro da pensare. E s'era rimessa in istrada.
Finalmente
il baroccio arriva, e si ferma alla casa del sarto. Lucia s'alza precipitosamente;
Agnese scende, e dentro di corsa: sono nelle braccia l'una dell'altra. La
moglie del sarto, ch'era la sola che si trovava lì presente, fa coraggio a
tutt'e due, le acquieta, si rallegra con loro, e poi, sempre discreta, le
lascia sole, dicendo che andava a preparare un letto per loro; che aveva il
modo, senza incomodarsi; ma che, in ogni caso, tanto lei, come suo marito,
avrebbero piuttosto voluto dormire in terra, che lasciarle andare a cercare un
ricovero altrove.
Passato
quel primo sfogo d'abbracciamenti e di singhiozzi, Agnese volle sapere i casi
di Lucia, e questa si mise affannosamente a raccontarglieli. Ma, come il
lettore sa, era una storia che nessuno la conosceva tutta; e per Lucia stessa
c'eran delle parti oscure, inesplicabili affatto. E principalmente quella
fatale combinazione d'essersi la terribile carrozza trovata lì sulla strada,
per l'appunto quando Lucia vi passava per un caso straordinario: su di che la
madre e la figlia facevan cento congetture, senza mai dar nel segno, anzi senza
neppure andarci vicino.
In
quanto all'autor principale della trama, tanto l'una che l'altra non potevano
fare a meno di non pensare che fosse don Rodrigo.
- Ah
anima nera! ah tizzone d'inferno! - esclamava Agnese: - ma verrà la sua ora
anche per lui. Domeneddio lo pagherà secondo il merito; e allora proverà anche
lui...
- No,
no, mamma; no! - interruppe Lucia: - non gli augurate di patire, non l'augurate
a nessuno! Se sapeste cosa sia patire! Se aveste provato! No, no! preghiamo
piuttosto Dio e la Madonna per lui: che Dio gli tocchi il cuore, come ha fatto
a quest'altro povero signore, ch'era peggio di lui; e ora è un santo.
Il
ribrezzo che Lucia provava nel tornare sopra memorie così recenti e così
crudeli, la fece più d'una volta restare a mezzo; più d'una volta disse che non
le bastava l'animo di continuare, e dopo molte lacrime, riprese la parola a
stento. Ma un sentimento diverso la tenne sospesa, a un certo punto del
racconto: quando fu al voto. Il timore che la madre le desse dell'imprudente e
della precipitosa; e che, come aveva fatto nell'affare del matrimonio, mettesse
in campo qualche sua regola larga di coscienza, e volesse fargliela trovar
giusta per forza; o che, povera donna, dicesse la cosa a qualcheduno in
confidenza, se non altro per aver lume e consiglio, e la facesse così divenir
pubblica, cosa che Lucia, solamente a pensarci, si sentiva venire il viso
rosso; anche una certa vergogna della madre stessa, una ripugnanza
inesplicabile a entrare in quella materia; tutte queste cose insieme fecero che
nascose quella circostanza importante, proponendosi di farne prima la
confidenza al padre Cristoforo. Ma come rimase allorché, domandando di lui, si
sentì rispondere che non c'era più, ch'era stato mandato in un paese lontano
lontano, in un paese che aveva un certo nome!
- E
Renzo? - disse Agnese.
- È in
salvo, n'è vero? - disse ansiosamente Lucia.
-
Questo è sicuro, perché tutti lo dicono; si tien per certo che si sia
ricoverato sul bergamasco; ma il luogo proprio nessuno lo sa dire: e lui finora
non ha mai fatto saper nulla. Che non abbia ancora trovata la maniera.
- Ah,
se è in salvo, sia ringraziato il Signore! - disse Lucia; e cercava di cambiar
discorso; quando il discorso fu interrotto da una novità inaspettata: la
comparsa del cardinale arcivescovo.
Questo,
tornato di chiesa, dove l'abbiam lasciato, sentito dall'innominato che Lucia
era arrivata, sana e salva, era andato a tavola con lui, facendoselo sedere a
destra, in mezzo a una corona di preti, che non potevano saziarsi di dare
occhiate a quell'aspetto così ammansato senza debolezza, così umiliato senza
abbassamento, e di paragonarlo con l'idea che da lungo tempo s'eran fatta del
personaggio.
Finito
di desinare, loro due s'eran ritirati di nuovo insieme. Dopo un colloquio che
durò molto più del primo, l'innominato era partito per il suo castello, su
quella stessa mula della mattina; e il cardinale, fatto chiamare il curato, gli
aveva detto che desiderava d'esser condotto alla casa dov'era ricoverata Lucia.
- Oh!
monsignore, - aveva risposto il curato, - non s'incomodi: manderò io subito ad
avvertire che venga qui la giovine, la madre, se è arrivata, anche gli ospiti,
se monsignore li vuole, tutti quelli che desidera vossignoria illustrissima.
-
Desidero d'andar io a trovarli, - aveva replicato Federigo.
-
Vossignoria illustrissima non deve incomodarsi: manderò io subito a chiamarli:
è cosa d'un momento, - aveva insistito il curato guastamestieri (buon uomo del
resto), non intendendo che il cardinale voleva con quella visita rendere onore
alla sventura, all'innocenza, all'ospitalità e al suo proprio ministero in un
tempo. Ma, avendo il superiore espresso di nuovo il medesimo desiderio,
l'inferiore s'inchinò e si mosse.
Quando
i due personaggi furon veduti spuntar nella strada, tutta la gente che c'era
andò verso di loro; e in pochi momenti n'accorse da ogni parte, camminando loro
ai fianchi chi poteva, e gli altri dietro, alla rinfusa. Il curato badava a
dire: - via, indietro, ritiratevi; ma! ma! - Federigo gli diceva: - lasciateli
fare, - e andava avanti, ora alzando la mano a benedir la gente, ora
abbassandola ad accarezzare i ragazzi che gli venivan tra' piedi. Così
arrivarono alla casa, e c'entrarono: la folla rimase ammontata al di fuori. Ma
nella folla si trovava anche il sarto, il quale era andato dietro come gli
altri, con gli occhi fissi e con la bocca aperta, non sapendo dove si
riuscirebbe. Quando vide quel dove inaspettato, si fece far largo, pensate con
che strepito, gridando e rigridando: - lasciate passare chi ha da passare -; e
entrò.
Agnese
e Lucia sentirono un ronzìo crescente nella strada; mentre pensavano cosa
potesse essere, videro l'uscio spalancarsi, e comparire il porporato col
parroco.
- È
quella? - domandò il primo al secondo; e, a un cenno affermativo, andò verso
Lucia, ch'era rimasta lì con la madre, tutt'e due immobili e mute dalla
sorpresa e dalla vergogna. Ma il tono di quella voce, l'aspetto, il contegno, e
soprattutto le parole di Federigo l'ebbero subito rianimate. - Povera giovine,
- cominciò: - Dio ha permesso che foste messa a una gran prova; ma v'ha anche
fatto vedere che non aveva levato l'occhio da voi, che non v'aveva dimenticata.
V'ha rimessa in salvo; e s'è servito di voi per una grand'opera, per fare una
gran misericordia a uno, e per sollevar molti nello stesso tempo.
Qui
comparve nella stanza la padrona, la quale, al rumore, s'era affacciata
anch'essa alla finestra, e avendo veduto chi le entrava in casa, aveva sceso le
scale, di corsa, dopo essersi raccomodata alla meglio; e quasi nello stesso
tempo, entrò il sarto da un altr'uscio. Vedendo avviato il discorso, andarono a
riunirsi in un canto, dove rimasero con gran rispetto. Il cardinale, salutatili
cortesemente, continuò a parlar con le donne, mescolando ai conforti qualche
domanda, per veder se nelle risposte potesse trovar qualche congiuntura di far
del bene a chi aveva tanto patito.
-
Bisognerebbe che tutti i preti fossero come vossignoria, che tenessero un po'
dalla parte de' poveri, e non aiutassero a metterli in imbroglio, per cavarsene
loro, - disse Agnese, animata dal contegno così famigliare e amorevole di
Federigo, e stizzita dal pensare che il signor don Abbondio, dopo aver sempre
sacrificati gli altri, pretendesse poi anche d'impedir loro un piccolo sfogo,
un lamento con chi era al di sopra di lui, quando, per un caso raro, n'era
venuta l'occasione.
- Dite
pure tutto quel che pensate, - disse il cardinale: - parlate liberamente.
-
Voglio dire che, se il nostro signor curato avesse fatto il suo dovere, la cosa
non sarebbe andata così.
Ma
facendole il cardinale nuove istanze perché si spiegasse meglio, quella
cominciò a trovarsi impicciata a dover raccontare una storia nella quale aveva
anch'essa una parte che non si curava di far sapere, specialmente a un tal
personaggio. Trovò però il verso d'accomodarla con un piccolo stralcio:
raccontò del matrimonio concertato, del rifiuto di don Abbondio, non lasciò
fuori il pretesto de' superiori che lui aveva messo in campo (ah,
Agnese!); e saltò all'attentato di don Rodrigo, e come, essendo stati
avvertiti, avevano potuto scappare. - Ma sì, - soggiunse e concluse: - scappare
per inciamparci di nuovo. Se in vece il signor curato ci avesse detto
sinceramente la cosa, e avesse subito maritati i miei poveri giovani, noi ce
n'andavamo via subito, tutti insieme, di nascosto, lontano, in luogo che né
anche l'aria non l'avrebbe saputo. Così s'è perduto tempo; ed è nato quel che è
nato.
- Il
signor curato mi renderà conto di questo fatto, - disse il cardinale.
- No,
signore, no, signore, - disse subito Agnese: - non ho parlato per questo: non
lo gridi, perché già quel che è stato è stato; e poi non serve a nulla: è un
uomo fatto così: tornando il caso, farebbe lo stesso.
Ma
Lucia, non contenta di quella maniera di raccontar la storia, soggiunse: -
anche noi abbiamo fatto del male: si vede che non era la volontà del Signore
che la cosa dovesse riuscire.
- Che
male avete potuto far voi, povera giovine? - disse Federigo.
Lucia,
malgrado gli occhiacci che la madre cercava di farle alla sfuggita, raccontò la
storia del tentativo fatto in casa di don Abbondio; e concluse dicendo: -
abbiam fatto male; e Dio ci ha gastigati.
-
Prendete dalla sua mano i patimenti che avete sofferti, e state di buon animo,
- disse Federigo: - perché, chi avrà ragione di rallegrarsi e di sperare, se non
chi ha patito, e pensa ad accusar se medesimo?
Domandò
allora dove fosse il promesso sposo, e sentendo da Agnese (Lucia stava zitta,
con la testa e gli occhi bassi) ch'era scappato dal suo paese, ne provò e ne
mostrò maraviglia e dispiacere; e volle sapere il perché.
Agnese
raccontò alla meglio tutto quel poco che sapeva della storia di Renzo.
- Ho
sentito parlare di questo giovine, - disse il cardinale: - ma come mai uno che
si trovò involto in affari di quella sorte, poteva essere in trattato di
matrimonio con una ragazza così?
- Era
un giovine dabbene, - disse Lucia, facendo il viso rosso, ma con voce sicura.
- Era
un giovine quieto, fin troppo, - soggiunse Agnese: - e questo lo può domandare
a chi si sia, anche al signor curato. Chi sa che imbroglio avranno fatto
laggiù, che cabale? I poveri, ci vuol poco a farli comparir birboni.
È vero
pur troppo, - disse il cardinale: - m'informerò di lui senza dubbio -: e
fattosi dire nome e cognome del giovine, ne prese l'appunto sur un libriccin di
memorie. Aggiunse poi che contava di portarsi al loro paese tra pochi giorni,
che allora Lucia potrebbe venir là senza timore, e che intanto penserebbe lui a
provvederla d'un luogo dove potesse esser al sicuro, fin che ogni cosa fosse
accomodata per il meglio.
Si
voltò quindi ai padroni di casa, che vennero subito avanti. Rinnovò i
ringraziamenti che aveva fatti fare dal curato, e domandò se sarebbero stati
contenti di ricoverare, per que' pochi giorni, le ospiti che Dio aveva loro
mandate.
- Oh!
sì signore, - rispose la donna, con un tono di voce e con un viso ch'esprimeva
molto più di quell'asciutta risposta, strozzata dalla vergogna. Ma il marito,
messo in orgasmo dalla presenza d'un tale interrogatore, dal desiderio di farsi
onore in un'occasione di tanta importanza, studiava ansiosamente qualche bella
risposta. Raggrinzò la fronte, torse gli occhi in traverso, strinse le labbra,
tese a tutta forza l'arco dell'intelletto, cercò, frugò, sentì di dentro un
cozzo d'idee monche e di mezze parole: ma il momento stringeva; il cardinale
accennava già d'avere interpretato il silenzio: il pover'uomo aprì la bocca, e
disse: - si figuri! - Altro non gli volle venire. Cosa, di cui non solo rimase
avvilito sul momento; ma sempre poi quella rimembranza importuna gli guastava
la compiacenza del grand'onore ricevuto. E quante volte, tornandoci sopra, e
rimettendosi col pensiero in quella circostanza, gli venivano in mente, quasi
per dispetto, parole che tutte sarebbero state meglio di quell'insulso si
figuri! Ma, come dice un antico proverbio, del senno di poi ne son piene le
fosse.
Il
cardinale partì, dicendo: - la benedizione del Signore sia sopra questa casa.
Domandò
poi la sera al curato come si sarebbe potuto in modo convenevole ricompensare
quell'uomo, che non doveva esser ricco, dell'ospitalità costosa, specialmente
in que' tempi. Il curato rispose che, per verità, né i guadagni della
professione, né le rendite di certi campicelli, che il buon sarto aveva del
suo, non sarebbero bastate, in quell'annata, a metterlo in istato d'esser liberale
con gli altri; ma che, avendo fatto degli avanzi negli anni addietro, si
trovava de' più agiati del contorno, e poteva far qualche spesa di più, senza
dissesto, come certo faceva questa volentieri; e che, del rimanente, non ci
sarebbe stato verso di fargli accettare nessuna ricompensa.
- Avrà
probabilmente, - disse il cardinale, - crediti con gente che non può pagare.
-
Pensi, monsignore illustrissimo: questa povera gente paga con quel che le
avanza della raccolta: l'anno scorso, non avanzò nulla; in questo, tutti
rimangono indietro del necessario.
-
Ebbene, - disse Federigo: - prendo io sopra di me tutti que' debiti; e voi mi
farete il piacere d'aver da lui la nota delle partite, e di saldarle.
- Sarà
una somma ragionevole.
- Tanto
meglio: e avrete pur troppo di quelli ancor più bisognosi, che non hanno debiti
perché non trovan credenza.
- Eh,
pur troppo! Si fa quel che si può; ma come arrivare a tutto, in tempi di questa
sorte?
- Fate
che lui li vesta a mio conto, e pagatelo bene. Veramente, in quest'anno, mi par
rubato tutto ciò che non va in pane; ma questo è un caso particolare.
Non
vogliam però chiudere la storia di quella giornata, senza raccontar brevemente
come la terminasse l'innominato.
Questa
volta, la nuova della sua conversione l'aveva preceduto nella valle; vi s'era
subito sparsa, e aveva messo per tutto uno sbalordimento, un'ansietà, un
cruccio, un susurro. Ai primi bravi, o servitori (era tutt'uno) che vide,
accennò che lo seguissero: e così di mano in mano. Tutti venivan dietro, con una
sospensione nuova, e con la suggezione solita; finché, con un seguito sempre
crescente, arrivò al castello. Accennò a quelli che si trovavan sulla porta,
che gli venissero dietro con gli altri; entrò nel primo cortile, andò verso il
mezzo, e lì, essendo ancora a cavallo, mise un suo grido tonante: era il segno
usato, al quale accorrevano tutti que' suoi che l'avessero sentito. In un
momento, quelli ch'erano sparsi per il castello, vennero dietro alla voce, e
s'univano ai già radunati, guardando tutti il padrone.
-
Andate ad aspettarmi nella sala grande, - disse loro; e dall'alto della sua
cavalcatura, gli stava a veder partire. Ne scese poi, la menò lui stesso alla
stalla, e andò dov'era aspettato. Al suo apparire, cessò subito un gran
bisbiglìo che c'era; tutti si ristrinsero da una parte, lasciando voto per lui
un grande spazio della sala: potevano essere una trentina.
L'innominato
alzò la mano, come per mantener quel silenzio improvviso; alzò la testa, che
passava tutte quelle della brigata, e disse: - ascoltate tutti, e nessuno
parli, se non è interrogato. Figliuoli! la strada per la quale siamo andati
finora, conduce nel fondo dell'inferno. Non è un rimprovero ch'io voglia farvi,
io che sono avanti a tutti, il peggiore di tutti; ma sentite ciò che v'ho da
dire. Dio misericordioso m'ha chiamato a mutar vita; e io la muterò, l'ho già
mutata: così faccia con tutti voi. Sappiate dunque, e tenete per fermo che son
risoluto di prima morire che far più nulla contro la sua santa legge. Levo a
ognun di voi gli ordini scellerati che avete da me; voi m'intendete; anzi vi
comando di non far nulla di ciò che v'era comandato. E tenete per fermo
ugualmente, che nessuno, da qui avanti, potrà far del male con la mia
protezione, al mio servizio. Chi vuol restare a questi patti, sarà per me come
un figliuolo: e mi troverei contento alla fine di quel giorno, in cui non
avessi mangiato per satollar l'ultimo di voi, con l'ultimo pane che mi
rimanesse in casa. Chi non vuole, gli sarà dato quello che gli è dovuto di
salario, e un regalo di più: potrà andarsene; ma non metta più piede qui:
quando non fosse per mutar vita; che per questo sarà sempre ricevuto a braccia
aperte. Pensateci questa notte: domattina vi chiamerò, a uno a uno, a darmi la
risposta; e allora vi darò nuovi ordini. Per ora, ritiratevi, ognuno al suo
posto. E Dio che ha usato con me tanta misericordia, vi mandi il buon pensiero.
Qui
finì, e tutto rimase in silenzio. Per quanto vari e tumultuosi fossero i
pensieri che ribollivano in que' cervellacci, non ne apparve di fuori nessun
segno. Erano avvezzi a prender la voce del loro signore come la manifestazione
d'una volontà con la quale non c'era da ripetere: e quella voce, annunziando
che la volontà era mutata, non dava punto indizio che fosse indebolita. A
nessuno di loro passò neppur per la mente che, per esser lui convertito, si
potesse prendergli il sopravvento, rispondergli come a un altr'uomo. Vedevano
in lui un santo, ma un di que' santi che si dipingono con la testa alta, e con
la spada in pugno. Oltre il timore, avevano anche per lui (principalmente
quelli ch'eran nati sul suo, ed erano una gran parte) un'affezione come
d'uomini ligi; avevan poi tutti una benevolenza d'ammirazione; e alla sua
presenza sentivano una specie di quella, dirò pur così, verecondia, che anche
gli animi più zotici e più petulanti provano davanti a una superiorità che
hanno già riconosciuta. Le cose poi che allora avevan sentite da quella bocca,
erano bensì odiose a' loro orecchi, ma non false né affatto estranee ai loro
intelletti: se mille volte se n'eran fatti beffe, non era già perché non le
credessero, ma per prevenir con le beffe la paura che gliene sarebbe venuta, a
pensarci sul serio. E ora, a veder l'effetto di quella paura in un animo come
quello del loro padrone, chi più, chi meno, non ce ne fu uno che non gli se
n'attaccasse, almeno per qualche tempo. S'aggiunga a tutto ciò, che quelli tra
loro che, trovandosi la mattina fuor della valle, avevan risaputa per i primi
la gran nuova, avevano insieme veduto, e avevano anche riferito la gioia, la
baldanza della popolazione, l'amore e la venerazione per l'innominato, ch'erano
entrati in luogo dell'antico odio e dell'antico terrore. Di maniera che,
nell'uomo che avevan sempre riguardato, per dir così, di basso in alto, anche
quando loro medesimi erano in gran parte la sua forza, vedevano ora la
maraviglia, l'idolo d'una moltitudine; lo vedevano al di sopra degli altri, ben
diversamente di prima, ma non meno; sempre fuori della schiera comune, sempre
capo.
Stavano
adunque sbalorditi, incerti l'uno dell'altro, e ognun di sé. Chi si rodeva, chi
faceva disegni del dove sarebbe andato a cercar ricovero e impiego; chi
s'esaminava se avrebbe potuto adattarsi a diventar galantuomo; chi anche, tocco
da quelle parole, se ne sentiva una certa inclinazione; chi, senza risolver
nulla, proponeva di prometter tutto a buon conto, di rimanere intanto a
mangiare quel pane offerto così di buon cuore, e allora così scarso, e
d'acquistar tempo: nessuno fiatò. E quando l'innominato, alla fine delle sue
parole, alzò di nuovo quella mano imperiosa per accennar che se n'andassero,
quatti quatti, come un branco di pecore, tutti insieme se la batterono. Uscì
anche lui, dietro a loro, e, piantatosi prima nel mezzo del cortile, stette a
vedere al barlume come si sbrancassero, e ognuno s'avviasse al suo posto.
Salito poi a prendere una sua lanterna, girò di nuovo i cortili, i corridoi, le
sale, visitò tutte l'entrature, e, quando vide ch'era tutto quieto, andò
finalmente a dormire. Sì, a dormire; perché aveva sonno.
Affari
intralciati, e insieme urgenti, per quanto ne fosse sempre andato in cerca, non
se n'era mai trovati addosso tanti, in nessuna congiuntura, come allora; eppure
aveva sonno. I rimorsi che gliel avevan levato la notte avanti, non che essere
acquietati, mandavano anzi grida più alte, più severe, più assolute; eppure
aveva sonno. L'ordine, la specie di governo stabilito là dentro da lui in
tant'anni, con tante cure, con un tanto singolare accoppiamento d'audacia e di
perseveranza, ora l'aveva lui medesimo messo in forse, con poche parole; la
dipendenza illimitata di que' suoi, quel loro esser disposti a tutto, quella
fedeltà da masnadieri, sulla quale era avvezzo da tanto tempo a riposare,
l'aveva ora smossa lui medesimo; i suoi mezzi, gli aveva fatti diventare un
monte d'imbrogli, s'era messa la confusione e l'incertezza in casa; eppure
aveva sonno.
Andò
dunque in camera, s'accostò a quel letto in cui la notte avanti aveva trovate
tante spine; e vi s'inginocchiò accanto, con l'intenzione di pregare. Trovò in
fatti in un cantuccio riposto e profondo della mente, le preghiere ch'era stato
ammaestrato a recitar da bambino; cominciò a recitarle; e quelle parole,
rimaste lì tanto tempo ravvolte insieme, venivano l'una dopo l'altra come
sgomitolandosi. Provava in questo un misto di sentimenti indefinibile; una
certa dolcezza in quel ritorno materiale all'abitudini dell'innocenza; un
inasprimento di dolore al pensiero dell'abisso che aveva messo tra quel tempo e
questo; un ardore d'arrivare, con opere di espiazione, a una coscienza nuova, a
uno stato il più vicino all'innocenza, a cui non poteva tornare; una
riconoscenza, una fiducia in quella misericordia che lo poteva condurre a
quello stato, e che gli aveva già dati tanti segni di volerlo. Rizzatosi poi,
andò a letto, e s'addormentò immediatamente.
Così
terminò quella giornata, tanto celebre ancora quando scriveva il nostro
anonimo; e ora, se non era lui, non se ne saprebbe nulla, almeno de'
particolari; giacché il Ripamonti e il Rivola, citati di sopra, non dicono se
non che quel sì segnalato tiranno, dopo un abboccamento con Federigo, mutò
mirabilmente vita, e per sempre. E quanti son quelli che hanno letto i libri di
que' due? Meno ancora di quelli che leggeranno il nostro. E chi sa se, nella
valle stessa, chi avesse voglia di cercarla, e l'abilità di trovarla, sarà
rimasta qualche stracca e confusa tradizione del fatto? Son nate tante cose da
quel tempo in poi!
Il
giorno seguente, nel paesetto di Lucia e in tutto il territorio di Lecco, non
si parlava che di lei, dell'innominato, dell'arcivescovo e d'un altro tale,
che, quantunque gli piacesse molto d'andar per le bocche degli uomini,
n'avrebbe, in quella congiuntura, fatto volentieri di meno: vogliam dire il
signor don Rodrigo.
Non già
che prima d'allora non si parlasse de' fatti suoi; ma eran discorsi rotti,
segreti: bisognava che due si conoscessero bene bene tra di loro, per aprirsi
sur un tale argomento. E anche, non ci mettevano tutto il sentimento di che
sarebbero stati capaci: perché gli uomini, generalmente parlando, quando
l'indegnazione non si possa sfogare senza grave pericolo, non solo dimostran
meno, o tengono affatto in sé quella che sentono, ma ne senton meno in effetto.
Ma ora, chi si sarebbe tenuto d'informarsi, e di ragionare d'un fatto così
strepitoso, in cui s'era vista la mano del cielo, e dove facevan buona figura
due personaggi tali? uno, in cui un amore della giustizia tanto animoso andava
unito a tanta autorità; l'altro, con cui pareva che la prepotenza in persona si
fosse umiliata, che la braverìa fosse venuta, per dir così, a render l'armi, e
a chiedere il riposo. A tali paragoni, il signor don Rodrigo diveniva un po'
piccino. Allora si capiva da tutti cosa fosse tormentar l'innocenza per poterla
disonorare, perseguitarla con un'insistenza così sfacciata, con sì atroce
violenza, con sì abbominevoli insidie. Si faceva, in quell'occasione, una
rivista di tant'altre prodezze di quel signore: e su tutto la dicevan come la
sentivano, incoraggiti ognuno dal trovarsi d'accordo con tutti. Era un susurro,
un fremito generale; alla larga però, per ragione di tutti que' bravi che colui
aveva d'intorno.
Una
buona parte di quest'odio pubblico cadeva ancora sui suoi amici e cortigiani.
Si rosolava bene il signor podestà, sempre sordo e cieco e muto sui fatti di
quel tiranno; ma alla lontana, anche lui, perché, se non aveva i bravi, aveva i
birri. Col dottor Azzecca-garbugli, che non aveva se non chiacchiere e cabale,
e con altri cortigianelli suoi pari, non s'usava tanti riguardi: eran mostrati
a dito, e guardati con occhi torti; di maniera che, per qualche tempo, stimaron
bene di non farsi veder per le strade.
Don
Rodrigo, fulminato da quella notizia così impensata, così diversa dall'avviso
che aspettava di giorno in giorno, di momento in momento, stette rintanato nel
suo palazzotto, solo co' suoi bravi, a rodersi, per due giorni; il terzo, partì
per Milano. Se non fosse stato altro che quel mormoracchiare della gente,
forse, poiché le cose erano andate tant'avanti, sarebbe rimasto apposta per affrontarlo,
anzi per cercar l'occasione di dare un esempio a tutti sopra qualcheduno de'
più arditi; ma chi lo cacciò, fu l'essersi saputo per certo, che il cardinale
veniva da quelle parti. Il conte zio, il quale di tutta quella storia non
sapeva se non quel che gli aveva detto Attilio, avrebbe certamente preteso che,
in una congiuntura simile, don Rodrigo facesse una gran figura, e avesse in
pubblico dal cardinale le più distinte accoglienze: ora, ognun vede come ci
fosse incamminato. L'avrebbe preteso, e se ne sarebbe fatto render conto
minutamente; perché era un'occasione importante di far vedere in che stima
fosse tenuta la famiglia da una primaria autorità. Per levarsi da un impiccio
così noioso, don Rodrigo, alzatosi una mattina prima del sole, si mise in una
carrozza, col Griso e con altri bravi, di fuori, davanti e di dietro; e,
lasciato l'ordine che il resto della servitù venisse poi in seguito, partì come
un fuggitivo, come (ci sia un po' lecito di sollevare i nostri personaggi con
qualche illustre paragone), come Catilina da Roma, sbuffando, e giurando di
tornar ben presto, in altra comparsa, a far le sue vendette.
Intanto,
il cardinale veniva visitando, a una per giorno, le parrocchie del territorio
di Lecco. Il giorno in cui doveva arrivare a quella di Lucia, già una gran
parte degli abitanti erano andati sulla strada a incontrarlo. All'entrata del
paese, proprio accanto alla casetta delle nostre due donne, c'era un arco
trionfale, costrutto di stili per il ritto, e di pali per il traverso, rivestito
di paglia e di borraccina, e ornato di rami verdi di pugnitopo e d'agrifoglio,
distinti di bacche scarlatte; la facciata della chiesa era parata di
tappezzerie; al davanzale d'ogni finestra pendevano coperte e lenzoli distesi,
fasce di bambini disposte a guisa di pendoni; tutto quel poco necessario che
fosse atto a fare, o bene o male, figura di superfluo. Verso le ventidue,
ch'era l'ora in cui s'aspettava il cardinale, quelli ch'eran rimasti in casa,
vecchi, donne e fanciulli la più parte, s'avviarono anche loro a incontrarlo,
parte in fila, parte in truppa, preceduti da don Abbondio, uggioso in mezzo a
tanta festa, e per il fracasso che lo sbalordiva, e per il brulicar della gente
innanzi e indietro, che, come andava ripetendo, gli faceva girar la testa, e
per il rodìo segreto che le donne avesser potuto cicalare, e dovesse toccargli
a render conto del matrimonio.
Quand'ecco
si vede spuntare il cardinale, o per dir meglio, la turba in mezzo a cui si
trovava nella sua lettiga, col suo seguito d'intorno; perché di tutto questo
non si vedeva altro che un indizio in aria, al di sopra di tutte le teste, un
pezzo della croce portata dal cappellano che cavalcava una mula. La gente che
andava con don Abbondio, s'affrettò alla rinfusa, a raggiunger quell'altra: e
lui, dopo aver detto, tre e quattro volte: - adagio; in fila; cosa fate? - si
voltò indispettito; e seguitando a borbottare: - è una babilonia, è una
babilonia, - entrò in chiesa, intanto ch'era vota; e stette lì ad aspettare.
Il
cardinale veniva avanti, dando benedizioni con la mano, e ricevendone dalle
bocche della gente, che quelli del seguito avevano un bel da fare a tenere un
po' indietro. Per esser del paese di Lucia, avrebbe voluto quella gente fare
all'arcivescovo dimostrazioni straordinarie; ma la cosa non era facile, perché
era uso che, per tutto dove arrivava, tutti facevano più che potevano. Già sul
principio stesso del suo pontificato, nel primo solenne ingresso in duomo, la
calca e l'impeto della gente addosso a lui era stato tale, da far temere della
sua vita; e alcuni gentiluomini che gli eran più vicini, avevano sfoderate le
spade, per atterrire e respinger la folla. Tanto c'era in que' costumi di
scomposto e di violento, che, anche nel far dimostrazioni di benevolenza a un
vescovo in chiesa, e nel moderarle, si dovesse andar vicino all'ammazzare. E
quella difesa non sarebbe forse bastata, se il maestro e il sottomaestro delle
cerimonie, un Clerici e un Picozzi, giovani preti che stavan bene di corpo e
d'animo, non l'avessero alzato sulle braccia, e portato di peso, dalla porta
fino all'altar maggiore. D'allora in poi, in tante visite episcopali ch'ebbe a
fare, il primo entrar nella chiesa si può senza scherzo contarlo tra le sue
pastorali fatiche, e qualche volta, tra i pericoli passati da lui.
Entrò
anche in questa come poté; andò all'altare e, dopo essere stato alquanto in
orazione, fece, secondo il suo solito, un piccol discorso al popolo, sul suo
amore per loro, sul suo desiderio della loro salvezza, e come dovessero
disporsi alle funzioni del giorno dopo. Ritiratosi poi nella casa del parroco,
tra gli altri discorsi, gli domandò informazione di Renzo. Don Abbondio disse
ch'era un giovine un po' vivo, un po' testardo, un po' collerico. Ma, a più
particolari e precise domande, dovette rispondere ch'era un galantuomo, e che
anche lui non sapeva capire come, in Milano, avesse potuto fare tutte quelle
diavolerie che avevan detto.
- In
quanto alla giovine, - riprese il cardinale, - pare anche a voi che possa ora
venir sicuramente a dimorare in casa sua?
- Per
ora, - rispose don Abbondio, - può venire e stare, come vuole: dico, per ora;
ma, - soggiunse poi con un sospiro, - bisognerebbe che vossignoria
illustrissima fosse sempre qui, o almeno vicino.
- Il
Signore è sempre vicino, - disse il cardinale: - del resto, penserò io a
metterla al sicuro -. E diede subito ordine che, il giorno dopo, si spedisse di
buon'ora la lettiga, con una scorta, a prender le due donne.
Don
Abbondio uscì di lì tutto contento che il cardinale gli avesse parlato de' due
giovani, senza chiedergli conto del suo rifiuto di maritarli. "Dunque non
sa niente, - diceva tra sé: - Agnese è stata zitta: miracolo! È vero che
s'hanno a tornare a vedere; ma le daremo un'altra istruzione, le daremo".
E non sapeva, il pover'uomo, che Federigo non era entrato in quell'argomento,
appunto perché intendeva di parlargliene a lungo, in tempo più libero; e, prima
di dargli ciò che gli era dovuto, voleva sentire anche le sue ragioni.
Ma i
pensieri del buon prelato per metter Lucia al sicuro eran divenuti inutili:
dopo che l'aveva lasciata, eran nate delle cose, che dobbiamo raccontare.
Le due
donne, in que' pochi giorni ch'ebbero a passare nella casuccia ospitale del
sarto, avevan ripreso, per quanto avevan potuto, ognuna il suo antico tenor di
vita. Lucia aveva subito chiesto da lavorare; e, come aveva fatto nel
monastero, cuciva, cuciva, ritirata in una stanzina, lontano dagli occhi della
gente. Agnese andava un po' fuori, un po' lavorava in compagnia della figlia. I
loro discorsi eran tanto più tristi, quanto più affettuosi: tutt'e due eran
preparate a una separazione; giacché la pecora non poteva tornare a star così
vicino alla tana del lupo: e quando, quale, sarebbe il termine di questa
separazione? L'avvenire era oscuro, imbrogliato: per una di loro
principalmente. Agnese tanto ci andava facendo dentro le sue congetture
allegre: che Renzo finalmente, se non gli era accaduto nulla di sinistro,
dovrebbe presto dar le sue nuove; e se aveva trovato da lavorare e da
stabilirsi, se (e come dubitarne?) stava fermo nelle sue promesse, perché non
si potrebbe andare a star con lui? E di tali speranze, ne parlava e ne
riparlava alla figlia, per la quale non saprei dire se fosse maggior dolore il
sentire, o pena il rispondere. Il suo gran segreto l'aveva sempre tenuto in sé;
e, inquietata bensì dal dispiacere di fare a una madre così buona un
sotterfugio, che non era il primo; ma trattenuta, come invincibilmente, dalla
vergogna e da' vari timori che abbiam detto di sopra, andava d'oggi in domani,
senza dir nulla. I suoi disegni eran ben diversi da quelli della madre, o, per
dir meglio, non n'aveva; s'era abbandonata alla Provvidenza. Cercava dunque di
lasciar cadere, o di stornare quel discorso; o diceva, in termini generali, di
non aver più speranza, né desiderio di cosa di questo mondo, fuorché di poter
presto riunirsi con sua madre; le più volte, il pianto veniva opportunamente a
troncar le parole.
- Sai
perché ti par così? - diceva Agnese: - perché hai tanto patito, e non ti par
vero che la possa voltarsi in bene. Ma lascia fare al Signore; e se... Lascia
che si veda un barlume, appena un barlume di speranza; e allora mi saprai dire
se non pensi più a nulla -. Lucia baciava la madre, e piangeva.
Del
resto, tra loro e i loro ospiti era nata subito una grand'amicizia: e dove
nascerebbe, se non tra beneficati e benefattori, quando gli uni e gli altri son
buona gente? Agnese specialmente faceva di gran chiacchiere con la padrona. Il
sarto poi dava loro un po' di svago con delle storie, e con de' discorsi morali:
e, a desinare soprattutto, aveva sempre qualche bella cosa da raccontare, di
Bovo d'Antona o de' Padri del deserto.
Poco
distante da quel paesetto, villeggiava una coppia d'alto affare; don Ferrante e
donna Prassede: il casato, al solito, nella penna dell'anonimo. Era donna
Prassede una vecchia gentildonna molto inclinata a far del bene: mestiere
certamente il più degno che l'uomo possa esercitare; ma che pur troppo può
anche guastare, come tutti gli altri. Per fare il bene, bisogna conoscerlo; e,
al pari d'ogni altra cosa, non possiamo conoscerlo che in mezzo alle nostre
passioni, per mezzo de' nostri giudizi, con le nostre idee; le quali bene
spesso stanno come possono. Con l'idee donna Prassede si regolava come dicono
che si deve far con gli amici: n'aveva poche; ma a quelle poche era molto
affezionata. Tra le poche, ce n'era per disgrazia molte delle storte; e non
eran quelle che le fossero men care. Le accadeva quindi, o di proporsi per bene
ciò che non lo fosse, o di prender per mezzi, cose che potessero piuttosto far
riuscire dalla parte opposta, o di crederne leciti di quelli che non lo fossero
punto, per una certa supposizione in confuso, che chi fa più del suo dovere
possa far più di quel che avrebbe diritto; le accadeva di non vedere nel fatto
ciò che c'era di reale, o di vederci ciò che non c'era; e molte altre cose
simili, che possono accadere, e che accadono a tutti, senza eccettuarne i
migliori; ma a donna Prassede, troppo spesso e, non di rado, tutte in una
volta.
Al
sentire il gran caso di Lucia, e tutto ciò che, in quell'occasione, si diceva
della giovine, le venne la curiosità di vederla; e mandò una carrozza, con un
vecchio bracciere, a prender la madre e la figlia. Questa si ristringeva nelle
spalle, e pregava il sarto, il quale aveva fatta loro l'imbasciata, che
trovasse maniera di scusarla. Finché s'era trattato di gente alla buona che
cercava di conoscer la giovine del miracolo, il sarto le aveva reso volentieri
un tal servizio; ma in questo caso, il rifiuto gli pareva una specie di ribellione.
Fece tanti versi, tant'esclamazioni, disse tante cose: e che non si faceva
così, e ch'era una casa grande, e che ai signori non si dice di no, e che
poteva esser la loro fortuna, e che la signora donna Prassede, oltre il resto,
era anche una santa; tante cose insomma, che Lucia si dovette arrendere: molto
più che Agnese confermava tutte quelle ragioni con altrettanti - sicuro,
sicuro.
Arrivate
davanti alla signora, essa fece loro grand'accoglienza, e molte
congratulazioni; interrogò, consigliò: il tutto con una certa superiorità quasi
innata, ma corretta da tante espressioni umili, temperata da tanta premura,
condita di tanta spiritualità, che, Agnese quasi subito, Lucia poco dopo,
cominciarono a sentirsi sollevate dal rispetto opprimente che da principio
aveva loro incusso quella signorile presenza; anzi ci trovarono una certa
attrattiva. E per venire alle corte, donna Prassede, sentendo che il cardinale
s'era incaricato di trovare a Lucia un ricovero, punta dal desiderio di
secondare e di prevenire a un tratto quella buona intenzione, s'esibì di
prender la giovine in casa, dove, senz'essere addetta ad alcun servizio
particolare, potrebbe, a piacer suo, aiutar l'altre donne ne' loro lavori. E
soggiunse che penserebbe lei a darne parte a monsignore.
Oltre
il bene chiaro e immediato che c'era in un'opera tale, donna Prassede ce ne
vedeva, e se ne proponeva un altro, forse più considerabile, secondo lei; di
raddirizzare un cervello, di metter sulla buona strada chi n'aveva gran
bisogno. Perché, fin da quando aveva sentito la prima volta parlar di Lucia,
s'era subito persuasa che una giovine la quale aveva potuto promettersi a un
poco di buono, a un sedizioso, a uno scampaforca in somma, qualche magagna,
qualche pecca nascosta la doveva avere. Dimmi chi pratichi, e ti dirò chi sei.
La vista di Lucia aveva confermata quella persuasione. Non che, in fondo, come
si dice, non le paresse una buona giovine; ma c'era molto da ridire. Quella
testina bassa, col mento inchiodato sulla fontanella della gola, quel non rispondere,
o risponder secco secco, come per forza, potevano indicar verecondia; ma
denotavano sicuramente molta caparbietà: non ci voleva molto a indovinare che
quella testina aveva le sue idee. E quell'arrossire ogni momento, e quel
rattenere i sospiri... Due occhioni poi, che a donna Prassede non piacevan
punto. Teneva essa per certo, come se lo sapesse di buon luogo, che tutte le
sciagure di Lucia erano una punizione del cielo per la sua amicizia con quel
poco di buono, e un avviso per far che se ne staccasse affatto; e stante
questo, si proponeva di cooperare a un così buon fine. Giacché, come diceva
spesso agli altri e a se stessa, tutto il suo studio era di secondare i voleri
del cielo: ma faceva spesso uno sbaglio grosso, ch'era di prender per cielo il
suo cervello. Però, della seconda intenzione che abbiam detto, si guardò bene
di darne il minimo indizio. Era una delle sue massime questa, che, per riuscire
a far del bene alla gente, la prima cosa, nella maggior parte de' casi, è di
non metterli a parte del disegno.
La
madre e la figlia si guardarono in viso. Nella dolorosa necessità di dividersi,
l'esibizione parve a tutt'e due da accettarsi, se non altro per esser quella
villa così vicina al loro paesetto: per cui, alla peggio de' peggi, si
ravvicinerebbero e potrebbero trovarsi insieme, alla prossima villeggiatura.
Visto, l'una negli occhi dell'altra, il consenso, si voltaron tutt'e due a
donna Prassede con quel ringraziare che accetta. Essa rinnovò le gentilezze e
le promesse, e disse che manderebbe subito una lettera da presentare a
monsignore.
Partite
le donne, la lettera se la fece distendere da don Ferrante, di cui, per esser
letterato, come diremo più in particolare, si serviva per segretario,
nell'occasioni d'importanza. Trattandosi d'una di questa sorte, don Ferrante ci
mise tutto il suo sapere, e, consegnando la minuta da copiare alla consorte, le
raccomandò caldamente l'ortografia; ch'era una delle molte cose che aveva
studiate, e delle poche sulle quali avesse lui il comando in casa. Donna Prassede
copiò diligentissimamente, e spedì la lettera alla casa del sarto. Questo fu
due o tre giorni prima che il cardinale mandasse la lettiga per ricondur le
donne al loro paese.
Arrivate,
smontarono alla casa parrocchiale, dove si trovava il cardinale. C'era ordine
d'introdurle subito: il cappellano, che fu il primo a vederle, l'eseguì,
trattenendole solo quant'era necessario per dar loro, in fretta in fretta, un
po' d'istruzione sul cerimoniale da usarsi con monsignore, e sui titoli da
dargli; cosa che soleva fare, ogni volta che lo potesse di nascosto a lui. Era
per il pover'uomo un tormento continuo il vedere il poco ordine che regnava
intorno al cardinale, su quel particolare: - tutto, - diceva con gli altri
della famiglia, - per la troppa bontà di quel benedett'uomo; per quella gran
famigliarità -. E raccontava d'aver perfino sentito più d'una volta co' suoi
orecchi, rispondergli: messer sì, e messer no.
Stava
in quel momento il cardinale discorrendo con don Abbondio, sugli affari della
parrocchia: dimodoché questo non ebbe campo di dare anche lui, come avrebbe
desiderato, le sue istruzioni alle donne. Solo, nel passar loro accanto, mentre
usciva, e quelle venivano avanti, poté dar loro d'occhio, per accennare ch'era
contento di loro, e che continuassero, da brave, a non dir nulla.
Dopo le
prime accoglienze da una parte, e i primi inchini dall'altra, Agnese si cavò di
seno la lettera, e la presentò al cardinale, dicendo: - è della signora donna
Prassede, la quale dice che conosce molto vossignoria illustrissima,
monsignore; come naturalmente, tra loro signori grandi, si devon conoscer
tutti. Quand'avrà letto, vedrà.
- Bene,
- disse Federigo, letto che ebbe, e ricavato il sugo del senso da' fiori di don
Ferrante. Conosceva quella casa quanto bastasse per esser certo che Lucia c'era
invitata con buona intenzione, e che lì sarebbe sicura dall'insidie e dalla
violenza del suo persecutore. Che concetto avesse della testa di donna
Prassede, non n'abbiam notizia positiva. Probabilmente, non era quella la persona
che avrebbe scelta a un tal intento; ma, come abbiam detto o fatto intendere
altrove, non era suo costume di disfar le cose che non toccavano a lui, per
rifarle meglio.
-
Prendete in pace anche questa separazione, e l'incertezza in cui vi trovate, -
soggiunse poi: - confidate che sia per finir presto, e che il Signore voglia
guidar le cose a quel termine a cui pare che le avesse indirizzate; ma tenete
per certo che quello che vorrà Lui, sarà il meglio per voi -. Diede a Lucia in
particolare qualche altro ricordo amorevole; qualche altro conforto a tutt'e
due; le benedisse, e le lasciò andare. Appena fuori, si trovarono addosso uno
sciame d'amici e d'amiche, tutto il comune, si può dire, che le aspettava, e le
condusse a casa, come in trionfo. Era tra tutte quelle donne una gara di
congratularsi, di compiangere, di domandare; e tutte esclamavano dal
dispiacere, sentendo che Lucia se n'anderebbe il giorno dopo. Gli uomini
gareggiavano nell'offrir servizi; ognuno voleva star quella notte a far la
guardia alla casetta. Sul qual fatto, il nostro anonimo credé bene di formare
un proverbio: volete aver molti in aiuto? cercate di non averne bisogno.
Tante
accoglienze confondevano e sbalordivano Lucia: Agnese non s'imbrogliava così
per poco. Ma in sostanza fecero bene anche a Lucia, distraendola alquanto da'
pensieri e dalle rimembranze che, pur troppo, anche in mezzo al frastono, le si
risvegliavano, su quell'uscio, in quelle stanzucce, alla vista d'ogni oggetto.
Al
tocco della campana che annunziava vicino il cominciar delle funzioni, tutti si
mossero verso la chiesa, e fu per le nostre donne un'altra passeggiata
trionfale.
Terminate
le funzioni, don Abbondio, ch'era corso a vedere se Perpetua aveva ben disposto
ogni cosa per il desinare, fu chiamato dal cardinale. Andò subito dal
grand'ospite, il quale, lasciatolo venir vicino, - signor curato, - cominciò; e
quelle parole furon dette in maniera, da dover capire, ch'erano il principio
d'un discorso lungo e serio: - signor curato; perché non avete voi unita in
matrimonio quella povera Lucia col suo promesso sposo?
"Hanno
votato il sacco stamattina coloro", pensò don Abbondio; e rispose
borbottando: - monsignore illustrissimo avrà ben sentito parlare degli
scompigli che son nati in quell'affare: è stata una confusione tale, da non
poter, neppure al giorno d'oggi, vederci chiaro: come anche vossignoria
illustrissima può argomentare da questo, che la giovine è qui, dopo tanti
accidenti, come per miracolo; e il giovine, dopo altri accidenti, non si sa
dove sia.
-
Domando, - riprese il cardinale, - se è vero che, prima di tutti codesti casi,
abbiate rifiutato di celebrare il matrimonio, quando n'eravate richiesto, nel
giorno fissato; e il perché.
-
Veramente... se vossignoria illustrissima sapesse... che intimazioni... che
comandi terribili ho avuti di non parlare... - E restò lì senza concludere, in
un cert'atto, da far rispettosamente intendere che sarebbe indiscrezione il
voler saperne di più.
- Ma! -
disse il cardinale, con voce e con aria grave fuor del consueto: - è il vostro
vescovo che, per suo dovere e per vostra giustificazione, vuol saper da voi il
perché non abbiate fatto ciò che, nella via regolare, era obbligo vostro di
fare.
-
Monsignore, - disse don Abbondio, facendosi piccino piccino, - non ho già
voluto dire... Ma m'è parso che, essendo cose intralciate, cose vecchie e senza
rimedio, fosse inutile di rimestare... Però, però, dico... so che vossignoria
illustrissima non vuol tradire un suo povero parroco. Perché vede bene,
monsignore; vossignoria illustrissima non può esser per tutto; e io resto qui
esposto... Però, quando Lei me lo comanda, dirò, dirò tutto.
- Dite:
io non vorrei altro che trovarvi senza colpa.
Allora
don Abbondio si mise a raccontare la dolorosa storia; ma tacque il nome
principale, e vi sostituì: un gran signore; dando così alla prudenza tutto quel
poco che si poteva, in una tale stretta.
- E non
avete avuto altro motivo? - domandò il cardinale, quando don Abbondio ebbe
finito.
- Ma
forse non mi sono spiegato abbastanza, - rispose questo: - sotto pena della
vita, m'hanno intimato di non far quel matrimonio.
- E vi
par codesta una ragion bastante, per lasciar d'adempire un dovere preciso?
- Io ho
sempre cercato di farlo, il mio dovere, anche con mio grave incomodo, ma quando
si tratta della vita...
- E
quando vi siete presentato alla Chiesa, - disse, con accento ancor più grave,
Federigo, - per addossarvi codesto ministero, v'ha essa fatto sicurtà della
vita? V'ha detto che i doveri annessi al ministero fossero liberi da ogni
ostacolo, immuni da ogni pericolo? O v'ha detto forse che dove cominciasse il
pericolo, ivi cesserebbe il dovere? O non v'ha espressamente detto il
contrario? Non v'ha avvertito che vi mandava come un agnello tra i lupi? Non
sapevate voi che c'eran de' violenti, a cui potrebbe dispiacere ciò che a voi
sarebbe comandato? Quello da Cui abbiam la dottrina e l'esempio, ad imitazione
di Cui ci lasciam nominare e ci nominiamo pastori, venendo in terra a
esercitarne l'ufizio, mise forse per condizione d'aver salva la vita? E per
salvarla, per conservarla, dico, qualche giorno di più sulla terra, a spese
della carità e del dovere, c'era bisogno dell'unzione santa, dell'imposizion
delle mani, della grazia del sacerdozio? Basta il mondo a dar questa virtù, a
insegnar questa dottrina. Che dico? oh vergogna! il mondo stesso la rifiuta: il
mondo fa anch'esso le sue leggi, che prescrivono il male come il bene; ha il
suo vangelo anch'esso, un vangelo di superbia e d'odio; e non vuol che si dica
che l'amore della vita sia una ragione per trasgredirne i comandamenti. Non lo
vuole; ed è ubbidito. E noi! noi figli e annunziatori della promessa! Che
sarebbe la Chiesa, se codesto vostro linguaggio fosse quello di tutti i vostri
confratelli? Dove sarebbe, se fosse comparsa nel mondo con codeste dottrine?
Don
Abbondio stava a capo basso: il suo spirito si trovava tra quegli argomenti,
come un pulcino negli artigli del falco, che lo tengono sollevato in una
regione sconosciuta, in un'aria che non ha mai respirata. Vedendo che qualcosa
bisognava rispondere, disse, con una certa sommissione forzata: - monsignore
illustrissimo, avrò torto. Quando la vita non si deve contare, non so cosa mi
dire. Ma quando s'ha che fare con certa gente, con gente che ha la forza, e che
non vuol sentir ragioni, anche a voler fare il bravo, non saprei cosa ci si
potesse guadagnare. È un signore quello, con cui non si può né vincerla né
impattarla.
- E non
sapete voi che il soffrire per la giustizia è il nostro vincere? E se non
sapete questo, che cosa predicate? di che siete maestro? qual è la buona
nuova che annunziate a' poveri? Chi pretende da voi che vinciate la forza
con la forza? Certo non vi sarà domandato, un giorno, se abbiate saputo fare
stare a dovere i potenti; che a questo non vi fu dato né missione, né modo. Ma
vi sarà ben domandato se avrete adoprati i mezzi ch'erano in vostra mano per
far ciò che v'era prescritto, anche quando avessero la temerità di proibirvelo.
"Anche
questi santi son curiosi, - pensava intanto don Abbondio: - in sostanza, a
spremerne il sugo, gli stanno più a cuore gli amori di due giovani, che la vita
d'un povero sacerdote". E, in quant'a lui, si sarebbe volentieri
contentato che il discorso finisse lì; ma vedeva il cardinale, a ogni pausa,
restare in atto di chi aspetti una risposta: una confessione, o un'apologia,
qualcosa in somma.
- Torno
a dire, monsignore, - rispose dunque, - che avrò torto io... Il coraggio, uno
non se lo può dare.
- E
perché dunque, potrei dirvi, vi siete voi impegnato in un ministero che
v'impone di stare in guerra con le passioni del secolo? Ma come, vi dirò
piuttosto, come non pensate che, se in codesto ministero, comunque vi ci siate
messo, v'è necessario il coraggio, per adempir le vostre obbligazioni, c'è Chi
ve lo darà infallibilmente, quando glielo chiediate? Credete voi che tutti que'
milioni di martiri avessero naturalmente coraggio? che non facessero
naturalmente nessun conto della vita? tanti giovinetti che cominciavano a
gustarla, tanti vecchi avvezzi a rammaricarsi che fosse già vicina a finire,
tante donzelle, tante spose, tante madri? Tutti hanno avuto coraggio; perché il
coraggio era necessario, ed essi confidavano. Conoscendo la vostra debolezza e
i vostri doveri, avete voi pensato a prepararvi ai passi difficili a cui
potevate trovarvi, a cui vi siete trovato in effetto? Ah! se per tant'anni
d'ufizio pastorale, avete (e come non avreste?) amato il vostro gregge, se
avete riposto in esso il vostro cuore, le vostre cure, le vostre delizie, il
coraggio non doveva mancarvi al bisogno: l'amore è intrepido. Ebbene, se voi
gli amavate, quelli che sono affidati alle vostre cure spirituali, quelli che
voi chiamate figliuoli; quando vedeste due di loro minacciati insieme con voi,
ah certo! come la debolezza della carne v'ha fatto tremar per voi, così la
carità v'avrà fatto tremar per loro. Vi sarete umiliato di quel primo timore,
perché era un effetto della vostra miseria; avrete implorato la forza per
vincerlo, per discacciarlo, perché era una tentazione: ma il timor santo e
nobile per gli altri, per i vostri figliuoli, quello l'avrete ascoltato, quello
non v'avrà dato pace, quello v'avrà eccitato, costretto, a pensare, a fare ciò
che si potesse, per riparare al pericolo che lor sovrastava... Cosa v'ha
ispirato il timore, l'amore? Cosa avete fatto per loro? Cosa avete pensato?
E
tacque in atto di chi aspetta.
A una
siffatta domanda, don Abbondio, che pur s'era ingegnato di risponder qualcosa a
delle meno precise, restò lì senza articolar parola. E, per dir la verità,
anche noi, con questo manoscritto davanti, con una penna in mano, non avendo da
contrastare che con le frasi, né altro da temere che le critiche de' nostri
lettori; anche noi, dico, sentiamo una certa ripugnanza a proseguire: troviamo
un non so che di strano in questo mettere in campo, con così poca fatica, tanti
bei precetti di fortezza e di carità, di premura operosa per gli altri, di
sacrifizio illimitato di sé. Ma pensando che quelle cose erano dette da uno che
poi le faceva, tiriamo avanti con coraggio.
- Voi
non rispondete? - riprese il cardinale. - Ah, se aveste fatto, dalla parte
vostra, ciò che la carità, ciò che il dovere richiedeva; in qualunque maniera
poi le cose fossero andate, non vi mancherebbe ora una risposta. Vedete dunque
voi stesso cosa avete fatto. Avete ubbidito all'iniquità, non curando ciò che
il dovere vi prescriveva. L'avete ubbidita puntualmente: s'era fatta vedere a
voi, per intimarvi il suo desiderio; ma voleva rimanere occulta a chi avrebbe
potuto ripararsi da essa, e mettersi in guardia; non voleva che si facesse rumore,
voleva il segreto, per maturare a suo bell'agio i suoi disegni d'insidie o di
forza; vi comandò la trasgressione e il silenzio: voi avete trasgredito, e non
parlavate. Domando ora a voi se non avete fatto di più; voi mi direte se è vero
che abbiate mendicati de' pretesti al vostro rifiuto, per non rivelarne il
motivo -. E stette lì alquanto, aspettando di nuovo una risposta.
"Anche
questa gli hanno rapportata le chiacchierone", pensava don Abbondio; ma
non dava segno d'aver nulla da dire; onde il cardinale riprese: - se è vero,
che abbiate detto a que' poverini ciò che non era, per tenerli nell'ignoranza,
nell'oscurità, in cui l'iniquità li voleva... Dunque lo devo credere; dunque
non mi resta che d'arrossirne con voi, e di sperare che voi ne piangerete con
me. Vedete a che v'ha condotto (Dio buono! e pur ora voi la adducevate per
iscusa) quella premura per la vita che deve finire. V'ha condotto... ribattete
liberamente queste parole, se vi paiono ingiuste, prendetele in umiliazione
salutare, se non lo sono... v'ha condotto a ingannare i deboli, a mentire ai
vostri figliuoli.
"Ecco
come vanno le cose, - diceva ancora tra sé don Abbondio: - a quel satanasso, -
e pensava all'innominato, - le braccia al collo; e con me, per una mezza bugia,
detta a solo fine di salvar la pelle, tanto chiasso. Ma sono superiori; hanno
sempre ragione. È il mio pianeta, che tutti m'abbiano a dare addosso; anche i
santi". E ad alta voce, disse: - ho mancato; capisco che ho mancato; ma
cosa dovevo fare, in un frangente di quella sorte?
- E
ancor lo domandate? E non ve l'ho detto? E dovevo dirvelo? Amare, figliuolo;
amare e pregare. Allora avreste sentito che l'iniquità può aver bensì delle
minacce da fare, de' colpi da dare, ma non de' comandi; avreste unito, secondo
la legge di Dio, ciò che l'uomo voleva separare; avreste prestato a
quegl'innocenti infelici il ministero che avevan ragione di richieder da voi:
delle conseguenze sarebbe restato mallevadore Iddio, perché si sarebbe andati
per la sua strada: avendone presa un'altra, ne restate mallevadore voi; e di
quali conseguenze! Ma forse che tutti i ripari umani vi mancavano? forse che
non era aperta alcuna via di scampo, quand'aveste voluto guardarvi d'intorno,
pensarci, cercare? Ora voi potete sapere che que' vostri poverini, quando
fossero stati maritati, avrebbero pensato da sé al loro scampo, eran disposti a
fuggire dalla faccia del potente, s'eran già disegnato il luogo di rifugio. Ma
anche senza questo, non vi venne in mente che alla fine avevate un superiore?
Il quale, come mai avrebbe quest'autorità di riprendervi d'aver mancato al
vostro ufizio, se non avesse anche l'obbligo d'aiutarvi ad adempirlo? Perché
non avete pensato a informare il vostro vescovo dell'impedimento che un'infame
violenza metteva all'esercizio del vostro ministero?
"I
pareri di Perpetua!" pensava stizzosamente don Abbondio, a cui, in mezzo a
que' discorsi, ciò che stava più vivamente davanti, era l'immagine di que'
bravi, e il pensiero che don Rodrigo era vivo e sano, e, un giorno o l'altro,
tornerebbe glorioso e trionfante, e arrabbiato. E benché quella dignità
presente, quell'aspetto e quel linguaggio, lo facessero star confuso, e
gl'incutessero un certo timore, era però un timore che non lo soggiogava
affatto, né impediva al pensiero di ricalcitrare: perché c'era in quel
pensiero, che, alla fin delle fini, il cardinale non adoprava né schioppo, né
spada, né bravi.
- Come
non avete pensato, - proseguiva questo, - che, se a quegli innocenti insidiati
non fosse stato aperto altro rifugio, c'ero io, per accoglierli, per metterli
in salvo, quando voi me gli aveste indirizzati, indirizzati dei derelitti a un
vescovo, come cosa sua, come parte preziosa, non dico del suo carico, ma delle
sue ricchezze? E in quanto a voi, io, sarei divenuto inquieto per voi; io, avrei
dovuto non dormire, fin che non fossi sicuro che non vi sarebbe torto un
capello. Ch'io non avessi come, dove, mettere in sicuro la vostra vita? Ma
quell'uomo che fu tanto ardito, credete voi che non gli si sarebbe scemato
punto l'ardire, quando avesse saputo che le sue trame eran note fuor di qui,
note a me, ch'io vegliavo, ed ero risoluto d'usare in vostra difesa tutti i
mezzi che fossero in mia mano? Non sapevate che, se l'uomo promette troppo
spesso più che non sia per mantenere, minaccia anche non di rado, più che non
s'attenti poi di commettere? Non sapevate che l'iniquità non si fonda soltanto
sulle sue forze, ma anche sulla credulità e sullo spavento altrui?
"Proprio
le ragioni di Perpetua", pensò anche qui don Abbondio, senza riflettere
che quel trovarsi d'accordo la sua serva e Federigo Borromeo su ciò che si
sarebbe potuto e dovuto fare, voleva dir molto contro di lui.
- Ma
voi, - proseguì e concluse il cardinale, - non avete visto, non avete voluto
veder altro che il vostro pericolo temporale; qual maraviglia che vi sia parso
tale, da trascurar per esso ogni altra cosa?
- Gli è
perché le ho viste io quelle facce, - scappò detto a don Abbondio; - le ho
sentite io quelle parole. Vossignoria illustrissima parla bene; ma bisognerebbe
esser ne' panni d'un povero prete, e essersi trovato al punto.
Appena
ebbe proferite queste parole, si morse la lingua; s'accorse d'essersi lasciato
troppo vincere dalla stizza, e disse tra sé: "ora vien la grandine".
Ma alzando dubbiosamente lo sguardo, fu tutto maravigliato, nel veder l'aspetto
di quell'uomo, che non gli riusciva mai d'indovinare né di capire, nel vederlo,
dico, passare, da quella gravità autorevole e correttrice, a una gravità
compunta e pensierosa.
- Pur
troppo! - disse Federigo, - tale è la misera e terribile nostra condizione.
Dobbiamo esigere rigorosamente dagli altri quello che Dio sa se noi saremmo
pronti a dare: dobbiamo giudicare, correggere, riprendere; e Dio sa quel che
faremmo noi nel caso stesso, quel che abbiam fatto in casi somiglianti! Ma guai
s'io dovessi prender la mia debolezza per misura del dovere altrui, per norma
del mio insegnamento! Eppure è certo che, insieme con le dottrine, io devo dare
agli altri l'esempio, non rendermi simile al dottor della legge, che carica gli
altri di pesi che non posson portare, e che lui non toccherebbe con un dito.
Ebbene, figliuolo e fratello; poiché gli errori di quelli che presiedono, sono
spesso più noti agli altri che a loro; se voi sapete ch'io abbia, per
pusillanimità, per qualunque rispetto, trascurato qualche mio obbligo, ditemelo
francamente, fatemi ravvedere; affinché, dov'è mancato l'esempio, supplisca
almeno la confessione. Rimproveratemi liberamente le mie debolezze; e allora le
parole acquisteranno più valore nella mia bocca, perché sentirete più
vivamente, che non son mie, ma di Chi può dare a voi e a me la forza necessaria
per far ciò che prescrivono.
"Oh
che sant'uomo! ma che tormento! - pensava don Abbondio: - anche sopra di sé:
purché frughi, rimesti, critichi, inquisisca; anche sopra di sé". Disse
poi ad alta voce: - oh, monsignore! che mi fa celia? Chi non conosce il petto
forte, lo zelo imperterrito di vossignoria illustrissima? - E tra sé soggiunse:
"anche troppo".
- Io
non vi chiedevo una lode, che mi fa tremare, - disse Federigo, - perché Dio
conosce i miei mancamenti, e quello che ne conosco anch'io, basta a
confondermi. Ma avrei voluto, vorrei che ci confondessimo insieme davanti a
Lui, per confidare insieme. Vorrei, per amor vostro, che intendeste quanto la
vostra condotta sia stata opposta, quanto sia opposto il vostro linguaggio alla
legge che pur predicate, e secondo la quale sarete giudicato.
- Tutto
casca addosso a me, - disse don Abbondio: - ma queste persone che son venute a
rapportare, non le hanno poi detto d'essersi introdotte in casa mia, a
tradimento, per sorprendermi, e per fare un matrimonio contro le regole.
- Me
l'hanno detto, figliuolo: ma questo m'accora, questo m'atterra, che voi
desideriate ancora di scusarvi; che pensiate di scusarvi, accusando; che
prendiate materia d'accusa da ciò che dovrebb'esser parte della vostra
confessione. Chi gli ha messi, non dico nella necessità, ma nella tentazione di
far ciò che hanno fatto? Avrebbero essi cercata quella via irregolare, se la
legittima non fosse loro stata chiusa? pensato a insidiare il pastore, se
fossero stati accolti nelle sue braccia, aiutati, consigliati da lui? a
sorprenderlo, se non si fosse nascosto? E a questi voi date carico? e vi
sdegnate perché, dopo tante sventure, che dico? nel mezzo della sventura, abbian
detto una parola di sfogo al loro, al vostro pastore? Che il ricorso
dell'oppresso, la querela dell'afflitto siano odiosi al mondo, il mondo è tale;
ma noi! E che pro sarebbe stato per voi, se avessero taciuto? Vi tornava conto
che la loro causa andasse intera al giudizio di Dio? Non è per voi una nuova
ragione d'amar queste persone (e già tante ragioni n'avete), che v'abbian dato
occasione di sentir la voce sincera del vostro vescovo, che v'abbian dato un
mezzo di conoscer meglio, e di scontare in parte il gran debito che avete con
loro? Ah! se v'avessero provocato, offeso, tormentato, vi direi (e dovrei io
dirvelo?) d'amarli, appunto per questo. Amateli perché hanno patito, perché
patiscono, perché son vostri, perché son deboli, perché avete bisogno d'un
perdono, a ottenervi il quale, pensate di qual forza possa essere la loro
preghiera.
Don
Abbondio stava zitto; ma non era più quel silenzio forzato e impaziente: stava
zitto come chi ha più cose da pensare che da dire. Le parole che sentiva, eran
conseguenze inaspettate, applicazioni nuove, ma d'una dottrina antica però
nella sua mente, e non contrastata. Il male degli altri, dalla considerazion
del quale l'aveva sempre distratto la paura del proprio, gli faceva ora
un'impressione nuova. E se non sentiva tutto il rimorso che la predica voleva
produrre (ché quella stessa paura era sempre lì a far l'ufizio di difensore),
ne sentiva però; sentiva un certo dispiacere di sé, una compassione per gli
altri, un misto di tenerezza e di confusione. Era, se ci si lascia passare
questo paragone, come lo stoppino umido e ammaccato d'una candela, che
presentato alla fiamma d'una gran torcia, da principio fuma, schizza,
scoppietta, non ne vuol saper nulla; ma alla fine s'accende e, bene o male,
brucia. Si sarebbe apertamente accusato, avrebbe pianto, se non fosse stato il
pensiero di don Rodrigo; ma tuttavia si mostrava abbastanza commosso, perché il
cardinale dovesse accorgersi che le sue parole non erano state senza effetto.
- Ora,
- proseguì questo, - uno fuggitivo da casa sua, l'altra in procinto
d'abbandonarla, tutt'e due con troppo forti motivi di starne lontani, senza
probabilità di riunirsi mai qui, e contenti di sperare che Dio li riunisca
altrove; ora, pur troppo, non hanno bisogno di voi; pur troppo, voi non avete
occasione di far loro del bene; né il corto nostro prevedere può scoprirne
alcuna nell'avvenire. Ma chi sa se Dio misericordioso non ve ne prepara? Ah non
le lasciate sfuggire! cercatele, state alle velette, pregatelo che le faccia
nascere.
- Non
mancherò, monsignore, non mancherò, davvero, - rispose don Abbondio, con una
voce che, in quel momento, veniva proprio dal cuore.
- Ah
sì, figliuolo, sì! - esclamò Federigo; e con una dignità piena d'affetto,
concluse: - lo sa il cielo se avrei desiderato di tener con voi tutt'altri
discorsi. Tutt'e due abbiamo già vissuto molto: lo sa il cielo se m'è stato
duro di dover contristar con rimproveri codesta vostra canizie, e quanto sarei
stato più contento di consolarci insieme delle nostre cure comuni, de' nostri
guai, parlando della beata speranza, alla quale siamo arrivati così vicino.
Piaccia a Dio che le parole le quali ho pur dovuto usar con voi, servano a voi
e a me. Non fate che m'abbia a chieder conto, in quel giorno, d'avervi
mantenuto in un ufizio, al quale avete così infelicemente mancato. Ricompriamo
il tempo: la mezzanotte è vicina; lo Sposo non può tardare; teniamo accese le
nostre lampade. Presentiamo a Dio i nostri cuori miseri, vòti, perché Gli
piaccia riempirli di quella carità, che ripara al passato, che assicura
l'avvenire, che teme e confida, piange e si rallegra, con sapienza; che diventa
in ogni caso la virtù di cui abbiamo bisogno.
Così
detto, si mosse; e don Abbondio gli andò dietro.
Qui
l'anonimo ci avvisa che non fu questo il solo abboccamento di que' due
personaggi, né Lucia il solo argomento de' loro abboccamenti; ma che lui s'è
ristretto a questo, per non andar lontano dal soggetto principale del racconto.
E che, per lo stesso motivo, non farà menzione d'altre cose notabili, dette da Federigo
in tutto il corso della visita, né delle sue liberalità, né delle discordie
sedate, degli odi antichi tra persone, famiglie, terre intere, spenti o (cosa
ch'era pur troppo più frequente) sopiti, né di qualche bravaccio o tirannello
ammansato, o per tutta la vita, o per qualche tempo; cose tutte delle quali ce
n'era sempre più o meno, in ogni luogo della diocesi dove quell'uomo eccellente
facesse qualche soggiorno.
Dice
poi, che, la mattina seguente, venne donna Prassede, secondo il fissato, a
prender Lucia, e a complimentare il cardinale, il quale gliela lodò, e
raccomandò caldamente. Lucia si staccò dalla madre, potete pensar con che
pianti; e uscì dalla sua casetta; disse per la seconda volta addio al paese,
con quel senso di doppia amarezza, che si prova lasciando un luogo che fu
unicamente caro, e che non può esserlo più. Ma i congedi con la madre non eran
gli ultimi; perché donna Prassede aveva detto che si starebbe ancor qualche
giorno in quella sua villa, la quale non era molto lontana; e Agnese promise
alla figlia d'andar là a trovarla, a dare e a ricevere un più doloroso addio.
Il
cardinale era anche lui sulle mosse per continuar la sua visita, quando arrivò,
e chiese di parlargli il curato della parrocchia, in cui era il castello
dell'innominato. Introdotto, gli presentò un gruppo e una lettera di quel
signore, la quale lo pregava di far accettare alla madre di Lucia cento scudi
d'oro ch'eran nel gruppo, per servir di dote alla giovine, o per quell'uso che
ad esse sarebbe parso migliore; lo pregava insieme di dir loro, che, se mai, in
qualunque tempo, avessero creduto che potesse render loro qualche servizio, la
povera giovine sapeva pur troppo dove stesse; e per lui, quella sarebbe una
delle fortune più desiderate. Il cardinale fece subito chiamare Agnese, le
riferì la commissione, che fu sentita con altrettanta soddisfazione che
maraviglia; e le presentò il rotolo, ch'essa prese, senza far gran complimenti.
- Dio gliene renda merito, a quel signore, - disse: - e vossignoria
illustrissima lo ringrazi tanto tanto. E non dica nulla a nessuno, perché
questo è un certo paese... Mi scusi, veda; so bene che un par suo non va a
chiacchierare di queste cose; ma... lei m'intende.
Andò a
casa, zitta, zitta; si chiuse in camera, svoltò il rotolo, e quantunque
preparata, vide con ammirazione, tutti in un mucchietto e suoi, tanti di que'
ruspi, de' quali non aveva forse mai visto più d'uno per volta, e anche di
rado; li contò, penò alquanto a metterli di nuovo per taglio, e a tenerli lì
tutti, ché ogni momento facevan pancia, e sgusciavano dalle sue dita inesperte;
ricomposto finalmente un rotolo alla meglio, lo mise in un cencio, ne fece un
involto, un batuffoletto, e legatolo bene in giro con della cordellina, l'andò
a ficcare in un cantuccio del suo saccone. Il resto di quel giorno, non fece
altro che mulinare, far disegni sull'avvenire, e sospirar l'indomani. Andata a
letto, stette desta un pezzo, col pensiero in compagnia di que' cento che aveva
sotto: addormentata, li vide in sogno. All'alba, s'alzò e s'incamminò subito
verso la villa, dov'era Lucia.
Questa,
dal canto suo, quantunque non le fosse diminuita quella gran ripugnanza a
parlar del voto, pure era risoluta di farsi forza, e d'aprirsene con la madre
in quell'abboccamento, che per lungo tempo doveva chiamarsi l'ultimo.
Appena
poterono esser sole, Agnese, con una faccia tutta animata, e insieme a voce
bassa, come se ci fosse stato presente qualcheduno a cui non volesse farsi
sentire, cominciò: - ho da dirti una gran cosa; - e le raccontò l'inaspettata fortuna.
- Iddio
lo benedica, quel signore, - disse Lucia: - così avrete da star bene voi, e
potrete anche far del bene a qualchedun altro.
- Come?
- rispose Agnese: - non vedi quante cose possiamo fare, con tanti danari?
Senti; io non ho altro che te, che voi due, posso dire; perché Renzo, da che
cominciò a discorrerti, l'ho sempre riguardato come un mio figliuolo. Tutto sta
che non gli sia accaduta qualche disgrazia, a vedere che non ha mai fatto saper
nulla: ma eh! deve andar tutto male? Speriamo di no, speriamo. Per me, avrei
avuto caro di lasciar l'ossa nel mio paese; ma ora che tu non ci puoi stare, in
grazia di quel birbone, e anche solamente a pensare d'averlo vicino colui, m'è
venuto in odio il mio paese: e con voi altri io sto per tutto. Ero disposta,
fin d'allora, a venir con voi altri, anche in capo al mondo; e son sempre stata
di quel parere; ma senza danari come si fa? Intendi ora? Que' quattro, che quel
poverino aveva messi da parte, con tanto stento e con tanto risparmio, è venuta
la giustizia, e ha spazzato ogni cosa; ma, per ricompensa, il Signore ha
mandato la fortuna a noi. Dunque, quando avrà trovato il bandolo di far sapere
se è vivo, e dov'è, e che intenzioni ha, ti vengo a prender io a Milano; io ti
vengo a prendere. Altre volte mi sarebbe parso un gran che; ma le disgrazie
fanno diventar disinvolti; fino a Monza ci sono andata, e so cos'è viaggiare.
Prendo con me un uomo di proposito, un parente, come sarebbe a dire Alessio di
Maggianico: ché, a voler dir proprio in paese, un uomo di proposito non c'è:
vengo con lui: già la spesa la facciamo noi, e... intendi?
Ma
vedendo che, in vece d'animarsi, Lucia s'andava accorando, e non dimostrava che
una tenerezza senz'allegria, lasciò il discorso a mezzo, e disse: - ma cos'hai?
non ti pare?
- Povera
mamma! - esclamò Lucia, gettandole un braccio al collo, e nascondendo il viso
nel seno di lei.
- Cosa
c'è? - domandò di nuovo ansiosamente la madre.
- Avrei
dovuto dirvelo prima, - rispose Lucia, alzando il viso, e asciugandosi le
lacrime; - ma non ho mai avuto cuore: compatitemi.
- Ma dì
su, dunque.
- Io
non posso più esser moglie di quel poverino!
- Come?
come?
Lucia,
col capo basso, col petto ansante, lacrimando senza piangere, come chi racconta
una cosa che, quand'anche dispiacesse, non si può cambiare, rivelò il voto; e
insieme, giungendo le mani, chiese di nuovo perdono alla madre, di non aver
parlato fin allora; la pregò di non ridir la cosa ad anima vivente, e
d'aiutarla ad adempire ciò che aveva promesso.
Agnese
era rimasta stupefatta e costernata. Voleva sdegnarsi del silenzio tenuto con
lei; ma i gravi pensieri del caso soffogavano quel dispiacere suo proprio;
voleva dirle: cos'hai fatto? ma le pareva che sarebbe un prendersela col cielo:
tanto più che Lucia tornava a dipinger co' più vivi colori quella notte, la
desolazione così nera, e la liberazione così impreveduta, tra le quali la
promessa era stata fatta, così espressa, così solenne. E intanto, ad Agnese
veniva anche in mente questo e quell'esempio, che aveva sentito raccontar più
volte, che lei stessa aveva raccontato alla figlia, di gastighi strani e
terribili, venuti per la violazione di qualche voto. Dopo esser rimasta un poco
come incantata, disse: - e ora cosa farai?
- Ora,
- rispose Lucia, - tocca al Signore a pensarci; al Signore e alla Madonna. Mi
son messa nelle lor mani: non m'hanno abbandonata finora; non m'abbandoneranno
ora che... La grazia che chiedo per me al Signore, la sola grazia, dopo la
salvazion dell'anima, è che mi faccia tornar con voi: e me la concederà, sì, me
la concederà. Quel giorno... in quella carrozza... ah Vergine santissima!...
quegli uomini!... chi m'avrebbe detto che mi menavano da colui che mi doveva
menare a trovarmi con voi, il giorno dopo?
- Ma
non parlarne subito a tua madre! - disse Agnese con una certa stizzetta
temperata d'amorevolezza e di pietà.
-
Compatitemi; non avevo cuore... e che sarebbe giovato d'affliggervi qualche
tempo prima?
- E
Renzo? - disse Agnese, tentennando il capo. `
- Ah! -
esclamò Lucia, riscotendosi, - io non ci devo pensar più a quel poverino. Già
si vede che non era destinato... Vedete come pare che il Signore ci abbia
voluti proprio tener separati. E chi sa...? ma no, no: l'avrà preservato Lui
da' pericoli, e lo farà esser fortunato anche di più, senza di me.
- Ma
intanto, - riprese la madre, - se non fosse che tu ti sei legata per sempre, a
tutto il resto, quando a Renzo non gli sia accaduta qualche disgrazia, con que'
danari io ci avevo trovato rimedio.
- Ma
que' danari, - replicò Lucia, - ci sarebbero venuti, s'io non avessi passata
quella notte? È il Signore che ha voluto che tutto andasse così: sia fatta la
sua volontà -. E la parola morì nel pianto.
A
quell'argomento inaspettato, Agnese rimase lì pensierosa. Dopo qualche momento,
Lucia, rattenendo i singhiozzi, riprese: - ora che la cosa è fatta, bisogna
adattarsi di buon animo; e voi, povera mamma, voi mi potete aiutare, prima,
pregando il Signore per la vostra povera figlia, e poi... bisogna bene che quel
poverino lo sappia. Pensateci voi, fatemi anche questa carità; ché voi ci
potete pensare. Quando saprete dov'è, fategli scrivere, trovate un uomo...
appunto vostro cugino Alessio, che è un uomo prudente e caritatevole, e ci ha
sempre voluto bene, e non ciarlerà: fategli scriver da lui la cosa com'è
andata, dove mi son trovata, come ho patito, e che Dio ha voluto così, e che
metta il cuore in pace, e ch'io non posso mai mai esser di nessuno. E fargli
capir la cosa con buona grazia, spiegargli che ho promesso, che ho proprio
fatto voto. Quando saprà che ho promesso alla Madonna... ha sempre avuto il
timor di Dio. E voi, la prima volta che avrete le sue nuove, fatemi scrivere,
fatemi saper che è sano; e poi... non mi fate più saper nulla.
Agnese,
tutta intenerita, assicurò la figlia che ogni cosa si farebbe come desiderava.
-
Vorrei dirvi un'altra cosa, - riprese questa: - quel poverino, se non avesse
avuto la disgrazia di pensare a me, non gli sarebbe accaduto ciò che gli è
accaduto. È per il mondo; gli hanno troncato il suo avviamento, gli hanno
portato via la sua roba, que' risparmi che aveva fatti, poverino, sapete
perché... E noi abbiamo tanti danari! Oh mamma! giacché il Signore ci ha
mandato tanto bene, e quel poverino, è proprio vero che lo riguardavate come
vostro... sì, come un figliuolo, oh! fate mezzo per uno; ché, sicuro, Iddio non
ci mancherà. Cercate un'occasione fidata, e mandateglieli, ché sa il cielo come
n'ha bisogno!
-
Ebbene, cosa credi? - rispose Agnese: - glieli manderò davvero. Povero giovine!
Perché pensi tu ch'io fossi così contenta di que' danari? Ma...! io era proprio
venuta qui tutta contenta. Basta, io glieli manderò, povero Renzo! ma anche
lui... so quel che dico; certo che i danari fanno piacere a chi n'ha bisogno;
ma questi non saranno quelli che lo faranno ingrassare.
Lucia
ringraziò la madre di quella pronta e liberale condiscendenza, con una
gratitudine, con un affetto, da far capire a chi l'avesse osservata, che il suo
cuore faceva ancora a mezzo con Renzo, forse più che lei medesima non lo
credesse.
- E
senza di te, che farò io povera donna? - disse Agnese, piangendo anch'essa.
- E io
senza di voi, povera mamma? e in casa di forestieri? e laggiù in quel
Milano...! Ma il Signore sarà con tutt'e due; e poi ci farà tornare insieme.
Tra otto o nove mesi ci rivedremo; e di qui allora, e anche prima, spero, avrà
accomodate le cose Lui, per riunirci. Lasciamo fare a Lui. La chiederò sempre
sempre alla Madonna questa grazia. Se avessi qualche altra cosa da offrirle, lo
farei; ma è tanto misericordiosa, che me l'otterrà per niente.
Con
queste ed altre simili, e più volte ripetute parole di lamento e di conforto,
di rammarico e di rassegnazione, con molte raccomandazioni e promesse di non
dir nulla, con molte lacrime, dopo lunghi e rinnovati abbracciamenti, le donne
si separarono, promettendosi a vicenda di rivedersi il prossimo autunno, al più
tardi; come se il mantenere dipendesse da loro, e come però si fa sempre in
casi simili.
Intanto
cominciò a passar molto tempo senza che Agnese potesse saper nulla di Renzo. Né
lettere né imbasciate da parte di lui, non ne veniva: di tutti quelli del
paese, o del contorno, a cui poté domandare, nessuno ne sapeva più di lei.
E non
era la sola che facesse invano una tal ricerca: il cardinal Federigo, che non
aveva detto per cerimonia alle povere donne, di voler prendere informazioni del
povero giovine, aveva infatti scritto subito per averne. Tornato poi dalla
visita a Milano, aveva ricevuto la risposta in cui gli si diceva che non s'era
potuto trovar recapito dell'indicato soggetto; che veramente era stato qualche
tempo in casa d'un suo parente, nel tal paese, dove non aveva fatto dir di sé;
ma, una mattina, era scomparso all'improvviso, e quel suo parente stesso non
sapeva cosa ne fosse stato, e non poteva che ripetere certe voci in aria e
contraddittorie che correvano, essersi il giovine arrolato per il Levante,
esser passato in Germania, perito nel guadare un fiume: che non si mancherebbe
di stare alle velette, se mai si potesse saper qualcosa di più positivo, per
farne subito parte a sua signoria illustrissima e reverendissima.
Più
tardi, quelle ed altre voci si sparsero anche nel territorio di Lecco, e
vennero per conseguenza agli orecchi d'Agnese. La povera donna faceva di tutto
per venire in chiaro qual fosse la vera, per arrivare alla fonte di questa e di
quella, ma non riusciva mai a trovar di più di quel dicono, che, anche
al giorno d'oggi, basta da sé ad attestar tante cose. Talora, appena glien'era
stata raccontata una, veniva uno e le diceva che non era vero nulla; ma per
dargliene in cambio un'altra, ugualmente strana o sinistra. Tutte ciarle: ecco
il fatto.
Il
governatore di Milano e capitano generale in Italia, don Gonzalo Fernandez di
Cordova, aveva fatto un gran fracasso col signor residente di Venezia in
Milano, perché un malandrino, un ladrone pubblico, un promotore di saccheggio e
d'omicidio, il famoso Lorenzo Tramaglino, che, nelle mani stesse della
giustizia, aveva eccitato sommossa per farsi liberare, fosse accolto e
ricettato nel territorio bergamasco. Il residente avea risposto che la cosa gli
riusciva nuova, e che scriverebbe a Venezia, per poter dare a sua eccellenza
quella spiegazione che il caso avesse portato.
A
Venezia avevan per massima di secondare e di coltivare l'inclinazione degli
operai di seta milanesi a trasportarsi nel territorio bergamasco, e quindi di
far che ci trovassero molti vantaggi e, soprattutto quello senza di cui ogni
altro è nulla, la sicurezza. Siccome però, tra due grossi litiganti, qualche
cosa, per poco che sia, bisogna sempre che il terzo goda; così Bortolo fu
avvisato in confidenza, non si sa da chi, che Renzo non istava bene in quel
paese, e che farebbe meglio a entrare in qualche altra fabbrica, cambiando
anche nome per qualche tempo. Bortolo intese per aria, non domandò altro, corse
a dir la cosa al cugino, lo prese con sé in un calessino, lo condusse a un
altro filatoio, discosto da quello forse quindici miglia, e lo presentò, sotto
il nome d'Antonio Rivolta, al padrone, ch'era nativo anche lui dello stato di
Milano, e suo antico conoscente. Questo, quantunque l'annata fosse scarsa, non
si fece pregare a ricevere un operaio che gli era raccomandato come onesto e
abile, da un galantuomo che se n'intendeva. Alla prova poi, non ebbe che a
lodarsi dell'acquisto; meno che, sul principio, gli era parso che il giovine
dovesse essere un po' stordito, perché, quando si chiamava: Antonio! le più
volte non rispondeva.
Poco
dopo, venne un ordine da Venezia, in istile pacato, al capitano di Bergamo, che
prendesse e desse informazione, se nella sua giurisdizione, e segnatamente nel
tal paese, si trovasse il tal soggetto. Il capitano, fatte le sue diligenze,
come aveva capito che si volevano, trasmise la risposta negativa, la quale fu
trasmessa al residente in Milano, che la trasmettesse al gran cancelliere che
potrebbe trasmetterla a don Gonzalo Fernandez di Cordova.
Non
mancavan poi curiosi, che volessero saper da Bortolo il perché quel giovine non
c'era più, e dove fosse andato. Alla prima domanda Bortolo rispondeva: - ma! è
scomparso -. Per mandar poi in pace i più insistenti, senza dar loro sospetto
di quel che n'era davvero, aveva creduto bene di regalar loro, a chi l'una, a
chi l'altra delle notizie da noi riferite di sopra: però, come cose incerte,
che aveva sentite dire anche lui, senza averne un riscontro positivo.
Ma
quando la domanda gli venne fatta per commission del cardinale, senza
nominarlo, e con un certo apparato d'importanza e di mistero, lasciando capire
ch'era in nome d'un gran personaggio, tanto più Bortolo s'insospettì, e credé
necessario di risponder secondo il solito; anzi, trattandosi d'un gran
personaggio, diede in una volta tutte le notizie che aveva stampate a una a
una, in quelle diverse occorrenze.
Non si
creda però che don Gonzalo, un signore di quella sorte, l'avesse proprio
davvero col povero filatore di montagna; che informato forse del poco rispetto
usato, e delle cattive parole dette da colui al suo re moro incatenato per la
gola, volesse fargliela pagare; o che lo credesse un soggetto tanto pericoloso,
da perseguitarlo anche fuggitivo, da non lasciarlo vivere anche lontano, come
il senato romano con Annibale. Don Gonzalo aveva troppe e troppo gran cose in
testa, per darsi tanto pensiero de' fatti di Renzo; e se parve che se ne desse,
nacque da un concorso singolare di circostanze, per cui il poveraccio, senza
volerlo, e senza saperlo né allora né mai, si trovò, con un sottilissimo e
invisibile filo, attaccato a quelle troppe e troppo gran cose.
Già più
d'una volta c'è occorso di far menzione della guerra che allora bolliva, per la
successione agli stati del duca Vincenzo Gonzaga, secondo di quel nome; ma c'è
occorso sempre in momenti di gran fretta: sicché non abbiam mai potuto darne
più che un cenno alla sfuggita. Ora però, all'intelligenza del nostro racconto
si richiede proprio d'averne qualche notizia più particolare. Son cose che chi
conosce la storia le deve sapere; ma siccome, per un giusto sentimento di noi
medesimi, dobbiam supporre che quest'opera non possa esser letta se non da
ignoranti, così non sarà male che ne diciamo qui quanto basti per infarinarne
chi n'avesse bisogno.
Abbiam
detto che, alla morte di quel duca, il primo chiamato in linea di successione,
Carlo Gonzaga, capo d'un ramo cadetto trapiantato in Francia, dove possedeva i
ducati di Nevers e di Rhetel, era entrato al possesso di Mantova; e ora
aggiungiamo, del Monferrato: che la fretta appunto ce l'aveva fatto lasciar
nella penna. La corte di Madrid, che voleva a ogni patto (abbiam detto anche
questo) escludere da que' due feudi il nuovo principe, e per escluderlo aveva
bisogno d'una ragione (perché le guerre fatte senza una ragione sarebbero
ingiuste), s'era dichiarata sostenitrice di quella che pretendevano avere, su
Mantova un altro Gonzaga, Ferrante, principe di Guastalla; sul Monferrato Carlo
Emanuele I, duca di Savoia, e Margherita Gonzaga, duchessa vedova di Lorena.
Don Gonzalo, ch'era della casa del gran capitano, e ne portava il nome, e che
aveva già fatto la guerra in Fiandra, voglioso oltremodo di condurne una in
Italia, era forse quello che faceva più fuoco, perché questa si dichiarasse; e
intanto, interpretando l'intenzioni e precorrendo gli ordini della corte
suddetta, aveva concluso col duca di Savoia un trattato d'invasione e di
divisione del Monferrato; e n'aveva poi ottenuta facilmente la ratificazione dal
conte duca, facendogli creder molto agevole l'acquisto di Casale, ch'era il
punto più difeso della parte pattuita al re di Spagna. Protestava però, in nome
di questo, di non volere occupar paese, se non a titolo di deposito, fino alla
sentenza dell'imperatore; il quale, in parte per gli ufizi altrui, in parte per
suoi propri motivi, aveva intanto negata l'investitura al nuovo duca, e
intimatogli che rilasciasse a lui in sequestro gli stati controversi: lui poi,
sentite le parti, li rimetterebbe a chi fosse di dovere. Cosa alla quale il
Nevers non s'era voluto piegare.
Aveva
anche lui amici d'importanza: il cardinale di Richelieu, i signori veneziani, e
il papa, ch'era, come abbiam detto, Urbano VIII. Ma il primo, impegnato allora
nell'assedio della Roccella e in una guerra con l'Inghilterra, attraversato dal
partito della regina madre, Maria de' Medici, contraria, per certi suoi motivi,
alla casa di Nevers, non poteva dare che delle speranze. I veneziani non
volevan moversi, e nemmeno dichiararsi, se prima un esercito francese non fosse
calato in Italia; e, aiutando il duca sotto mano, come potevano, con la corte
di Madrid e col governatore di Milano stavano sulle proteste, sulle proposte,
sull'esortazioni, placide o minacciose, secondo i momenti. Il papa raccomandava
il Nevers agli amici, intercedeva in suo favore presso gli avversari, faceva
progetti d'accomodamento; di metter gente in campo non ne voleva saper nulla.
Così i
due alleati alle offese poterono, tanto più sicuramente, cominciar l'impresa
concertata. Il duca di Savoia era entrato, dalla sua parte, nel Monferrato; don
Gonzalo aveva messo, con gran voglia, l'assedio a Casale; ma non ci trovava
tutta quella soddisfazione che s'era immaginato: che non credeste che nella
guerra sia tutto rose. La corte non l'aiutava a seconda de' suoi desidèri, anzi
gli lasciava mancare i mezzi più necessari; l'alleato l'aiutava troppo: voglio
dire che, dopo aver presa la sua porzione, andava spilluzzicando quella
assegnata al re di Spagna. Don Gonzalo se ne rodeva quanto mai si possa dire;
ma temendo, se faceva appena un po' di rumore, che quel Carlo Emanuele, così
attivo ne' maneggi e mobile ne' trattati, come prode nell'armi, si voltasse
alla Francia, doveva chiudere un occhio, mandarla giù, e stare zitto. L'assedio
poi andava male, in lungo, ogni tanto all'indietro, e per il contegno saldo,
vigilante, risoluto degli assediati, e per aver lui poca gente, e, al dire di
qualche storico, per i molti spropositi che faceva. Su questo noi lasciamo la
verità a suo luogo, disposti anche, quando la cosa fosse realmente così, a
trovarla bellissima, se fu cagione che in quell'impresa sia restato morto,
smozzicato, storpiato qualche uomo di meno, e, ceteris paribus, anche
soltanto un po' meno danneggiati i tegoli di Casale. In questi frangenti
ricevette la nuova della sedizione di Milano, e ci accorse in persona.
Qui,
nel ragguaglio che gli si diede, fu fatta anche menzione della fuga ribelle e
clamorosa di Renzo, de' fatti veri e supposti ch'erano stati cagione del suo
arresto; e gli si seppe anche dire che questo tale s'era rifugiato sul
territorio di Bergamo. Questa circostanza fermò l'attenzione di don Gonzalo.
Era informato da tutt'altra parte, che a Venezia avevano alzata la cresta, per
la sommossa di Milano; che da principio avevan creduto che sarebbe costretto a
levar l'assedio da Casale, e pensavan tuttavia che ne fosse ancora sbalordito,
e in gran pensiero: tanto più che, subito dopo quell'avvenimento, era arrivata
la notizia, sospirata da que' signori e temuta da lui, della resa della
Roccella. E scottandogli molto, e come uomo e come politico, che que' signori
avessero un tal concetto de' fatti suoi, spiava ogni occasione di persuaderli,
per via d'induzione, che non aveva perso nulla dell'antica sicurezza; giacché
il dire espressamente: non ho paura, è come non dir nulla. Un buon mezzo è di
fare il disgustato, di querelarsi, di reclamare: e perciò, essendo venuto il
residente di Venezia a fargli un complimento, e ad esplorare insieme, nella sua
faccia e nel suo contegno, come stesse dentro di sé (notate tutto; ché questa è
politica di quella vecchia fine), don Gonzalo, dopo aver parlato del tumulto,
leggermente e da uomo che ha già messo riparo a tutto; fece quel fracasso che
sapete a proposito di Renzo; come sapete anche quel che ne venne in
conseguenza. Dopo, non s'occupò più d'un affare così minuto e, in quanto a lui,
terminato; e quando poi, che fu un pezzo dopo, gli arrivò la risposta, al campo
sopra Casale, dov'era tornato, e dove aveva tutt'altri pensieri, alzò e dimenò
la testa, come un baco da seta che cerchi la foglia; stette lì un momento, per
farsi tornar vivo nella memoria quel fatto, di cui non ci rimaneva più che
un'ombra; si rammentò della cosa, ebbe un'idea fugace e confusa del
personaggio; passò ad altro, e non ci pensò più.
Ma
Renzo, il quale, da quel poco che gli s'era fatto veder per aria, doveva
supporre tutt'altro che una così benigna noncuranza, stette un pezzo senz'altro
pensiero o, per dir meglio, senz'altro studio, che di viver nascosto. Pensate
se si struggeva di mandar le sue nuove alle donne, e d'aver le loro; ma c'eran
due gran difficoltà. Una, che avrebbe dovuto anche lui confidarsi a un
segretario, perché il poverino non sapeva scrivere, e neppur leggere, nel senso
esteso della parola; e se, interrogato di ciò, come forse vi ricorderete, dal
dottor Azzecca-garbugli, aveva risposto di sì, non fu un vanto, una sparata,
come si dice; ma era la verità che lo stampato lo sapeva leggere, mettendoci il
suo tempo: lo scritto è un altro par di maniche. Era dunque costretto a mettere
un terzo a parte de' suoi interessi, d'un segreto così geloso: e un uomo che
sapesse tener la penna in mano, e di cui uno si potesse fidare, a que' tempi
non si trovava così facilmente; tanto più in un paese dove non s'avesse nessuna
antica conoscenza. L'altra difficoltà era d'avere anche un corriere; un uomo
che andasse appunto da quelle parti, che volesse incaricarsi della lettera, e
darsi davvero il pensiero di recapitarla; tutte cose, anche queste, difficili a
trovarsi in un uomo solo.
Finalmente,
cerca e ricerca, trovò chi scrivesse per lui. Ma, non sapendo se le donne
fossero ancora a Monza, o dove, credé bene di fare accluder la lettera per
Agnese in un'altra diretta al padre Cristoforo. Lo scrivano prese anche
l'incarico di far recapitare il plico; lo consegnò a uno che doveva passare non
lontano da Pescarenico; costui lo lasciò, con molte raccomandazioni, in
un'osteria sulla strada, al punto più vicino; trattandosi che il plico era
indirizzato a un convento, ci arrivò; ma cosa n'avvenisse dopo, non s'è mai
saputo. Renzo, non vedendo comparir risposta, fece stendere un'altra lettera, a
un di presso come la prima, e accluderla in un'altra a un suo amico di Lecco, o
parente che fosse. Si cercò un altro latore, si trovò; questa volta la lettera
arrivò a chi era diretta. Agnese trottò a Maggianico, se la fece leggere e
spiegare da quell'Alessio suo cugino: concertò con lui una risposta, che questo
mise in carta; si trovò il mezzo di mandarla ad Antonio Rivolta nel luogo del
suo domicilio: tutto questo però non così presto come noi lo raccontiamo. Renzo
ebbe la risposta, e fece riscrivere. In somma, s'avviò tra le due parti un
carteggio, né rapido né regolare, ma pure, a balzi e ad intervalli, continuato.
Ma per
avere un'idea di quel carteggio, bisogna sapere un poco come andassero allora
tali cose, anzi come vadano; perché, in questo particolare, credo che ci sia
poco o nulla di cambiato.
Il
contadino che non sa scrivere, e che avrebbe bisogno di scrivere, si rivolge a
uno che conosca quell'arte, scegliendolo, per quanto può, tra quelli della sua
condizione, perché degli altri si perita, o si fida poco; l'informa, con più o
meno ordine e chiarezza, degli antecedenti: e gli espone, nella stessa maniera,
la cosa da mettere in carta. Il letterato, parte intende, parte frantende, dà
qualche consiglio, propone qualche cambiamento, dice: lasciate fare a me;
piglia la penna, mette come può in forma letteraria i pensieri dell'altro, li
corregge, li migliora, carica la mano, oppure smorza, lascia anche fuori,
secondo gli pare che torni meglio alla cosa: perché, non c'è rimedio, chi ne sa
più degli altri non vuol essere strumento materiale nelle loro mani; e quando
entra negli affari altrui, vuol anche fargli andare un po' a modo suo. Con tutto
ciò, al letterato suddetto non gli riesce sempre di dire tutto quel che
vorrebbe; qualche volta gli accade di dire tutt'altro: accade anche a noi
altri, che scriviamo per la stampa. Quando la lettera così composta arriva alle
mani del corrispondente, che anche lui non abbia pratica dell'abbiccì, la porta
a un altro dotto di quel calibro, il quale gliela legge e gliela spiega.
Nascono delle questioni sul modo d'intendere; perché l'interessato, fondandosi
sulla cognizione de' fatti antecedenti, pretende che certe parole voglian dire
una cosa; il lettore, stando alla pratica che ha della composizione, pretende
che ne vogliano dire un'altra. Finalmente bisogna che chi non sa si metta nelle
mani di chi sa, e dia a lui l'incarico della risposta: la quale, fatta sul
gusto della proposta, va poi soggetta a un'interpretazione simile. Che se, per
di più, il soggetto della corrispondenza è un po' geloso; se c'entrano affari
segreti, che non si vorrebbero lasciar capire a un terzo, caso mai che la
lettera andasse persa; se, per questo riguardo, c'è stata anche l'intenzione
positiva di non dir le cose affatto chiare; allora, per poco che la
corrispondenza duri, le parti finiscono a intendersi tra di loro come altre
volte due scolastici che da quattr'ore disputassero sull'entelechia: per non
prendere una similitudine da cose vive; che ci avesse poi a toccare qualche
scappellotto.
Ora, il
caso de' nostri due corrispondenti era appunto quello che abbiam detto. La
prima lettera scritta in nome di Renzo conteneva molte materie. Da principio,
oltre un racconto della fuga, molto più conciso, ma anche più arruffato di
quello che avete letto, un ragguaglio delle sue circostanze attuali; dal quale,
tanto Agnese quanto il suo turcimanno furono ben lontani di ricavare un
costrutto chiaro e intero: avviso segreto, cambiamento di nome, esser sicuro,
ma dovere star nascosto; cose per sé non troppo famigliari a' loro intelletti,
e nella lettera dette anche un po' in cifra. C'era poi delle domande affannose,
appassionate, su' casi di Lucia, con de' cenni oscuri e dolenti, intorno alle
voci che n'erano arrivate fino a Renzo. C'erano finalmente speranze incerte, e
lontane, disegni lanciati nell'avvenire, e intanto promesse e preghiere di
mantener la fede data, di non perder la pazienza né il coraggio, d'aspettar
migliori circostanze.
Dopo un
po' di tempo, Agnese trovò un mezzo fidato di far pervenire nelle mani di Renzo
una risposta, co' cinquanta scudi assegnatigli da Lucia. Al veder tant'oro,
Renzo non sapeva cosa si pensare; e con l'animo agitato da una maraviglia e da
una sospensione che non davan luogo a contentezza, corse in cerca del
segretario, per farsi interpretar la lettera, e aver la chiave d'un così strano
mistero.
Nella
lettera, il segretario d'Agnese, dopo qualche lamento sulla poca chiarezza
della proposta, passava a descrivere, con chiarezza a un di presso uguale, la
tremenda storia di quella persona (così diceva); e qui rendeva ragione de'
cinquanta scudi; poi veniva a parlar del voto, ma per via di perifrasi,
aggiungendo, con parole più dirette e aperte, il consiglio di mettere il cuore
in pace, e di non pensarci più.
Renzo,
poco mancò che non se la prendesse col lettore interprete: tremava, inorridiva,
s'infuriava, di quel che aveva capito, e di quel che non aveva potuto capire.
Tre o quattro volte si fece rileggere il terribile scritto, ora parendogli
d'intender meglio, ora divenendogli buio ciò che prima gli era parso chiaro. E
in quella febbre di passioni, volle che il segretario mettesse subito mano alla
penna, e rispondesse. Dopo l'espressioni più forti che si possano immaginare di
pietà e di terrore per i casi di Lucia, - scrivete, - proseguiva dettando, -
che io il cuore in pace non lo voglio mettere, e non lo metterò mai; e che non
son pareri da darsi a un figliuolo par mio; e che i danari non li toccherò; che
li ripongo, e li tengo in deposito, per la dote della giovine; che già la
giovine dev'esser mia; che io non so di promessa; e che ho ben sempre sentito
dire che la Madonna c'entra per aiutare i tribolati, e per ottener delle
grazie, ma per far dispetto e per mancar di parola, non l'ho sentito mai; e che
codesto non può stare; e che, con questi danari, abbiamo a metter su casa qui;
e che, se ora sono un po' imbrogliato, l'è una burrasca che passerà presto -; e
cose simili.
Agnese
ricevé poi quella lettera, e fece riscrivere; e il carteggio continuò, nella
maniera che abbiam detto.
Lucia,
quando la madre ebbe potuto, non so per qual mezzo, farle sapere che quel tale
era vivo e in salvo e avvertito, sentì un gran sollievo, e non desiderava più
altro, se non che si dimenticasse di lei; o, per dir la cosa proprio a un
puntino, che pensasse a dimenticarla. Dal canto suo, faceva cento volte al
giorno una risoluzione simile riguardo a lui; e adoprava anche ogni mezzo, per
mandarla ad effetto. Stava assidua al lavoro, cercava d'occuparsi tutta in
quello: quando l'immagine di Renzo le si presentava, e lei a dire o a cantare
orazioni a mente. Ma quell'immagine, proprio come se avesse avuto malizia, non
veniva per lo più, così alla scoperta; s'introduceva di soppiatto dietro
all'altre, in modo che la mente non s'accorgesse d'averla ricevuta, se non dopo
qualche tempo che la c'era. Il pensiero di Lucia stava spesso con la madre:
come non ci sarebbe stato? e il Renzo ideale veniva pian piano a mettersi in
terzo, come il reale aveva fatto tante volte. Così con tutte le persone, in
tutti i luoghi, in tutte le memorie del passato, colui si veniva a ficcare. E
se la poverina si lasciava andar qualche volta a fantasticar sul suo avvenire, anche
lì compariva colui, per dire, se non altro: io a buon conto non ci sarò. Però,
se il non pensare a lui era impresa disperata, a pensarci meno, e meno
intensamente che il cuore avrebbe voluto, Lucia ci riusciva fino a un certo
segno: ci sarebbe anche riuscita meglio, se fosse stata sola a volerlo. Ma
c'era donna Prassede, la quale, tutta impegnata dal canto suo a levarle
dall'animo colui, non aveva trovato miglior espediente che di parlargliene
spesso. - Ebbene? - le diceva: - non ci pensiam più a colui?
- Io
non penso a nessuno, - rispondeva Lucia.
Donna
Prassede non s'appagava d'una risposta simile; replicava che ci volevan fatti e
non parole; si diffondeva a parlare sul costume delle giovani, le quali,
diceva, - quando hanno nel cuore uno scapestrato (ed è lì che inclinano
sempre), non se lo staccan più. Un partito onesto, ragionevole, d'un
galantuomo, d'un uomo assestato, che, per qualche accidente, vada a monte, son
subito rassegnate; ma un rompicollo, è piaga incurabile -. E allora principiava
il panegirico del povero assente, del birbante venuto a Milano, per rubare e
scannare; e voleva far confessare a Lucia le bricconate che colui doveva aver
fatte, sicuramente anche al suo paese.
Lucia,
con la voce tremante di vergogna, di dolore, e di quello sdegno che poteva aver
luogo nel suo animo dolce e nella sua umile fortuna, assicurava e attestava,
che, al suo paese, quel poveretto non aveva mai fatto parlar di sé, altro che
in bene; avrebbe voluto, diceva, che fosse presente qualcheduno di là, per
fargli far testimonianza. Anche sull'avventure di Milano, delle quali non era
ben informata, lo difendeva, appunto con la cognizione che aveva di lui e de'
suoi portamenti fino dalla fanciullezza. Lo difendeva o si proponeva di
difenderlo, per puro dovere di carità, per amore del vero, e, a dir proprio la
parola con la quale spiegava a se stessa il suo sentimento, come prossimo. Ma
da queste apologie donna Prassede ricavava nuovi argomenti per convincer Lucia,
che il suo cuore era ancora perso dietro a colui. E per verità, in que'
momenti, non saprei ben dire come la cosa stesse. L'indegno ritratto che la
vecchia faceva del poverino, risvegliava, per opposizione, più viva e più
distinta che mai, nella mente della giovine l'idea che vi s'era formata in una
così lunga consuetudine; le rimembranze compresse a forza, si svolgevano in
folla; l'avversione e il disprezzo richiamavano tanti antichi motivi di stima;
l'odio cieco e violento faceva sorger più forte la pietà: e con questi affetti,
chi sa quanto ci potesse essere o non essere di quell'altro che dietro ad essi
s'introduce così facilmente negli animi; figuriamoci cosa farà in quelli, donde
si tratti di scacciarlo per forza. Sia come si sia, il discorso, per la parte
di Lucia, non sarebbe mai andato molto in lungo; ché le parole finivan presto
in pianto.
Se
donna Prassede fosse stata spinta a trattarla in quella maniera da qualche odio
inveterato contro di lei, forse quelle lacrime l'avrebbero, tocca e fatta
smettere; ma parlando a fin di bene, tirava avanti, senza lasciarsi smovere:
come i gemiti, i gridi supplichevoli, potranno ben trattenere l'arme d'un
nemico, ma non il ferro d'un chirurgo. Fatto però bene il suo dovere per quella
volta, dalle stoccate e da' rabbuffi veniva all'esortazioni, ai consigli,
conditi anche di qualche lode, per temperar così l'agro col dolce, e ottener
meglio l'effetto, operando sull'animo in tutti i versi. Certo, di quelle
baruffe (che avevan sempre a un di presso lo stesso principio, mezzo e fine),
non rimaneva alla buona Lucia propriamente astio contro l'acerba predicatrice,
la quale poi nel resto la trattava con gran dolcezza; e anche in questo, si
vedeva una buona intenzione. Le rimaneva bensì un ribollimento, una
sollevazione di pensieri e d'affetti tale, che ci voleva molto tempo e molta
fatica per tornare a quella qualunque calma di prima.
Buon
per lei, che non era la sola a cui donna Prassede avesse a far del bene; sicché
le baruffe non potevano esser così frequenti. Oltre il resto della servitù,
tutti cervelli che avevan bisogno, più o meno, d'esser raddirizzati e guidati;
oltre tutte l'altre occasioni di prestar lo stesso ufizio, per buon cuore, a
molti con cui non era obbligata a niente: occasioni che cercava, se non
s'offrivan da sé; aveva anche cinque figlie; nessuna in casa, ma che le davan
più da pensare, che se ci fossero state. Tre eran monache, due maritate; e
donna Prassede si trovava naturalmente aver tre monasteri e due case a cui
soprintendere: impresa vasta e complicata, e tanto più faticosa, che due
mariti, spalleggiati da padri, da madri, da fratelli, e tre badesse,
fiancheggiate da altre dignità e da molte monache, non volevano accettare la
sua soprintendenza. Era una guerra, anzi cinque guerre, coperte, gentili, fino
a un certo segno, ma vive e senza tregua: era in tutti que' luoghi
un'attenzione continua a scansare la sua premura, a chiuder l'adito a' suoi
pareri, a eludere le sue richieste, a far che fosse al buio, più che si poteva,
d'ogni affare. Non parlo de' contrasti, delle difficoltà che incontrava nel
maneggio d'altri affari anche più estranei: si sa che agli uomini il bene
bisogna, le più volte, farlo per forza. Dove il suo zelo poteva esercitarsi
liberamente, era in casa: lì ogni persona era soggetta, in tutto e per tutto,
alla sua autorità, fuorché don Ferrante, col quale le cose andavano in un modo
affatto particolare.
Uomo di
studio, non gli piaceva né di comandare né d'ubbidire. Che, in tutte le cose di
casa, la signora moglie fosse la padrona, alla buon'ora; ma lui servo, no. E
se, pregato, le prestava a un'occorrenza l'ufizio della penna, era perché ci
aveva il suo genio; del rimanente, anche in questo sapeva dir di no, quando non
fosse persuaso di ciò che lei voleva fargli scrivere. - La s'ingegni, - diceva
in que' casi; - faccia da sé, giacché la cosa le par tanto chiara -. Donna
Prassede, dopo aver tentato per qualche tempo, e inutilmente, di tirarlo dal
lasciar fare al fare, s'era ristretta a brontolare spesso contro di lui, a
nominarlo uno schivafatiche, un uomo fisso nelle sue idee, un letterato; titolo
nel quale, insieme con la stizza, c'entrava anche un po' di compiacenza.
Don
Ferrante passava di grand'ore nel suo studio, dove aveva una raccolta di libri
considerabile, poco meno di trecento volumi: tutta roba scelta, tutte opere
delle più riputate, in varie materie; in ognuna delle quali era più o meno
versato. Nell'astrologia, era tenuto, e con ragione, per più che un dilettante;
perché non ne possedeva soltanto quelle nozioni generiche, e quel vocabolario
comune, d'influssi, d'aspetti, di congiunzioni; ma sapeva parlare a proposito,
e come dalla cattedra, delle dodici case del cielo, de' circoli massimi, de'
gradi lucidi e tenebrosi, d'esaltazione e di deiezione, di transiti e di
rivoluzioni, de' princìpi in somma più certi e più reconditi della scienza. Ed
eran forse vent'anni che, in dispute frequenti e lunghe, sosteneva la
domificazione del Cardano contro un altro dotto attaccato ferocemente a quella
dell'Alcabizio, per mera ostinazione, diceva don Ferrante; il quale,
riconoscendo volentieri la superiorità degli antichi, non poteva però soffrire
quel non voler dar ragione a' moderni, anche dove l'hanno chiara che la
vedrebbe ognuno. Conosceva anche, più che mediocremente, la storia della
scienza; sapeva a un bisogno citare le più celebri predizioni avverate, e
ragionar sottilmente ed eruditamente sopra altre celebri predizioni andate a
vòto, per dimostrar che la colpa non era della scienza, ma di chi non l'aveva
saputa adoprar bene.
Della
filosofia antica aveva imparato quanto poteva bastare, e n'andava di continuo
imparando di più, dalla lettura di Diogene Laerzio. Siccome però que' sistemi,
per quanto sian belli, non si può adottarli tutti; e, a voler esser filosofo,
bisogna scegliere un autore, così don Ferrante aveva scelto Aristotile, il quale,
come diceva lui, non è né antico né moderno; è il filosofo. Aveva anche varie
opere de' più savi e sottili seguaci di lui, tra i moderni: quelle de' suoi
impugnatori non aveva mai voluto leggerle, per non buttar via il tempo, diceva;
né comprarle, per non buttar via i danari. Per eccezione però, dava luogo nella
sua libreria a que' celebri ventidue libri De subtilitate, e a qualche
altr'opera antiperipatetica del Cardano, in grazia del suo valore in
astrologia; dicendo che chi aveva potuto scrivere il trattato De
restitutione temporum et motuum coelestium, e il libro Duodecim
geniturarum, meritava d'essere ascoltato, anche quando spropositava; e che
il gran difetto di quell'uomo era stato d'aver troppo ingegno; e che nessuno si
può immaginare dove sarebbe arrivato, anche in filosofia, se fosse stato sempre
nella strada retta. Del rimanente, quantunque, nel giudizio de' dotti, don
Ferrante passasse per un peripatetico consumato, non ostante a lui non pareva
di saperne abbastanza; e più d'una volta disse, con gran modestia, che
l'essenza, gli universali, l'anima del mondo, e la natura delle cose non eran
cose tanto chiare, quanto si potrebbe credere.
Della
filosofia naturale s'era fatto più un passatempo che uno studio; l'opere stesse
d'Aristotile su questa materia, e quelle di Plinio le aveva piuttosto lette che
studiate: non di meno, con questa lettura, con le notizie raccolte
incidentemente da' trattati di filosofia generale, con qualche scorsa data alla
Magia naturale del Porta, alle tre storie lapidum, animalium, plantarum,
del Cardano, al Trattato dell'erbe, delle piante, degli animali, d'Alberto
Magno, a qualche altr'opera di minor conto, sapeva a tempo trattenere una
conversazione ragionando delle virtù più mirabili e delle curiosità più
singolari di molti semplici; descrivendo esattamente le forme e l'abitudini
delle sirene e dell'unica fenice; spiegando come la salamandra stia nel fuoco
senza bruciare: come la remora, quel pesciolino, abbia la forza e l'abilità di
fermare di punto in bianco, in alto mare, qualunque gran nave; come le gocciole
della rugiada diventin perle in seno delle conchiglie; come il cameleonte si
cibi d'aria; come dal ghiaccio lentamente indurato, con l'andar de' secoli, si
formi il cristallo; e altri de' più maravigliosi segreti della natura.
In
quelli della magia e della stregoneria s'era internato di più, trattandosi,
dice il nostro anonimo, di scienza molto più in voga e più necessaria, e nella
quale i fatti sono di molto maggiore importanza, e più a mano, da poterli
verificare. Non c'è bisogno di dire che, in un tale studio, non aveva mai avuta
altra mira che d'istruirsi e di conoscere a fondo le pessime arti de' maliardi,
per potersene guardare, e difendere. E, con la scorta principalmente del gran
Martino Delrio (l'uomo della scienza), era in grado di discorrere ex
professo del maleficio amatorio, del maleficio sonnifero, del maleficio
ostile, e dell'infinite specie che, pur troppo, dice ancora l'anonimo, si
vedono in pratica alla giornata, di questi tre generi capitali di malìe, con
effetti così dolorosi. Ugualmente vaste e fondate eran le cognizioni di don
Ferrante in fatto di storia, specialmente universale: nella quale i suoi autori
erano il Tarcagnota, il Dolce, il Bugatti, il Campana, il Guazzo, i più
riputati in somma.
Ma cos'è
mai la storia, diceva spesso don Ferrante, senza la politica? Una guida che
cammina, cammina, con nessuno dietro che impari la strada, e per conseguenza
butta via i suoi passi; come la politica senza la storia è uno che cammina
senza guida. C'era dunque ne' suoi scaffali un palchetto assegnato agli
statisti; dove, tra molti di piccola mole, e di fama secondaria, spiccavano il
Bodino, il Cavalcanti, il Sansovino, il Paruta, il Boccalini. Due però erano i
libri che don Ferrante anteponeva a tutti, e di gran lunga, in questa materia;
due che, fino a un certo tempo, fu solito di chiamare i primi, senza mai
potersi risolvere a qual de' due convenisse unicamente quel grado: l'uno, il Principe
e i Discorsi del celebre segretario fiorentino; mariolo sì, diceva don
Ferrante, ma profondo: l'altro, la Ragion di Stato del non men celebre
Giovanni Botero; galantuomo sì, diceva pure, ma acuto. Ma, poco prima del tempo
nel quale è circoscritta la nostra storia, era venuto fuori il libro che
terminò la questione del primato, passando avanti anche all'opere di que' due matadori,
diceva don Ferrante; il libro in cui si trovan racchiuse e come stillate tutte
le malizie, per poterle conoscere, e tutte le virtù, per poterle praticare;
quel libro piccino, ma tutto d'oro; in una parola, lo Statista Regnante
di don Valeriano Castiglione, di quell'uomo celeberrimo, di cui si può dire,
che i più gran letterati lo esaltavano a gara, e i più gran personaggi facevano
a rubarselo; di quell'uomo, che il papa Urbano VIII onorò, come è noto, di
magnifiche lodi; che il cardinal Borghese e il vicerè di Napoli, don Pietro di
Toledo, sollecitarono a descrivere, il primo i fatti di papa Paolo V, l'altro
le guerre del re cattolico in Italia, l'uno e l'altro invano; di quell'uomo,
che Luigi XIII, re di Francia, per suggerimento del cardinal di Richelieu,
nominò suo istoriografo; a cui il duca Carlo Emanuele di Savoia conferì la
stessa carica; in lode di cui, per tralasciare altre gloriose testimonianze, la
duchessa Cristina, figlia del cristianissimo re Enrico IV, poté in un diploma,
con molti altri titoli, annoverare "la certezza della fama ch'egli ottiene
in Italia, di primo scrittore de' nostri tempi".
Ma se,
in tutte le scienze suddette, don Ferrante poteva dirsi addottrinato, una ce
n'era in cui meritava e godeva il titolo di professore: la scienza
cavalleresca. Non solo ne ragionava con vero possesso, ma pregato
frequentemente d'intervenire in affari d'onore, dava sempre qualche decisione.
Aveva nella sua libreria, e si può dire in testa, le opere degli scrittori più
riputati in tal materia: Paride dal Pozzo, Fausto da Longiano, l'Urrea, il
Muzio, il Romei, l'Albergato, il Forno primo e il Forno secondo di Torquato
Tasso, di cui aveva anche in pronto, e a un bisogno sapeva citare a memoria tutti
i passi così della Gerusalemme Liberata, come della Conquistata, che possono
far testo in materia di cavalleria. L'autore però degli autori, nel suo
concetto, era il nostro celebre Francesco Birago, con cui si trovò anche, più
d'una volta, a dar giudizio sopra casi d'onore; e il quale, dal canto suo,
parlava di don Ferrante in termini di stima particolare. E fin da quando venner
fuori i Discorsi Cavallereschi di quell'insigne scrittore, don Ferrante
pronosticò, senza esitazione, che quest'opera avrebbe rovinata l'autorità
dell'Olevano, e sarebbe rimasta, insieme con l'altre sue nobili sorelle, come
codice di primaria autorità presso ai posteri: profezia, dice l'anonimo, che
ognun può vedere come si sia avverata.
Da
questo passa poi alle lettere amene; ma noi cominciamo a dubitare se veramente
il lettore abbia una gran voglia d'andar avanti con lui in questa rassegna,
anzi a temere di non aver già buscato il titolo di copiator servile per noi, e
quello di seccatore da dividersi con l'anonimo sullodato, per averlo
bonariamente seguito fin qui, in cosa estranea al racconto principale, e nella
quale probabilmente non s'è tanto disteso, che per isfoggiar dottrina, e far
vedere che non era indietro del suo secolo. Però, lasciando scritto quel che è
scritto, per non perder la nostra fatica, ometteremo il rimanente, per
rimetterci in istrada: tanto più che ne abbiamo un bel pezzo da percorrere,
senza incontrare alcun de' nostri personaggi, e uno più lungo ancora, prima di
trovar quelli ai fatti de' quali certamente il lettore s'interessa di più, se a
qualche cosa s'interessa in tutto questo.
Fino
all'autunno del seguente anno 1629, rimasero tutti, chi per volontà, chi per
forza, nello stato a un di presso in cui gli abbiam lasciati, senza che ad
alcuno accadesse, né che alcun altro potesse far cosa degna d'esser riferita.
Venne l'autunno, in cui Agnese e Lucia avevan fatto conto di ritrovarsi
insieme: ma un grande avvenimento pubblico mandò quel conto all'aria: e fu
questo certamente uno de' suoi più piccoli effetti. Seguiron poi altri grandi
avvenimenti, che pero non portarono nessun cambiamento notabile nella sorte de'
nostri personaggi. Finalmente nuovi casi, più generali, più forti, più estremi,
arrivarono anche fino a loro, fino agli infimi di loro, secondo la scala del
mondo: come un turbine vasto, incalzante, vagabondo, scoscendendo e sbarbando
alberi, arruffando tetti, scoprendo campanili, abbattendo muraglie, e
sbattendone qua e là i rottami, solleva anche i fuscelli nascosti tra l'erba,
va a cercare negli angoli le foglie passe e leggieri, che un minor vento vi
aveva confinate, e le porta in giro involte nella sua rapina.
Ora,
perché i fatti privati che ci rimangon da raccontare, riescan chiari, dobbiamo
assolutamente premettere un racconto alla meglio di quei pubblici, prendendola
anche un po' da lontano.
Dopo
quella sedizione del giorno di san Martino e del seguente, parve che
l'abbondanza fosse tornata in Milano, come per miracolo. Pane in quantità da
tutti i fornai; il prezzo, come nell'annate migliori; le farine a proporzione.
Coloro che, in que' due giorni, s'erano addati a urlare o a far anche qualcosa
di più, avevano ora (meno alcuni pochi stati presi) di che lodarsi: e non
crediate che se ne stessero, appena cessato quel primo spavento delle catture.
Sulle piazze, sulle cantonate, nelle bettole, era un tripudio palese, un
congratularsi e un vantarsi tra' denti d'aver trovata la maniera di far
rinviliare il pane. In mezzo però alla festa e alla baldanza, c'era (e come non
ci sarebbe stata?) un'inquietudine, un presentimento che la cosa non avesse a
durare. Assediavano i fornai e i farinaioli, come già avevan fatto in
quell'altra fattizia e passeggiera abbondanza prodotta dalla prima tariffa
d'Antonio Ferrer; tutti consumavano senza risparmio; chi aveva qualche
quattrino da parte, l'investiva in pane e in farine; facevan magazzino delle
casse, delle botticine, delle caldaie. Così, facendo a gara a goder del buon
mercato presente, ne rendevano, non dico impossibile la lunga durata, che già lo
era per sé, ma sempre più difficile anche la continuazione momentanea. Ed ecco
che, il 15 di novembre, Antonio Ferrer, De orden de Su Excelencia,
pubblicò una grida, con la quale, a chiunque avesse granaglie o farine in casa,
veniva proibito di comprarne né punto né poco, e ad ognuno di comprar pane, per
più che il bisogno di due giorni, sotto pene pecuniarie e corporali,
all'arbitrio di Sua Eccellenza; intimazione a chi toccava per ufizio, e a
ogni persona, di denunziare i trasgressori; ordine a' giudici, di far ricerche
nelle case che potessero venir loro indicate; insieme però, nuovo comando a'
fornai di tener le botteghe ben fornite di pane, sotto pena in caso di
mancamento, di cinque anni di galera, et maggiore, all'arbitrio di S. E.
Chi sa immaginarsi una grida tale eseguita, deve avere una bella immaginazione;
e certo, se tutte quelle che si pubblicavano in quel tempo erano eseguite, il
ducato di Milano doveva avere almeno tanta gente in mare, quanta ne possa avere
ora la gran Bretagna.
Sia
com'esser si voglia, ordinando ai fornai di far tanto pane, bisognava anche
fare in modo che la materia del pane non mancasse loro. S'era immaginato (come
sempre in tempo di carestia rinasce uno studio di ridurre in pane de' prodotti
che d'ordinario si consumano sott'altra forma), s'era, dico, immaginato di far
entrare il riso nel composto del pane detto di mistura. Il 23 di
novembre, grida che sequestra, agli ordini del vicario e de' dodici di
provvisione, la metà del riso vestito (risone lo dicevano qui, e lo
dicon tuttora) che ognuno possegga; pena a chiunque ne disponga senza il
permesso di que' signori, la perdita della derrata, e una multa di tre scudi
per moggio. È, come ognun vede, la più onesta.
Ma
questo riso bisognava pagarlo, e un prezzo troppo sproporzionato da quello del
pane. Il carico di supplire all'enorme differenza era stato imposto alla città;
ma il Consiglio de' decurioni, che l'aveva assunto per essa, deliberò, lo
stesso giorno 23 di novembre, di rappresentare al governatore l'impossibilità
di sostenerlo più a lungo. E il governatore, con grida del 7 di dicembre, fissò
il prezzo del riso suddetto a lire dodici il moggio: a chi ne chiedesse di più,
come a chi ricusasse di vendere, intimò la perdita della derrata e una multa
altrettanto valore, et maggior pena pecuniaria et ancora corporale sino alla
galera, all'arbitrio di S. E., secondo la qualità de' casi et delle persone.
Al riso
brillato era già stato fissato il prezzo prima della sommossa; come
probabilmente la tariffa o, per usare quella denominazione celeberrima negli
annali moderni, il maximum del grano e dell'altre granaglie più
ordinarie sarà stato fissato con altre gride, che non c'è avvenuto di vedere.
Mantenuto
così il pane e la farina a buon mercato in Milano, ne veniva di conseguenza che
dalla campagna accorresse gente a processione a comprarne. Don Gonzalo, per
riparare a questo, come dice lui, inconveniente, proibì, con un'altra grida del
15 di dicembre, di portar fuori della città pane, per più del valore di venti
soldi; pena la perdita del pane medesimo, e venticinque scudi, et in caso di
inhabilità' di due tratti di corda in publico, et maggior pena ancora,
secondo il solito, all'arbitrio di S. E. Il 22 dello stesso mese (e non
si vede perché così tardi), pubblicò un ordine somigliante per le farine e per
i grani.
La
moltitudine aveva voluto far nascere l'abbondanza col saccheggio e con
l'incendio; il governo voleva mantenerla con la galera e con la corda. I mezzi
erano convenienti tra loro; ma cosa avessero a fare col fine, il lettore lo
vede: come valessero in fatto ad ottenerlo, lo vedrà a momenti. È poi facile
anche vedere, e non inutile l'osservare come tra quegli strani provvedimenti ci
sia però una connessione necessaria: ognuno era una conseguenza inevitabile
dell'antecedente, e tutti del primo, che fissava al pane un prezzo così lontano
dal prezzo reale, da quello cioè che sarebbe risultato naturalmente dalla
proporzione tra il bisogno e la quantità. Alla moltitudine un tale espediente è
sempre parso, e ha sempre dovuto parere, quanto conforme all'equità,
altrettanto semplice e agevole a mettersi in esecuzione: è quindi cosa naturale
che, nell'angustie e ne' patimenti della carestia, essa lo desideri, l'implori
e, se può, l'imponga. Di mano in mano poi che le conseguenze si fanno sentire,
conviene che coloro a cui tocca, vadano al riparo di ciascheduna, con una legge
la quale proibisca agli uomini di far quello a che eran portati
dall'antecedente. Ci si permetta d'osservar qui di passaggio una combinazione
singolare. In un paese e in un'epoca vicina, nell'epoca la più clamorosa e la
più notabile della storia moderna, si ricorse, in circostanze simili, a simili
espedienti (i medesimi, si potrebbe quasi dire, nella sostanza, con la sola
differenza di proporzione, e a un di presso nel medesimo ordine) ad onta de'
tempi tanto cambiati, e delle cognizioni cresciute in Europa, e in quel paese
forse più che altrove; e ciò principalmente perché la gran massa popolare, alla
quale quelle cognizioni non erano arrivate, poté far prevalere a lungo il suo
giudizio, e forzare, come colà si dice, la mano a quelli che facevan la legge.
Così,
tornando a noi, due erano stati, alla fin de' conti, i frutti principali della
sommossa; guasto e perdita effettiva di viveri, nella sommossa medesima;
consumo, fin che durò la tariffa, largo, spensierato, senza misura, a spese di
quel poco grano, che pur doveva bastare fino alla nuova raccolta. A questi
effetti generali s'aggiunga quattro disgraziati, impiccati come capi del
tumulto: due davanti al forno delle grucce, due in cima della strada dov'era la
casa del vicario di provvisione.
Del
resto, le relazioni storiche di que' tempi son fatte così a caso, che non ci si
trova neppur la notizia del come e del quando cessasse quella tariffa violenta.
Se, in mancanza di notizie positive, è lecito propor congetture, noi incliniamo
a credere che sia stata abolita poco prima o poco dopo il 24 di dicembre, che
fu il giorno di quell'esecuzione. E in quanto alle gride, dopo l'ultima che
abbiam citata del 22 dello stesso mese, non ne troviamo altre in materia di
grasce; sian esse perite, o siano sfuggite alle nostre ricerche, o sia
finalmente che il governo, disanimato, se non ammaestrato dall'inefficacia di
que' suoi rimedi, e sopraffatto dalle cose, le abbia abbandonate al loro corso.
Troviamo bensì nelle relazioni di più d'uno storico (inclinati, com'erano, più
a descriver grand'avvenimenti, che a notarne le cagioni e il progresso) il
ritratto del paese, e della città principalmente, nell'inverno avanzato e nella
primavera, quando la cagion del male, la sproporzione cioè tra i viveri e il
bisogno, non distrutta, anzi accresciuta da' rimedi che ne sospesero
temporariamente gli effetti, e neppure da un'introduzione sufficiente di
granaglie estere, alla quale ostavano l'insufficienza de' mezzi pubblici e
privati, la penuria de' paesi circonvicini, la scarsezza, la lentezza e i
vincoli del commercio, e le leggi stesse tendenti a produrre e mantenere il
prezzo basso, quando, dico, la cagion vera della carestia, o per dir meglio, la
carestia stessa operava senza ritegno, e con tutta la sua forza. Ed ecco la
copia di quel ritratto doloroso.
A ogni
passo, botteghe chiuse; le fabbriche in gran parte deserte; le strade, un
indicibile spettacolo, un corso incessante di miserie, un soggiorno perpetuo di
patimenti. Gli accattoni di mestiere, diventati ora il minor numero, confusi e
perduti in una nuova moltitudine, ridotti a litigar l'elemosina con quelli
talvolta da cui in altri giorni l'avevan ricevuta. Garzoni e giovani licenziati
da padroni di bottega, che, scemato o mancato affatto il guadagno giornaliero,
vivevano stentatamente degli avanzi e del capitale; de' padroni stessi, per cui
il cessar delle faccende era stato fallimento e rovina; operai, e anche maestri
d'ogni manifattura e d'ogn'arte, delle più comuni come delle più raffinate,
delle più necessarie come di quelle di lusso, vaganti di porta in porta, di
strada in istrada, appoggiati alle cantonate, accovacciati sulle lastre, lungo
le case e le chiese, chiedendo pietosamente l'elemosina, o esitanti tra il
bisogno e una vergogna non ancor domata, smunti, spossati, rabbrividiti dal
freddo e dalla fame ne' panni logori e scarsi, ma che in molti serbavano ancora
i segni d'un'antica agiatezza; come nell'inerzia e nell'avvilimento, compariva
non so quale indizio d'abitudini operose e franche. Mescolati tra la
deplorabile turba, e non piccola parte di essa, servitori licenziati da padroni
caduti allora dalla mediocrità nella strettezza, o che quantunque
facoltosissimi si trovavano inabili, in una tale annata, a mantenere quella
solita pompa di seguito. E a tutti questi diversi indigenti s'aggiunga un
numero d'altri, avvezzi in parte a vivere del guadagno di essi: bambini, donne,
vecchi, aggruppati co' loro antichi sostenitori, o dispersi in altre parti
all'accatto.
C'eran
pure, e si distinguevano ai ciuffi arruffati, ai cenci sfarzosi, o anche a un
certo non so che nel portamento e nel gesto, a quel marchio che le consuetudini
stampano su' visi, tanto più rilevato e chiaro, quanto più sono strane, molti
di quella genìa de' bravi che, perduto, per la condizion comune, quel loro pane
scellerato, ne andavan chiedendo per carità. Domati dalla fame, non gareggiando
con gli altri che di preghiere, spauriti, incantati, si strascicavan per le
strade che avevano per tanto tempo passeggiate a testa alta, con isguardo
sospettoso e feroce, vestiti di livree ricche e bizzarre, con gran penne,
guarniti di ricche armi, attillati, profumati; e paravano umilmente la mano,
che tante volte avevano alzata insolente a minacciare, o traditrice a ferire.
Ma
forse il più brutto e insieme il più compassionevole spettacolo erano i
contadini, scompagnati, a coppie, a famiglie intere; mariti, mogli, con bambini
in collo, o attaccati dietro le spalle, con ragazzi per la mano, con vecchi
dietro. Alcuni che, invase e spogliate le loro case dalla soldatesca,
alloggiata lì o di passaggio, n'eran fuggiti disperatamente; e tra questi ce
n'era di quelli che, per far più compassione, e come per distinzione di
miseria, facevan vedere i lividi e le margini de' colpi ricevuti nel difendere
quelle loro poche ultime provvisioni, o scappando da una sfrenatezza cieca e
brutale. Altri, andati esenti da quel flagello particolare, ma spinti da que'
due da cui nessun angolo era stato immune, la sterilità e le gravezze, più
esorbitanti che mai per soddisfare a ciò che si chiamava i bisogni della
guerra, eran venuti, venivano alla città, come a sede antica e ad ultimo asilo
di ricchezza e di pia munificenza. Si potevan distinguere gli arrivati di
fresco, più ancora che all'andare incerto e all'aria nuova, a un fare
maravigliato e indispettito di trovare una tal piena, una tale rivalità di
miseria, al termine dove avevan creduto di comparire oggetti singolari di
compassione, e d'attirare a sé gli sguardi e i soccorsi. Gli altri che da più o
men tempo giravano e abitavano le strade della città, tenendosi ritti co'
sussidi ottenuti o toccati come in sorte, in una tanta sproporzione tra i mezzi
e il bisogno, avevan dipinta ne' volti e negli atti una più cupa e stanca
costernazione. Vestiti diversamente, quelli che ancora si potevano dir vestiti;
e diversi anche nell'aspetto: facce dilavate del basso paese, abbronzate del
pian di mezzo e delle colline, sanguigne di montanari; ma tutte affilate e
stravolte, tutte con occhi incavati, con isguardi fissi, tra il torvo e
l'insensato; arruffati i capelli, lunghe e irsute le barbe: corpi cresciuti e
indurati alla fatica, esausti ora dal disagio; raggrinzata la pelle sulle
braccia aduste e sugli stinchi e sui petti scarniti, che si vedevan di mezzo ai
cenci scomposti. E diversamente, ma non meno doloroso di questo aspetto di
vigore abbattuto, l'aspetto d'una natura più presto vinta, d'un languore e
d'uno sfinimento più abbandonato, nel sesso e nell'età più deboli.
Qua e
là per le strade, rasente ai muri delle case, qualche po' di paglia pesta,
trita e mista d'immondo ciarpume. E una tal porcheria era però un dono e uno
studio della carità; eran covili apprestati a qualcheduno di que' meschini, per
posarci il capo la notte. Ogni tanto, ci si vedeva, anche di giorno, giacere o
sdraiarsi taluno a cui la stanchezza o il digiuno aveva levate le forze e
tronche le gambe: qualche volta quel tristo letto portava un cadavere: qualche
volta si vedeva uno cader come un cencio all'improvviso, e rimaner cadavere sul
selciato.
Accanto
a qualcheduno di que' covili, si vedeva pure chinato qualche passeggiero o
vicino, attirato da una compassion subitanea. In qualche luogo appariva un
soccorso ordinato con più lontana previdenza, mosso da una mano ricca di mezzi,
e avvezza a beneficare in grande; ed era la mano del buon Federigo. Aveva
scelto sei preti ne' quali una carità viva e perseverante fosse accompagnata e
servita da una complessione robusta; gli aveva divisi in coppie, e ad ognuna
assegnata una terza parte della città da percorrere, con dietro facchini
carichi di vari cibi, d'altri più sottili e più pronti ristorativi, e di vesti.
Ogni mattina, le tre coppie si mettevano in istrada da diverse parti,
s'avvicinavano a quelli che vedevano abbandonati per terra, e davano a
ciascheduno aiuto secondo il bisogno. Taluno già agonizzante e non più in caso
di ricevere alimento, riceveva gli ultimi soccorsi e le consolazioni della
religione. Agli affamati dispensavano minestra, ova, pane, vino; ad altri,
estenuati da più antico digiuno, porgevano consumati, stillati, vino più
generoso, riavendoli prima, se faceva di bisogno, con cose spiritose. Insieme,
distribuivano vesti alle nudità più sconce e più dolorose.
Né qui
finiva la loro assistenza: il buon pastore aveva voluto che, almeno dov'essa
poteva arrivare, recasse un sollievo efficace e non momentaneo. Ai poverini a
cui quel primo ristoro avesse rese forze bastanti per reggersi e per camminare,
davano un po' di danaro, affinché il bisogno rinascente e la mancanza d'altro
soccorso non li rimettesse ben presto nello stato di prima; agli altri
cercavano ricovero e mantenimento, in qualche casa delle più vicine. In quelle
de' benestanti, erano per lo più ricevuti per carità, e come raccomandati dal
cardinale; in altre, dove alla buona volontà mancassero i mezzi, chiedevan que'
preti che il poverino fosse ricevuto a dozzina, fissavano il prezzo, e ne
sborsavan subito una parte a conto. Davano poi, di questi ricoverati, la nota
ai parrochi, acciocché li visitassero; e tornavano essi medesimi a visitarli.
Non c'è
bisogno di dire che Federigo non ristringeva le sue cure a questa estremità di
patimenti, né l'aveva aspettata per commoversi. Quella carità ardente e
versatile doveva tutto sentire, in tutto adoprarsi, accorrere dove non aveva
potuto prevenire, prender, per dir così, tante forme, in quante variava il
bisogno. Infatti, radunando tutti i suoi mezzi, rendendo più rigoroso il
risparmio, mettendo mano a risparmi destinati ad altre liberalità, divenute ora
d'un'importanza troppo secondaria, aveva cercato ogni maniera di far danari,
per impiegarli tutti in soccorso degli affamati. Aveva fatte gran compre di
granaglie, e speditane una buona parte ai luoghi della diocesi, che n'eran più
scarsi; ed essendo il soccorso troppo inferiore al bisogno, mandò anche del
sale, - con cui, - dice, raccontando la cosa, il Ripamonti (Historiae Patriae,
Decadis V, Lib. VI, pag. 386.) - l'erbe del prato e le cortecce degli alberi si
convertono in cibo -. Granaglie pure e danari aveva distribuiti ai parrochi
della città; lui stesso la visitava, quartiere per quartiere, dispensando
elemosine; soccorreva in segreto molte famiglie povere; nel palazzo
arcivescovile, come attesta uno scrittore contemporaneo, il medico Alessandro
Tadino, in un suo Ragguaglio che avremo spesso occasion di citare
andando avanti, si distribuivano ogni mattina due mila scodelle di minestra di
riso (Ragguaglio dell'origine et giornali sucessi della gran peste contagiosa,
venefica et malefica, seguita nella città di Milano etc. Milano, 1648, pag.
10.).
Ma
questi effetti di carità, che possiamo certamente chiamar grandiosi, quando si
consideri che venivano da un sol uomo e dai soli suoi mezzi (giacché Federigo
ricusava, per sistema, di farsi dispensatore delle liberalità altrui); questi,
insieme con le liberalità d'altre mani private, se non così feconde, pur
numerose; insieme con le sovvenzioni che il Consiglio de' decurioni aveva
decretate, dando al tribunal di provvisione l'incombenza di distribuirle; erano
ancor poca cosa in paragone del bisogno. Mentre ad alcuni montanari vicini a
morir di fame, veniva, per la carità del cardinale, prolungata la vita, altri
arrivavano a quell'estremo; i primi, finito quel misurato soccorso, ci
ricadevano; in altre parti, non dimenticate, ma posposte, come meno angustiate,
da una carità costretta a scegliere, l'angustie divenivan mortali; per tutto si
periva, da ogni parte s'accorreva alla città. Qui, due migliaia, mettiamo,
d'affamati più robusti ed esperti a superar la concorrenza e a farsi largo,
avevano acquistata una minestra, tanto da non morire in quel giorno; ma più
altre migliaia rimanevano indietro, invidiando quei, diremo noi, più fortunati,
quando, tra i rimasti indietro, c'erano spesso le mogli, i figli, i padri loro?
E mentre in alcune parti della città, alcuni di quei più abbandonati e ridotti
all'estremo venivan levati di terra, rianimati, ricoverati e provveduti per
qualche tempo; in cent'altre parti, altri cadevano, languivano o anche
spiravano, senza aiuto, senza refrigerio.
Tutto
il giorno, si sentiva per le strade un ronzìo confuso di voci supplichevoli; la
notte, un susurro di gemiti, rotto di quando in quando da alti lamenti
scoppiati all'improvviso, da urli, da accenti profondi d'invocazione, che
terminavano in istrida acute.
È cosa
notabile che, in un tanto eccesso di stenti, in una tanta varietà di querele,
non si vedesse mai un tentativo, non iscappasse mai un grido di sommossa:
almeno non se ne trova il minimo cenno. Eppure, tra coloro che vivevano e
morivano in quella maniera, c'era un buon numero d'uomini educati a tutt'altro
che a tollerare; c'erano a centinaia, di que' medesimi che, il giorno di san
Martino, s'erano tanto fatti sentire. Né si può pensare che l'esempio de'
quattro disgraziati che n'avevan portata la pena per tutti, fosse quello che
ora li tenesse tutti a freno: qual forza poteva avere, non la presenza, ma la
memoria de' supplizi sugli animi d'una moltitudine vagabonda e riunita, che si
vedeva come condannata a un lento supplizio, che già lo pativa? Ma noi uomini
siam in generale fatti così: ci rivoltiamo sdegnati e furiosi contro i mali
mezzani, e ci curviamo in silenzio sotto gli estremi; sopportiamo, non
rassegnati ma stupidi, il colmo di ciò che da principio avevamo chiamato
insopportabile.
Il vòto
che la mortalità faceva ogni giorno in quella deplorabile moltitudine, veniva
ogni giorno più che riempito: era un concorso continuo, prima da' paesi
circonvicini, poi da tutto il contado, poi dalle città dello stato, alla fine
anche da altre. E intanto, anche da questa partivano ogni giorno antichi
abitatori; alcuni per sottrarsi alla vista di tante piaghe; altri, vedendosi,
per dir così, preso il posto da' nuovi concorrenti d'accatto, uscivano a
un'ultima disperata prova di chieder soccorso altrove, dove si fosse, dove
almeno non fosse così fitta e così incalzante la folla e la rivalità del
chiedere S'incontravano nell'opposto viaggio questi e que' pellegrini,
spettacolo di ribrezzo gli uni agli altri, e saggio doloroso, augurio sinistro
del termine a cui gli uni e gli altri erano incamminati. Ma seguitavano ognuno
la sua strada, se non più per la speranza di mutar sorte, almeno per non
tornare sotto un cielo divenuto odioso, per non rivedere i luoghi dove avevan
disperato. Se non che taluno, mancandogli affatto le forze, cadeva per la
strada, e rimaneva lì morto: spettacolo ancor più funesto ai suoi compagni di
miseria, oggetto d'orrore, forse di rimprovero agli altri passeggieri.
"Vidi io, - scrive il Ripamonti, - nella strada che gira le mura, il
cadavere d'una donna... Le usciva di bocca dell'erba mezza rosicchiata, e le
labbra facevano ancora quasi un atto di sforzo rabbioso... Aveva un fagottino
in ispalla, e attaccato con le fasce al petto un bambino, che piangendo chiedeva
la poppa... Ed erano sopraggiunte persone compassionevoli, le quali, raccolto
il meschinello di terra, lo portavan via, adempiendo così intanto il primo
ufizio materno".
Quel
contrapposto di gale e di cenci, di superfluità e di miseria, spettacolo
ordinario de' tempi ordinari, era allora affatto cessato. I cenci e la miseria
eran quasi per tutto; e ciò che se ne distingueva, era appena un apparenza di
parca mediocrità. Si vedevano i nobili camminare in abito semplice e dimesso, o
anche logoro e gretto; alcuni, perché le cagioni comuni della miseria avevan
mutata a quel segno anche la loro fortuna, o dato il tracollo a patrimoni già
sconcertati: gli altri, o che temessero di provocare col fasto la pubblica
disperazione, o che si vergognassero d'insultare alla pubblica calamità. Que'
prepotenti odiati e rispettati, soliti a andare in giro con uno strascico di
bravi, andavano ora quasi soli, a capo basso, con visi che parevano offrire e
chieder pace. Altri che, anche nella prosperità, erano stati di pensieri più
umani, e di portamenti più modesti, parevano anch'essi confusi, costernati, e
come sopraffatti dalla vista continua d'una miseria che sorpassava, non solo la
possibilità del soccorso, ma direi quasi, le forze della compassione. Chi aveva
il modo di far qualche elemosina, doveva però fare una trista scelta tra fame e
fame, tra urgenze e urgenze. E appena si vedeva una mano pietosa avvicinarsi
alla mano d'un infelice, nasceva all'intorno una gara d'altri infelici; coloro
a cui rimaneva più vigore, si facevano avanti a chieder con più istanza; gli
estenuati, i vecchi, i fanciulli, alzavano le mani scarne; le madri alzavano e
facevan veder da lontano i bambini piangenti, mal rinvoltati nelle fasce
cenciose, e ripiegati per languore nelle loro mani.
Così
passò l'inverno e la primavera: e già da qualche tempo il tribunale della
sanità andava rappresentando a quello della provvisione il pericolo del
contagio, che sovrastava alla città, per tanta miseria ammontata in ogni parte
di essa; e proponeva che gli accattoni venissero raccolti in diversi ospizi.
Mentre si discute questa proposta, mentre s'approva, mentre si pensa ai mezzi,
ai modi, ai luoghi, per mandarla ad effetto, i cadaveri crescono nelle strade
ogni giorno più; a proporzion di questo, cresce tutto l'altro ammasso di
miserie. Nel tribunale di provvisione vien proposto, come più facile e più
speditivo, un altro ripiego, di radunar tutti gli accattoni, sani e infermi, in
un sol luogo, nel lazzeretto, dove fosser mantenuti e curati a spese del
pubblico; e così vien risoluto, contro il parere della Sanità, la quale
opponeva che, in una così gran riunione, sarebbe cresciuto il pericolo a cui si
voleva metter riparo.
Il
lazzeretto di Milano (se, per caso, questa storia capitasse nelle mani di
qualcheduno che non lo conoscesse, né di vista né per descrizione) è un recinto
quadrilatero e quasi quadrato, fuori della città, a sinistra della porta detta
orientale, distante dalle mura lo spazio della fossa, d'una strada di
circonvallazione, e d'una gora che gira il recinto medesimo. I due lati
maggiori son lunghi a un di presso cinquecento passi; gli altri due, forse
quindici meno; tutti, dalla parte esterna, son divisi in piccole stanze d'un
piano solo; di dentro gira intorno a tre di essi un portico continuo a volta, sostenuto
da piccole e magre colonne.
Le
stanzine eran dugent'ottantotto, o giu di lì: a' nostri giorni, una grande
apertura fatta nel mezzo, e una piccola, in un canto della facciata del lato
che costeggia la strada maestra, ne hanno portate via non so quante. Al tempo
della nostra storia, non c'eran che due entrature; una nel mezzo del lato che
guarda le mura della città, l'altra di rimpetto, nell'opposto. Nel centro dello
spazio interno, c'era, e c'è tutt'ora, una piccola chiesa ottangolare.
La
prima destinazione di tutto l'edifizio, cominciato nell'anno 1489, co' danari
d'un lascito privato, continuato poi con quelli del pubblico e d'altri
testatori e donatori, fu, come l'accenna il nome stesso, di ricoverarvi,
all'occorrenza, gli ammalati di peste; la quale, già molto prima di
quell'epoca, era solita, e lo fu per molto tempo dopo, a comparire quelle due,
quattro, sei, otto volte per secolo, ora in questo, ora in quel paese d'Europa,
prendendone talvolta una gran parte, o anche scorrendola tutta, per il lungo e
per il largo. Nel momento di cui parliamo, il lazzeretto non serviva che per
deposito delle mercanzie soggette a contumacia.
Ora,
per metterlo in libertà, non si stette al rigor delle leggi sanitarie, e fatte
in fretta in fretta le purghe e gli esperimenti prescritti, si rilasciaron
tutte le mercanzie a un tratto. Si fece stender della paglia in tutte le
stanze, si fecero provvisioni di viveri, della qualità e nella quantità che si
poté; e s'invitarono, con pubblico editto, tutti gli accattoni a ricoverarsi
lì.
Molti
vi concorsero volontariamente; tutti quelli che giacevano infermi per le strade
e per le piazze, ci vennero trasportati; in pochi giorni, ce ne fu, tra gli uni
e gli altri, più di tre mila. Ma molti più furon quelli che restaron fuori. O che
ognun di loro aspettasse di veder gli altri andarsene, e di rimanere in pochi a
goder l'elemosine della città, o fosse quella natural ripugnanza alla clausura,
o quella diffidenza de' poveri per tutto ciò che vien loro proposto da chi
possiede le ricchezze e il potere (diffidenza sempre proporzionata
all'ignoranza comune di chi la sente e di chi l'ispira, al numero de' poveri, e
al poco giudizio delle leggi), o il saper di fatto quale fosse in realtà il
benefizio offerto, o fosse tutto questo insieme, o che altro, il fatto sta che
la più parte, non facendo conto dell'invito, continuavano a strascicarsi
stentando per le strade. Visto ciò, si credé bene di passar dall'invito alla
forza. Si mandarono in ronda birri che cacciassero gli accattoni al lazzeretto,
e vi menassero legati quelli che resistevano; per ognun de' quali fu assegnato
a coloro il premio di dieci soldi: ecco se, anche nelle maggiori strettezze, i
danari del pubblico si trovan sempre, per impiegarli a sproposito. E
quantunque, com'era stata congettura, anzi intento espresso della Provvisione,
un certo numero d'accattoni sfrattasse dalla città, per andare a vivere o a
morire altrove, in libertà almeno; pure la caccia fu tale che, in poco tempo,
il numero de' ricoverati, tra ospiti e prigionieri, s'accostò a dieci mila.
Le
donne e i bambini, si vuol supporre che saranno stati messi in quartieri
separati, benché le memorie del tempo non ne dican nulla. Regole poi e
provvedimenti per il buon ordine, non ne saranno certamente mancati; ma si
figuri ognuno qual ordine potesse essere stabilito e mantenuto, in que' tempi
specialmente e in quelle circostanze, in una così vasta e varia riunione, dove
coi volontari si trovavano i forzati; con quelli per cui l'accatto era una
necessità, un dolore, una vergogna, coloro di cui era il mestiere; con molti
cresciuti nell'onesta attività de' campi e dell'officine, molti altri educati
nelle piazze, nelle taverne, ne' palazzi de' prepotenti, all'ozio, alla truffa,
allo scherno, alla violenza.
Come
stessero poi tutti insieme d'alloggio e di vitto, si potrebbe tristamente
congetturarlo, quando non n'avessimo notizie positive; ma le abbiamo. Dormivano
ammontati a venti a trenta per ognuna di quelle cellette, o accovacciati sotto
i portici, sur un po' di paglia putrida e fetente, o sulla nuda terra: perché,
s'era bensì ordinato che la paglia fosse fresca e a sufficienza, e cambiata
spesso; ma in effetto era stata cattiva, scarsa, e non si cambiava. S'era
ugualmente ordinato che il pane fosse di buona qualità: giacché, quale
amministratore ha mai detto che si faccia e si dispensi roba cattiva? ma ciò
che non si sarebbe ottenuto nelle circostanze solite, anche per un più
ristretto servizio, come ottenerlo in quel caso, e per quella moltitudine? Si
disse allora, come troviamo nelle memorie, che il pane del lazzeretto fosse
alterato con sostanze pesanti e non nutrienti: ed è pur troppo credibile che
non fosse uno di que' lamenti in aria. D'acqua perfino c'era scarsità; d'acqua,
voglio dire, viva e salubre: il pozzo comune, doveva esser la gora che gira le
mura del recinto, bassa, lenta, dove anche motosa, e divenuta poi quale poteva
renderla l'uso e la vicinanza d'una tanta e tal moltitudine.
A tutte
queste cagioni di mortalità, tanto più attive, che operavano sopra corpi ammalati
o ammalazzati, s'aggiunga una gran perversità della stagione: piogge ostinate,
seguite da una siccità ancor più ostinata, e con essa un caldo anticipato e
violento. Ai mali s'aggiunga il sentimento de' mali, la noia e la smania della
prigionia, la rimembranza dell'antiche abitudini, il dolore di cari perduti, la
memoria inquieta di cari assenti, il tormento e il ribrezzo vicendevole,
tant'altre passioni d'abbattimento o di rabbia, portate o nate là dentro;
l'apprensione poi e lo spettacolo continuo della morte resa frequente da tante
cagioni, e divenuta essa medesima una nuova e potente cagione. E non farà
stupore che la mortalità crescesse e regnasse in quel recinto a segno di
prendere aspetto e, presso molti, nome di pestilenza: sia che la riunione e l'aumento
di tutte quelle cause non facesse che aumentare l'attività d'un'influenza
puramente epidemica; sia (come par che avvenga nelle carestie anche men gravi e
men prolungate di quella) che vi avesse luogo un certo contagio, il quale ne'
corpi affetti e preparati dal disagio e dalla cattiva qualità degli alimenti,
dall'intemperie, dal sudiciume, dal travaglio e dall'avvilimento trovi la
tempera, per dir così, e la stagione sua propria, le condizioni necessarie in
somma per nascere, nutrirsi e moltiplicare (se a un ignorante è lecito buttar
là queste parole, dietro l'ipotesi proposta da alcuni fisici e riproposta da
ultimo, con molte ragioni e con molta riserva, da uno, diligente quanto
ingegnoso) (Del morbo petecchiale... e degli altri contagi in generale, opera
del dott. F. Enrico Acerbi, Cap. III, § 1 e 2.): sia poi che il contagio
scoppiasse da principio nel lazzeretto medesimo, come, da un'oscura e inesatta
relazione, par che pensassero i medici della Sanità; sia che vivesse e andasse
covando prima d'allora (ciò che par forse più verisimile, chi pensi come il
disagio era già antico e generale, e la mortalità già frequente), e che portato
in quella folla permanente, vi si propagasse con nuova e terribile rapidità.
Qualunque di queste congetture sia la vera, il numero giornaliero de' morti nel
lazzeretto oltrepassò in poco tempo il centinaio.
Mentre
in quel luogo tutto il resto era languore, angoscia, spavento, rammarichìo,
fremito, nella Provvisione era vergogna, stordimento, incertezza. Si discusse,
si sentì il parere della Sanità; non si trovò altro che di disfare ciò che
s'era fatto con tanto apparato, con tanta spesa, con tante vessazioni. S'aprì
il lazzeretto, si licenziaron tutti i poveri non ammalati che ci rimanevano, e
che scapparon fuori con una gioia furibonda. La città tornò a risonare
dell'antico lamento, ma più debole e interrotto; rivide quella turba più rada e
più compassionevole, dice il Ripamonti, per il pensiero del come fosse di tanto
scemata. Gl'infermi furon trasportati a Santa Maria della Stella, allora
ospizio di poveri; dove la più parte perirono.
Intanto
però cominciavano que' benedetti campi a imbiondire. Gli accattoni venuti dal
contado se n'andarono, ognuno dalla sua parte, a quella tanto sospirata
segatura. Il buon Federigo gli accomiatò con un ultimo sforzo, e con un nuovo
ritrovato di carità: a ogni contadino che si presentasse all'arcivescovado,
fece dare un giulio, e una falce da mietere.
Con la
messe finalmente cessò la carestia: la mortalità, epidemica o contagiosa,
scemando di giorno in giorno, si prolungò però fin nell'autunno. Era sul
finire, quand'ecco un nuovo flagello.
Molte
cose importanti, di quelle a cui più specialmente si dà titolo di storiche,
erano accadute in questo frattempo. Il cardinal di Richelieu, presa, come s'è
detto, la Roccella, abborracciata alla meglio una pace col re d'Inghilterra,
aveva proposto e persuaso con la sua potente parola, nel Consiglio di quello di
Francia, che si soccorresse efficacemente il duca di Nevers; e aveva insieme
determinato il re medesimo a condurre in persona la spedizione. Mentre si
facevan gli apparecchi, il conte di Nassau, commissario imperiale, intimava in
Mantova al nuovo duca, che desse gli stati in mano a Ferdinando, o questo
manderebbe un esercito ad occuparli. Il duca che, in più disperate circostanze,
s'era schermito d'accettare una condizione così dura e così sospetta,
incoraggito ora dal vicino soccorso di Francia, tanto più se ne schermiva; però
con termini in cui il no fosse rigirato e allungato, quanto si poteva, e con
proposte di sommissione, anche più apparente, ma meno costosa. Il commissario
se n'era andato, protestandogli che si verrebbe alla forza. In marzo, il
cardinal di Richelieu era poi calato infatti col re, alla testa d'un esercito:
aveva chiesto il passo al duca di Savoia; s'era trattato; non s'era concluso;
dopo uno scontro, col vantaggio de' Francesi, s'era trattato di nuovo, e
concluso un accordo, nel quale il duca, tra l'altre cose, aveva stipulato che
il Cordova leverebbe l'assedio da Casale; obbligandosi, se questo ricusasse, a
unirsi co' Francesi, per invadere il ducato di Milano. Don Gonzalo, parendogli
anche d'uscirne con poco, aveva levato l'assedio da Casale, dov'era subito
entrato un corpo di Francesi, a rinforzar la guarnigione.
Fu in
questa occasione che l'Achillini scrisse al re Luigi quel suo famoso sonetto:
Sudate,
o fochi, a preparar metalli:
e un
altro, con cui l'esortava a portarsi subito alla liberazione di Terra santa. Ma
è un destino che i pareri de' poeti non siano ascoltati: e se nella storia
trovate de' fatti conformi a qualche loro suggerimento, dite pur francamente
ch'eran cose risolute prima. Il cardinal di Richelieu aveva in vece stabilito
di ritornare in Francia, per affari che a lui parevano più urgenti. Girolamo
Soranzo, inviato de' Veneziani, poté bene addurre ragioni per combattere quella
risoluzione; che il re e il cardinale, dando retta alla sua prosa come ai versi
dell'Achillini, se ne ritornarono col grosso dell'esercito, lasciando soltanto
sei mila uomini in Susa, per mantenere il passo, e per caparra del trattato.
Mentre
quell'esercito se n'andava da una parte, quello di Ferdinando s'avvicinava
dall'altra; aveva invaso il paese de' Grigioni e la Valtellina; si disponeva a
calar nel milanese. Oltre tutti i danni che si potevan temere da un tal
passaggio, eran venuti espressi avvisi al tribunale della sanità, che in
quell'esercito covasse la peste, della quale allora nelle truppe alemanne c'era
sempre qualche sprazzo, come dice il Varchi, parlando di quella che, un secolo
avanti, avevan portata in Firenze. Alessandro Tadino, uno de' conservatori
della sanità (eran sei, oltre il presidente: quattro magistrati e due medici),
fu incaricato dal tribunale, come racconta lui stesso, in quel suo ragguaglio
già citato (Pag. 16), di rappresentare al governatore lo spaventoso pericolo
che sovrastava al paese, se quella gente ci passava, per andare all'assedio di
Mantova, come s'era sparsa la voce. Da tutti i portamenti di don Gonzalo, pare
che avesse una gran smania d'acquistarsi un posto nella storia, la quale
infatti non poté non occuparsi di lui; ma (come spesso le accade) non conobbe,
o non si curò di registrare l'atto di lui più degno di memoria, la risposta che
diede al Tadino in quella circostanza. Rispose che non sapeva cosa farci; che i
motivi d'interesse e di riputazione, per i quali s'era mosso quell'esercito,
pesavan più che il pericolo rappresentato; che con tutto ciò si cercasse di
riparare alla meglio, e si sperasse nella Provvidenza.
Per
riparar dunque alla meglio, i due medici della Sanità (il Tadino suddetto e
Senatore Settala, figlio del celebre Lodovico) proposero in quel tribunale che
si proibisse sotto severissime pene di comprar roba di nessuna sorte da'
soldati ch'eran per passare; ma non fu possibile far intendere la necessità
d'un tal ordine al presidente, "uomo", dice il Tadino, "di molta
bontà, che non poteva credere dovesse succedere incontri di morte di tante
migliaia di persone, per il comercio, di questa gente, et loro robbe".
Citiamo questo tratto per uno de' singolari di quel tempo: ché di certo, da che
ci son tribunali di sanità, non accadde mai a un altro presidente d'un tal
corpo, di fare un ragionamento simile; se ragionamento si può chiamare.
In
quanto a don Gonzalo, poco dopo quella risposta, se n'andò da Milano; e la
partenza fu trista per lui, come lo era la cagione. Veniva rimosso per i
cattivi successi della guerra, della quale era stato il promotore e il
capitano; e il popolo lo incolpava della fame sofferta sotto il suo governo.
(Quello che aveva fatto per la peste, o non si sapeva, o certo nessuno se
n'inquietava, come vedremo più avanti, fuorché il tribunale della sanità, e i
due medici specialmente). All'uscir dunque, in carrozza da viaggio, dal palazzo
di corte, in mezzo a una guardia d'alabardieri, con due trombetti a cavallo
davanti, e con altre carrozze di nobili che gli facevan seguito, fu accolto con
gran fischiate da ragazzi ch'eran radunati sulla piazza del duomo, e che gli
andaron dietro alla rinfusa. Entrata la comitiva nella strada che conduce a
porta ticinese, di dove si doveva uscire, cominciò a trovarsi in mezzo a una
folla di gente che, parte era lì ad aspettare, parte accorreva; tanto più che i
trombetti, uomini di formalità, non cessaron di sonare, dal palazzo di corte,
fino alla porta. E nel processo che si fece poi su quel tumulto, uno di
costoro, ripreso che, con quel suo trombettare, fosse stato cagione di farlo
crescere, risponde: - caro signore, questa è la nostra professione; et se S. E.
non hauesse hauuto a caro che noi hauessimo sonato, doveva comandarne che
tacessimo -. Ma don Gonzalo, o per ripugnanza a far cosa che mostrasse timore,
o per timore di render con questo più ardita la moltitudine, o perché fosse in
effetto un po' sbalordito, non dava nessun ordine. La moltitudine, che le
guardie avevan tentato in vano di respingere, precedeva, circondava, seguiva le
carrozze, gridando: - la va via la carestia, va via il sangue de' poveri, - e
peggio. Quando furon vicini alla porta, cominciarono anche a tirar sassi, mattoni,
torsoli, bucce d'ogni sorte, la munizione solita in somma di quelle spedizioni;
una parte corse sulle mura, e di là fecero un'ultima scarica sulle carrozze che
uscivano. Subito dopo si sbandarono.
In
luogo di don Gonzalo, fu mandato il marchese Ambrogio Spinola, il cui nome
aveva già acquistata, nelle guerre di Fiandra, quella celebrità militare che
ancor gli rimane.
Intanto
l'esercito alemanno, sotto il comando supremo del conte Rambaldo di Collalto,
altro condottiere italiano, di minore, ma non d'ultima fama, aveva ricevuto
l'ordine definitivo di portarsi all'impresa di Mantova; e nel mese di
settembre, entrò nel ducato di Milano.
La
milizia, a que' tempi, era ancor composta in gran parte di soldati di ventura
arrolati da condottieri di mestiere, per commissione di questo o di quel
principe, qualche volta anche per loro proprio conto, e per vendersi poi
insieme con essi. Più che dalle paghe, erano gli uomini attirati a quel
mestiere dalle speranze del saccheggio e da tutti gli allettamenti della licenza.
Disciplina stabile e generale non ce n'era; né avrebbe potuto accordarsi così
facilmente con l'autorità in parte indipendente de' vari condottieri. Questi
poi in particolare, né erano molto raffinatori in fatto di disciplina, né,
anche volendo, si vede come avrebbero potuto riuscire a stabilirla e a
mantenerla; ché soldati di quella razza, o si sarebbero rivoltati contro un
condottiere novatore che si fosse messo in testa d'abolire il saccheggio; o per
lo meno, l'avrebbero lasciato solo a guardar le bandiere. Oltre di ciò, siccome
i principi, nel prendere, per dir così, ad affitto quelle bande, guardavan più
ad aver gente in quantità, per assicurar l'imprese, che a proporzionare il
numero alla loro facoltà di pagare, per il solito molto scarsa; così le paghe
venivano per lo più tarde, a conto, a spizzico; e le spoglie de' paesi a cui la
toccava, ne divenivano come un supplimento tacitamente convenuto. È celebre,
poco meno del nome di Wallenstein, quella sua sentenza: esser più facile
mantenere un esercito di cento mila uomini, che uno di dodici mila. E questo di
cui parliamo era in gran parte composto della gente che, sotto il suo comando,
aveva desolata la Germania, in quella guerra celebre tra le guerre, e per sé e
per i suoi effetti, che ricevette poi il nome da' trent'anni della sua durata:
e allora ne correva l'undecimo. C'era anzi, condotto da un suo luogotenente, il
suo proprio reggimento; degli altri condottieri, la più parte avevan comandato
sotto di lui, e ci si trovava più d'uno di quelli che, quattr'anni dopo,
dovevano aiutare a fargli far quella cattiva fine che ognun sa.
Eran
vent'otto mila fanti, e sette mila cavalli; e, scendendo dalla Valtellina per
portarsi nel mantovano, dovevan seguire tutto il corso che fa l'Adda per due
rami di lago, e poi di nuovo come fiume fino al suo sbocco in Po, e dopo
avevano un buon tratto di questo da costeggiare: in tutto otto giornate nel
ducato di Milano.
Una
gran parte degli abitanti si rifugiavano su per i monti, portandovi quel che
avevan di meglio, e cacciandosi innanzi le bestie; altri rimanevano, o per non
abbandonar qualche ammalato, o per preservar la casa dall'incendio, o per tener
d'occhio cose preziose nascoste, sotterrate; altri perché non avevan nulla da
perdere, o anche facevan conto d'acquistare. Quando la prima squadra arrivava
al paese della fermata, si spandeva subito per quello e per i circonvicini, e
li metteva a sacco addirittura: ciò che c'era da godere o da portar via,
spariva; il rimanente, lo distruggevano o lo rovinavano; i mobili diventavan
legna, le case, stalle: senza parlar delle busse, delle ferite, degli stupri.
Tutti i ritrovati, tutte l'astuzie per salvar la roba, riuscivano per lo più
inutili, qualche volta portavano danni maggiori. I soldati, gente ben più
pratica degli stratagemmi anche di questa guerra, frugavano per tutti i buchi
delle case, smuravano, diroccavano; conoscevan facilmente negli orti la terra
smossa di fresco; andarono fino su per i monti a rubare il bestiame; andarono
nelle grotte, guidati da qualche birbante del paese, in cerca di qualche ricco
che vi si fosse rimpiattato; lo strascinavano alla sua casa, e con tortura di
minacce e di percosse, lo costringevano a indicare il tesoro nascosto.
Finalmente
se n'andavano; erano andati; si sentiva da lontano morire il suono de' tamburi
o delle trombe; succedevano alcune ore d'una quiete spaventata; e poi un nuovo
maledetto batter di cassa, un nuovo maledetto suon di trombe, annunziava
un'altra squadra. Questi, non trovando più da far preda, con tanto più furore
facevano sperpero del resto, bruciavan le botti votate da quelli, gli usci
delle stanze dove non c'era più nulla, davan fuoco anche alle case; e con tanta
più rabbia, s'intende, maltrattavan le persone; e così di peggio in peggio, per
venti giorni: ché in tante squadre era diviso l'esercito.
Colico
fu la prima terra del ducato, che invasero que' demòni; si gettarono poi sopra
Bellano; di là entrarono e si sparsero nella Valsassina, da dove sboccarono nel
territorio di Lecco.
Qui,
tra i poveri spaventati troviamo persone di nostra conoscenza.
Chi non
ha visto don Abbondio, il giorno che si sparsero tutte in una volta le notizie
della calata dell'esercito, del suo avvicinarsi, e de' suoi portamenti, non sa
bene cosa sia impiccio e spavento. Vengono; son trenta, son quaranta, son
cinquanta mila; son diavoli, sono ariani, sono anticristi; hanno saccheggiato
Cortenuova; han dato fuoco a Primaluna: devastano Introbbio, Pasturo, Barsio;
sono arrivati a Balabbio; domani son qui: tali eran le voci che passavan di
bocca in bocca; e insieme un correre, un fermarsi a vicenda, un consultare
tumultuoso, un'esitazione tra il fuggire e il restare, un radunarsi di donne,
un metter le mani ne' capelli. Don Abbondio, risoluto di fuggire, risoluto
prima di tutti e più di tutti, vedeva però, in ogni strada da prendere, in ogni
luogo da ricoverarsi, ostacoli insuperabili, e pericoli spaventosi. - Come
fare? - esclamava: - dove andare? - I monti, lasciando da parte la difficoltà
del cammino, non eran sicuri: già s'era saputo che i lanzichenecchi vi
s'arrampicavano come gatti, dove appena avessero indizio o speranza di far
preda. Il lago era grosso; tirava un gran vento: oltre di questo, la più parte
de' barcaioli, temendo d'esser forzati a tragittar soldati o bagagli, s'eran rifugiati,
con le loro barche, all'altra riva: alcune poche rimaste, eran poi partite
stracariche di gente; e, travagliate dal peso e dalla burrasca, si diceva che
pericolassero ogni momento. Per portarsi lontano e fuori della strada che
l'esercito aveva a percorrere, non era possibile trovar né un calesse, né un
cavallo, né alcun altro mezzo: a piedi, don Abbondio non avrebbe potuto far
troppo cammino, e temeva d'esser raggiunto per istrada. Il territorio
bergamasco non era tanto distante, che le sue gambe non ce lo potessero portare
in una tirata; ma si sapeva ch'era stato spedito in fretta da Bergamo uno
squadrone di cappelletti, il qual doveva costeggiare il confine, per
tenere in suggezione i lanzichenecchi; e quelli eran diavoli in carne, né più
né meno di questi, e facevan dalla parte loro il peggio che potevano. Il
pover'uomo correva, stralunato e mezzo fuor di sé, per la casa; andava dietro a
Perpetua, per concertare una risoluzione con lei; ma Perpetua, affaccendata a
raccogliere il meglio di casa, e a nasconderlo in soffitta, o per i
bugigattoli, passava di corsa, affannata, preoccupata, con le mani e con le
braccia piene, e rispondeva: - or ora finisco di metter questa roba al sicuro,
e poi faremo anche noi come fanno gli altri -. Don Abbondio voleva trattenerla,
e discuter con lei i vari partiti; ma lei, tra il da fare, e la fretta, e lo
spavento che aveva anch'essa in corpo, e la rabbia che le faceva quello del
padrone, era, in tal congiuntura, meno trattabile di quel che fosse stata mai.
- S'ingegnano gli altri; c'ingegneremo anche noi. Mi scusi, ma non è capace che
d'impedire. Crede lei che anche gli altri non abbiano una pelle da salvare? Che
vengono per far la guerra a lei i soldati? Potrebbe anche dare una mano, in
questi momenti, in vece di venir tra' piedi a piangere e a impicciare -. Con
queste e simili risposte si sbrigava da lui, avendo già stabilito, finita che
fosse alla meglio quella tumultuaria operazione, di prenderlo per un braccio,
come un ragazzo, e di strascinarlo su per una montagna. Lasciato così solo,
s'affacciava alla finestra, guardava, tendeva gli orecchi; e vedendo passar
qualcheduno, gridava con una voce mezza di pianto e mezza di rimprovero: - fate
questa carità al vostro povero curato di cercargli qualche cavallo, qualche mulo,
qualche asino. Possibile che nessuno mi voglia aiutare! Oh che gente!
Aspettatemi almeno, che possa venire anch'io con voi; aspettate d'esser
quindici o venti, da condurmi via insieme, ch'io non sia abbandonato. Volete
lasciarmi in man de' cani? Non sapete che sono luterani la più parte, che
ammazzare un sacerdote l'hanno per opera meritoria? Volete lasciarmi qui a
ricevere il martirio? Oh che gente! Oh che gente!
Ma a
chi diceva queste cose? Ad uomini che passavano curvi sotto il peso della loro
povera roba, pensando a quella che lasciavano in casa, spingendo le loro
vaccherelle, conducendosi dietro i figli, carichi anch'essi quanto potevano, e
le donne con in collo quelli che non potevan camminare. Alcuni tiravan di
lungo, senza rispondere né guardare in su; qualcheduno diceva: - eh messere!
faccia anche lei come può; fortunato lei che non ha da pensare alla famiglia;
s'aiuti, s'ingegni.
- Oh
povero me! - esclamava don Abbondio: - oh che gente! che cuori! Non c'è carità:
ognun pensa a sé; e a me nessuno vuol pensare -. E tornava in cerca di
Perpetua.
- Oh
appunto! - gli disse questa: - e i danari?
- Come
faremo?
- Li
dia a me, che anderò a sotterrarli qui nell'orto di casa, insieme con le
posate.
- Ma...
- Ma,
ma; dia qui; tenga qualche soldo, per quel che può occorrere; e poi lasci fare
a me.
Don
Abbondio ubbidì, andò allo scrigno, cavò il suo tesoretto, e lo consegnò a
Perpetua; la quale disse: - vo a sotterrarli nell'orto, appiè del fico -; e
andò. Ricomparve poco dopo, con un paniere dove c'era della munizione da bocca,
e con una piccola gerla vota; e si mise in fretta a collocarvi nel fondo un po'
di biancheria sua e del padrone, dicendo intanto: - il breviario almeno lo
porterà lei.
- Ma
dove andiamo?
- Dove
vanno tutti gli altri? Prima di tutto, anderemo in istrada; e là sentiremo, e
vedremo cosa convenga di fare.
In quel
momento entrò Agnese con una gerletta sulle spalle, e in aria di chi viene a
fare una proposta importante.
Agnese,
risoluta anche lei di non aspettare ospiti di quella sorte, sola in casa,
com'era, e con ancora un po' di quell'oro dell'innominato, era stata qualche
tempo in forse del luogo dove ritirarsi. Il residuo appunto di quegli scudi,
che ne' mesi della fame le avevan fatto tanto pro, era la cagion principale
della sua angustia e della irresoluzione, per aver essa sentito che, ne' paesi
già invasi, quelli che avevan danari, s'eran trovati a più terribil condizione,
esposti insieme alla violenza degli stranieri, e all'insidie de' paesani. Era
vero che, del bene piovutole, come si dice, dal cielo, non aveva fatta la
confidenza a nessuno, fuorché a don Abbondio; dal quale andava, volta per
volta, a farsi spicciolare uno scudo, lasciandogli sempre qualcosa da dare a
qualcheduno più povero di lei. Ma i danari nascosti, specialmente chi non è
avvezzo a maneggiarne molti, tengono il possessore in un sospetto continuo del
sospetto altrui. Ora, mentre andava anch'essa rimpiattando qua e là alla meglio
ciò che non poteva portar con sé, e pensava agli scudi, che teneva cuciti nel
busto, si rammentò che, insieme con essi, l'innominato, le aveva mandate le più
larghe offerte di servizi; si rammentò le cose che aveva sentito raccontare di
quel suo castello posto in luogo così sicuro, e dove, a dispetto del padrone,
non potevano arrivar se non gli uccelli; e si risolvette d'andare a chiedere un
asilo lassù. Pensò come potrebbe farsi conoscere da quel signore, e le venne
subito in mente don Abbondio; il quale, dopo quel colloquio così fatto con
l'arcivescovo, le aveva sempre fatto festa, e tanto più di cuore, che lo poteva
senza compromettersi con nessuno, e che, essendo lontani i due giovani, era
anche lontano il caso che a lui venisse fatta una richiesta, la quale avrebbe
messa quella benevolenza a un gran cimento. Suppose che, in un tal parapiglia,
il pover'uomo doveva esser ancor più impicciato e più sbigottito di lei, e che
il partito potrebbe parer molto buono anche a lui; e glielo veniva a proporre.
Trovatolo con Perpetua, fece la proposta a tutt'e due.
- Che
ne dite, Perpetua? - domandò don Abbondio.
- Dico
che è un'ispirazione del cielo, e che non bisogna perder tempo, e mettersi la
strada tra le gambe.
- E
poi...
- E
poi, e poi, quando saremo là, ci troveremo ben contenti. Quel signore, ora si
sa che non vorrebbe altro che far servizi al prossimo; e sarà ben contento
anche lui di ricoverarci. Là, sul confine, e così per aria, soldati non ne
verrà certamente. E poi e poi, ci troveremo anche da mangiare; ché, su per i
monti, finita questa poca grazia di Dio, - e così dicendo, l'accomodava nella gerla,
sopra la biancheria, - ci saremmo trovati a mal partito.
-
Convertito, è convertito davvero, eh?
- Che
c'è da dubitarne ancora, dopo tutto quello che si sa, dopo quello che anche lei
ha veduto?
- E se
andassimo a metterci in gabbia?
- Che
gabbia? Con tutti codesti suoi casi, mi scusi, non si verrebbe mai a una
conclusione. Brava Agnese! v'è proprio venuto un buon pensiero -. E messa la
gerla sur un tavolino, passò le braccia nelle cigne, e la prese sulle spalle.
- Non
si potrebbe, - disse don Abbondio, - trovar qualche uomo che venisse con noi,
per far la scorta al suo curato? Se incontrassimo qualche birbone, che pur
troppo ce n'è in giro parecchi, che aiuto m'avete a dar voi altre?
-
Un'altra, per perder tempo! - esclamò Perpetua. - Andarlo a cercar ora l'uomo,
che ognuno ha da pensare a' fatti suoi. Animo! vada a prendere il breviario e
il cappello; e andiamo.
Don
Abbondio andò, tornò, di lì a un momento, col breviario sotto il braccio, col
cappello in capo, e col suo bordone in mano; e uscirono tutt'e tre per un
usciolino che metteva sulla piazzetta. Perpetua richiuse, più per non
trascurare una formalità, che per fede che avesse in quella toppa e in que'
battenti, e mise la chiave in tasca. Don Abbondio diede, nel passare,
un'occhiata alla chiesa, e disse tra i denti: - al popolo tocca a custodirla,
che serve a lui. Se hanno un po' di cuore per la loro chiesa, ci penseranno; se
poi non hanno cuore, tal sia di loro.
Presero
per i campi, zitti zitti, pensando ognuno a' casi suoi, e guardandosi intorno,
specialmente don Abbondio, se apparisse qualche figura sospetta, qualcosa di
straordinario. Non s'incontrava nessuno: la gente era, o nelle case a
guardarle, a far fagotto, a nascondere, o per le strade che conducevan
direttamente all'alture.
Dopo
aver sospirato e risospirato, e poi lasciato scappar qualche interiezione, don
Abbondio cominciò a brontolare più di seguito. Se la prendeva col duca di
Nevers, che avrebbe potuto stare in Francia a godersela, a fare il principe, e
voleva esser duca di Mantova a dispetto del mondo; con l'imperatore, che
avrebbe dovuto aver giudizio per gli altri, lasciar correr l'acqua all'ingiù,
non istar su tutti i puntigli: ché finalmente, lui sarebbe sempre stato
l'imperatore, fosse duca di Mantova Tizio o Sempronio. L'aveva principalmente
col governatore, a cui sarebbe toccato a far di tutto, per tener lontani i
flagelli dal paese, ed era lui che ce gli attirava: tutto per il gusto di far
la guerra. - Bisognerebbe, - diceva, - che fossero qui que' signori a vedere, a
provare, che gusto è. Hanno da rendere un bel conto! Ma intanto, ne va di mezzo
chi non ci ha colpa.
- Lasci
un po' star codesta gente; che già non son quelli che ci verranno a aiutare, -
diceva Perpetua. - Codeste, mi scusi, sono di quelle sue solite chiacchiere che
non concludon nulla. Piuttosto, quel che mi dà noia...
- Cosa
c'è?
Perpetua,
la quale, in quel pezzo di strada, aveva pensato con comodo al nascondimento
fatto in furia, cominciò a lamentarsi d'aver dimenticata la tal cosa, d'aver
mal riposta la tal altra; qui, d'aver lasciata una traccia che poteva guidare i
ladroni, là...
-
Brava! - disse don Abbondio, ormai sicuro della vita, quanto bastava per poter
angustiarsi della roba: - brava! così avete fatto? Dove avevate la testa?
- Come!
- esclamò Perpetua, fermandosi un momento su due piedi, e mettendo i pugni su'
fianchi, in quella maniera che la gerla glielo permetteva: - come! verrà ora a
farmi codesti rimproveri, quand'era lei che me la faceva andar via, la testa,
in vece d'aiutarmi e farmi coraggio! Ho pensato forse più alla roba di casa che
alla mia; non ho avuto chi mi desse una mano; ho dovuto far da Marta e
Maddalena; se qualcosa anderà a male, non so cosa mi dire: ho fatto anche più
del mio dovere.
Agnese
interrompeva questi contrasti, entrando anche lei a parlare de' suoi guai: e
non si rammaricava tanto dell'incomodo e del danno, quanto di vedere svanita la
speranza di riabbracciar presto la sua Lucia; ché, se vi rammentate, era
appunto quell'autunno sul quale avevan fatto assegnamento: né era da supporre
che donna Prassede volesse venire a villeggiare da quelle parti, in tali
circostanze: piuttosto ne sarebbe partita, se ci si fosse trovata, come facevan
tutti gli altri villeggianti.
La
vista de' luoghi rendeva ancor più vivi que' pensieri d'Agnese, e più pungente
il suo dispiacere. Usciti da' sentieri, avevan presa la strada pubblica, quella
medesima per cui la povera donna era venuta riconducendo, per così poco tempo,
a casa la figlia, dopo aver soggiornato con lei, in casa del sarto. E già si vedeva
il paese.
-
Anderemo bene a salutar quella brava gente, - disse Agnese.
- E
anche a riposare un pochino: ché di questa gerla io comincio ad averne
abbastanza; e poi per mangiare un boccone, - disse Perpetua.
- Con
patto di non perder tempo; ché non siamo in viaggio per divertimento, -
concluse don Abbondio.
Furono
ricevuti a braccia aperte, e veduti con gran piacere: rammentavano una buona
azione. Fate del bene a quanti più potete, dice qui il nostro autore; e vi
seguirà tanto più spesso d'incontrar de' visi che vi mettano allegria.
Agnese,
nell'abbracciar la buona donna, diede in un dirotto pianto, che le fu d'un gran
sollievo; e rispondeva con singhiozzi alle domande che quella e il marito le
facevan di Lucia.
- Sta
meglio di noi, - disse don Abbondio: - è a Milano, fuor de' pericoli, lontana
da queste diavolerie.
-
Scappano, eh? il signor curato e la compagnia, - disse il sarto.
-
Sicuro, - risposero a una voce il padrone e la serva.
- Li
compatisco.
- Siamo
incamminati, - disse don Abbondio; - al castello di ***.
-
L'hanno pensata bene: sicuri come in chiesa.
- E
qui, non hanno paura? - disse don Abbondio.
- Dirò,
signor curato: propriamente in ospitazione, come lei sa che si dice, a
parlar bene, qui non dovrebbero venire coloro: siam troppo fuori della loro
strada, grazie al cielo. Al più al più, qualche scappata, che Dio non voglia:
ma in ogni caso c'è tempo; s'hanno a sentir prima altre notizie da' poveri
paesi dove anderanno a fermarsi.
Si
concluse di star lì un poco a prender fiato; e, siccome era l'ora del desinare,
- signori, - disse il sarto: - devono onorare la mia povera tavola: alla buona:
ci sarà un piatto di buon viso.
Perpetua
disse d'aver con sé qualcosa da rompere il digiuno. Dopo un po' di cerimonie da
una parte e dall'altra, si venne a patti d'accozzar, come si dice, il
pentolino, e di desinare in compagnia.
I
ragazzi s'eran messi con gran festa intorno ad Agnese loro amica vecchia.
Presto, presto; il sarto ordinò a una bambina (quella che aveva portato quel
boccone a Maria vedova: chi sa se ve ne rammentate più!), che andasse a
diricciar quattro castagne primaticce, ch'eran riposte in un cantuccio: e le
mettesse a arrostire.
- E tu,
- disse a un ragazzo, - va' nell'orto, a dare una scossa al pesco, da farne
cader quattro, e portale qui: tutte, ve'. E tu, - disse a un altro, - va' sul
fico, a coglierne quattro de' più maturi. Già lo conoscete anche troppo quel
mestiere -. Lui andò a spillare una sua botticina; la donna a prendere un po'
di biancheria da tavola. Perpetua cavò fuori le provvisioni; s'apparecchiò: un
tovagliolo e un piatto di maiolica al posto d'onore, per don Abbondio, con una
posata che Perpetua aveva nella gerla. Si misero a tavola, e desinarono, se non
con grand'allegria, almeno con molta più che nessuno de' commensali si fosse
aspettato d'averne in quella giornata.
- Cosa
ne dice, signor curato, d'uno scombussolamento di questa sorte? - disse il
sarto: - mi par di leggere la storia de' mori in Francia.
- Cosa
devo dire? Mi doveva cascare addosso anche questa!
- Però,
hanno scelto un buon ricovero, - riprese quello: - chi diavolo ha a andar lassù
per forza? E troveranno compagnia: ché già s'è sentito che ci sia rifugiata
molta gente, e che ce n'arrivi tuttora.
-
Voglio sperare, - disse don Abbondio, - che saremo ben accolti. Lo conosco quel
bravo signore; e quando ho avuto un'altra volta l'onore di trovarmi con lui, fu
così compito!
- E a
me, - disse Agnese, - m'ha fatto dire dal signor monsignor illustrissimo, che,
quando avessi bisogno di qualcosa, bastava che andassi da lui.
- Gran
bella conversione! - riprese don Abbondio: - e si mantiene, n'è vero? si
mantiene.
Il
sarto si mise a parlare alla distesa della santa vita dell'innominato, e come,
dall'essere il flagello de' contorni, n'era divenuto l'esempio e il
benefattore.
- E
quella gente che teneva con sé?... tutta quella servitù?... - riprese don
Abbondio, il quale n'aveva più d'una volta sentito dir qualcosa, ma non era mai
quieto abbastanza.
-
Sfrattati la più parte, - rispose il sarto: - e quelli che son rimasti, han mutato
sistema, ma come! In somma è diventato quel castello una Tebaide: lei le sa
queste cose.
Entrò
poi a parlar con Agnese della visita del cardinale. - Grand'uomo! - diceva; -
grand'uomo! Peccato che sia passato di qui così in furia, che non ho né anche
potuto fargli un po' d'onore. Quanto sarei contento di potergli parlare
un'altra volta, un po' più con comodo.
Alzati
poi da tavola, le fece osservare una stampa rappresentante il cardinale, che
teneva attaccata a un battente d'uscio, in venerazione del personaggio, e anche
per poter dire a chiunque capitasse, che non era somigliante; giacché lui aveva
potuto esaminar da vicino e con comodo il cardinale in persona, in quella
medesima stanza.
-
L'hanno voluto far lui, con questa cosa qui? - disse Agnese. - Nel vestito gli
somiglia; ma...
- N'è
vero che non somiglia? - disse il sarto: - lo dico sempre anch'io: noi, non
c'ingannano, eh? ma, se non altro, c'è sotto il suo nome: è una memoria.
Don
Abbondio faceva fretta; il sarto s'impegnò di trovare un baroccio che li
conducesse appiè della salita; n'andò subito in cerca, e poco dopo, tornò a
dire che arrivava. Si voltò poi a don Abbondio, e gli disse: - signor curato,
se mai desiderasse di portar lassù qualche libro, per passare il tempo, da
pover'uomo posso servirla: ché anch'io mi diverto un po' a leggere. Cose non da
par suo, libri in volgare; ma però...
-
Grazie, grazie, - rispose don Abbondio: - son circostanze, che si ha appena
testa d'occuparsi di quel che è di precetto.
Mentre
si fanno e si ricusano ringraziamenti, e si barattano saluti e buoni augùri,
inviti e promesse d'un'altra fermata al ritorno, il baroccio è arrivato davanti
all'uscio di strada. Ci metton le gerle, salgon su, e principiano, con un po'
più d'agio e di tranquillità d'animo, la seconda metà del viaggio.
Il
sarto aveva detto la verità a don Abbondio, intorno all'innominato. Questo, dal
giorno che l'abbiam lasciato, aveva sempre continuato a far ciò che allora
s'era proposto, compensar danni, chieder pace, soccorrer poveri, sempre del bene
in somma, secondo l'occasione. Quel coraggio che altre volte aveva mostrato
nell'offendere e nel difendersi, ora lo mostrava nel non fare né l'una cosa né
l'altra. Andava sempre solo e senz'armi, disposto a tutto quello che gli
potesse accadere dopo tante violenze commesse, e persuaso che sarebbe
commetterne una nuova l'usar la forza in difesa di chi era debitore di tanto e
a tanti; persuaso che ogni male che gli venisse fatto, sarebbe un'ingiuria
riguardo a Dio, ma riguardo a lui una giusta retribuzione; e che dell'ingiuria,
lui meno d'ogni altro, aveva diritto di farsi punitore. Con tutto ciò, era
rimasto non meno inviolato di quando teneva armate, per la sua sicurezza, tante
braccia e il suo. La rimembranza dell'antica ferocia, e la vista della mansuetudine
presente, una, che doveva aver lasciati tanti desidèri di vendetta, l'altra,
che la rendeva tanto agevole, cospiravano in vece a procacciargli e a
mantenergli un'ammirazione, che gli serviva principalmente di salvaguardia. Era
quell'uomo che nessuno aveva potuto umiliare, e che s'era umiliato da sé. I
rancori, irritati altre volte dal suo disprezzo e dalla paura degli altri, si
dileguavano ora davanti a quella nuova umiltà: gli offesi avevano ottenuta,
contro ogni aspettativa, e senza pericolo, una soddisfazione che non avrebbero
potuta promettersi dalla più fortunata vendetta, la soddisfazione di vedere un
tal uomo pentito de' suoi torti, e partecipe, per dir così, della loro
indegnazione. Molti, il cui dispiacere più amaro e più intenso era stato per
molt'anni, di non veder probabilità di trovarsi in nessun caso più forti di
colui, per ricattarsi di qualche gran torto; incontrandolo poi solo, disarmato,
e in atto di chi non farebbe resistenza, non s'eran sentiti altro impulso che
di fargli dimostrazioni d'onore. In quell'abbassamento volontario, la sua
presenza e il suo contegno avevano acquistato, senza che lui lo sapesse, un non
so che di più alto e di più nobile; perché ci si vedeva, ancor meglio di prima,
la noncuranza d'ogni pericolo. Gli odi, anche i più rozzi e rabbiosi, si
sentivano come legati e tenuti in rispetto dalla venerazione pubblica per
l'uomo penitente e benefico. Questa era tale, che spesso quell'uomo si trovava
impicciato a schermirsi dalle dimostrazioni che gliene venivan fatte, e doveva
star attento a non lasciar troppo trasparire nel volto e negli atti il
sentimento interno di compunzione, a non abbassarsi troppo, per non esser
troppo esaltato. S'era scelto nella chiesa l'ultimo luogo; e non c'era pericolo
che nessuno glielo prendesse: sarebbe stato come usurpare un posto d'onore.
Offender poi quell'uomo, o anche trattarlo con poco riguardo, poteva parere non
tanto un'insolenza e una viltà, quanto un sacrilegio: e quelli stessi a cui
questo sentimento degli altri poteva servir di ritegno, ne partecipavano anche
loro, più o meno.
Queste
medesime ed altre cagioni, allontanavano pure da lui le vendette della forza
pubblica, e gli procuravano, anche da questa parte, la sicurezza della quale
non si dava pensiero. Il grado e le parentele, che in ogni tempo gli erano
state di qualche difesa, tanto più valevano per lui, ora che a quel nome già
illustre e infame, andava aggiunta la lode d'una condotta esemplare, la gloria
della conversione. I magistrati e i grandi s'eran rallegrati di questa, pubblicamente
come il popolo; e sarebbe parso strano l'infierire contro chi era stato
soggetto di tante congratulazioni. Oltre di ciò, un potere occupato in una
guerra perpetua, e spesso infelice, contro ribellioni vive e rinascenti, poteva
trovarsi abbastanza contento d'esser liberato dalla più indomabile e molesta,
per non andare a cercar altro: tanto più, che quella conversione produceva
riparazioni che non era avvezzo ad ottenere, e nemmeno a richiedere. Tormentare
un santo, non pareva un buon mezzo di cancellar la vergogna di non aver saputo
fare stare a dovere un facinoroso: e l'esempio che si fosse dato col punirlo,
non avrebbe potuto aver altro effetto, che di stornare i suoi simili dal
divenire inoffensivi. Probabilmente anche la parte che il cardinal Federigo
aveva avuta nella conversione, e il suo nome associato a quello del convertito,
servivano a questo come d'uno scudo sacro. E in quello stato di cose e d'idee,
in quelle singolari relazioni dell'autorità spirituale e del poter civile,
ch'eran così spesso alle prese tra loro, senza mirar mai a distruggersi, anzi
mischiando sempre alle ostilità atti di riconoscimento e proteste di deferenza,
e che, spesso pure, andavan di conserva a un fine comune, senza far mai pace,
poté parere, in certa maniera, che la riconciliazione della prima portasse con
sé l'oblivione, se non l'assoluzione del secondo, quando quella s'era sola
adoprata a produrre un effetto voluto da tutt'e due.
Così
quell'uomo sul quale, se fosse caduto, sarebbero corsi a gara grandi e piccoli
a calpestarlo; messosi volontariamente a terra, veniva risparmiato da tutti, e
inchinato da molti.
È vero
ch'eran anche molti a cui quella strepitosa mutazione dovette far tutt'altro
che piacere: tanti esecutori stipendiati di delitti, tanti compagni nel
delitto, che perdevano una così gran forza sulla quale erano avvezzi a fare
assegnamento, che anche si trovavano a un tratto rotti i fili di trame ordite
da un pezzo, nel momento forse che aspettavano la nuova dell'esecuzione. Ma già
abbiam veduto quali diversi sentimenti quella conversione facesse nascere negli
sgherri che si trovavano allora con lui, e che la sentirono annunziare dalla
sua bocca: stupore, dolore, abbattimento, stizza; un po' di tutto, fuorché
disprezzo né odio. Lo stesso accadde agli altri che teneva sparsi in diversi
posti, lo stesso a' complici di più alto affare, quando riseppero la terribile
nuova, e a tutti per le cagioni medesime. Molt'odio, come trovo nel luogo,
altrove citato, del Ripamonti, ne venne piuttosto al cardinal Federigo.
Riguardavan questo come uno che s'era mischiato ne' loro affari, per guastarli;
l'innominato aveva voluto salvar l'anima sua: nessuno aveva ragion di
lagnarsene.
Di mano
in mano poi, la più parte degli sgherri di casa, non potendo accomodarsi alla
nuova disciplina, né vedendo probabilità che s'avesse a mutare, se n'erano
andati. Chi avrà cercato altro padrone, e fors'anche tra gli antichi amici di
quello che lasciava; chi si sarà arrolato in qualche terzo, come allora
dicevano, di Spagna o di Mantova, o di qualche altra parte belligerante; chi si
sarà messo alla strada, per far la guerra a minuto, e per conto suo; chi si
sarà anche contentato d'andar birboneggiando in libertà. E il simile avranno
fatto quegli altri che stavano prima a' suoi ordini, in diversi paesi. Di
quelli poi che s'eran potuti avvezzare al nuovo tenor di vita, o che lo avevano
abbracciato volentieri, i più, nativi della valle, eran tornati ai campi, o ai
mestieri imparati nella prima età, e poi abbandonati; i forestieri eran rimasti
nel castello, come servitori: gli uni e gli altri, quasi ribenedetti nello
stesso tempo che il loro padrone, se la passavano, al par di lui, senza fare né
ricever torti, inermi e rispettati.
Ma
quando, al calar delle bande alemanne, alcuni fuggiaschi di paesi invasi o
minacciati capitarono su al castello a chieder ricovero, l'innominato, tutto
contento che quelle sue mura fossero cercate come asilo da' deboli, che per
tanto tempo le avevan guardate da lontano come un enorme spauracchio, accolse
quegli sbandati, con espressioni piuttosto di riconoscenza che di cortesia;
fece sparger la voce, che la sua casa sarebbe aperta a chiunque ci si volesse
rifugiare, e pensò subito a mettere, non solo questa, ma anche la valle, in
istato di difesa, se mai lanzichenecchi o cappelletti volessero provarsi di
venirci a far delle loro. Radunò i servitori che gli eran rimasti, pochi e
valenti, come i versi di Torti; fece loro una parlata sulla buona occasione che
Dio dava loro e a lui, d'impiegarsi una volta in aiuto del prossimo, che avevan
tanto oppresso e spaventato; e, con quel tono naturale di comando, ch'esprimeva
la certezza dell'ubbidienza, annunziò loro in generale ciò che intendeva che
facessero, e soprattutto prescrisse come dovessero contenersi, perché la gente
che veniva a ricoverarsi lassù, non vedesse in loro che amici e difensori. Fece
poi portar giù da una stanza a tetto l'armi da fuoco, da taglio, in asta, che
da un pezzo stavan lì ammucchiate, e gliele distribuì; fece dire a' suoi
contadini e affittuari della valle, che chiunque si sentiva, venisse con armi
al castello; a chi non n'aveva, ne diede; scelse alcuni, che fossero come
ufiziali, e avessero altri sotto il loro comando; assegnò i posti all'entrature
e in altri luoghi della valle, sulla salita, alle porte del castello; stabilì
l'ore e i modi di dar la muta, come in un campo, o come già s'era costumato in
quel castello medesimo, ne' tempi della sua vita disperata.
In un
canto di quella stanza a tetto, c'erano in disparte l'armi che lui solo aveva
portate; quella sua famosa carabina, moschetti, spade, spadoni, pistole,
coltellacci, pugnali, per terra, o appoggiati al muro. Nessuno de' servitori le
toccò; ma concertarono di domandare al padrone quali voleva che gli fossero
portate. - Nessuna, - rispose; e, fosse voto, fosse proposito, restò sempre
disarmato, alla testa di quella specie di guarnigione.
Nello
stesso tempo, aveva messo in moto altr'uomini e donne di servizio, o suoi
dipendenti, a preparar nel castello alloggio a quante più persone fosse possibile,
a rizzar letti, a disporre sacconi e strapunti nelle stanze, nelle sale, che
diventavan dormitòri. E aveva dato ordine di far venire provvisioni abbondanti,
per ispesare gli ospiti che Dio gli manderebbe, e i quali infatti andavan
crescendo di giorno in giorno. Lui intanto non istava mai fermo; dentro e fuori
del castello, su e giù per la salita, in giro per la valle, a stabilire, a
rinforzare, a visitar posti, a vedere, a farsi vedere, a mettere e a tenere in
regola, con le parole, con gli occhi, con la presenza. In casa, per la strada,
faceva accoglienza a quelli che arrivavano; e tutti, o lo avessero già visto, o
lo vedessero per la prima volta, lo guardavano estatici, dimenticando un
momento i guai e i timori che gli avevano spinti lassù; e si voltavano ancora a
guardarlo, quando, staccatosi da loro, seguitava la sua strada.
Quantunque
il concorso maggiore non fosse dalla parte per cui i nostri tre fuggitivi
s'avvicinavano alla valle, ma all'imboccatura opposta, con tutto ciò,
cominciarono a trovar compagni di viaggio e di sventura, che da traverse e
viottole erano sboccati o sboccavano nella strada. In circostanze simili, tutti
quelli che s'incontrano, è come se si conoscessero. Ogni volta che il baroccio
aveva raggiunto qualche pedone, si barattavan domande e risposte. Chi era
scappato, come i nostri, senza aspettar l'arrivo de' soldati; chi aveva sentiti
i tamburi o le trombe; chi gli aveva visti coloro, e li dipingeva come gli
spaventati soglion dipingere.
- Siamo
ancora fortunati, - dicevan le due donne: - ringraziamo il cielo. Vada la roba;
ma almeno siamo in salvo.
Ma don
Abbondio non trovava che ci fosse tanto da rallegrarsi; anzi quel concorso, e
più ancora il maggiore che sentiva esserci dall'altra parte, cominciava a
dargli ombra. - Oh che storia! - borbottava alle donne, in un momento che non
c'era nessuno d'intorno: - oh che storia! Non capite, che radunarsi tanta gente
in un luogo è lo stesso che volerci tirare i soldati per forza? Tutti
nascondono, tutti portan via; nelle case non resta nulla; crederanno che lassù
ci siano tesori. Ci vengono sicuro: sicuro ci vengono. Oh povero me! dove mi
sono imbarcato!
- Oh!
voglion far altro che venir lassù, - diceva Perpetua: - anche loro devono andar
per la loro strada. E poi, io ho sempre sentito dire che, ne' pericoli, è
meglio essere in molti.
- In
molti? in molti? - replicava don Abbondio: - povera donna! Non sapete che ogni
lanzichenecco ne mangia cento di costoro? E poi, se volessero far delle pazzie,
sarebbe un bel gusto, eh? di trovarsi in una battaglia. Oh povero me! Era meno
male andar su per i monti. Che abbian tutti a voler cacciarsi in un luogo!...
Seccatori! - borbottava poi, a voce più bassa: - tutti qui: e via, e via, e
via; l'uno dietro l'altro, come pecore senza ragione.
- A
questo modo, - disse Agnese, - anche loro potrebbero dir lo stesso di noi.
-
Chetatevi un po', - disse don Abbondio: - ché già le chiacchiere non servono a
nulla. Quel ch'è fatto è fatto: ci siamo, bisogna starci. Sarà quel che vorrà
la Provvidenza: il cielo ce la mandi buona.
Ma fu
ben peggio quando, all'entrata della valle, vide un buon posto d'armati, parte
sull'uscio d'una casa, e parte nelle stanze terrene: pareva una caserma. Li
guardò con la coda dell'occhio: non eran quelle facce che gli era toccato a
vedere nell'altra dolorosa sua gita, o se ce n'era di quelle, erano ben
cambiate; ma con tutto ciò, non si può dire che noia gli desse quella vista.
"Oh povero me! - pensava: - ecco se le fanno le pazzie. Già non poteva
essere altrimenti: me lo sarei dovuto aspettare da un uomo di quella qualità.
Ma cosa vuol fare? vuol far la guerra? vuol fare il re, lui? Oh povero me! In
circostanze che si vorrebbe potersi nasconder sotto terra, e costui cerca ogni
maniera di farsi scorgere, di dar nell'occhio; par che li voglia
invitare!"
- Vede
ora, signor padrone, - gli disse Perpetua, - se c'è della brava gente qui, che
ci saprà difendere. Vengano ora i soldati: qui non sono come que' nostri
spauriti, che non son buoni che a menar le gambe.
-
Zitta! - rispose, con voce bassa ma iraconda, don Abbondio: - zitta! che non
sapete quel che vi dite. Pregate il cielo che abbian fretta i soldati, o che
non vengano a sapere le cose che si fanno qui, e che si mette all'ordine questo
luogo come una fortezza. Non sapete che i soldati è il loro mestiere di prender
le fortezze? Non cercan altro; per loro, dare un assalto è come andare a nozze;
perché tutto quel che trovano è per loro, e passano la gente a fil di spada. Oh
povero me! Basta, vedrò se ci sarà maniera di mettersi in salvo su per queste
balze. In una battaglia non mi ci colgono oh! in una battaglia non mi ci
colgono.
- Se ha
poi paura anche d'esser difeso e aiutato... - ricominciava Perpetua; ma don
Abbondio l'interruppe aspramente, sempre però a voce bassa: - zitta! E badate
bene di non riportare questi discorsi. Ricordatevi che qui bisogna far sempre
viso ridente, e approvare tutto quello che si vede.
Alla
Malanotte, trovarono un altro picchetto d'armati, ai quali don Abbondio fece
una scappellata, dicendo intanto tra sé: "ohimè, ohimè: son proprio venuto
in un accampamento!" Qui il baroccio si fermò; ne scesero; don Abbondio
pagò in fretta, e licenziò il condottiere; e s'incamminò con le due compagne
per la salita, senza far parola. La vista di que' luoghi gli andava risvegliando
nella fantasia, e mescolando all'angosce presenti, la rimembranza di quelle che
vi aveva sofferte l'altra volta. E Agnese, la quale non gli aveva mai visti
que' luoghi, e se n'era fatta in mente una pittura fantastica che le si
rappresentava ogni volta che pensava al viaggio spaventoso di Lucia, vedendoli
ora quali eran davvero, provava come un nuovo e più vivo sentimento di quelle
crudeli memorie. - Oh signor curato! - esclamò: - a pensare che la mia povera
Lucia è passata per questa strada!
- Volete
stare zitta? donna senza giudizio! - le gridò in un orecchio don Abbondio: -
son discorsi codesti da farsi qui? Non sapete che siamo in casa sua? Fortuna
che ora nessun vi sente; ma se parlate in questa maniera...
- Oh! -
disse Agnese: - ora che è santo...!
- State
zitta, - le replicò don Abbondio: - credete voi che ai santi si possa dire,
senza riguardo, tutto ciò che passa per la mente? Pensate piuttosto a
ringraziarlo del bene che v'ha fatto.
- Oh!
per questo, ci avevo già pensato: che crede che non le sappia un pochino le
creanze?
- La
creanza è di non dir le cose che posson dispiacere, specialmente a chi non è
avvezzo a sentirne. E intendetela bene tutt'e due, che qui non è luogo da far
pettegolezzi, e da dir tutto quello che vi può venire in testa. E casa d'un
gran signore, già lo sapete: vedete che compagnia c'è d'intorno: ci vien gente
di tutte le sorte; sicché, giudizio, se potete: pesar le parole, e soprattutto
dirne poche, e solo quando c'è necessità: ché a stare zitti non si sbaglia mai.
- Fa
peggio lei con tutte codeste sue... - riprendeva Perpetua.
Ma: -
zitta! - gridò sottovoce don Abbondio, e insieme si levò il cappello in fretta,
e fece un profondo inchino: ché, guardando in su, aveva visto l'innominato
scender verso di loro. Anche questo aveva visto e riconosciuto don Abbondio; e
affrettava il passo per andargli incontro.
-
Signor curato, - disse, quando gli fu vicino, - avrei voluto offrirle la mia
casa in miglior occasione; ma, a ogni modo, son ben contento di poterle esser
utile in qualche cosa.
-
Confidato nella gran bontà di vossignoria illustrissima, - rispose don
Abbondio, - mi son preso l'ardire di venire, in queste triste circostanze, a
incomodarla: e, come vede vossignoria illustrissima, mi son preso anche la
libertà di menar compagnia. Questa è la mia governante...
-
Benvenuta, - disse l'innominato.
- E
questa, - continuò don Abbondio, - è una donna a cui vossignoria ha già fatto
del bene: la madre di quella... di quella...
- Di
Lucia, - disse Agnese.
- Di
Lucia! - esclamò l'innominato, voltandosi, con la testa bassa, ad Agnese. - Del
bene, io! Dio immortale! Voi, mi fate del bene, a venir qui... da me... in
questa casa. Siate la benvenuta. Voi ci portate la benedizione.
- Oh
giusto! - disse Agnese: - vengo a incomodarla. Anzi, - continuò,
avvicinandosegli all'orecchio, - ho anche a ringraziarla...
L'innominato
troncò quelle parole, domandando premurosamente le nuove di Lucia; e sapute che
l'ebbe, si voltò per accompagnare al castello i nuovi ospiti, come fece,
malgrado la loro resistenza cerimoniosa. Agnese diede al curato un'occhiata che
voleva dire: veda un poco se c'è bisogno che lei entri di mezzo tra noi due a
dar pareri.
- Sono
arrivati alla sua parrocchia? - gli domandò l'innominato.
- No,
signore, che non gli ho voluti aspettare que' diavoli, - rispose don Abbondio.
- Sa il cielo se avrei potuto uscir vivo dalle loro mani, e venire a incomodare
vossignoria illustrissima.
- Bene,
si faccia coraggio, - riprese l'innominato: - ché ora è in sicuro. Quassù non
verranno; e se si volessero provare, siam pronti a riceverli.
-
Speriamo che non vengano, - disse don Abbondio. - E sento, - soggiunse,
accennando col dito i monti che chiudevano la valle di rimpetto, - sento che,
anche da quella parte, giri un'altra masnada di gente, ma... ma...
- E
vero, - rispose l'innominato: - ma non dubiti, che siam pronti anche per loro.
"Tra
due fuochi, - diceva tra sé don Abbondio: - proprio tra due fuochi. Dove mi son
lasciato tirare! e da due pettegole! E costui par proprio che ci sguazzi
dentro! Oh che gente c'è a questo mondo!"
Entrati
nel castello, il signore fece condurre Agnese e Perpetua in una stanza del
quartiere assegnato alle donne, che occupava tre lati del secondo cortile,
nella parte posteriore dell'edifizio situata sur un masso sporgente e isolato,
a cavaliere a un precipizio. Gli uomini alloggiavano ne' lati dell'altro
cortile a destra e a sinistra, e in quello che rispondeva sulla spianata. Il
corpo di mezzo, che separava i due cortili, e dava passaggio dall'uno
all'altro, per un vasto andito di rimpetto alla porta principale, era in parte
occupato dalle provvisioni, e in parte doveva servir di deposito per la roba
che i rifugiati volessero mettere in salvo lassù. Nel quartiere degli uomini,
c'erano alcune camere destinate agli ecclesiastici che potessero capitare.
L'innominato v'accompagnò in persona don Abbondio, che fu il primo a prenderne
il possesso.
Ventitre
o ventiquattro giorni stettero i nostri fuggitivi nel castello, in mezzo a un
movimento continuo, in una gran compagnia, e che ne' primi tempi, andò sempre
crescendo; ma senza che accadesse nulla di straordinario. Non passò forse
giorno, che non si desse all'armi. Vengon lanzichenecchi di qua; si son veduti
cappelletti di là. A ogni avviso, l'innominato mandava uomini a esplorare; e,
se faceva bisogno, prendeva con sé della gente che teneva sempre pronta a ciò,
e andava con essa fuor della valle, dalla parte dov'era indicato il pericolo.
Ed era cosa singolare, vedere una schiera d'uomini armati da capo a piedi, e
schierati come una truppa, condotti da un uomo senz'armi. Le più volte non
erano che foraggieri e saccheggiatori sbandati, che se n'andavano prima d'esser
sorpresi. Ma una volta, cacciando alcuni di costoro, per insegnar loro a non
venir più da quelle parti, l'innominato ricevette avviso che un paesetto vicino
era invaso e messo a sacco. Erano lanzichenecchi di vari corpi che, rimasti
indietro per rubare, s'eran riuniti, e andavano a gettarsi all'improvviso sulle
terre vicine a quelle dove alloggiava l'esercito; spogliavano gli abitanti, e
gliene facevan di tutte le sorte. L'innominato fece un breve discorso a' suoi
uomini, e li condusse al paesetto.
Arrivarono
inaspettati. I ribaldi che avevan creduto di non andar che alla preda,
vedendosi venire addosso gente schierata e pronta a combattere, lasciarono il
saccheggio a mezzo, e se n'andarono in fretta, senz'aspettarsi l'uno con
l'altro, dalla parte dond'eran venuti. L'innominato gl'inseguì per un pezzo di
strada; poi, fatto far alto, stette qualche tempo aspettando, se vedesse
qualche novità; e finalmente se ne ritornò. E ripassando nel paesetto salvato,
non si potrebbe dire con quali applausi e benedizioni fosse accompagnato il
drappello liberatore e il condottiero.
Nel
castello, tra quella moltitudine, formata a caso, di persone, varie di
condizione, di costumi, di sesso e d'età, non nacque mai alcun disordine
d'importanza. L'innominato aveva messe guardie in diversi luoghi, le quali
tutte invigilavano che non seguisse nessun inconveniente, con quella premura
che ognuno metteva nelle cose di cui s'avesse a rendergli conto.
Aveva
poi pregati gli ecclesiastici, e gli uomini più autorevoli che si trovavan tra
i ricoverati, d'andare in giro e d'invigilare anche loro. E più spesso che
poteva, girava anche lui, e si faceva veder per tutto; ma, anche in sua
assenza, il ricordarsi di chi s'era in casa, serviva di freno a chi ne potesse
aver bisogno. E, del resto, era tutta gente scappata, e quindi inclinata in
generale alla quiete: i pensieri della casa e della roba, per alcuni anche di
congiunti o d'amici rimasti nel pericolo, le nuove che venivan di fuori,
abbattendo gli animi, mantenevano e accrescevano sempre più quella
disposizione.
C'era
però anche de' capi scarichi, degli uomini d'una tempra più salda e d'un
coraggio più verde, che cercavano di passar que' giorni in allegria. Avevano
abbandonate le loro case, per non esser forti abbastanza da difenderle; ma non
trovavan gusto a piangere e a sospirare sur una cosa che non c'era rimedio, né
a figurarsi e a contemplar con la fantasia il guasto che vedrebbero pur troppo
co' loro occhi. Famiglie amiche erano andate di conserva, o s'eran ritrovate
lassù, s'eran fatte amicizie nuove; e la folla s'era divisa in crocchi, secondo
gli umori e l'abitudini. Chi aveva danari e discrezione, andava a desinare giù
nella valle, dove in quella circostanza, s'eran rizzate in fretta osterie: in
alcune, i bocconi erano alternati co' sospiri, e non era lecito parlar d'altro
che di sciagure: in altre, non si rammentavan le sciagure, se non per dire che
non bisognava pensarci. A chi non poteva o non voleva farsi le spese, si
distribuiva nel castello pane, minestra e vino: oltre alcune tavole ch'eran
servite ogni giorno, per quelli che il padrone vi aveva espressamente invitati;
e i nostri eran di questo numero.
Agnese
e Perpetua, per non mangiare il pane a ufo, avevan voluto essere impiegate ne'
servizi che richiedeva una così grande ospitalità; e in questo spendevano una
buona parte della giornata; il resto nel chiacchierare con certe amiche che
s'eran fatte, o col povero don Abbondio. Questo non aveva nulla da fare, ma non
s'annoiava però; la paura gli teneva compagnia. La paura proprio d'un assalto,
credo che la gli fosse passata, o se pur gliene rimaneva, era quella che gli
dava meno fastidio; perché, pensandoci appena appena, doveva capire quanto poco
fosse fondata. Ma l'immagine del paese circonvicino inondato, da una parte e
dall'altra, da soldatacci, le armi e gli armati che vedeva sempre in giro, un
castello, quel castello, il pensiero di tante cose che potevan nascere ogni
momento in tali circostanze, tutto gli teneva addosso uno spavento indistinto,
generale, continuo; lasciando stare il rodìo che gli dava il pensare alla sua
povera casa. In tutto il tempo che stette in quell'asilo, non se ne discostò
mai quanto un tiro di schioppo, né mai mise piede sulla discesa: l'unica sua
passeggiata era d'uscire sulla spianata, e d'andare, quando da una parte e
quando dall'altra del castello, a guardar giù per le balze e per i burroni, per
istudiare se ci fosse qualche passo un po' praticabile, qualche po' di
sentiero, per dove andar cercando un nascondiglio in caso d'un serra serra. A
tutti i suoi compagni di rifugio faceva gran riverenze o gran saluti, ma
bazzicava con pochissimi: la sua conversazione più frequente era con le due
donne, come abbiam detto; con loro andava a fare i suoi sfoghi, a rischio che
talvolta gli fosse dato sulla voce da Perpetua, e che lo svergognasse anche
Agnese. A tavola poi, dove stava poco e parlava pochissimo, sentiva le nuove del
terribile passaggio, le quali arrivavano ogni giorno, o di paese in paese e di
bocca in bocca, o portate lassù da qualcheduno, che da principio aveva voluto
restarsene a casa, e scappava in ultimo, senza aver potuto salvar nulla, e a un
bisogno anche malconcio: e ogni giorno c'era qualche nuova storia di sciagura.
Alcuni, novellisti di professione, raccoglievan diligentemente tutte le voci,
abburattavan tutte le relazioni, e ne davan poi il fiore agli altri. Si
disputava quali fossero i reggimenti più indiavolati, se fosse peggio la
fanteria o la cavalleria; si ripetevano, il meglio che si poteva, certi nomi di
condottieri; d'alcuni si raccontavan l'imprese passate, si specificavano le
stazioni e le marce: quel giorno, il tale reggimento si spandeva ne' tali
paesi, domani anderebbe addosso ai tali altri, dove intanto il tal altro faceva
il diavolo e peggio. Sopra tutto si cercava d'aver informazione, e si teneva il
conto de' reggimenti che passavan di mano in mano il ponte di Lecco, perché
quelli si potevano considerar come andati, e fuori veramente del paese. Passano
i cavalli di Wallenstein, passano i fanti di Merode, passano i cavalli di
Anhalt, passano i fanti di Brandeburgo, e poi i cavalli di Montecuccoli, e poi
quelli di Ferrari; passa Altringer, passa Furstenberg, passa Colloredo; passano
i Croati, passa Torquato Conti, passano altri e altri; quando piacque al cielo,
passò anche Galasso, che fu l'ultimo. Lo squadron volante de' veneziani finì
d'allontanarsi anche lui; e tutto il paese, a destra e a sinistra, si trovò
libero. Già quelli delle terre invase e sgombrate le prime, eran partiti dal
castello; e ogni giorno ne partiva: come, dopo un temporale d'autunno, si vede
dai palchi fronzuti d'un grand'albero uscire da ogni parte gli uccelli che ci
s'erano riparati. Credo che i nostri tre fossero gli ultimi ad andarsene; e ciò
per volere di don Abbondio, il quale temeva, se si tornasse subito a casa, di
trovare ancora in giro lanzichenecchi rimasti indietro sbrancati, in coda
all'esercito. Perpetua ebbe un bel dire che, quanto più s'indugiava, tanto più
si dava agio ai birboni del paese d'entrare in casa a portar via il resto;
quando si trattava d'assicurar la pelle, era sempre don Abbondio che la
vinceva; meno che l'imminenza del pericolo non gli avesse fatto perdere affatto
la testa.
Il
giorno fissato per la partenza, l'innominato fece trovar pronta alla Malanotte
una carrozza, nella quale aveva già fatto mettere un corredo di biancheria per
Agnese. E tiratala in disparte, le fece anche accettare un gruppetto di scudi,
per riparare al guasto che troverebbe in casa; quantunque, battendo la mano sul
petto, essa andasse ripetendo che ne aveva lì ancora de' vecchi.
-
Quando vedrete quella vostra buona, povera Lucia... - le disse in ultimo: - già
son certo che prega per me, poiché le ho fatto tanto male: ditele adunque ch'io
la ringrazio, e confido in Dio, che la sua preghiera tornerà anche in tanta
benedizione per lei.
Volle
poi accompagnar tutti e tre gli ospiti, fino alla carrozza. I ringraziamenti
umili e sviscerati di don Abbondio e i complimenti di Perpetua, se gl'immagini
il lettore. Partirono; fecero, secondo il fissato, una fermatina, ma senza
neppur mettersi a sedere, nella casa del sarto, dove sentirono raccontar cento
cose del passaggio: la solita storia di ruberie, di percosse, di sperpero, di
sporchizie: ma lì, per buona sorte, non s'eran visti lanzichenecchi.
- Ah
signor curato! - disse il sarto, dandogli di braccio a rimontare in carrozza: -
s'ha da far de' libri in istampa, sopra un fracasso di questa sorte.
Dopo
un'altra po' di strada, cominciarono i nostri viaggiatori a veder co' loro
occhi qualche cosa di quello che avevan tanto sentito descrivere: vigne
spogliate, non come dalla vendemmia, ma come dalla grandine e dalla bufera che
fossero venute in compagnia: tralci a terra, sfrondati e scompigliati;
strappati i pali, calpestato il terreno, e sparso di schegge, di foglie, di
sterpi; schiantati, scapezzati gli alberi; sforacchiate le siepi; i cancelli
portati via. Ne' paesi poi, usci sfondati, impannate lacere, paglia, cenci,
rottami d'ogni sorte, a mucchi o seminati per le strade; un'aria pesante,
zaffate di puzzo più forte che uscivan dalle case; la gente, chi a buttar fuori
porcherie, chi a raccomodar le imposte alla meglio, chi in crocchio a lamentarsi
insieme; e, al passar della carrozza, mani di qua e di là tese agli sportelli,
per chieder l'elemosina.
Con
queste immagini, ora davanti agli occhi, ora nella mente, e con l'aspettativa
di trovare altrettanto a casa loro, ci arrivarono; e trovarono infatti quello
che s'aspettavano.
Agnese
fece posare i fagotti in un canto del cortiletto, ch'era rimasto il luogo più
pulito della casa; si mise poi a spazzarla, a raccogliere e a rigovernare
quella poca roba che le avevan lasciata; fece venire un legnaiolo e un fabbro,
per riparare i guasti più grossi, e guardando poi, capo per capo, la biancheria
regalata, e contando que' nuovi ruspi, diceva tra sé: "son caduta in
piedi; sia ringraziato Iddio e la Madonna e quel buon signore: posso proprio
dire d'esser caduta in piedi".
Don
Abbondio e Perpetua entrano in casa, senza aiuto di chiavi; ogni passo che
fanno nell'andito, senton crescere un tanfo, un veleno, una peste, che li
respinge indietro; con la mano al naso, vanno all'uscio di cucina; entrano in
punta di piedi, studiando dove metterli, per iscansar più che possono la
porcheria che copre il pavimento; e dànno un'occhiata in giro. Non c'era nulla
d'intero; ma avanzi e frammenti di quel che c'era stato, lì e altrove, se ne
vedeva in ogni canto: piume e penne delle galline di Perpetua, pezzi di
biancheria, fogli de' calendari di don Abbondio, cocci di pentole e di piatti;
tutto insieme o sparpagliato. Solo nel focolare si potevan vedere i segni d'un
vasto saccheggio accozzati insieme, come molte idee sottintese, in un periodo
steso da un uomo di garbo. C'era, dico, un rimasuglio di tizzi e tizzoni
spenti, i quali mostravano d'essere stati, un bracciolo di seggiola, un piede
di tavola, uno sportello d'armadio, una panca di letto, una doga della
botticina, dove ci stava il vino che rimetteva lo stomaco a don Abbondio. Il
resto era cenere e carboni; e con que' carboni stessi, i guastatori, per
ristoro, avevano scarabocchiati i muri di figuracce, ingegnandosi, con certe
berrettine o con certe cheriche, e con certe larghe facciole, di farne de'
preti, e mettendo studio a farli orribili e ridicoli: intento che, per verità,
non poteva andar fallito a tali artisti.
- Ah
porci! - esclamò Perpetua. - Ah baroni! - esclamò don Abbondio; e, come
scappando, andaron fuori, per un altr'uscio che metteva nell'orto. Respirarono;
andaron diviato al fico; ma già prima d'arrivarci, videro la terra smossa, e
misero un grido tutt'e due insieme; arrivati, trovarono effettivamente, in vece
del morto, la buca aperta. Qui nacquero de' guai: don Abbondio cominciò a
prendersela con Perpetua, che non avesse nascosto bene: pensate se questa
rimase zitta: dopo ch'ebbero ben gridato, tutt'e due col braccio teso, e con
l'indice appuntato verso la buca, se ne tornarono insieme, brontolando. E fate
conto che per tutto trovarono a un di presso la medesima cosa. Penarono non so
quanto, a far ripulire e smorbare la casa, tanto più che, in que' giorni, era
difficile trovar aiuto; e non so quanto dovettero stare come accampati,
accomodandosi alla meglio, o alla peggio, e rifacendo a poco a poco usci,
mobili, utensili, con danari prestati da Agnese.
Per
giunta poi, quel disastro fu una semenza d'altre questioni molto noiose; perché
Perpetua, a forza di chiedere e domandare, di spiare e fiutare, venne a saper
di certo che alcune masserizie del suo padrone, credute preda o strazio de'
soldati, erano in vece sane e salve in casa di gente del paese; e tempestava il
padrone che si facesse sentire, e richiedesse il suo. Tasto più odioso non si
poteva toccare per don Abbondio; giacché la sua roba era in mano di birboni,
cioè di quella specie di persone con cui gli premeva più di stare in pace.
- Ma se
non ne voglio saper nulla di queste cose, - diceva. - Quante volte ve lo devo
ripetere, che quel che è andato è andato? Ho da esser messo anche in croce,
perché m'è stata spogliata la casa?
- Se lo
dico, - rispondeva Perpetua, - che lei si lascerebbe cavar gli occhi di testa.
Rubare agli altri è peccato, ma a lei, è peccato non rubare.
- Ma
vedete se codesti sono spropositi da dirsi! - replicava don Abbondio: - ma
volete stare zitta?
Perpetua
si chetava, ma non subito subito; e prendeva pretesto da tutto per
riprincipiare. Tanto che il pover'uomo s'era ridotto a non lamentarsi più,
quando trovava mancante qualche cosa, nel momento che ne avrebbe avuto bisogno;
perché, più d'una volta, gli era toccato a sentirsi dire: - vada a chiederlo al
tale che l'ha, e non l'avrebbe tenuto fino a quest'ora, se non avesse che fare
con un buon uomo.
Un'altra
e più viva inquietudine gli dava il sentire che giornalmente continuavano a
passar soldati alla spicciolata, come aveva troppo bene congetturato; onde
stava sempre in sospetto di vedersene capitar qualcheduno o anche una compagnia
sull'uscio, che aveva fatto raccomodare in fretta per la prima cosa, e che
teneva chiuso con gran cura; ma, per grazia del cielo, ciò non avvenne mai. Né
però questi terrori erano ancora cessati, che un nuovo ne sopraggiunse.
Ma qui
lasceremo da parte il pover'uomo: si tratta ben d'altro che di sue apprensioni
private, che de' guai d'alcuni paesi, che d'un disastro passeggiero.
La
peste che il tribunale della sanità aveva temuto che potesse entrar con le
bande alemanne nel milanese, c'era entrata davvero, come è noto; ed è noto
parimente che non si fermò qui, ma invase e spopolò una buona parte d'Italia.
Condotti dal filo della nostra storia, noi passiamo a raccontar gli avvenimenti
principali di quella calamità; nel milanese, s'intende, anzi in Milano quasi
esclusivamente: ché della città quasi esclusivamente trattano le memorie del
tempo, come a un di presso accade sempre e per tutto, per buone e per cattive
ragioni. E in questo racconto, il nostro fine non è, per dir la verità,
soltanto di rappresentar lo stato delle cose nel quale verranno a trovarsi i
nostri personaggi; ma di far conoscere insieme, per quanto si può in ristretto,
e per quanto si può da noi, un tratto di storia patria più famoso che
conosciuto.
Delle
molte relazioni contemporanee, non ce n'è alcuna che basti da sé a darne un'idea
un po' distinta e ordinata; come non ce n'è alcuna che non possa aiutare a
formarla. In ognuna di queste relazioni, senza eccettuarne quella del Ripamonti
(Josephi Ripamontii, canonici scalensis, chronistae urbis Mediolani, De
peste quae fuit anno 1630, Libri V. Mediolani, 1640, apud Malatestas.), la
quale le supera tutte, per la quantità e per la scelta de' fatti, e ancor più
per il modo d'osservarli, in ognuna sono omessi fatti essenziali, che son
registrati in altre; in ognuna ci sono errori materiali, che si posson
riconoscere e rettificare con l'aiuto di qualche altra, o di que' pochi atti
della pubblica autorità, editi e inediti, che rimangono; spesso in una si
vengono a trovar le cagioni di cui nell'altra s'eran visti, come in aria, gli
effetti. In tutte poi regna una strana confusione di tempi e di cose; è un
continuo andare e venire, come alla ventura, senza disegno generale, senza
disegno ne' particolari: carattere, del resto, de' più comuni e de' più
apparenti ne' libri di quel tempo, principalmente in quelli scritti in lingua
volgare, almeno in Italia; se anche nel resto d'Europa, i dotti lo sapranno,
noi lo sospettiamo. Nessuno scrittore d'epoca posteriore s'è proposto
d'esaminare e di confrontare quelle memorie, per ritrarne una serie concatenata
degli avvenimenti, una storia di quella peste; sicché l'idea che se ne ha
generalmente, dev'essere, di necessità, molto incerta, e un po' confusa:
un'idea indeterminata di gran mali e di grand'errori (e per verità ci fu
dell'uno e dell'altro, al di là di quel che si possa immaginare), un'idea
composta più di giudizi che di fatti, alcuni fatti dispersi, non di rado
scompagnati dalle circostanze più caratteristiche, senza distinzion di tempo,
cioè senza intelligenza di causa e d'effetto, di corso, di progressione. Noi,
esaminando e confrontando, con molta diligenza se non altro, tutte le relazioni
stampate, più d'una inedita, molti (in ragione del poco che ne rimane)
documenti, come dicono, ufiziali, abbiam cercato di farne non già quel che si
vorrebbe, ma qualche cosa che non è stato ancor fatto. Non intendiamo di
riferire tutti gli atti pubblici, e nemmeno tutti gli avvenimenti degni, in
qualche modo, di memoria. Molto meno pretendiamo di rendere inutile a chi
voglia farsi un'idea più compita della cosa, la lettura delle relazioni
originali: sentiamo troppo che forza viva, propria e, per dir così,
incomunicabile, ci sia sempre nell'opere di quel genere, comunque concepite e
condotte. Solamente abbiam tentato di distinguere e di verificare i fatti più generali
e più importanti, di disporli nell'ordine reale della loro successione, per
quanto lo comporti la ragione e la natura d'essi, d'osservare la loro
efficienza reciproca, e di dar così, per ora e finché qualchedun altro non
faccia meglio, una notizia succinta, ma sincera e continuata, di quel disastro.
Per
tutta adunque la striscia di territorio percorsa dall'esercito, s'era trovato
qualche cadavere nelle case, qualcheduno sulla strada. Poco dopo, in questo e
in quel paese, cominciarono ad ammalarsi, a morire, persone, famiglie, di mali
violenti, strani, con segni sconosciuti alla più parte de' viventi. C'era
soltanto alcuni a cui non riuscissero nuovi: que' pochi che potessero
ricordarsi della peste che, cinquantatre anni avanti, aveva desolata pure una buona
parte d'Italia, e in ispecie il milanese, dove fu chiamata, ed è tuttora, la
peste di san Carlo. Tanto è forte la carità! Tra le memorie così varie e così
solenni d'un infortunio generale, può essa far primeggiare quella d'un uomo,
perché a quest'uomo ha ispirato sentimenti e azioni più memorabili ancora de'
mali; stamparlo nelle menti, come un sunto di tutti que' guai, perché in tutti
l'ha spinto e intromesso, guida, soccorso, esempio, vittima volontaria; d'una
calamità per tutti, far per quest'uomo come un'impresa; nominarla da lui, come
una conquista, o una scoperta.
Il
protofisico Lodovico Settala, ché, non solo aveva veduta quella peste, ma n'era
stato uno de' più attivi e intrepidi, e, quantunque allor giovinissimo, de' più
riputati curatori; e che ora, in gran sospetto di questa, stava all'erta e
sull'informazioni, riferì, il 20 d'ottobre, nel tribunale della sanità, come,
nella terra di Chiuso (l'ultima del territorio di Lecco, e confinante col
bergamasco), era scoppiato indubitabilmente il contagio. Non fu per questo
presa veruna risoluzione, come si ha dal Ragguaglio del Tadino (Pag. 24.).
Ed ecco
sopraggiungere avvisi somiglianti da Lecco e da Bellano. Il tribunale allora si
risolvette e si contentò di spedire un commissario che, strada facendo,
prendesse un medico a Como, e si portasse con lui a visitare i luoghi indicati.
Tutt'e due, "o per ignoranza o per altro, si lasciorno persuadere da un
vecchio et ignorante barbiero di Bellano, che quella sorte de mali non era
Peste" (Tadino, ivi.); ma, in alcuni luoghi, effetto consueto
dell'emanazioni autunnali delle paludi, e negli altri, effetto de' disagi e
degli strapazzi sofferti, nel passaggio degli alemanni. Una tale assicurazione
fu riportata al tribunale, il quale pare che ne mettesse il cuore in pace.
Ma
arrivando senza posa altre e altre notizie di morte da diverse parti, furono
spediti due delegati a vedere e a provvedere: il Tadino suddetto, e un auditore
del tribunale. Quando questi giunsero, il male s'era già tanto dilatato, che le
prove si offrivano, senza che bisognasse andarne in cerca. Scorsero il
territorio di Lecco, la Valsassina, le coste del lago di Como, i distretti
denominati il Monte di Brianza, e la Gera d'Adda; e per tutto trovarono paesi
chiusi da cancelli all'entrature, altri quasi deserti, e gli abitanti scappati
e attendati alla campagna, o dispersi: "et ci parevano, - dice il Tadino,
- tante creature seluatiche, portando in mano chi l'herba menta, chi la ruta,
chi il rosmarino et chi una ampolla d'aceto". S'informarono del numero de'
morti: era spaventevole; visitarono infermi e cadaveri, e per tutto trovarono
le brutte e terribili marche della pestilenza. Diedero subito, per lettere,
quelle sinistre nuove al tribunale della sanità, il quale, al riceverle, che fu
il 30 d'ottobre, "si dispose", dice il medesimo Tadino, a prescriver
le bullette, per chiuder fuori dalla Città le persone provenienti da' paesi
dove il contagio s'era manifestato; "et mentre si compilaua la
grida", ne diede anticipatamente qualche ordine sommario a' gabellieri.
Intanto
i delegati presero in fretta e in furia quelle misure che parver loro migliori;
e se ne tornarono, con la trista persuasione che non sarebbero bastate a
rimediare e a fermare un male già tanto avanzato e diffuso.
Arrivati
il 14 di novembre, dato ragguaglio, a voce e di nuovo in iscritto, al
tribunale, ebbero da questo commissione di presentarsi al governatore, e
d'esporgli lo stato delle cose. V'andarono, e riportarono: aver lui di tali
nuove provato molto dispiacere, mostratone un gran sentimento; ma i pensieri
della guerra esser più pressanti: sed belli graviores esse curas. Così
il Ripamonti, il quale aveva spogliati i registri della Sanità, e conferito col
Tadino, incaricato specialmente della missione: era la seconda, se il lettore
se ne ricorda, per quella causa, e con quell'esito. Due o tre giorni dopo, il
18 di novembre, emanò il governatore una grida, in cui ordinava pubbliche
feste, per la nascita del principe Carlo, primogenito del re Filippo IV, senza
sospettare o senza curare il pericolo d'un gran concorso, in tali circostanze:
tutto come in tempi ordinari, come se non gli fosse stato parlato di nulla.
Era
quest'uomo, come già s'è detto, il celebre Ambrogio Spinola, mandato per
raddirizzar quella guerra e riparare agli errori di don Gonzalo, e
incidentemente, a governare; e noi pure possiamo qui incidentemente rammentar
che morì dopo pochi mesi, in quella stessa guerra che gli stava tanto a cuore;
e morì, non già di ferite sul campo, ma in letto, d'affanno e di struggimento,
per rimproveri, torti, disgusti d'ogni specie ricevuti da quelli a cui serviva.
La storia ha deplorata la sua sorte, e biasimata l'altrui sconoscenza; ha
descritte con molta diligenza le sue imprese militari e politiche, lodata la
sua previdenza, l'attività, la costanza: poteva anche cercare cos'abbia fatto
di tutte queste qualità, quando la peste minacciava, invadeva una popolazione
datagli in cura, o piuttosto in balìa.
Ma ciò
che, lasciando intero il biasimo, scema la maraviglia di quella sua condotta,
ciò che fa nascere un'altra e più forte maraviglia, è la condotta della
popolazione medesima, di quella, voglio dire, che, non tocca ancora dal
contagio, aveva tanta ragion di temerlo. All'arrivo di quelle nuove de' paesi
che n'erano così malamente imbrattati, di paesi che formano intorno alla città
quasi un semicircolo, in alcuni punti distante da essa non più di diciotto o
venti miglia; chi non crederebbe che vi si suscitasse un movimento generale, un
desiderio di precauzioni bene o male intese, almeno una sterile inquietudine?
Eppure, se in qualche cosa le memorie di quel tempo vanno d'accordo, è
nell'attestare che non ne fu nulla. La penuria dell'anno antecedente, le
angherie della soldatesca, le afflizioni d'animo, parvero più che bastanti a
render ragione della mortalità: sulle piazze, nelle botteghe, nelle case, chi
buttasse là una parola del pericolo, chi motivasse peste, veniva accolto con
beffe incredule, con disprezzo iracondo. La medesima miscredenza, la medesima,
per dir meglio, cecità e fissazione prevaleva nel senato, nel Consiglio de'
decurioni, in ogni magistrato.
Trovo
che il cardinal Federigo, appena si riseppero i primi casi di mal contagioso,
prescrisse, con lettera pastorale a' parrochi, tra le altre cose, che
ammonissero più e più volte i popoli dell'importanza e dell'obbligo stretto di
rivelare ogni simile accidente, e di consegnar le robe infette o sospette (Vita
di Federigo Borromeo, compilata da Francesco Rivola. Milano, 1666, pag. 582.):
e anche questa può essere contata tra le sue lodevoli singolarità.
Il
tribunale della sanità chiedeva, implorava cooperazione, ma otteneva poco o
niente. E nel tribunale stesso, la premura era ben lontana da uguagliare
l'urgenza: erano, come afferma più volte il Tadino, e come appare ancor meglio
da tutto il contesto della sua relazione, i due fisici che, persuasi della
gravità e dell'imminenza del pericolo, stimolavan quel corpo, il quale aveva
poi a stimolare gli altri.
Abbiam
già veduto come, al primo annunzio della peste, andasse freddo nell'operare,
anzi nell'informarsi: ecco ora un altro fatto di lentezza non men portentosa,
se però non era forzata, per ostacoli frapposti da magistrati superiori. Quella
grida per le bullette, risoluta il 30 d'ottobre, non fu stesa che il dì 23 del
mese seguente, non fu pubblicata che il 29. La peste era già entrata in Milano.
Il
Tadino e il Ripamonti vollero notare il nome di chi ce la portò il primo, e
altre circostanze della persona e del caso: e infatti, nell'osservare i
princìpi d'una vasta mortalità, in cui le vittime, non che esser distinte per
nome, appena si potranno indicare all'incirca, per il numero delle migliaia,
nasce una non so quale curiosità di conoscere que' primi e pochi nomi che
poterono essere notati e conservati: questa specie di distinzione, la precedenza
nell'esterminio, par che faccian trovare in essi, e nelle particolarità, per
altro più indifferenti, qualche cosa di fatale e di memorabile.
L'uno e
l'altro storico dicono che fu un soldato italiano al servizio di Spagna; nel
resto non sono ben d'accordo, neppur sul nome. Fu, secondo il Tadino, un Pietro
Antonio Lovato, di quartiere nel territorio di Lecco; secondo il Ripamonti, un
Pier Paolo Locati, di quartiere a Chiavenna. Differiscono anche nel giorno
della sua entrata in Milano: il primo la mette al 22 d'ottobre, il secondo ad
altrettanti del mese seguente: e non si può stare né all'uno né all'altro.
Tutt'e due l'epoche sono in contraddizione con altre ben più verificate. Eppure
il Ripamonti, scrivendo per ordine del Consiglio generale de' decurioni, doveva
avere al suo comando molti mezzi di prender l'informazioni necessarie; e il
Tadino, per ragione del suo impiego, poteva, meglio d'ogn'altro, essere
informato d'un fatto di questo genere. Del resto, dal riscontro d'altre date
che ci paiono, come abbiam detto, più esatte, risulta che fu, prima della
pubblicazione della grida sulle bullette; e, se ne mettesse conto, si potrebbe
anche provare o quasi provare, che dovette essere ai primi di quel mese; ma
certo, il lettore ce ne dispensa.
Sia
come si sia, entrò questo fante sventurato e portator di sventura, con un gran
fagotto di vesti comprate o rubate a soldati alemanni; andò a fermarsi in una
casa di suoi parenti, nel borgo di porta orientale, vicino ai cappuccini;
appena arrivato, s'ammalò; fu portato allo spedale; dove un bubbone che gli si
scoprì sotto un'ascella, mise chi lo curava in sospetto di ciò ch'era infatti;
il quarto giorno morì.
Il
tribunale della sanità fece segregare e sequestrare in casa la di lui famiglia;
i suoi vestiti e il letto in cui era stato allo spedale, furon bruciati. Due
serventi che l'avevano avuto in cura, e un buon frate che l'aveva assistito,
caddero anch'essi ammalati in pochi giorni, tutt'e tre di peste. Il dubbio che
in quel luogo s'era avuto, fin da principio, della natura del male, e le
cautele usate in conseguenza, fecero sì che il contagio non vi si propagasse di
più.
Ma il
soldato ne aveva lasciato di fuori un seminìo che non tardò a germogliare. Il
primo a cui s'attaccò, fu il padrone della casa dove quello aveva alloggiato,
un Carlo Colonna sonator di liuto. Allora tutti i pigionali di quella casa
furono, d'ordine della Sanità, condotti al lazzeretto, dove la più parte
s'ammalarono; alcuni morirono, dopo poco tempo, di manifesto contagio.
Nella
città, quello che già c'era stato disseminato da costoro, da' loro panni, da'
loro mobili trafugati da parenti, da pigionali, da persone di servizio, alle
ricerche e al fuoco prescritto dal tribunale, e di più quello che c'entrava di
nuovo, per l'imperfezion degli editti, per la trascuranza nell'eseguirli, e per
la destrezza nell'eluderli, andò covando e serpendo lentamente, tutto il
restante dell'anno, e ne' primi mesi del susseguente 1630. Di quando in quando,
ora in questo, ora in quel quartiere, a qualcheduno s'attaccava, qualcheduno ne
moriva: e la radezza stessa de' casi allontanava il sospetto della verità,
confermava sempre più il pubblico in quella stupida e micidiale fiducia che non
ci fosse peste, né ci fosse stata neppure un momento. Molti medici ancora, facendo
eco alla voce del popolo (era, anche in questo caso, voce di Dio?), deridevan
gli augùri sinistri, gli avvertimenti minacciosi de' pochi; e avevan pronti
nomi di malattie comuni, per qualificare ogni caso di peste che fossero
chiamati a curare; con qualunque sintomo, con qualunque segno fosse comparso.
Gli
avvisi di questi accidenti, quando pur pervenivano alla Sanità, ci pervenivano
tardi per lo più e incerti. Il terrore della contumacia e del lazzeretto
aguzzava tutti gl'ingegni: non si denunziavan gli ammalati, si corrompevano i
becchini e i loro soprintendenti; da subalterni del tribunale stesso, deputati
da esso a visitare i cadaveri, s'ebbero, con danari, falsi attestati.
Siccome
però, a ogni scoperta che gli riuscisse fare, il tribunale ordinava di bruciar
robe, metteva in sequestro case, mandava famiglie al lazzeretto, così è facile
argomentare quanta dovesse essere contro di esso l'ira e la mormorazione del
pubblico, "della Nobiltà, delli Mercanti et della plebe", dice il
Tadino; persuasi, com'eran tutti, che fossero vessazioni senza motivo, e senza
costrutto. L'odio principale cadeva sui due medici; il suddetto Tadino, e
Senatore Settala, figlio del protofisico: a tal segno, che ormai non potevano
attraversar le piazze senza essere assaliti da parolacce, quando non eran
sassi. E certo fu singolare, e merita che ne sia fatta memoria, la condizione
in cui, per qualche mese, si trovaron quegli uomini, di veder venire avanti un
orribile flagello, d'affaticarsi in ogni maniera a stornarlo, d'incontrare
ostacoli dove cercavano aiuti, e d'essere insieme bersaglio delle grida, avere
il nome di nemici della patria: pro patriae hostibus, dice il Ripamonti.
Di
quell'odio ne toccava una parte anche agli altri medici che, convinti come
loro, della realtà del contagio, suggerivano precauzioni, cercavano di
comunicare a tutti la loro dolorosa certezza. I più discreti li tacciavano di
credulità e d'ostinazione: per tutti gli altri, era manifesta impostura, cabala
ordita per far bottega sul pubblico spavento.
Il protofisico
Lodovico Settala, allora poco men che ottuagenario, stato professore di
medicina all'università di Pavia, poi di filosofia morale a Milano, autore di
molte opere riputatissime allora, chiaro per inviti a cattedre d'altre
università, Ingolstadt, Pisa, Bologna, Padova, e per il rifiuto di tutti questi
inviti, era certamente uno degli uomini più autorevoli del suo tempo. Alla
riputazione della scienza s'aggiungeva quella della vita, e all'ammirazione la
benevolenza, per la sua gran carità nel curare e nel beneficare i poveri. E,
una cosa che in noi turba e contrista il sentimento di stima ispirato da questi
meriti, ma che allora doveva renderlo più generale e più forte, il pover'uomo
partecipava de' pregiudizi più comuni e più funesti de' suoi contemporanei: era
più avanti di loro, ma senza allontanarsi dalla schiera, che è quello che
attira i guai, e fa molte volte perdere l'autorità acquistata in altre maniere.
Eppure quella grandissima che godeva, non solo non bastò a vincere, in questo
caso, l'opinion di quello che i poeti chiamavan volgo profano, e i capocomici,
rispettabile pubblico; ma non poté salvarlo dall'animosità e dagl'insulti di
quella parte di esso che corre più facilmente da' giudizi alle dimostrazioni e
ai fatti.
Un
giorno che andava in bussola a visitare i suoi ammalati, principiò a
radunarglisi intorno gente, gridando esser lui il capo di coloro che volevano
per forza che ci fosse la peste; lui che metteva in ispavento la città, con
quel suo cipiglio, con quella sua barbaccia: tutto per dar da fare ai medici.
La folla e il furore andavan crescendo: i portantini, vedendo la mala parata,
ricoverarono il padrone in una casa d'amici, che per sorte era vicina. Questo
gli toccò per aver veduto chiaro, detto ciò che era, e voluto salvar dalla
peste molte migliaia di persone: quando, con un suo deplorabile consulto,
cooperò a far torturare, tanagliare e bruciare, come strega, una povera
infelice sventurata, perché il suo padrone pativa dolori strani di stomaco, e
un altro padrone di prima era stato fortemente innamorato di lei (Storia di
Milano del Conte Pietro Verri; Milano, 1825, Tom. 4, pag. 155.), allora ne avrà
avuta presso il pubblico nuova lode di sapiente e, ciò che è intollerabile a
pensare, nuovo titolo di benemerito.
Ma sul
finire del mese di marzo, cominciarono, prima nel borgo di porta orientale, poi
in ogni quartiere della città, a farsi frequenti le malattie, le morti, con
accidenti strani di spasimi, di palpitazioni, di letargo, di delirio, con
quelle insegne funeste di lividi e di bubboni; morti per lo più celeri,
violente, non di rado repentine, senza alcun indizio antecedente di malattia. I
medici opposti alla opinion del contagio, non volendo ora confessare ciò che
avevan deriso, e dovendo pur dare un nome generico alla nuova malattia,
divenuta troppo comune e troppo palese per andarne senza, trovarono quello di
febbri maligne, di febbri pestilenti: miserabile transazione, anzi trufferia di
parole, e che pur faceva gran danno; perché, figurando di riconoscere la
verità, riusciva ancora a non lasciar credere ciò che più importava di credere,
di vedere, che il male s'attaccava per mezzo del contatto. I magistrati, come
chi si risente da un profondo sonno, principiarono a dare un po' più orecchio
agli avvisi, alle proposte della Sanità, a far eseguire i suoi editti, i
sequestri ordinati, le quarantene prescritte da quel tribunale. Chiedeva esso
di continuo anche danari per supplire alle spese giornaliere, crescenti, del
lazzeretto, di tanti altri servizi; e li chiedeva ai decurioni, intanto che
fosse deciso (che non fu, credo, mai, se non col fatto) se tali spese
toccassero alla città, o all'erario regio. Ai decurioni faceva pure istanza il
gran cancelliere, per ordine anche del governatore, ch'era andato di nuovo a
metter l'assedio a quel povero Casale; faceva istanza il senato, perché
pensassero alla maniera di vettovagliar la città, prima che dilatandovisi per
isventura il contagio, le venisse negato pratica dagli altri paesi; perché
trovassero il mezzo di mantenere una gran parte della popolazione, a cui eran
mancati i lavori. I decurioni cercavano di far danari per via d'imprestiti,
d'imposte; e di quel che ne raccoglievano, ne davano un po' alla Sanità, un po'
a' poveri; un po' di grano compravano: supplivano a una parte del bisogno. E le
grandi angosce non erano ancor venute.
Nel
lazzeretto, dove la popolazione, quantunque decimata ogni giorno, andava ogni
giorno crescendo, era un'altra ardua impresa quella d'assicurare il servizio e
la subordinazione, di conservar le separazioni prescritte, di mantenervi in
somma o, per dir meglio, di stabilirvi il governo ordinato dal tribunale della
sanità: ché, fin da' primi momenti, c'era stata ogni cosa in confusione, per la
sfrenatezza di molti rinchiusi, per la trascuratezza e per la connivenza de'
serventi. Il tribunale e i decurioni, non sapendo dove battere il capo,
pensaron di rivolgersi ai cappuccini, e supplicarono il padre commissario della
provincia, il quale faceva le veci del provinciale, morto poco prima, acciò
volesse dar loro de' soggetti abili a governare quel regno desolato. Il
commissario propose loro, per principale, un padre Felice Casati, uomo d'età
matura, il quale godeva una gran fama di carità, d'attività, di mansuetudine
insieme e di fortezza d'animo, a quel che il seguito fece vedere, ben meritata;
e per compagno e come ministro di lui, un padre Michele Pozzobonelli, ancor
giovine, ma grave e severo, di pensieri come d'aspetto. Furono accettati con
gran piacere; e il 30 di marzo, entrarono nel lazzeretto. Il presidente della
Sanità li condusse in giro, come per prenderne il possesso; e, convocati i
serventi e gl'impiegati d'ogni grado, dichiarò, davanti a loro, presidente di
quel luogo il padre Felice, con primaria e piena autorità. Di mano in mano poi
che la miserabile radunanza andò crescendo, v'accorsero altri cappuccini; e
furono in quel luogo soprintendenti, confessori, amministratori, infermieri,
cucinieri, guardarobi, lavandai, tutto ciò che occorresse. Il padre Felice,
sempre affaticato e sempre sollecito, girava di giorno, girava di notte, per i
portici, per le stanze, per quel vasto spazio interno, talvolta portando
un'asta, talvolta non armato che di cilizio; animava e regolava ogni cosa;
sedava i tumulti, faceva ragione alle querele, minacciava, puniva, riprendeva,
confortava, asciugava e spargeva lacrime. Prese, sul principio, la peste; ne
guarì, e si rimise, con nuova lena, alle cure di prima. I suoi confratelli ci
lasciarono la più parte la vita, e tutti con allegrezza.
Certo,
una tale dittatura era uno strano ripiego; strano come la calamità, come i
tempi; e quando non ne sapessimo altro, basterebbe per argomento, anzi per
saggio d'una società molto rozza e mal regolata, il veder che quelli a cui
toccava un così importante governo, non sapesser più farne altro che cederlo,
né trovassero a chi cederlo, che uomini, per istituto, il più alieni da ciò. Ma
è insieme un saggio non ignobile della forza e dell'abilità che la carità può
dare in ogni tempo, e in qualunque ordin di cose, il veder quest'uomini
sostenere un tal carico così bravamente. E fu bello lo stesso averlo accettato,
senz'altra ragione che il non esserci chi lo volesse, senz'altro fine che di
servire, senz'altra speranza in questo mondo, che d'una morte molto più
invidiabile che invidiata; fu bello lo stesso esser loro offerto, solo perché
era difficile e pericoloso, e si supponeva che il vigore e il sangue freddo,
così necessario e raro in que' momenti, essi lo dovevano avere. E perciò
l'opera e il cuore di que' frati meritano che se ne faccia memoria, con
ammirazione, con tenerezza, con quella specie di gratitudine che è dovuta, come
in solido, per i gran servizi resi da uomini a uomini, e più dovuta a quelli
che non se la propongono per ricompensa. "Che se questi Padri iui non si
ritrouauano, - dice il Tadino, - al sicuro tutta la Città annichilata si
trouaua; puoiché fu cosa miracolosa l'hauer questi Padri fatto in così puoco
spatio di tempo tante cose per benefitio publico, che non hauendo hauuto
agiutto, o almeno puoco dalla Città, con la sua industria et prudenza haueuano
mantenuto nel Lazeretto tante migliaia de poueri". Le persone ricoverate
in quel luogo, durante i sette mesi che il padre Felice n'ebbe il governo,
furono circa cinquantamila, secondo il Ripamonti; il quale dice con ragione,
che d'un uomo tale avrebbe dovuto ugualmente parlare, se in vece di descriver
le miserie d'una città, avesse dovuto raccontar le cose che posson farle onore.
Anche
nel pubblico, quella caparbietà di negar la peste andava naturalmente cedendo e
perdendosi, di mano in mano che il morbo si diffondeva, e si diffondeva per via
del contatto e della pratica; e tanto più quando, dopo esser qualche tempo
rimasto solamente tra' poveri, cominciò a toccar persone più conosciute. E tra
queste, come allora fu il più notato, così merita anche adesso un'espressa
menzione il protofisico Settala. Avranno almen confessato che il povero vecchio
aveva ragione? Chi lo sa? Caddero infermi di peste, lui, la moglie, due
figliuoli, sette persone di servizio. Lui e uno de' figliuoli n'usciron salvi;
il resto morì. "Questi casi, - dice il Tadino, - occorsi nella Città in
case Nobili, disposero la Nobiltà, et la plebe a pensare, et gli increduli
Medici, et la plebe ignorante et temeraria cominciò stringere le labra,
chiudere li denti, et inarcare le ciglia".
Ma
l'uscite, i ripieghi, le vendette, per dir così, della caparbietà convinta,
sono alle volte tali da far desiderare che fosse rimasta ferma e invitta, fino
all'ultimo, contro la ragione e l'evidenza: e questa fu bene una di quelle
volte. Coloro i quali avevano impugnato così risolutamente, e così a lungo, che
ci fosse vicino a loro, tra loro, un germe di male, che poteva, per mezzi
naturali, propagarsi e fare una strage; non potendo ormai negare il
propagamento di esso, e non volendo attribuirlo a que' mezzi (che sarebbe stato
confessare a un tempo un grand'inganno e una gran colpa), erano tanto più
disposti a trovarci qualche altra causa, a menar buona qualunque ne venisse
messa in campo. Per disgrazia, ce n'era una in pronto nelle idee e nelle
tradizioni comuni allora, non qui soltanto, ma in ogni parte d'Europa: arti
venefiche, operazioni diaboliche, gente congiurata a sparger la peste, per
mezzo di veleni contagiosi, di malìe. Già cose tali, o somiglianti, erano state
supposte e credute in molte altre pestilenze, e qui segnatamente, in quella di
mezzo secolo innanzi. S'aggiunga che, fin dall'anno antecedente, era venuto un
dispaccio, sottoscritto dal re Filippo IV, al governatore, per avvertirlo
ch'erano scappati da Madrid quattro francesi, ricercati come sospetti di
spargere unguenti velenosi, pestiferi: stesse all'erta, se mai coloro fossero
capitati a Milano. Il governatore aveva comunicato il dispaccio al senato e al
tribunale della sanità; né, per allora, pare che ci si badasse più che tanto.
Però, scoppiata e riconosciuta la peste, il tornar nelle menti quell'avviso
poté servir di conferma al sospetto indeterminato d'una frode scellerata; poté
anche essere la prima occasione di farlo nascere.
Ma due
fatti, l'uno di cieca e indisciplinata paura, l'altro di non so quale
cattività, furon quelli che convertirono quel sospetto indeterminato d'un
attentato possibile, in sospetto, e per molti in certezza, d'un attentato
positivo, e d'una trama reale. Alcuni, ai quali era parso di vedere, la sera
del 17 di maggio, persone in duomo andare ungendo un assito che serviva a
dividere gli spazi assegnati a' due sessi, fecero, nella notte, portar fuori
della chiesa l'assito e una quantità di panche rinchiuse in quello; quantunque
il presidente della Sanità, accorso a far la visita, con quattro persone
dell'ufizio, avendo visitato l'assito, le panche, le pile dell'acqua benedetta,
senza trovar nulla che potesse confermare l'ignorante sospetto d'un attentato
venefico, avesse, per compiacere all'immaginazioni altrui, e più tosto per
abbondare in cautela, che per bisogno, avesse, dico, deciso che bastava dar
una lavata all'assito. Quel volume di roba accatastata produsse una
grand'impressione di spavento nella moltitudine, per cui un oggetto diventa
così facilmente un argomento. Si disse e si credette generalmente che fossero
state unte in duomo tutte le panche, le pareti, e fin le corde delle campane.
Né si disse soltanto allora: tutte le memorie de' contemporanei che parlano di
quel fatto (alcune scritte molt'anni dopo), ne parlano con ugual sicurezza: e
la storia sincera di esso, bisognerebbe indovinarla, se non si trovasse in una
lettera del tribunale della sanità al governatore, che si conserva
nell'archivio detto di san Fedele; dalla quale l'abbiamo cavata, e della quale
sono le parole che abbiam messe in corsivo.
La
mattina seguente, un nuovo e più strano, più significante spettacolo colpì gli
occhi e le menti de' cittadini. In ogni parte della città, si videro le porte
delle case e le muraglie, per lunghissimi tratti, intrise di non so che
sudiceria, giallognola, biancastra, sparsavi come con delle spugne. O sia stato
un gusto sciocco di far nascere uno spavento più rumoroso e più generale, o sia
stato un più reo disegno d'accrescer la pubblica confusione, o non saprei che
altro; la cosa è attestata di maniera, che ci parrebbe men ragionevole
l'attribuirla a un sogno di molti, che al fatto d'alcuni: fatto, del resto, che
non sarebbe stato, né il primo né l'ultimo di tal genere. Il Ripamonti, che
spesso, su questo particolare dell'unzioni, deride, e più spesso deplora la
credulità popolare, qui afferma d'aver veduto quell'impiastramento, e lo
descrive (...et nos quoque ivimus visere. Maculae erant sparsim inaequaliterque
manantes, veluti si quis haustam spongia saniem adspersisset, impressissetve
parieti et ianuae passim ostiaque aedium eadem adspergine contaminata
cernebantur. Pag. 75.). Nella lettera sopraccitata, i signori della Sanità
raccontan la cosa ne' medesimi termini; parlan di visite, d'esperimenti fatti
con quella materia sopra de' cani, e senza cattivo effetto; aggiungono, esser
loro opinione, che cotale temerità sia più tosto proceduta da insolenza, che
da fine scelerato: pensiero che indica in loro, fino a quel tempo,
pacatezza d'animo bastante per non vedere ciò che non ci fosse stato. L'altre
memorie contemporanee, raccontando la cosa, accennano anche, essere stata,
sulle prime, opinion di molti, che fosse fatta per burla, per bizzarria;
nessuna parla di nessuno che la negasse; e n'avrebbero parlato certamente, se
ce ne fosse stati; se non altro, per chiamarli stravaganti. Ho creduto che non
fosse fuor di proposito il riferire e il mettere insieme questi particolari, in
parte poco noti, in parte affatto ignorati, d'un celebre delirio; perche, negli
errori e massime negli errori di molti, ciò che è più interessante e più utile
a osservarsi, mi pare che sia appunto la strada che hanno fatta, l'apparenze, i
modi con cui hanno potuto entrar nelle menti, e dominarle.
La
città già agitata ne fu sottosopra: i padroni delle case, con paglia accesa,
abbruciacchiavano gli spazi unti; i passeggieri si fermavano, guardavano,
inorridivano, fremevano. I forestieri, sospetti per questo solo, e che allora
si conoscevan facilmente al vestiario, venivano arrestati nelle strade dal
popolo, e condotti alla giustizia. Si fecero interrogatòri, esami d'arrestati,
d'arrestatori, di testimoni; non si trovò reo nessuno: le menti erano ancor
capaci di dubitare, d'esaminare, d'intendere. Il tribunale della sanità
pubblicò una grida, con la quale prometteva premio e impunità a chi mettesse in
chiaro l'autore o gli autori del fatto. Ad ogni modo non parendoci
conueniente, dicono que' signori nella citata lettera, che porta la data
del 21 di maggio, ma che fu evidentemente scritta il 19, giorno segnato nella
grida stampata, che questo delitto in qualsiuoglia modo resti impunito,
massime in tempo tanto pericoloso e sospettoso, per consolatione e quiete di
questo Popolo, e per cauare indicio del fatto, habbiamo oggi publicata grida,
etc. Nella grida stessa però, nessun cenno, almen chiaro, di quella
ragionevole e acquietante congettura, che partecipavano al governatore:
silenzio che accusa a un tempo una preoccupazione furiosa nel popolo, e in loro
una condiscendenza, tanto più biasimevole, quanto più poteva esser perniciosa.
Mentre
il tribunale cercava, molti nel pubblico, come accade, avevan già trovato.
Coloro che credevano esser quella un'unzione velenosa, chi voleva che la fosse
una vendetta di don Gonzalo Fernandez de Cordova, per gl'insulti ricevuti nella
sua partenza, chi un ritrovato del cardinal di Richelieu, per spopolar Milano,
e impadronirsene senza fatica; altri, e non si sa per quali ragioni, ne
volevano autore il conte di Collalto, Wallenstein, questo, quell'altro gentiluomo
milanese. Non mancavan, come abbiam detto, di quelli che non vedevano in quel
fatto altro che uno sciocco scherzo, e l'attribuivano a scolari, a signori, a
ufiziali che s'annoiassero all'assedio di Casale. Il non veder poi, come si
sarà temuto, che ne seguisse addirittura un infettamento, un eccidio
universale, fu probabilmente cagione che quel primo spavento s'andasse per
allora acquietando, e la cosa fosse o paresse messa in oblìo.
C'era,
del resto, un certo numero di persone non ancora persuase che questa peste ci
fosse. E perché, tanto nel lazzeretto, come per la città, alcuni pur ne
guarivano, "si diceua" (gli ultimi argomenti d'una opinione battuta
dall'evidenza son sempre curiosi a sapersi), "si diceua dalla plebe, et
ancora da molti medici partiali, non essere vera peste, perché tutti sarebbero
morti" (Tadino, pag. 93.). Per levare ogni dubbio, trovò il tribunale
della sanità un espediente proporzionato al bisogno, un modo di parlare agli
occhi, quale i tempi potevano richiederlo o suggerirlo. In una delle feste
della Pentecoste, usavano i cittadini di concorrere al cimitero di San
Gregorio, fuori di Porta Orientale, a pregar per i morti dell'altro contagio,
ch'eran sepolti là; e, prendendo dalla divozione opportunità di divertimento e
di spettacolo, ci andavano, ognuno più in gala che potesse. Era in quel giorno
morta di peste, tra gli altri, un'intera famiglia. Nell'ora del maggior
concorso, in mezzo alle carrozze, alla gente a cavallo, e a piedi, i cadaveri
di quella famiglia furono, d'ordine della Sanità, condotti al cimitero
suddetto, sur un carro, ignudi, affinché la folla potesse vedere in essi il
marchio manifesto della pestilenza. Un grido di ribrezzo, di terrore, s'alzava
per tutto dove passava il carro; un lungo mormorìo regnava dove era passato; un
altro mormorìo lo precorreva. La peste fu più creduta: ma del resto andava
acquistandosi fede da sé, ogni giorno più; e quella riunione medesima non dové
servir poco a propagarla.
In
principio dunque, non peste, assolutamente no, per nessun conto: proibito anche
di proferire il vocabolo. Poi, febbri pestilenziali: l'idea s'ammette per
isbieco in un aggettivo. Poi, non vera peste, vale a dire peste sì, ma in un
certo senso; non peste proprio, ma una cosa alla quale non si sa trovare un
altro nome. Finalmente, peste senza dubbio, e senza contrasto: ma già ci s'è
attaccata un'altra idea, l'idea del venefizio e del malefizio, la quale altera
e confonde l'idea espressa dalla parola che non si può più mandare indietro.
Non è,
credo, necessario d'esser molto versato nella storia dell'idee e delle parole,
per vedere che molte hanno fatto un simil corso. Per grazia del cielo, che non
sono molte quelle d'una tal sorte, e d'una tale importanza, e che conquistino
la loro evidenza a un tal prezzo, e alle quali si possano attaccare accessòri
d'un tal genere. Si potrebbe però, tanto nelle cose piccole, come nelle grandi,
evitare, in gran parte, quel corso così lungo e così storto, prendendo il
metodo proposto da tanto tempo, d'osservare, ascoltare, paragonare, pensare,
prima di parlare.
Ma
parlare, questa cosa così sola, è talmente più facile di tutte quell'altre
insieme, che anche noi, dico noi uomini in generale, siamo un po' da compatire.
Divenendo
sempre più difficile il supplire all'esigenze dolorose della circostanza, era
stato, il 4 di maggio, deciso nel consiglio de' decurioni, di ricorrer per
aiuto al governatore. E, il 22, furono spediti al campo due di quel corpo, che
gli rappresentassero i guai e le strettezze della città: le spese enormi, le
casse vote, le rendite degli anni avvenire impegnate, le imposte correnti non
pagate, per la miseria generale, prodotta da tante cause, e dal guasto militare
in ispecie; gli mettessero in considerazione che, per leggi e consuetudini non
interrotte, e per decreto speciale di Carlo V, le spese della peste dovevan
essere a carico del fisco: in quella del 1576 avere il governatore, marchese
d'Ayamonte, non solo sospese tutte le imposizioni camerali, ma data alla città
una sovvenzione di quaranta mila scudi della stessa Camera; chiedessero
finalmente quattro cose: che l'imposizioni fossero sospese, come s'era fatto
allora; la Camera desse danari; il governatore informasse il re, delle miserie
della città e della provincia; dispensasse da nuovi alloggiamenti militari il
paese già rovinato dai passati. Il governatore scrisse in risposta
condoglianze, e nuove esortazioni: dispiacergli di non poter trovarsi nella
città, per impiegare ogni sua cura in sollievo di quella; ma sperare che a
tutto avrebbe supplito lo zelo di que' signori: questo essere il tempo di
spendere senza risparmio, d'ingegnarsi in ogni maniera. In quanto alle
richieste espresse, proueeré en el mejor modo que el tiempo y necesidades
presentes permitieren. E sotto, un girigogolo, che voleva dire Ambrogio
Spinola, chiaro come le sue promesse. Il gran cancelliere Ferrer gli scrisse
che quella risposta era stata letta dai decurioni, con gran desconsuelo;
ci furono altre andate e venute, domande e risposte; ma non trovo che se ne
venisse a più strette conclusioni. Qualche tempo dopo, nel colmo della peste,
il governatore trasferì, con lettere patenti, la sua autorità a Ferrer
medesimo, avendo lui, come scrisse, da pensare alla guerra. La quale, sia detto
qui incidentemente, dopo aver portato via, senza parlar de' soldati, un milion
di persone, a dir poco, per mezzo del contagio, tra la Lombardia, il Veneziano,
il Piemonte, la Toscana, e una parte della Romagna; dopo aver desolati, come
s'è visto di sopra, i luoghi per cui passò, e figuratevi quelli dove fu fatta;
dopo la presa e il sacco atroce di Mantova; finì con riconoscerne tutti il
nuovo duca, per escludere il quale la guerra era stata intrapresa. Bisogna però
dire che fu obbligato a cedere al duca di Savoia un pezzo del Monferrato, della
rendita di quindici mila scudi, e a Ferrante duca di Guastalla altre terre,
della rendita di sei mila; e che ci fu un altro trattato a parte e
segretissimo, col quale il duca di Savoia suddetto cedé Pinerolo alla Francia:
trattato eseguito qualche tempo dopo, sott'altri pretesti, e a furia di
furberie.
Insieme
con quella risoluzione, i decurioni ne avevan presa un'altra: di chiedere al
cardinale arcivescovo, che si facesse una processione solenne, portando per la
città il corpo di san Carlo.
Il buon
prelato rifiutò, per molte ragioni. Gli dispiaceva quella fiducia in un mezzo
arbitrario, e temeva che, se l'effetto non avesse corrisposto, come pure
temeva, la fiducia si cambiasse in iscandolo (Memoria delle cose notabili
successe in Milano intorno al mal contaggioso l'anno 1630, ec. raccolte da D.
Pio la Croce, Milano, 1730. È tratta evidentemente da scritto inedito d'autore
vissuto al tempo della pestilenza: se pure non è una semplice edizione,
piuttosto che una nuova compilazione.). Temeva di più, che, se pur c'era di
questi untori, la processione fosse un'occasion troppo comoda al delitto: se
non ce n'era, il radunarsi tanta gente non poteva che spander sempre più il
contagio: pericolo ben più reale (Si unguenta scelerata et unctores in
urbe essent... Si non essent... Certiusque adeo malum. Ripamonti, pag 185.).
Ché il sospetto sopito dell'unzioni s'era intanto ridestato, più generale e più
furioso di prima.
S'era
visto di nuovo, o questa volta era parso di vedere, unte muraglie, porte
d'edifizi pubblici, usci di case, martelli. Le nuove di tali scoperte volavan
di bocca in bocca; e, come accade più che mai, quando gli animi son
preoccupati, il sentire faceva l'effetto del vedere. Gli animi, sempre più
amareggiati dalla presenza de' mali, irritati dall'insistenza del pericolo,
abbracciavano più volentieri quella credenza: ché la collera aspira a punire:
e, come osservò acutamente, a questo stesso proposito, un uomo d'ingegno (P.
Verri, Osservazioni sulla tortura: Scrittori italiani d'economia politica:
parte moderna, tom. 17, pag. 203.), le piace più d'attribuire i mali a una
perversità umana, contro cui possa far le sue vendette, che di riconoscerli da
una causa, con la quale non ci sia altro da fare che rassegnarsi. Un veleno
squisito, istantaneo, penetrantissimo, eran parole più che bastanti a spiegar
la violenza, e tutti gli accidenti più oscuri e disordinati del morbo. Si
diceva composto, quel veleno, di rospi, di serpenti, di bava e di materia
d'appestati, di peggio, di tutto ciò che selvagge e stravolte fantasie sapessero
trovar di sozzo e d'atroce. Vi s'aggiunsero poi le malìe, per le quali ogni
effetto diveniva possibile, ogni obiezione perdeva la forza, si scioglieva ogni
difficoltà. Se gli effetti non s'eran veduti subito dopo quella prima unzione,
se ne capiva il perché; era stato un tentativo sbagliato di venefici ancor
novizi: ora l'arte era perfezionata, e le volontà più accanite nell'infernale
proposito. Ormai chi avesse sostenuto ancora ch'era stata una burla, chi avesse
negata l'esistenza d'una trama, passava per cieco, per ostinato; se pur non
cadeva in sospetto d'uomo interessato a stornar dal vero l'attenzion del
pubblico, di complice, d'untore: il vocabolo fu ben presto comune, solenne,
tremendo. Con una tal persuasione che ci fossero untori, se ne doveva scoprire,
quasi infallibilmente: tutti gli occhi stavano all'erta; ogni atto poteva dar
gelosia. E la gelosia diveniva facilmente certezza, la certezza furore.
Due
fatti ne adduce in prova il Ripamonti, avvertendo d'averli scelti, non come i
più atroci tra quelli che seguivano giornalmente, ma perché dell'uno e
dell'altro era stato pur troppo testimonio.
Nella
chiesa di sant'Antonio, un giorno di non so quale solennità, un vecchio più che
ottuagenario, dopo aver pregato alquanto inginocchioni, volle mettersi a
sedere; e prima, con la cappa, spolverò la panca. - Quel vecchio unge le
panche! - gridarono a una voce alcune donne che vider l'atto. La gente che si
trovava in chiesa (in chiesa!), fu addosso al vecchio; lo prendon per i
capelli, bianchi com'erano; lo carican di pugni e di calci; parte lo tirano,
parte lo spingon fuori; se non lo finirono, fu per istrascinarlo, così
semivivo, alla prigione, ai giudici, alle torture. "Io lo vidi mentre lo
strascinavan così, - dice il Ripamonti: - e non ne seppi più altro: credo bene
che non abbia potuto sopravvivere più di qualche momento".
L'altro
caso (e seguì il giorno dopo) fu ugualmente strano, ma non ugualmente funesto.
Tre giovani compagni francesi, un letterato, un pittore, un meccanico, venuti
per veder l'Italia, per istudiarvi le antichità, e per cercarvi occasion di
guadagno, s'erano accostati a non so qual parte esterna del duomo, e stavan lì
guardando attentamente. Uno che passava, li vede e si ferma; gli accenna a un
altro, ad altri che arrivano: si formò un crocchio, a guardare, a tener
d'occhio coloro, che il vestiario, la capigliatura, le bisacce, accusavano di
stranieri e, quel ch'era peggio, di francesi. Come per accertarsi ch'era marmo,
stesero essi la mano a toccare. Bastò. Furono circondati, afferrati, malmenati,
spinti, a furia di percosse, alle carceri. Per buona sorte, il palazzo di
giustizia è poco lontano dal duomo; e, per una sorte ancor più felice, furon
trovati innocenti, e rilasciati.
Né tali
cose accadevan soltanto in città: la frenesia s'era propagata come il contagio.
Il viandante che fosse incontrato da de' contadini, fuor della strada maestra,
o che in quella si dondolasse a guardar in qua e in là, o si buttasse giù per
riposarsi; lo sconosciuto a cui si trovasse qualcosa di strano, di sospetto nel
volto, nel vestito, erano untori: al primo avviso di chi si fosse, al grido
d'un ragazzo, si sonava a martello, s'accorreva; gl'infelici eran tempestati di
pietre, o, presi, venivan menati, a furia di popolo, in prigione. Così il
Ripamonti medesimo. E la prigione, fino a un certo tempo, era un porto di
salvamento.
Ma i
decurioni, non disanimati dal rifiuto del savio prelato, andavan replicando le
loro istanze, che il voto pubblico secondava rumorosamente. Federigo resistette
ancor qualche tempo, cercò di convincerli; questo è quello che poté il senno
d'un uomo, contro la forza de' tempi, e l'insistenza di molti. In quello stato
d'opinioni, con l'idea del pericolo, confusa com'era allora, contrastata, ben
lontana dall'evidenza che ci si trova ora, non è difficile a capire come le sue
buone ragioni potessero, anche nella sua mente, esser soggiogate dalle cattive
degli altri. Se poi, nel ceder che fece, avesse o non avesse parte un po' di
debolezza della volontà, sono misteri del cuore umano. Certo, se in alcun caso
par che si possa dare in tutto l'errore all'intelletto, e scusarne la
coscienza, è quando si tratti di que' pochi (e questo fu ben del numero), nella
vita intera de' quali apparisca un ubbidir risoluto alla coscienza, senza
riguardo a interessi temporali di nessun genere. Al replicar dell'istanze,
cedette egli dunque, acconsentì che si facesse la processione, acconsentì di
più al desiderio, alla premura generale, che la cassa dov'eran rinchiuse le
reliquie di san Carlo, rimanesse dopo esposta, per otto giorni, sull'altar
maggiore del duomo.
Non
trovo che il tribunale della sanità, né altri, facessero rimostranza né
opposizione di sorte alcuna. Soltanto, il tribunale suddetto ordinò alcune
precauzioni che, senza riparare al pericolo, ne indicavano il timore.
Prescrisse più strette regole per l'entrata delle persone in città; e, per
assicurarne l'esecuzione, fece star chiuse le porte: come pure, affine
d'escludere, per quanto fosse possibile, dalla radunanza gli infetti e i
sospetti, fece inchiodar gli usci delle case sequestrate: le quali, per quanto
può valere, in un fatto di questa sorte, la semplice affermazione d'uno
scrittore, e d'uno scrittore di quel tempo, eran circa cinquecento
(Alleggiamento dello Stato di Milano etc. di C. G. Cavatio della Somaglia.
Milano, 1653, pag. 482.).
Tre
giorni furono spesi in preparativi: l'undici di giugno, ch'era il giorno
stabilito, la processione uscì, sull'alba, dal duomo. Andava dinanzi una lunga
schiera di popolo, donne la più parte, coperte il volto d'ampi zendali, molte
scalze, e vestite di sacco. Venivan poi l'arti, precedute da' loro gonfaloni,
le confraternite, in abiti vari di forme e di colori; poi le fraterie, poi il
clero secolare, ognuno con l'insegne del grado, e con una candela o un torcetto
in mano. Nel mezzo, tra il chiarore di più fitti lumi, tra un rumor più alto di
canti, sotto un ricco baldacchino, s'avanzava la cassa, portata da quattro
canonici, parati in gran pompa, che si cambiavano ogni tanto. Dai cristalli
traspariva il venerato cadavere, vestito di splendidi abiti pontificali, e
mitrato il teschio; e nelle forme mutilate e scomposte, si poteva ancora
distinguere qualche vestigio dell'antico sembiante, quale lo rappresentano
l'immagini, quale alcuni si ricordavan d'averlo visto e onorato in vita. Dietro
la spoglia del morto pastore (dice il Ripamonti, da cui principalmente
prendiamo questa descrizione), e vicino a lui, come di meriti e di sangue e di
dignità, così ora anche di persona, veniva l'arcivescovo Federigo. Seguiva l'altra
parte del clero; poi i magistrati, con gli abiti di maggior cerimonia; poi i
nobili, quali vestiti sfarzosamente, come a dimostrazione solenne di culto,
quali, in segno di penitenza, abbrunati, o scalzi e incappati, con la buffa sul
viso; tutti con torcetti. Finalmente una coda d'altro popolo misto.
Tutta
la strada era parata a festa; i ricchi avevan cavate fuori le suppellettili più
preziose; le facciate delle case povere erano state ornate da de' vicini
benestanti, o a pubbliche spese; dove in luogo di parati, dove sopra i parati,
c'eran de' rami fronzuti; da ogni parte pendevano quadri, iscrizioni, imprese;
su' davanzali delle finestre stavano in mostra vasi, anticaglie, rarità
diverse; per tutto lumi. A molte di quelle finestre, infermi sequestrati guardavan
la processione, e l'accompagnavano con le loro preci. L'altre strade, mute,
deserte; se non che alcuni, pur dalle finestre, tendevan l'orecchio al ronzìo
vagabondo; altri, e tra questi si videro fin delle monache, eran saliti sui
tetti, se di lì potessero veder da lontano quella cassa, il corteggio, qualche
cosa.
La
processione passò per tutti i quartieri della città: a ognuno di que'
crocicchi, o piazzette, dove le strade principali sboccan ne' borghi, e che
allora serbavano l'antico nome di carrobi, ora rimasto a uno solo, si
faceva una fermata, posando la cassa accanto alla croce che in ognuno era stata
eretta da san Carlo, nella peste antecedente, e delle quali alcune sono
tuttavia in piedi: di maniera che si tornò in duomo un pezzo dopo il mezzogiorno.
Ed ecco
che, il giorno seguente, mentre appunto regnava quella presontuosa fiducia,
anzi in molti una fanatica sicurezza che la processione dovesse aver troncata
la peste, le morti crebbero, in ogni classe, in ogni parte della città, a un
tal eccesso, con un salto così subitaneo, che non ci fu chi non ne vedesse la
causa, o l'occasione, nella processione medesima. Ma, oh forze mirabili e
dolorose d'un pregiudizio generale! non già al trovarsi insieme tante persone,
e per tanto tempo, non all'infinita moltiplicazione de' contatti fortuiti,
attribuivano i più quell'effetto; l'attribuivano alla facilità che gli untori
ci avessero trovata d'eseguire in grande il loro empio disegno. Si disse che,
mescolati nella folla, avessero infettati col loro unguento quanti più avevan
potuto. Ma siccome questo non pareva un mezzo bastante, né appropriato a una
mortalità così vasta, e così diffusa in ogni classe di persone; siccome, a quel
che pare, non era stato possibile all'occhio così attento, e pur così travedente,
del sospetto, di scorgere untumi, macchie di nessuna sorte, su' muri, né
altrove; così si ricorse, per la spiegazion del fatto, a quell'altro ritrovato,
già vecchio, e ricevuto allora nella scienza comune d'Europa, delle polveri
venefiche e malefiche; si disse che polveri tali, sparse lungo la strada, e
specialmente ai luoghi delle fermate, si fossero attaccate agli strascichi de'
vestiti, e tanto più ai piedi, che in gran numero erano quel giorno andati in
giro scalzi. "Vide pertanto, - dice uno scrittore contemporaneo (Agostino
Lampugnano; La pestilenza seguita in Milano, l'anno 1630. Milano 1634, pag.
44.), - l'istesso giorno della processione, la pietà cozzar con l'empietà, la
perfidia con la sincerità, la perdita con l'acquisto". Ed era in vece il
povero senno umano che cozzava co' fantasmi creati da sé.
Da quel
giorno, la furia del contagio andò sempre crescendo: in poco tempo, non ci fu
quasi più casa che non fosse toccata: in poco tempo la popolazione del
lazzeretto, al dir del Somaglia citato di sopra, montò da duemila a dodici
mila: più tardi, al dir di quasi tutti, arrivò fino a sedici mila. Il 4 di
luglio, come trovo in un'altra lettera de' conservatori della sanità al
governatore, la mortalità giornaliera oltrepassava i cinquecento. Più innanzi,
e nel colmo, arrivò, secondo il calcolo più comune, a mille dugento, mille
cinquecento; e a più di tremila cinquecento, se vogliam credere al Tadino. Il
quale anche afferma che, "per le diligenze fatte", dopo la peste, si
trovò la popolazion di Milano ridotta a poco più di sessantaquattro mila anime,
e che prima passava le dugento cinquanta mila. Secondo il Ripamonti, era di
sole dugento mila: de' morti, dice che ne risultava cento quaranta mila da'
registri civici, oltre quelli di cui non si poté tener conto. Altri dicon più o
meno, ma ancor più a caso.
Si
pensi ora in che angustie dovessero trovarsi i decurioni, addosso ai quali era
rimasto il peso di provvedere alle pubbliche necessità, di riparare a ciò che
c'era di riparabile in un tal disastro. Bisognava ogni giorno sostituire, ogni
giorno aumentare serventi pubblici di varie specie: monatti, apparitori,
commissari. I primi erano addetti ai servizi più penosi e pericolosi della
pestilenza: levar dalle case, dalle strade, dal lazzeretto, i cadaveri; condurli
sui carri alle fosse, e sotterrarli; portare o guidare al lazzeretto
gl'infermi, e governarli; bruciare, purgare la roba infetta e sospetta. Il
nome, vuole il Ripamonti che venga dal greco monos; Gaspare Bugatti (in
una descrizion della peste antecedente), dal latino monere; ma insieme
dubita, con più ragione, che sia parola tedesca, per esser quegli uomini
arrolati la più parte nella Svizzera e ne' Grigioni. Né sarebbe infatti assurdo
il crederlo una troncatura del vocabolo monathlich (mensuale); giacché,
nell'incertezza di quanto potesse durare il bisogno, è probabile che gli
accordi non fossero che di mese in mese. L'impiego speciale degli apparitori
era di precedere i carri, avvertendo, col suono d'un campanello, i passeggieri,
che si ritirassero. I commissari regolavano gli uni e gli altri, sotto gli
ordini immediati del tribunale della sanità. Bisognava tener fornito il
lazzeretto di medici, di chirurghi, di medicine, di vitto, di tutti gli
attrezzi d'infermeria; bisognava trovare e preparar nuovo alloggio per gli
ammalati che sopraggiungevano ogni giorno. Si fecero a quest'effetto costruire
in fretta capanne di legno e di paglia nello spazio interno del lazzeretto; se
ne piantò un nuovo, tutto di capanne, cinto da un semplice assito, e capace di contener
quattromila persone. E non bastando, ne furon decretati due altri; ci si mise
anche mano; ma, per mancanza di mezzi d'ogni genere, rimasero in tronco. I
mezzi, le persone, il coraggio, diminuivano di mano in mano che il bisogno
cresceva.
E non
solo l'esecuzione rimaneva sempre addietro de' progetti e degli ordini; non
solo, a molte necessità, pur troppo riconosciute, si provvedeva scarsamente,
anche in parole; s'arrivò a quest'eccesso d'impotenza e di disperazione, che a
molte, e delle più pietose, come delle più urgenti, non si provvedeva in
nessuna maniera. Moriva, per esempio, d'abbandono una gran quantità di bambini,
ai quali eran morte le madri di peste: la Sanità propose che s'istituisse un
ricovero per questi e per le partorienti bisognose, che qualcosa si facesse per
loro; e non poté ottener nulla. "Si doueua non di meno, - dice il Tadino,
- compatire ancora alli Decurioni della Città, li quali si trouauano afflitti,
mesti et lacerati dalla Soldatesca senza regola, et rispetto alcuno; come molto
meno nell'infelice Ducato, atteso che aggiutto alcuno, né prouisione si poteua
hauere dal Gouernatore, se non che si trouaua tempo di guerra, et bisognaua
trattar bene li Soldati" (Pag. 117.). Tanto importava il prender Casale!
Tanto par bella la lode del vincere, indipendentemente dalla cagione, dallo
scopo per cui si combatta!
Così
pure, trovandosi colma di cadaveri un'ampia, ma unica fossa, ch'era stata
scavata vicino al lazzeretto; e rimanendo, non solo in quello, ma in ogni parte
della città, insepolti i nuovi cadaveri, che ogni giorno eran di più, i
magistrati, dopo avere invano cercato braccia per il tristo lavoro, s'eran
ridotti a dire di non saper più che partito prendere. Né si vede come sarebbe
andata a finire, se non veniva un soccorso straordinario. Il presidente della
Sanità ricorse, per disperato, con le lacrime agli occhi, a que' due bravi
frati che soprintendevano al lazzeretto; e il padre Michele s'impegnò a dargli,
in capo a quattro giorni, sgombra la città di cadaveri; in capo a otto, aperte
fosse sufficienti, non solo al bisogno presente, ma a quello che si potesse
preveder di peggio nell'avvenire. Con un frate compagno, e con persone del
tribunale, dategli dal presidente, andò fuor della città, in cerca di
contadini; e, parte con l'autorità del tribunale, parte con quella dell'abito e
delle sue parole, ne raccolse circa dugento, ai quali fece scavar tre
grandissime fosse; spedì poi dal lazzeretto monatti a raccogliere i morti;
tanto che, il giorno prefisso, la sua promessa si trovò adempita.
Una
volta, il lazzeretto rimase senza medici; e, con offerte di grosse paghe e
d'onori, a fatica e non subito, se ne poté avere; ma molto men del bisogno. Fu
spesso lì lì per mancare affatto di viveri, a segno di temere che ci s'avesse a
morire anche di fame; e più d'una volta, mentre non si sapeva più dove batter
la testa per trovare il bisognevole, vennero a tempo abbondanti sussidi, per
inaspettato dono di misericordia privata: ché, in mezzo allo stordimento
generale, all'indifferenza per gli altri, nata dal continuo temer per sé, ci
furono degli animi sempre desti alla carità, ce ne furon degli altri in cui la
carità nacque al cessare d'ogni allegrezza terrena; come, nella strage e nella
fuga di molti a cui toccava di soprintendere e di provvedere, ce ne furono
alcuni, sani sempre di corpo, e saldi di coraggio al loro posto: ci furon pure
altri che, spinti dalla pietà, assunsero e sostennero virtuosamente le cure a
cui non eran chiamati per impiego.
Dove
spiccò una più generale e più pronta e costante fedeltà ai doveri difficili
della circostanza, fu negli ecclesiastici. Ai lazzeretti, nella città, non
mancò mai la loro assistenza: dove si pativa, ce n'era; sempre si videro
mescolati, confusi co' languenti, co' moribondi, languenti e moribondi qualche
volta loro medesimi; ai soccorsi spirituali aggiungevano, per quanto potessero,
i temporali; prestavano ogni servizio che richiedessero le circostanze. Più di
sessanta parrochi, della città solamente, moriron di contagio: gli otto noni,
all'incirca.
Federigo
dava a tutti, com'era da aspettarsi da lui, incitamento ed esempio. Mortagli
intorno quasi tutta la famiglia arcivescovile, e facendogli istanza parenti,
alti magistrati, principi circonvicini, che s'allontanasse dal pericolo,
ritirandosi in qualche villa, rigettò un tal consiglio, e resistette
all'istanze, con quell'animo, con cui scriveva ai parrochi: "siate
disposti ad abbandonar questa vita mortale, piuttosto che questa famiglia,
questa figliolanza nostra: andate con amore incontro alla peste, come a un
premio, come a una vita, quando ci sia da guadagnare un'anima a Cristo"
(Ripamonti, pag. 164.). Non trascurò quelle cautele che non gl'impedissero di
fare il suo dovere (sulla qual cosa diede anche istruzioni e regole al clero);
e insieme non curò il pericolo, né parve che se n'avvedesse, quando, per far
del bene, bisognava passar per quello. Senza parlare degli ecclesiastici, coi
quali era sempre per lodare e regolare il loro zelo, per eccitare chiunque di
loro andasse freddo nel lavoro, per mandarli ai posti dove altri eran morti,
volle che fosse aperto l'adito a chiunque avesse bisogno di lui. Visitava i
lazzeretti, per dar consolazione agl'infermi, e per animare i serventi;
scorreva la città, portando soccorsi ai poveri sequestrati nelle case, fermandosi
agli usci, sotto le finestre, ad ascoltare i loro lamenti, a dare in cambio
parole di consolazione e di coraggio. Si cacciò in somma e visse nel mezzo
della pestilenza, maravigliato anche lui alla fine, d'esserne uscito illeso.
Così,
ne' pubblici infortuni, e nelle lunghe perturbazioni di quel qual si sia ordine
consueto, si vede sempre un aumento, una sublimazione di virtù; ma, pur troppo,
non manca mai insieme un aumento, e d'ordinario ben più generale, di
perversità. E questo pure fu segnalato. I birboni che la peste risparmiava e
non atterriva, trovarono nella confusion comune, nel rilasciamento d'ogni forza
pubblica, una nuova occasione d'attività, e una nuova sicurezza d'impunità a un
tempo. Che anzi, l'uso della forza pubblica stessa venne a trovarsi in gran
parte nelle mani de' peggiori tra loro. All'impiego di monatti e d'apparitori
non s'adattavano generalmente che uomini sui quali l'attrattiva delle rapine e
della licenza potesse più che il terror del contagio, che ogni naturale
ribrezzo. Erano a costoro prescritte strettissime regole, intimate severissime
pene, assegnati posti, dati per superiori de' commissari, come abbiam detto;
sopra questi e quelli eran delegati in ogni quartiere, magistrati e nobili, con
l'autorità di provveder sommariamente a ogni occorrenza di buon governo. Un tal
ordin di cose camminò, e fece effetto, fino a un certo tempo; ma, crescendo,
ogni giorno, il numero di quelli che morivano, di quelli che andavan via, di
quelli che perdevan la testa, venner coloro a non aver quasi più nessuno che li
tenesse a freno; si fecero, i monatti principalmente, arbitri d'ogni cosa.
Entravano da padroni, da nemici nelle case, e, senza parlar de' rubamenti, e
come trattavano gl'infelici ridotti dalla peste a passar per tali mani, le mettevano,
quelle mani infette e scellerate, sui sani, figliuoli, parenti, mogli, mariti,
minacciando di strascinarli al lazzeretto, se non si riscattavano, o non
venivano riscattati con danari. Altre volte, mettevano a prezzo i loro servizi,
ricusando di portar via i cadaveri già putrefatti, a meno di tanti scudi. Si
disse (e tra la leggerezza degli uni e la malvagità degli altri, è ugualmente
malsicuro il credere e il non credere), si disse, e l'afferma anche il Tadino
(Pag. 102.), che monatti e apparitori lasciassero cadere apposta dai carri robe
infette, per propagare e mantenere la pestilenza, divenuta per essi un'entrata,
un regno, una festa. Altri sciagurati, fingendosi monatti, portando un
campanello attaccato a un piede, com'era prescritto a quelli, per distintivo e
per avviso del loro avvicinarsi, s'introducevano nelle case a farne di tutte le
sorte. In alcune, aperte e vote d'abitanti, o abitate soltanto da qualche
languente, da qualche moribondo, entravan ladri, a man salva, a saccheggiare:
altre venivan sorprese, invase da birri che facevan lo stesso, e anche cose
peggiori.
Del
pari con la perversità, crebbe la pazzia: tutti gli errori già dominanti più o
meno, presero dallo sbalordimento, e dall'agitazione delle menti, una forza
straordinaria, produssero effetti più rapidi e più vasti. E tutti servirono a
rinforzare e a ingrandire quella paura speciale dell'unzioni, la quale, ne'
suoi effetti, ne' suoi sfoghi, era spesso, come abbiam veduto, un'altra
perversità. L'immagine di quel supposto pericolo assediava e martirizzava gli
animi, molto più che il pericolo reale e presente. "E mentre, - dice il
Ripamonti, - i cadaveri sparsi, o i mucchi di cadaveri, sempre davanti agli
occhi, sempre tra' piedi, facevano della città tutta come un solo mortorio, c'era
qualcosa di più brutto, di più funesto, in quell'accanimento vicendevole, in
quella sfrenatezza e mostruosità di sospetti... Non del vicino soltanto si
prendeva ombra, dell'amico, dell'ospite; ma que' nomi, que' vincoli dell'umana
carità, marito e moglie, padre e figlio, fratello e fratello, eran di terrore:
e, cosa orribile e indegna a dirsi! la mensa domestica, il letto nuziale, si
temevano, come agguati, come nascondigli di venefizio".
La
vastità immaginata, la stranezza della trama turbavan tutti i giudizi,
alteravan tutte le ragioni della fiducia reciproca. Da principio, si credeva
soltanto che quei supposti untori fosser mossi dall'ambizione e dalla
cupidigia; andando avanti, si sognò, si credette che ci fosse una non so quale
voluttà diabolica in quell'ungere, un'attrattiva che dominasse le volontà. I
vaneggiamenti degl'infermi che accusavan se stessi di ciò che avevan temuto
dagli altri, parevano rivelazioni, e rendevano ogni cosa, per dir così,
credibile d'ognuno. E più delle parole, dovevan far colpo le dimostrazioni, se
accadeva che appestati in delirio andasser facendo di quegli atti che s'erano
figurati che dovessero fare gli untori: cosa insieme molto probabile, e atta a
dar miglior ragione della persuasion generale e dell'affermazioni di molti
scrittori. Così, nel lungo e tristo periodo de' processi per stregoneria, le
confessioni, non sempre estorte, degl'imputati, non serviron poco a promovere e
a mantener l'opinione che regnava intorno ad essa: ché, quando un'opinione
regna per lungo tempo, e in una buona parte del mondo, finisce a esprimersi in
tutte le maniere, a tentar tutte l'uscite, a scorrer per tutti i gradi della
persuasione; ed è difficile che tutti o moltissimi credano a lungo che una cosa
strana si faccia, senza che venga alcuno il quale creda di farla.
Tra le
storie che quel delirio dell'unzioni fece immaginare, una merita che se ne
faccia menzione, per il credito che acquistò, e per il giro che fece. Si
raccontava, non da tutti nell'istessa maniera (che sarebbe un troppo singolar
privilegio delle favole), ma a un di presso, che un tale, il tal giorno, aveva
visto arrivar sulla piazza del duomo un tiro a sei, e dentro, con altri, un
gran personaggio, con una faccia fosca e infocata, con gli occhi accesi, coi
capelli ritti, e il labbro atteggiato di minaccia. Mentre quel tale stava
intento a guardare, la carrozza s'era fermata; e il cocchiere l'aveva invitato
a salirvi; e lui non aveva saputo dir di no. Dopo diversi rigiri, erano
smontati alla porta d'un tal palazzo, dove entrato anche lui, con la compagnia,
aveva trovato amenità e orrori, deserti e giardini, caverne e sale; e in esse,
fantasime sedute a consiglio. Finalmente, gli erano state fatte vedere gran
casse di danaro, e detto che ne prendesse quanto gli fosse piaciuto, con questo
però, che accettasse un vasetto d'unguento, e andasse con esso ungendo per la
città. Ma, non avendo voluto acconsentire, s'era trovato, in un batter
d'occhio, nel medesimo luogo dove era stato preso. Questa storia, creduta qui
generalmente dal popolo, e, al dir del Ripamonti, non abbastanza derisa da
qualche uomo di peso (Apud prudentium plerosque, non sicuti debuerat irrisa. De
Peste etc., pag. 77.), girò per tutta Italia e fuori. In Germania se ne fece
una stampa: l'elettore arcivescovo di Magonza scrisse al cardinal Federigo, per
domandargli cosa si dovesse credere de' fatti maravigliosi che si raccontavan
di Milano; e n'ebbe in risposta ch'eran sogni.
D'ugual
valore, se non in tutto d'ugual natura, erano i sogni de' dotti; come
disastrosi del pari n'eran gli effetti. Vedevano, la più parte di loro,
l'annunzio e la ragione insieme de' guai in una cometa apparsa l'anno 1628, e
in una congiunzione di Saturno con Giove, "inclinando, - scrive il Tadino,
- la congiontione sodetta sopra questo anno 1630, tanto chiara, che ciascun la
poteua intendere. Mortales parat morbos,
miranda videntur". Questa
predizione, cavata, dicevano, da un libro intitolato Specchio degli
almanacchi perfetti, stampato in Torino, nel 1623, correva per le bocche di
tutti. Un'altra cometa, apparsa nel giugno dell'anno stesso della peste, si
prese per un nuovo avviso; anzi per una prova manifesta dell'unzioni. Pescavan
ne' libri, e pur troppo ne trovavano in quantità, esempi di peste, come
dicevano, manufatta: citavano Livio, Tacito, Dione, che dico? Omero e Ovidio, i
molti altri antichi che hanno raccontati o accennati fatti somiglianti: di
moderni ne avevano ancor più in abbondanza. Citavano cent'altri autori che
hanno trattato dottrinalmente, o parlato incidentemente di veleni, di malìe,
d'unti, di polveri: il Cesalpino, il Cardano, il Grevino, il Salio, il Pareo,
lo Schenchio, lo Zachia e, per finirla, quel funesto Delrio, il quale, se la
rinomanza degli autori fosse in ragione del bene e del male prodotto dalle loro
opere, dovrebb'essere uno de' più famosi; quel Delrio, le cui veglie costaron
la vita a più uomini che l'imprese di qualche conquistatore: quel Delrio, le
cui Disquisizioni Magiche (il ristretto di tutto ciò che gli uomini
avevano, fino a' suoi tempi, sognato in quella materia), divenute il testo più
autorevole, più irrefragabile, furono, per più d'un secolo, norma e impulso
potente di legali, orribili, non interrotte carnificine.
Da'
trovati del volgo, la gente istruita prendeva ciò che si poteva accomodar con
le sue idee; da' trovati della gente istruita, il volgo prendeva ciò che ne
poteva intendere, e come lo poteva; e di tutto si formava una massa enorme e
confusa di pubblica follia.
Ma ciò
che reca maggior maraviglia, è il vedere i medici, dico i medici che fin da
principio avevan creduta la peste, dico in ispecie il Tadino, il quale l'aveva
pronosticata, vista entrare, tenuta d'occhio, per dir così, nel suo progresso,
il quale aveva detto e predicato che l'era peste, e s'attaccava col contatto,
che non mettendovi riparo, ne sarebbe infettato tutto il paese, vederlo poi, da
questi effetti medesimi cavare argomento certo dell'unzioni venefiche e
malefiche; lui che in quel Carlo Colonna, il secondo che morì di peste in
Milano, aveva notato il delirio come un accidente della malattia, vederlo poi
addurre in prova dell'unzioni e della congiura diabolica, un fatto di questa
sorte: che due testimoni deponevano d'aver sentito raccontare da un loro amico
infermo, come, una notte, gli eran venute persone in camera, a esibirgli la guarigione
e danari, se avesse voluto unger le case del contorno; e come al suo rifiuto
quelli se n'erano andati, e in loro vece, era rimasto un lupo sotto il letto, e
tre gattoni sopra, "che sino al far del giorno vi dimororno" (Pag.
123, 124.). Se fosse stato uno solo che connettesse così, si dovrebbe dire che
aveva una testa curiosa; o piuttosto non ci sarebbe ragion di parlarne; ma
siccome eran molti, anzi quasi tutti, così è storia dello spirito umano, e dà
occasion d'osservare quanto una serie ordinata e ragionevole d'idee possa
essere scompigliata da un'altra serie d'idee, che ci si getti a traverso. Del
resto, quel Tadino era qui uno degli uomini più riputati del suo tempo.
Due
illustri e benemeriti scrittori hanno affermato che il cardinal Federigo dubitasse
del fatto dell'unzioni (Muratori; Del governo della peste, Modena, 1714,
pag. 117. - P. Verri; opuscolo citato, pag. 261.). Noi vorremmo poter dare a
quell'inclita e amabile memoria una lode ancor più intera, e rappresentare il
buon prelato, in questo, come in tant'altre cose, superiore alla più parte de'
suoi contemporanei, ma siamo in vece costretti di notar di nuovo in lui un
esempio della forza d'un'opinione comune anche sulle menti più nobili. S'è
visto, almeno da quel che ne dice il Ripamonti, come da principio, veramente
stesse in dubbio: ritenne poi sempre che in quell'opinione avesse gran parte la
credulità, l'ignoranza, la paura, il desiderio di scusarsi d'aver così tardi
riconosciuto il contagio, e pensato a mettervi riparo; che molto ci fosse
d'esagerato, ma insieme, che qualche cosa ci fosse di vero. Nella biblioteca
ambrosiana si conserva un'operetta scritta di sua mano intorno a quella peste;
e questo sentimento c'è accennato spesso, anzi una volta enunciato
espressamente. "Era opinion comune, - dice a un di presso, - che di questi
unguenti se ne componesse in vari luoghi, e che molte fossero l'arti di
metterlo in opera: delle quali alcune ci paion vere, altre inventate"
(Ecco le sue parole: Unguenta uero haec aiebant componi conficique multifariam,
fraudisque uias fuisse complures; quarum sane fraudum, et artium aliis quidem
assentimur, alias uero fictas fuisse comentitiasque arbitramur. De
pestilentia quae Mediolani anno 1630 magnam stragem edidit. Cap. V.).
Ci
furon però di quelli che pensarono fino alla fine, e fin che vissero, che tutto
fosse immaginazione: e lo sappiamo, non da loro, ché nessuno fu abbastanza
ardito per esporre al pubblico un sentimento così opposto a quello del
pubblico; lo sappiamo dagli scrittori che lo deridono o lo riprendono o lo
ribattono, come un pregiudizio d'alcuni, un errore che non s'attentava di
venire a disputa palese, ma che pur viveva; lo sappiamo anche da chi ne aveva
notizia per tradizione. "Ho trovato gente savia in Milano, - dice il buon
Muratori, nel luogo sopraccitato, - che aveva buone relazioni dai loro
maggiori, e non era molto persuasa che fosse vero il fatto di quegli unti
velenosi". Si vede ch'era uno sfogo segreto della verità, una confidenza
domestica: il buon senso c'era; ma se ne stava nascosto, per paura del senso
comune.
I
magistrati, scemati ogni giorno, e sempre più smarriti e confusi, tutta, per
dir così, quella poca risoluzione di cui eran capaci, l'impiegarono a cercar di
questi untori. Tra le carte del tempo della peste, che si conservano
nell'archivio nominato di sopra, c'è una lettera (senza alcun altro documento
relativo) in cui il gran cancelliere informa, sul serio e con gran premura, il
governatore d'aver ricevuto un avviso che, in una casa di campagna de' fratelli
Girolamo e Giulio Monti, gentiluomini milanesi, si componeva veleno in tanta
quantità, che quaranta uomini erano occupati en este exercicio, con
l'assistenza di quattro cavalieri bresciani, i quali facevano venir materiali
dal veneziano, para la fábrica del veneno. Soggiunge che lui aveva
preso, in gran segreto, i concerti necessari per mandar là il podestà di Milano
e l'auditore della Sanità, con trenta soldati di cavalleria; che pur troppo uno
de' fratelli era stato avvertito a tempo per poter trafugare gl'indizi del
delitto, e probabilmente dall'auditor medesimo, suo amico; e che questo trovava
delle scuse per non partire; ma che non ostante, il podestà co' soldati era
andato a reconocer la casa, y a ver si hallará algunos vestigios, e
prendere informazioni, e arrestar tutti quelli che fossero incolpati.
La cosa
dové finire in nulla, giacché gli scritti del tempo che parlano de' sospetti
che c'eran su que' gentiluomini, non citano alcun fatto. Ma pur troppo, in
un'altra occasione, si credé d'aver trovato.
I
processi che ne vennero in conseguenza, non eran certamente i primi d'un tal
genere: e non si può neppur considerarli come una rarità nella storia della
giurisprudenza. Ché, per tacere dell'antichità, e accennar solo qualcosa de'
tempi più vicini a quello di cui trattiamo, in Palermo, del 1526; in Ginevra,
del 1530, poi del 1545, poi ancora del 1574; in Casal Monferrato, del 1536; in
Padova, del 1555; in Torino, del 1599, e di nuovo, in quel medesim'anno 1630,
furon processati e condannati a supplizi, per lo più atrocissimi, dove
qualcheduno, dove molti infelici, come rei d'aver propagata la peste, con
polveri, o con unguenti, o con malìe, o con tutto ciò insieme. Ma l'affare
delle così dette unzioni di Milano, come fu il più celebre, così è fors'anche
il più osservabile; o, almeno, c'è più campo di farci sopra osservazione, per
esserne rimasti documenti più circostanziati e più autentici. E quantunque uno
scrittore lodato poco sopra se ne sia occupato, pure, essendosi lui proposto,
non tanto di farne propriamente la storia, quanto di cavarne sussidio di
ragioni, per un assunto di maggiore, o certo di più immediata importanza, c'è
parso che la storia potesse esser materia d'un nuovo lavoro. Ma non è cosa da
uscirne con poche parole; e non è qui il luogo di trattarla con l'estensione
che merita. E oltre di ciò, dopo essersi fermato su que' casi, il lettore non
si curerebbe più certamente di conoscere ciò che rimane del nostro racconto.
Serbando però a un altro scritto la storia e l'esame di quelli (V. l'opuscolo
in fine del volume.), torneremo finalmente a' nostri personaggi, per non
lasciarli più, fino alla fine.
Una
notte, verso la fine d'agosto, proprio nel colmo della peste, tornava don
Rodrigo a casa sua, in Milano, accompagnato dal fedel Griso, l'uno de' tre o
quattro che, di tutta la famiglia, gli eran rimasti vivi. Tornava da un ridotto
d'amici soliti a straviziare insieme, per passar la malinconia di quel tempo: e
ogni volta ce n'eran de' nuovi, e ne mancava de' vecchi. Quel giorno, don
Rodrigo era stato uno de' più allegri; e tra l'altre cose, aveva fatto rider
tanto la compagnia, con una specie d'elogio funebre del conte Attilio, portato
via dalla peste, due giorni prima.
Camminando
però, sentiva un mal essere, un abbattimento, una fiacchezza di gambe, una
gravezza di respiro, un'arsione interna, che avrebbe voluto attribuir solamente
al vino, alla veglia, alla stagione. Non aprì bocca, per tutta la strada; e la
prima parola, arrivati a casa, fu d'ordinare al Griso che gli facesse lume per
andare in camera. Quando ci furono, il Griso osservò il viso del padrone,
stravolto, acceso, con gli occhi in fuori, e lustri lustri; e gli stava alla
lontana: perché, in quelle circostanze, ogni mascalzone aveva dovuto acquistar,
come si dice, l'occhio medico.
- Sto
bene, ve', - disse don Rodrigo, che lesse nel fare del Griso il pensiero che
gli passava per la mente. - Sto benone; ma ho bevuto, ho bevuto forse un po'
troppo. C'era una vernaccia!... Ma, con una buona dormita, tutto se ne va. Ho
un gran sonno... Levami un po' quel lume dinanzi, che m'accieca... mi dà una
noia...!
-
Scherzi della vernaccia, - disse il Griso, tenendosi sempre alla larga. - Ma
vada a letto subito, ché il dormire le farà bene.
- Hai
ragione: se posso dormire... Del resto, sto bene. Metti qui vicino, a buon
conto, quel campanello, se per caso, stanotte avessi bisogno di qualche cosa: e
sta' attento, ve', se mai senti sonare. Ma non avrò bisogno di nulla... Porta
via presto quel maledetto lume, - riprese poi, intanto che il Griso eseguiva
l'ordine, avvicinandosi meno che poteva. - Diavolo! che m'abbia a dar tanto
fastidio!
Il
Griso prese il lume, e, augurata la buona notte al padrone, se n'andò in
fretta, mentre quello si cacciava sotto.
Ma le
coperte gli parvero una montagna. Le buttò via, e si rannicchiò, per dormire;
ché infatti moriva dal sonno. Ma, appena velato l'occhio, si svegliava con un
riscossone, come se uno, per dispetto, fosse venuto a dargli una tentennata; e
sentiva cresciuto il caldo, cresciuta la smania. Ricorreva col pensiero
all'agosto, alla vernaccia, al disordine; avrebbe voluto poter dar loro tutta
la colpa; ma a queste idee si sostituiva sempre da sé quella che allora era
associata con tutte, ch'entrava, per dir così, da tutti i sensi, che s'era
ficcata in tutti i discorsi dello stravizio, giacché era ancor più facile
prenderla in ischerzo, che passarla sotto silenzio: la peste.
Dopo un
lungo rivoltarsi, finalmente s'addormentò, e cominciò a fare i più brutti e
arruffati sogni del mondo. E d'uno in un altro, gli parve di trovarsi in una
gran chiesa, in su, in su, in mezzo a una folla; di trovarcisi, ché non sapeva
come ci fosse andato, come gliene fosse venuto il pensiero, in quel tempo
specialmente; e n'era arrabbiato. Guardava i circostanti; eran tutti visi
gialli, distrutti, con cert'occhi incantati, abbacinati, con le labbra
spenzolate; tutta gente con certi vestiti che cascavano a pezzi; e da' rotti si
vedevano macchie e bubboni. - Largo canaglia! - gli pareva di gridare,
guardando alla porta, ch'era lontana lontana, e accompagnando il grido con un
viso minaccioso, senza però moversi, anzi ristringendosi, per non toccar que'
sozzi corpi, che già lo toccavano anche troppo da ogni parte. Ma nessuno di
quegl'insensati dava segno di volersi scostare, e nemmeno d'avere inteso; anzi
gli stavan più addosso: e sopra tutto gli pareva che qualcheduno di loro, con
le gomita o con altro, lo pigiasse a sinistra, tra il cuore e l'ascella, dove
sentiva una puntura dolorosa, e come pesante. E se si storceva, per veder di
liberarsene, subito un nuovo non so che veniva a puntarglisi al luogo medesimo.
Infuriato, volle metter mano alla spada; e appunto gli parve che, per la calca,
gli fosse andata in su, e fosse il pomo di quella che lo premesse in quel
luogo; ma, mettendoci la mano, non ci trovò la spada, e sentì in vece una
trafitta più forte. Strepitava, era tutt'affannato, e voleva gridar più forte;
quando gli parve che tutti que' visi si rivolgessero a una parte. Guardò anche
lui; vide un pulpito, e dal parapetto di quello spuntar su un non so che di
convesso, liscio e luccicante; poi alzarsi e comparir distinta una testa
pelata, poi due occhi, un viso, una barba lunga e bianca, un frate ritto, fuor
del parapetto fino alla cintola, fra Cristoforo. Il quale, fulminato uno
sguardo in giro su tutto l'uditorio, parve a don Rodrigo che lo fermasse in
viso a lui, alzando insieme la mano, nell'attitudine appunto che aveva presa in
quella sala a terreno del suo palazzotto. Allora alzò anche lui la mano in
furia, fece uno sforzo, come per islanciarsi ad acchiappar quel braccio teso
per aria; una voce che gli andava brontolando sordamente nella gola, scoppiò in
un grand'urlo; e si destò. Lasciò cadere il braccio che aveva alzato davvero;
stentò alquanto a ritrovarsi, ad aprir ben gli occhi; ché la luce del giorno
già inoltrato gli dava noia, quanto quella della candela, la sera avanti;
riconobbe il suo letto, la sua camera; si raccapezzò che tutto era stato un
sogno: la chiesa, il popolo, il frate, tutto era sparito; tutto fuorché una
cosa, quel dolore dalla parte sinistra. Insieme si sentiva al cuore una
palpitazion violenta, affannosa, negli orecchi un ronzìo, un fischìo continuo,
un fuoco di dentro, una gravezza in tutte le membra, peggio di quando era
andato a letto. Esitò qualche momento, prima di guardar la parte dove aveva il
dolore; finalmente la scoprì, ci diede un'occhiata paurosa; e vide un sozzo
bubbone d'un livido paonazzo.
L'uomo
si vide perduto: il terror della morte l'invase, e, con un senso per avventura
più forte, il terrore di diventar preda de' monatti, d'esser portato, buttato
al lazzeretto. E cercando la maniera d'evitare quest'orribile sorte, sentiva i
suoi pensieri confondersi e oscurarsi, sentiva avvicinarsi il momento che non
avrebbe più testa, se non quanto bastasse per darsi alla disperazione. Afferrò
il campanello, e lo scosse con violenza. Comparve subito il Griso, il quale
stava all'erta. Si fermò a una certa distanza dal letto; guardò attentamente il
padrone, e s'accertò di quello che, la sera, aveva congetturato.
- Griso!
- disse don Rodrigo, rizzandosi stentatamente a sedere: - tu sei sempre stato
il mio fido.
- Sì,
signore.
- T'ho
sempre fatto del bene.
- Per
sua bontà.
- Di te
mi posso fidare...!
-
Diavolo!
- Sto
male, Griso.
- Me
n'ero accorto.
- Se
guarisco, ti farò del bene ancor più di quello che te n'ho fatto per il
passato.
Il
Griso non rispose nulla, e stette aspettando dove andassero a parare questi
preamboli.
- Non
voglio fidarmi d'altri che di te, - riprese don Rodrigo: - fammi un piacere,
Griso.
-
Comandi, - disse questo, rispondendo con la formola solita a quell'insolita.
- Sai
dove sta di casa il Chiodo chirurgo?
- Lo so
benissimo.
- È un
galantuomo, che, chi lo paga bene, tien segreti gli ammalati. Va' a chiamarlo:
digli che gli darò quattro, sei scudi per visita, di più, se di più ne chiede;
ma che venga qui subito; e fa' la cosa bene, che nessun se n'avveda.
- Ben
pensato, - disse il Griso: - vo e torno subito.
-
Senti, Griso: dammi prima un po' d'acqua. Mi sento un'arsione, che non ne posso
più.
- No, signore,
- rispose il Griso: - niente senza il parere del medico. Son mali bisbetici:
non c'è tempo da perdere. Stia quieto: in tre salti son qui col Chiodo.
Così
detto, uscì, raccostando l'uscio.
Don
Rodrigo, tornato sotto, l'accompagnava con l'immaginazione alla casa del
Chiodo, contava i passi, calcolava il tempo. Ogni tanto ritornava a guardare il
suo bubbone; ma voltava subito la testa dall'altra parte, con ribrezzo. Dopo
qualche tempo, cominciò a stare in orecchi, per sentire se il chirurgo arrivava:
e quello sforzo d'attenzione sospendeva il sentimento del male, e teneva in
sesto i suoi pensieri. Tutt'a un tratto, sente uno squillo lontano, ma che gli
par che venga dalle stanze, non dalla strada. Sta attento; lo sente più forte,
più ripetuto, e insieme uno stropiccìo di piedi: un orrendo sospetto gli passa
per la mente. Si rizza a sedere, e si mette ancor più attento; sente un rumor
cupo nella stanza vicina, come d'un peso che venga messo giù con riguardo;
butta le gambe fuor del letto, come per alzarsi, guarda all'uscio, lo vede
aprirsi, vede presentarsi e venire avanti due logori e sudici vestiti rossi,
due facce scomunicate, due monatti, in una parola; vede mezza la faccia del
Griso che, nascosto dietro un battente socchiuso, riman lì a spiare.
- Ah traditore
infame!... Via, canaglia! Biondino! Carlotto! aiuto! son assassinato! - grida
don Rodrigo; caccia una mano sotto il capezzale, per cercare una pistola;
l'afferra, la tira fuori; ma al primo suo grido, i monatti avevan preso la
rincorsa verso il letto; il più pronto gli è addosso, prima che lui possa far
nulla; gli strappa la pistola di mano, la getta lontano, lo butta a giacere, e
lo tien lì, gridando, con un versaccio di rabbia insieme e di scherno: - ah
birbone! contro i monatti! contro i ministri del tribunale! contro quelli che
fanno l'opere di misericordia!
-
Tienlo bene, fin che lo portiam via, - disse il compagno, andando verso uno
scrigno. E in quella il Griso entrò, e si mise con colui a scassinar la
serratura.
-
Scellerato! - urlò don Rodrigo, guardandolo per di sotto all'altro che lo
teneva, e divincolandosi tra quelle braccia forzute. - Lasciatemi ammazzar
quell'infame, - diceva quindi ai monatti, - e poi fate di me quel che volete -.
Poi ritornava a chiamar con quanta voce aveva, gli altri suoi servitori; ma era
inutile, perché l'abbominevole Griso gli aveva mandati lontano, con finti
ordini del padrone stesso, prima d'andare a fare ai monatti la proposta di
venire a quella spedizione, e divider le spoglie.
- Sta'
buono, sta' buono, - diceva allo sventurato Rodrigo l'aguzzino che lo teneva
appuntellato sul letto. E voltando poi il viso ai due che facevan bottino,
gridava: - fate le cose da galantuomini!
- Tu!
tu! - mugghiava don Rodrigo verso il Griso, che vedeva affaccendarsi a
spezzare, a cavar fuori danaro, roba, a far le parti, - Tu! dopo...! Ah diavolo
dell'inferno! Posso ancora guarire! posso guarire! - Il Griso non fiatava, e
neppure, per quanto poteva, si voltava dalla parte di dove venivan quelle
parole.
-
Tienlo forte, - diceva l'altro monatto: - è fuor di sé.
Ed era
ormai vero. Dopo un grand'urlo, dopo un ultimo e più violento sforzo per
mettersi in libertà, cadde tutt'a un tratto rifinito e stupido: guardava però
ancora, come incantato, e ogni tanto si riscoteva, o si lamentava.
I
monatti lo presero, uno per i piedi, e l'altro per le spalle, e andarono a
posarlo sur una barella che avevan lasciata nella stanza accanto; poi uno tornò
a prender la preda; quindi, alzato il miserabil peso, lo portaron via.
Il
Griso rimase a scegliere in fretta quel di più che potesse far per lui; fece di
tutto un fagotto, e se n'andò. Aveva bensì avuto cura di non toccar mai i
monatti, di non lasciarsi toccar da loro; ma, in quell'ultima furia del
frugare, aveva poi presi, vicino al letto, i panni del padrone, e gli aveva
scossi, senza pensare ad altro, per veder se ci fosse danaro. C'ebbe però a
pensare il giorno dopo, che, mentre stava gozzovigliando in una bettola, gli
vennero a un tratto de' brividi, gli s'abbagliaron gli occhi, gli mancaron le forze,
e cascò. Abbandonato da' compagni, andò in mano de' monatti, che, spogliatolo
di quanto aveva indosso di buono, lo buttarono sur un carro; sul quale spirò,
prima d'arrivare al lazzeretto, dov'era stato portato il suo padrone.
Lasciando
ora questo nel soggiorno de' guai, dobbiamo andare in cerca d'un altro, la cui
storia non sarebbe mai stata intralciata con la sua, se lui non l'avesse voluto
per forza; anzi si può dir di certo che non avrebbero avuto storia né l'uno né
l'altro: Renzo, voglio dire, che abbiam lasciato al nuovo filatoio, sotto il
nome d'Antonio Rivolta.
C'era
stato cinque o sei mesi, salvo il vero; dopo i quali, dichiarata l'inimicizia
tra la repubblica e il re di Spagna, e cessato quindi ogni timore di ricerche e
d'impegni dalla parte di qui, Bortolo s'era dato premura d'andarlo a prendere,
e di tenerlo ancora con sé, e perché gli voleva bene, e perché Renzo, come
giovine di talento, e abile nel mestiere, era, in una fabbrica, di grande aiuto
al factotum, senza poter mai aspirare a divenirlo lui, per quella
benedetta disgrazia di non saper tener la penna in mano. Siccome anche questa
ragione c'era entrata per qualche cosa, così abbiam dovuto accennarla. Forse
voi vorreste un Bortolo più ideale: non so che dire: fabbricatevelo. Quello era
così.
Renzo
era poi sempre rimasto a lavorare presso di lui. Più d'una volta, e
specialmente dopo aver ricevuta qualcheduna di quelle benedette lettere da
parte d'Agnese, gli era saltato il grillo di farsi soldato, e finirla: e
l'occasioni non mancavano; ché, appunto in quell'intervallo di tempo, la
repubblica aveva avuto bisogno di far gente. La tentazione era qualche volta
stata per Renzo tanto più forte, che s'era anche parlato d'invadere il
milanese; e naturalmente a lui pareva che sarebbe stata una bella cosa, tornare
in figura di vincitore a casa sua, riveder Lucia, e spiegarsi una volta con
lei. Ma Bortolo, con buona maniera, aveva sempre saputo smontarlo da quella
risoluzione.
- Se ci
hanno da andare, - gli diceva, - ci anderanno anche senza di te, e tu potrai
andarci dopo, con tuo comodo; se tornano col capo rotto, non sarà meglio essere
stato a casa tua? Disperati che vadano a far la strada, non ne mancherà. E,
prima che ci possan mettere i piedi...! Per me, sono eretico: costoro abbaiano;
ma sì; lo stato di Milano non è un boccone da ingoiarsi così facilmente. Si
tratta della Spagna, figliuolo mio: sai che affare è la Spagna? San Marco è
forte a casa sua; ma ci vuol altro. Abbi pazienza: non istai bene qui?... Vedo
cosa vuoi dire; ma, se è destinato lassù che la cosa riesca, sta' sicuro che, a
non far pazzie, riuscirà anche meglio. Qualche santo t'aiuterà. Credi pure che
non è mestiere per te. Ti par che convenga lasciare d'incannar seta, per andare
a ammazzare? Cosa vuoi fare con quella razza di gente? Ci vuol degli uomini
fatti apposta.
Altre
volte Renzo si risolveva d'andar di nascosto, travestito, e con un nome finto.
Ma anche da questo, Bortolo seppe svolgerlo ogni volta, con ragioni troppo
facili a indovinarsi.
Scoppiata
poi la peste nel milanese, e appunto, come abbiam detto, sul confine del
bergamasco, non tardò molto a passarlo; e... non vi sgomentate, ch'io non vi
voglio raccontar la storia anche di questa: chi la volesse, la c'è, scritta per
ordine pubblico da un certo Lorenzo Ghirardelli: libro raro però e sconosciuto,
quantunque contenga forse più roba che tutte insieme le descrizioni più celebri
di pestilenze: da tante cose dipende la celebrità de' libri! Quel ch'io volevo
dire è che Renzo prese anche lui la peste, si curò da sé, cioè non fece nulla;
ne fu in fin di morte, ma la sua buona complessione vinse la forza del male: in
pochi giorni, si trovò fuor di pericolo. Col tornar della vita, risorsero più
che mai rigogliose nell'animo suo le memorie, i desidèri, le speranze, i
disegni della vita; val a dire che pensò più che mai a Lucia. Cosa ne sarebbe
di lei, in quel tempo, che il vivere era come un'eccezione? E, a così poca
distanza, non poterne saper nulla? E rimaner, Dio sa quanto, in una tale
incertezza! E quand'anche questa si fosse poi dissipata, quando, cessato ogni
pericolo, venisse a risaper che Lucia fosse in vita; c'era sempre quell'altro
mistero, quell'imbroglio del voto. "Anderò io, anderò a sincerarmi di
tutto in una volta, - disse tra sé, e lo disse prima d'essere ancora in caso di
reggersi. - Purché sia viva! Trovarla, la troverò io; sentirò una volta da lei
proprio, cosa sia questa promessa, le farò conoscere che non può stare, e la
conduco via con me, lei e quella povera Agnese, se è viva! che m'ha sempre
voluto bene, e son sicuro che me ne vuole ancora. La cattura? eh! adesso hanno
altro da pensare, quelli che son vivi. Giran sicuri, anche qui, certa gente,
che n'hann'addosso... Ci ha a esser salvocondotto solamente per i birboni? E a
Milano, dicono tutti che l'è una confusione peggio. Se lascio scappare una
occasion così bella, - (La peste! Vedete un poco come ci fa qualche volta
adoprar le parole quel benedetto istinto di riferire e di subordinar tutto a
noi medesimi!) - non ne ritorna più una simile!"
Giova
sperare, caro il mio Renzo.
Appena
poté strascicarsi, andò in cerca di Bortolo, il quale, fino allora, aveva
potuto scansar la peste, e stava riguardato. Non gli entrò in casa, ma, datogli
una voce dalla strada, lo fece affacciare alla finestra.
- Ah
ah! - disse Bortolo: - l'hai scampata, tu. Buon per te!
- Sto
ancora un po' male in gambe, come vedi, ma, in quanto al pericolo, ne son
fuori.
- Eh!
vorrei esser io ne' tuoi piedi. A dire: sto bene, le altre volte, pareva di dir
tutto; ma ora conta poco. Chi può arrivare a dire: sto meglio; quella sì è una
bella parola!
Renzo,
fatto al cugino qualche buon augurio, gli comunicò la sua risoluzione.
- Va',
questa volta, che il cielo ti benedica, - rispose quello: - cerca di schivar la
giustizia, com'io cercherò di schivare il contagio; e, se Dio vuole che la ci
vada bene a tutt'e due, ci rivedremo.
- Oh!
torno sicuro: e se potessi non tornar solo! Basta; spero.
- Torna
pure accompagnato; chè, se Dio vuole, ci sarà da lavorar per tutti, e ci faremo
buona compagnia. Purché tu mi ritrovi, e che sia finito questo diavolo
d'influsso!
- Ci
rivedremo, ci rivedremo; ci dobbiam rivedere!
- Torno
a dire: Dio voglia!
Per
alquanti giorni, Renzo si tenne in esercizio, per esperimentar le sue forze, e
accrescerle; e appena gli parve di poter far la strada, si dispose a partire.
Si mise sotto panni una cintura, con dentro que' cinquanta scudi, che non aveva
mai intaccati, e de' quali non aveva mai fatto parola, neppur con Bortolo;
prese alcuni altri pochi quattrini, che aveva messi da parte giorno per giorno,
risparmiando su tutto; prese sotto il braccio un fagottino di panni; si mise in
tasca un benservito, che s'era fatto fare a buon conto, dal secondo padrone,
sotto il nome d'Antonio Rivolta; in un taschino de' calzoni si mise un
coltellaccio, ch'era il meno che un galantuomo potesse portare a que' tempi; e
s'avviò, agli ultimi d'agosto, tre giorni dopo che don Rodrigo era stato
portato al lazzeretto. Prese verso Lecco, volendo, per non andar così alla
cieca a Milano, passar dal suo paese, dove sperava di trovare Agnese viva, e di
cominciare a saper da lei qualcheduna delle tante cose che si struggeva di
sapere.
I pochi
guariti dalla peste erano, in mezzo al resto della popolazione, veramente come
una classe privilegiata. Una gran parte dell'altra gente languiva o moriva; e
quelli ch'erano stati fin allora illesi dal morbo, ne vivevano in continuo
timore; andavan riservati, guardinghi, con passi misurati, con visi sospettosi,
con fretta ed esitazione insieme: ché tutto poteva esser contro di loro arme di
ferita mortale. Quegli altri all'opposto, sicuri a un di presso del fatto loro
(giacché aver due volte la peste era caso piuttosto prodigioso che raro),
giravano per mezzo al contagio franchi e risoluti; come i cavalieri d'un'epoca
del medio evo, ferrati fin dove ferro ci poteva stare, e sopra palafreni
accomodati anch'essi, per quanto era fattibile, in quella maniera, andavano a
zonzo (donde quella loro gloriosa denominazione d'erranti), a zonzo e alla
ventura, in mezzo a una povera marmaglia pedestre di cittadini e di villani,
che, per ribattere e ammortire i colpi, non avevano indosso altro che cenci.
Bello, savio ed utile mestiere! mestiere, proprio, da far la prima figura in un
trattato d'economia politica.
Con una
tale sicurezza, temperata però dall'inquietudini che il lettore sa, e
contristata dallo spettacolo frequente, dal pensiero incessante della calamità
comune, andava Renzo verso casa sua, sotto un bel cielo e per un bel paese, ma
non incontrando, dopo lunghi tratti di tristissima solitudine, se non qualche
ombra vagante piuttosto che persona viva, o cadaveri portati alla fossa, senza
onor d'esequie, senza canto, senza accompagnamento. A mezzo circa della
giornata, si fermò in un boschetto, a mangiare un po' di pane e di companatico
che aveva portato con sé. Frutte, n'aveva a sua disposizione, lungo la strada,
anche più del bisogno: fichi, pesche, susine, mele, quante n'avesse volute;
bastava ch'entrasse ne' campi a coglierne, o a raccattarle sotto gli alberi,
dove ce n'era come se fosse grandinato; giacché l'anno era straordinariamente
abbondante, di frutte specialmente; e non c'era quasi chi se ne prendesse
pensiero: anche l'uve nascondevano, per dir così, i pampani, ed eran lasciate
in balìa del primo occupante.
Verso
sera, scoprì il suo paese. A quella vista, quantunque ci dovesse esser
preparato, si sentì dare come una stretta al cuore: fu assalito in un punto da
una folla di rimembranze dolorose, e di dolorosi presentimenti: gli pareva
d'aver negli orecchi que' sinistri tocchi a martello che l'avevan come
accompagnato, inseguito, quand'era fuggito da que' luoghi; e insieme sentiva,
per dir così, un silenzio di morte che ci regnava attualmente. Un turbamento
ancor più forte provò allo sboccare sulla piazzetta davanti alla chiesa; e
ancora peggio s'aspettava al termine del cammino: ché dove aveva disegnato
d'andare a fermarsi, era a quella casa ch'era stato solito altre volte di
chiamar la casa di Lucia. Ora non poteva essere, tutt'al più, che quella
d'Agnese; e la sola grazia, che sperava dal cielo era di trovarcela in vita e
in salute. E in quella casa si proponeva di chiedere alloggio, congetturando
bene che la sua non dovesse esser più abitazione che da topi e da faine.
Non
volendo farsi vedere, prese per una viottola di fuori, quella stessa per cui
era venuto in buona compagnia, quella notte così fatta, per sorprendere il
curato. A mezzo circa, c'era da una parte la vigna, e dall'altra la casetta di
Renzo; sicché, passando, potrebbe entrare un momento nell'una e nell'altra, a
vedere un poco come stesse il fatto suo.
Andando,
guardava innanzi, ansioso insieme e timoroso di veder qualcheduno; e, dopo
pochi passi, vide infatti un uomo in camicia, seduto in terra, con le spalle
appoggiate a una siepe di gelsomini, in un'attitudine d'insensato: e, a questa,
e poi anche alla fisonomia, gli parve di raffigurar quel povero mezzo scemo di
Gervaso ch'era venuto per secondo testimonio alla sciagurata spedizione. Ma
essendosegli avvicinato, dovette accertarsi ch'era in vece quel Tonio così
sveglio che ce l'aveva condotto. La peste, togliendogli il vigore del corpo
insieme e della mente, gli aveva svolto in faccia e in ogni suo atto un piccolo
e velato germe di somiglianza che aveva con l'incantato fratello.
- Oh
Tonio! - gli disse Renzo, fermandosegli davanti: - sei tu?
Tonio
alzò gli occhi, senza mover la testa.
-
Tonio! non mi riconosci?
- A chi
la tocca, la tocca, - rispose Tonio, rimanendo poi con la bocca aperta.
- L'hai
addosso eh? povero Tonio; ma non mi riconosci più?
- A chi
la tocca, la tocca, - replicò quello, con un certo sorriso sciocco. Renzo,
vedendo che non ne caverebbe altro, seguitò la sua strada, più contristato. Ed
ecco spuntar da una cantonata, e venire avanti una cosa nera, che riconobbe
subito per don Abbondio. Camminava adagio adagio, portando il bastone come chi
n'è portato a vicenda; e di mano in mano che s'avvicinava, sempre più si poteva
conoscere nel suo volto pallido e smunto, e in ogni atto, che anche lui doveva
aver passata la sua burrasca. Guardava anche lui; gli pareva e non gli pareva:
vedeva qualcosa di forestiero nel vestiario; ma era appunto forestiero di quel
di Bergamo.
"È
lui senz'altro!" disse tra sé, e alzò le mani al cielo, con un movimento
di maraviglia scontenta, restandogli sospeso in aria il bastone che teneva nella
destra; e si vedevano quelle povere braccia ballar nelle maniche, dove altre
volte stavano appena per l'appunto. Renzo gli andò incontro, allungando il
passo, e gli fece una riverenza; ché, sebbene si fossero lasciati come sapete,
era però sempre il suo curato.
- Siete
qui, voi? - esclamò don Abbondio.
- Son
qui, come lei vede. Si sa niente di Lucia?
- Che
volete che se ne sappia? Non se ne sa niente. È a Milano, se pure è ancora in
questo mondo. Ma voi...
- E
Agnese, è viva?
- Può
essere; ma chi volete che lo sappia? non è qui. Ma...
-
Dov'è?
- È
andata a starsene nella Valsassina, da que' suoi parenti, a Pasturo, sapete
bene; ché là dicono che la peste non faccia il diavolo come qui. Ma voi,
dico...
-
Questa la mi dispiace. E il padre Cristoforo...?
- È
andato via che è un pezzo. Ma...
- Lo
sapevo; me l'hanno fatto scrivere: domandavo se per caso fosse tornato da
queste parti.
- Oh
giusto! non se n'è più sentito parlare. Ma voi...
- La mi
dispiace anche questa.
- Ma
voi, dico, cosa venite a far da queste parti, per l'amor del cielo? Non sapete
che bagattella di cattura...?
- Cosa
m'importa? Hanno altro da pensare. Ho voluto venire anch'io una volta a vedere
i fatti miei. E non si sa proprio...?
- Cosa
volete vedere? che or ora non c'è più nessuno, non c'è più niente. E dico, con
quella bagattella di cattura, venir qui, proprio in paese, in bocca al lupo,
c'è giudizio? Fate a modo d'un vecchio che è obbligato ad averne più di voi, e
che vi parla per l'amore che vi porta; legatevi le scarpe bene, e, prima che
nessuno vi veda, tornate di dove siete venuto; e se siete stato visto, tanto
più tornatevene di corsa. Vi pare che sia aria per voi, questa? Non sapete che
sono venuti a cercarvi, che hanno frugato, frugato, buttato sottosopra...
- Lo so
pur troppo, birboni!
- Ma
dunque...!
- Ma se
le dico che non ci penso. E colui, è vivo ancora? è qui?
- Vi
dico che non c'è nessuno; vi dico che non pensiate alle cose di qui; vi dico
che...
-
Domando se è qui, colui.
- Oh
santo cielo! Parlate meglio. Possibile che abbiate ancora addosso tutto quel
fuoco, dopo tante cose!
- C'è,
o non c'è?
- Non
c'è, via. Ma, e la peste, figliuolo, la peste! Chi è che vada in giro, in
questi tempi?
- Se
non ci fosse altro che la peste in questo mondo... dico per me: l'ho avuta, e
son franco.
- Ma
dunque! ma dunque! non sono avvisi questi? Quando se n'è scampata una di questa
sorte, mi pare che si dovrebbe ringraziare il cielo, e...
- Lo
ringrazio bene.
- E non
andarne a cercar dell'altre, dico. Fate a modo mio...
- L'ha
avuta anche lei, signor curato, se non m'inganno.
- Se
l'ho avuta! Perfida e infame è stata: son qui per miracolo: basta dire che m'ha
conciato in questa maniera che vedete. Ora avevo proprio bisogno d'un po' di
quiete, per rimettermi in tono: via, cominciavo a stare un po' meglio... In
nome del cielo, cosa venite a far qui? Tornate...
-
Sempre l'ha con questo tornare, lei. Per tornare, tanto n'avevo a non movermi.
Dice: cosa venite? cosa venite? Oh bella! vengo, anch'io, a casa mia.
- Casa
vostra...
- Mi
dica; ne son morti molti qui?...
- Eh
eh! - esclamò don Abbondio; e, cominciando da Perpetua, nominò una filastrocca
di persone e di famiglie intere. Renzo s'aspettava pur troppo qualcosa di
simile; ma al sentir tanti nomi di persone che conosceva, d'amici, di parenti,
stava addolorato, col capo basso, esclamando ogni momento: - poverino!
poverina! poverini!
-
Vedete! - continuò don Abbondio: - e non è finita. Se quelli che restano non
metton giudizio questa volta, e scacciar tutti i grilli dalla testa, non c'è
più altro che la fine del mondo.
- Non
dubiti; che già non fo conto di fermarmi qui.
- Ah!
sia ringraziato il cielo, che la v'è entrata! E, già s'intende, fate ben conto
di ritornar sul bergamasco.
- Di
questo non si prenda pensiero.
- Che!
non vorreste già farmi qualche sproposito peggio di questo?
- Lei
non ci pensi, dico; tocca a me: non son più bambino: ho l'uso della ragione.
Spero che, a buon conto, non dirà a nessuno d'avermi visto. È sacerdote; sono
una sua pecora: non mi vorrà tradire.
- Ho
inteso, - disse don Abbondio, sospirando stizzosamente: - ho inteso. Volete
rovinarvi voi, e rovinarmi me. Non vi basta di quelle che avete passate voi;
non vi basta di quelle che ho passate io. Ho inteso, ho inteso -. E,
continuando a borbottar tra i denti quest'ultime parole, riprese per la sua
strada.
Renzo
rimase lì tristo e scontento, a pensar dove anderebbe a fermarsi. In quella
enumerazion di morti fattagli da don Abbondio, c'era una famiglia di contadini
portata via tutta dal contagio, salvo un giovinotto, dell'età di Renzo a un di
presso, e suo compagno fin da piccino; la casa era pochi passi fuori del paese.
Pensò d'andar lì.
E
andando, passò davanti alla sua vigna; e già dal di fuori poté subito
argomentare in che stato la fosse. Una vetticciola, una fronda d'albero di
quelli che ci aveva lasciati, non si vedeva passare il muro; se qualcosa si
vedeva, era tutta roba venuta in sua assenza. S'affacciò all'apertura (del
cancello non c'eran più neppure i gangheri); diede un'occhiata in giro: povera
vigna! Per due inverni di seguito, la gente del paese era andata a far legna -
nel luogo di quel poverino -, come dicevano. Viti, gelsi, frutti d'ogni sorte,
tutto era stato strappato alla peggio, o tagliato al piede. Si vedevano però
ancora i vestigi dell'antica coltura: giovani tralci, in righe spezzate, ma che
pure segnavano la traccia de' filari desolati; qua e là, rimessiticci o getti
di gelsi, di fichi, di peschi, di ciliegi, di susini; ma anche questo si vedeva
sparso, soffogato, in mezzo a una nuova, varia e fitta generazione, nata e
cresciuta senza l'aiuto della man dell'uomo. Era una marmaglia d'ortiche, di
felci, di logli, di gramigne, di farinelli, d'avene salvatiche, d'amaranti
verdi, di radicchielle, d'acetoselle, di panicastrelle e d'altrettali piante;
di quelle, voglio dire, di cui il contadino d'ogni paese ha fatto una gran
classe a modo suo, denominandole erbacce, o qualcosa di simile. Era un
guazzabuglio di steli, che facevano a soverchiarsi l'uno con l'altro nell'aria,
o a passarsi avanti, strisciando sul terreno, a rubarsi in somma il posto per
ogni verso; una confusione di foglie, di fiori, di frutti, di cento colori, di
cento forme, di cento grandezze: spighette, pannocchiette, ciocche, mazzetti,
capolini bianchi, rossi, gialli, azzurri. Tra questa marmaglia di piante ce
n'era alcune di più rilevate e vistose, non però migliori, almeno la più parte:
l'uva turca, più alta di tutte, co' suoi rami allargati, rosseggianti, co' suoi
pomposi foglioni verdecupi, alcuni già orlati di porpora, co' suoi grappoli
ripiegati, guarniti di bacche paonazze al basso, più su di porporine, poi di
verdi, e in cima di fiorellini biancastri; il tasso barbasso, con le sue gran
foglie lanose a terra, e lo stelo diritto all'aria, e le lunghe spighe sparse e
come stellate di vivi fiori gialli: cardi, ispidi ne' rami, nelle foglie, ne'
calici, donde uscivano ciuffetti di fiori bianchi o porporini, ovvero si
staccavano, portati via dal vento, pennacchioli argentei e leggieri. Qui una
quantità di vilucchioni arrampicati e avvoltati a' nuovi rampolli d'un gelso,
gli avevan tutti ricoperti delle lor foglie ciondoloni, e spenzolavano dalla
cima di quelli le lor campanelle candide e molli: là una zucca salvatica, co'
suoi chicchi vermigli, s'era avviticchiata ai nuovi tralci d'una vite; la quale,
cercato invano un più saldo sostegno, aveva attaccati a vicenda i suoi viticci
a quella; e, mescolando i loro deboli steli e le loro foglie poco diverse, si
tiravan giù, pure a vicenda, come accade spesso ai deboli che si prendon l'uno
con l'altro per appoggio. Il rovo era per tutto; andava da una pianta
all'altra, saliva, scendeva, ripiegava i rami o gli stendeva, secondo gli
riuscisse; e, attraversato davanti al limitare stesso, pareva che fosse lì per
contrastare il passo, anche al padrone.
Ma
questo non si curava d'entrare in una tal vigna; e forse non istette tanto a
guardarla, quanto noi a farne questo po' di schizzo. Tirò di lungo: poco
lontano c'era la sua casa; attraversò l'orto, camminando fino a mezza gamba tra
l'erbacce di cui era popolato, coperto, come la vigna. Mise piede sulla soglia
d'una delle due stanze che c'era a terreno: al rumore de' suoi passi, al suo
affacciarsi, uno scompiglìo, uno scappare incrocicchiato di topacci, un
cacciarsi dentro il sudiciume che copriva tutto il pavimento: era ancora il
letto de' lanzichenecchi. Diede un'occhiata alle pareti: scrostate, imbrattate,
affumicate. Alzò gli occhi al palco: un parato di ragnateli. Non c'era altro.
Se n'andò anche di là, mettendosi le mani ne' capelli; tornò indietro,
rifacendo il sentiero che aveva aperto lui, un momento prima; dopo pochi passi,
prese un'altra straducola a mancina, che metteva ne' campi; e senza veder né
sentire anima vivente, arrivò vicino alla casetta dove aveva pensato di
fermarsi. Già principiava a farsi buio. L'amico era sull'uscio, a sedere sur un
panchetto di legno, con le braccia incrociate, con gli occhi fissi al cielo,
come un uomo sbalordito dalle disgrazie, e insalvatichito dalla solitudine.
Sentendo un calpestìo, si voltò a guardar chi fosse, e, a quel che gli parve di
vedere così al barlume, tra i rami e le fronde, disse, ad alta voce, rizzandosi
e alzando le mani: - non ci son che io? non ne ho fatto abbastanza ieri?
Lasciatemi un po' stare, che sarà anche questa un'opera di misericordia.
Renzo,
non sapendo cosa volesse dir questo, gli rispose chiamandolo per nome.
-
Renzo...! - disse quello, esclamando insieme e interrogando.
-
Proprio, - disse Renzo; e si corsero incontro.
- Sei
proprio tu! - disse l'amico, quando furon vicini: - oh che gusto ho di vederti!
Chi l'avrebbe pensato? T'avevo preso per Paolin de' morti, che vien sempre a
tormentarmi, perché vada a sotterrare. Sai che son rimasto solo? solo! solo,
come un romito!
- Lo so
pur troppo, - disse Renzo. E così, barattando e mescolando in fretta saluti,
domande e risposte, entrarono insieme nella casuccia. E lì, senza sospendere i
discorsi, l'amico si mise in faccende per fare un po' d'onore a Renzo, come si
poteva così all'improvviso e in quel tempo. Mise l'acqua al fuoco, e cominciò a
far la polenta; ma cedé poi il matterello a Renzo, perché la dimenasse; e se
n'andò dicendo: - son rimasto solo; ma! son rimasto solo!
Tornò
con un piccol secchio di latte, con un po' di carne secca, con un paio di
raveggioli, con fichi e pesche; e posato il tutto, scodellata la polenta sulla
tafferìa, si misero insieme a tavola, ringraziandosi scambievolmente, l'uno
della visita, l'altro del ricevimento. E, dopo un'assenza di forse due anni, si
trovarono a un tratto molto più amici di quello che avesser mai saputo d'essere
nel tempo che si vedevano quasi ogni giorno; perché all'uno e all'altro, dice
qui il manoscritto, eran toccate di quelle cose che fanno conoscere che balsamo
sia all'animo la benevolenza; tanto quella che si sente, quanto quella che si
trova negli altri.
Certo,
nessuno poteva tenere presso di Renzo il luogo d'Agnese, né consolarlo della di
lei assenza, non solo per quell'antica e speciale affezione, ma anche perché,
tra le cose che a lui premeva di decifrare, ce n'era una di cui essa sola aveva
la chiave. Stette un momento tra due, se dovesse continuare il suo viaggio, o
andar prima in cerca d'Agnese, giacché n'era così poco lontano; ma, considerato
che della salute di Lucia, Agnese non ne saprebbe nulla, restò nel primo
proposito d'andare addirittura a levarsi questo dubbio, a aver la sua sentenza,
e di portar poi lui le nuove alla madre. Però, anche dall'amico seppe molte
cose che ignorava, e di molte venne in chiaro che non sapeva bene, sui casi di
Lucia, e sulle persecuzioni che gli avevan fatte a lui, e come don Rodrigo se
n'era andato con la coda tra le gambe, e non s'era più veduto da quelle parti;
insomma su tutto quell'intreccio di cose. Seppe anche (e non era per Renzo
cognizione di poca importanza) come fosse proprio il casato di don Ferrante: ché
Agnese gliel aveva bensì fatto scrivere dal suo segretario; ma sa il cielo
com'era stato scritto; e l'interprete bergamasco, nel leggergli la lettera,
n'aveva fatta una parola tale, che, se Renzo fosse andato con essa a cercar
ricapito di quella casa in Milano, probabilmente non avrebbe trovato persona
che indovinasse di chi voleva parlare. Eppure quello era l'unico filo che
avesse, per andar in cerca di Lucia. In quanto alla giustizia, poté confermarsi
sempre più ch'era un pericolo abbastanza lontano, per non darsene gran
pensiero: il signor podestà era morto di peste: chi sa quando se ne manderebbe
un altro; anche la sbirraglia se n'era andata la più parte; quelli che
rimanevano, avevan tutt'altro da pensare che alle cose vecchie.
Raccontò
anche lui all'amico le sue vicende, e n'ebbe in contraccambio cento storie, del
passaggio dell'esercito, della peste, d'untori, di prodigi. - Son cose brutte,
- disse l'amico, accompagnando Renzo in una camera che il contagio aveva resa
disabitata; - cose che non si sarebbe mai creduto di vedere; cose da levarvi
l'allegria per tutta la vita; ma però, a parlarne tra amici, è un sollievo.
Allo
spuntar del giorno, eran tutt'e due in cucina; Renzo in arnese da viaggio, con
la sua cintura nascosta sotto il farsetto, e il coltellaccio nel taschino de'
calzoni: il fagottino, per andar più lesto, lo lasciò in deposito presso
all'ospite. - Se la mi va bene, - gli disse, - se la trovo in vita, se...
basta... ripasso di qui; corro a Pasturo, a dar la buona nuova a quella povera Agnese,
e poi, e poi... Ma se, per disgrazia, per disgrazia che Dio non voglia...
allora, non so quel che farò, non so dov'anderò: certo, da queste parti non mi
vedete più -. E così parlando, ritto sulla soglia dell'uscio, con la testa per
aria, guardava con un misto di tenerezza e d'accoramento, l'aurora del suo
paese che non aveva più veduta da tanto tempo. L'amico gli disse, come s'usa,
di sperar bene; volle che prendesse con sé qualcosa da mangiare; l'accompagnò
per un pezzetto di strada, e lo lasciò con nuovi augùri.
Renzo,
s'incamminò con la sua pace, bastandogli d'arrivar vicino a Milano in quel
giorno, per entrarci il seguente, di buon'ora, e cominciar subito la sua
ricerca. Il viaggio fu senza accidenti e senza nulla che potesse distrar Renzo
da' suoi pensieri, fuorché le solite miserie e malinconie. Come aveva fatto il
giorno avanti, si fermò a suo tempo, in un boschetto a mangiare un boccone, e a
riposarsi. Passando per Monza, davanti a una bottega aperta, dove c'era de'
pani in mostra, ne chiese due, per non rimanere sprovvisto, in ogni caso. Il
fornaio, gl'intimò di non entrare, e gli porse sur una piccola pala una
scodelletta, con dentro acqua e aceto, dicendogli che buttasse lì i danari; e
fatto questo, con certe molle, gli porse, l'uno dopo l'altro, i due pani, che
Renzo si mise uno per tasca.
Verso
sera, arriva a Greco, senza però saperne il nome; ma, tra un po' di memoria de'
luoghi, che gli era rimasta dell'altro viaggio, e il calcolo del cammino fatto
da Monza in poi, congetturando che doveva esser poco lontano dalla città, uscì
dalla strada maestra, per andar ne' campi in cerca di qualche cascinotto, e lì
passar la notte; ché con osterie non si voleva impicciare. Trovò meglio di quel
che cercava: vide un'apertura in una siepe che cingeva il cortile d'una
cascina; entrò a buon conto. Non c'era nessuno: vide da un canto un gran
portico, con sotto del fieno ammontato, e a quello appoggiata una scala a mano;
diede un'occhiata in giro, e poi salì alla ventura; s'accomodò per dormire, e
infatti s'addormentò subito, per non destarsi che all'alba. Allora, andò carpon
carponi verso l'orlo di quel gran letto; mise la testa fuori, e non vedendo
nessuno, scese di dov'era salito, uscì di dov'era entrato, s'incamminò per
viottole, prendendo per sua stella polare il duomo; e dopo un brevissimo
cammino, venne a sbucar sotto le mura di Milano, tra porta Orientale e porta
Nuova, e molto vicino a questa.
In
quanto alla maniera di penetrare in città, Renzo aveva sentito, così
all'ingrosso, che c'eran ordini severissimi di non lasciar entrar nessuno,
senza bulletta di sanità; ma che in vece ci s'entrava benissimo, chi appena
sapesse un po' aiutarsi e cogliere il momento. Era infatti così; e lasciando
anche da parte le cause generali, per cui in que' tempi ogni ordine era poco
eseguito; lasciando da parte le speciali, che rendevano così malagevole la
rigorosa esecuzione di questo; Milano si trovava ormai in tale stato, da non
veder cosa giovasse guardarlo, e da cosa; e chiunque ci venisse, poteva parer piuttosto
noncurante della propria salute, che pericoloso a quella de' cittadini.
Su
queste notizie, il disegno di Renzo era di tentare d'entrar dalla prima porta a
cui si fosse abbattuto; se ci fosse qualche intoppo, riprender le mura di
fuori, finché ne trovasse un'altra di più facile accesso. E sa il cielo quante
porte s'immaginava che Milano dovesse avere. Arrivato dunque sotto le mura, si
fermò a guardar d'intorno, come fa chi, non sapendo da che parte gli convenga
di prendere, par che n'aspetti, e ne chieda qualche indizio da ogni cosa. Ma, a
destra e a sinistra, non vedeva che due pezzi d'una strada storta; dirimpetto,
un tratto di mura; da nessuna parte, nessun segno d'uomini viventi: se non che,
da un certo punto del terrapieno, s'alzava una colonna d'un fumo oscuro e
denso, che salendo s'allargava e s'avvolgeva in ampi globi, perdendosi poi
nell'aria immobile e bigia. Eran vestiti, letti e altre masserizie infette che
si bruciavano: e di tali triste fiammate se ne faceva di continuo, non lì
soltanto, ma in varie parti delle mura.
Il
tempo era chiuso, l'aria pesante, il cielo velato per tutto da una nuvola o da
un nebbione uguale, inerte, che pareva negare il sole, senza prometter la
pioggia; la campagna d'intorno, parte incolta, e tutta arida; ogni verzura
scolorita, e neppure una gocciola di rugiada sulle foglie passe e cascanti. Per
di più, quella solitudine, quel silenzio, così vicino a una gran città,
aggiungevano una nuova costernazione all'inquietudine di Renzo, e rendevan più
tetri tutti i suoi pensieri.
Stato
lì alquanto, prese la diritta, alla ventura, andando, senza saperlo, verso
porta Nuova, della quale, quantunque vicina, non poteva accorgersi, a cagione
d'un baluardo, dietro cui era allora nascosta. Dopo pochi passi, principiò a
sentire un tintinnìo di campanelli, che cessava e ricominciava ogni tanto, e
poi qualche voce d'uomo. Andò avanti e, passato il canto del baluardo, vide per
la prima cosa, un casotto di legno, e sull'uscio, una guardia appoggiata al
moschetto, con una cert'aria stracca e trascurata: dietro c'era uno stecconato,
e dietro quello, la porta, cioè due alacce di muro, con una tettoia sopra, per
riparare i battenti; i quali erano spalancati, come pure il cancello dello
stecconato. Però, davanti appunto all'apertura, c'era in terra un tristo
impedimento: una barella, sulla quale due monatti accomodavano un poverino, per
portarlo via. Era il capo de' gabellieri, a cui, poco prima, s'era scoperta la
peste. Renzo si fermò, aspettando la fine: partito il convoglio, e non venendo
nessuno a richiudere il cancello, gli parve tempo, e ci s'avviò in fretta; ma
la guardia, con una manieraccia, gli gridò: - olà! - Renzo si fermò di nuovo su
due piedi, e, datogli d'occhio, tirò fuori un mezzo ducatone, e glielo fece
vedere. Colui, o che avesse già avuta la peste, o che la temesse meno di quel
che amava i mezzi ducatoni, accennò a Renzo che glielo buttasse; e vistoselo
volar subito a' piedi, susurrò: - va' innanzi presto -. Renzo non se lo fece
dir due volte; passò lo stecconato, passò la porta, andò avanti, senza che
nessuno s'accorgesse di lui, o gli badasse; se non che, quando ebbe fatti forse
quaranta passi, sentì un altro - olà - che un gabelliere gli gridava dietro.
Questa volta, fece le viste di non sentire, e, senza voltarsi nemmeno, allungò
il passo. - Olà! - gridò di nuovo il gabelliere, con una voce però che indicava
più impazienza che risoluzione di farsi ubbidire; e non essendo ubbidito, alzò
le spalle, e tornò nella sua casaccia, come persona a cui premesse più di non
accostarsi troppo ai passeggieri, che d'informarsi de' fatti loro.
La
strada che Renzo aveva presa, andava allora, come adesso, diritta fino al
canale detto il Naviglio: i lati erano siepi o muri d'orti, chiese e
conventi, e poche case. In cima a questa strada, e nel mezzo di quella che
costeggia il canale, c'era una colonna, con una croce detta la croce di
sant'Eusebio. E per quanto Renzo guardasse innanzi, non vedeva altro che quella
croce. Arrivato al crocicchio che divide la strada circa alla metà, e guardando
dalle due parti, vide a dritta, in quella strada che si chiama lo stradone di
santa Teresa, un cittadino che veniva appunto verso di lui. "Un cristiano,
finalmente!" disse tra sé; e si voltò subito da quella parte, pensando di
farsi insegnar la strada da lui. Questo pure aveva visto il forestiero che
s'avanzava; e andava squadrandolo da lontano, con uno sguardo sospettoso; e
tanto più, quando s'accorse che, in vece d'andarsene per i fatti suoi, gli
veniva incontro. Renzo, quando fu poco distante, si levò il cappello, da quel
montanaro rispettoso che era; e tenendolo con la sinistra, mise l'altra mano
nel cocuzzolo, e andò più direttamente verso lo sconosciuto. Ma questo,
stralunando gli occhi affatto, fece un passo addietro, alzò un noderoso
bastone, e voltata la punta, ch'era di ferro, alla vita di Renzo, gridò: - via!
via! via!
- Oh
oh! - gridò il giovine anche lui; rimise il cappello in testa, e, avendo
tutt'altra voglia, come diceva poi, quando raccontava la cosa, che di metter su
lite in quel momento, voltò le spalle a quello stravagante, e continuò la sua
strada, o, per meglio dire, quella in cui si trovava avviato.
L'altro
tirò avanti anche lui per la sua, tutto fremente, e voltandosi, ogni momento,
indietro. E arrivato a casa, raccontò che gli s'era accostato un untore, con
un'aria umile, mansueta, con un viso d'infame impostore, con lo scatolino
dell'unto, o l'involtino della polvere (non era ben certo qual de' due) in
mano, nel cocuzzolo del cappello, per fargli il tiro, se lui non l'avesse
saputo tener lontano. - Se mi s'accostava un passo di più, - soggiunse, -
l'infilavo addirittura, prima che avesse tempo d'accomodarmi me, il birbone. La
disgrazia fu ch'eravamo in un luogo così solitario, ché se era in mezzo Milano,
chiamavo gente, e mi facevo aiutare a acchiapparlo. Sicuro che gli si trovava
quella scellerata porcheria nel cappello. Ma lì da solo a solo, mi son dovuto
contentare di fargli paura, senza risicare di cercarmi un malanno; perché un
po' di polvere è subito buttata; e coloro hanno una destrezza particolare; e
poi hanno il diavolo dalla loro. Ora sarà in giro per Milano: chi sa che strage
fa! - E fin che visse, che fu per molt'anni, ogni volta che si parlasse
d'untori, ripeteva la sua storia, e soggiungeva: - quelli che sostengono ancora
che non era vero, non lo vengano a dire a me; perché le cose bisogna averle
viste.
Renzo,
lontano dall'immaginarsi come l'avesse scampata bella, e agitato più dalla
rabbia che dalla paura, pensava, camminando, a quell'accoglienza, e indovinava
bene a un di presso ciò che lo sconosciuto aveva pensato di lui; ma la cosa gli
pareva così irragionevole, che concluse tra sé che colui doveva essere un
qualche mezzo matto. "La principia male, - pensava però: - par che ci sia
un pianeta per me, in questo Milano. Per entrare, tutto mi va a seconda; e poi,
quando ci son dentro, trovo i dispiaceri lì apparecchiati. Basta... coll'aiuto
di Dio... se trovo... se ci riesco a trovare... eh! tutto sarà stato
niente".
Arrivato
al ponte, voltò, senza esitare, a sinistra, nella strada di san Marco,
parendogli, a ragione, che dovesse condurre verso l'interno della città. E
andando avanti, guardava in qua e in là, per veder se poteva scoprire qualche
creatura umana; ma non ne vide altra che uno sformato cadavere nel piccol fosso
che corre tra quelle poche case (che allora erano anche meno), e un pezzo della
strada. Passato quel pezzo, sentì gridare: - o quell'uomo! - e guardando da
quella parte, vide poco lontano, a un terrazzino d'una casuccia isolata, una
povera donna, con una nidiata di bambini intorno; la quale, seguitandolo a
chiamare, gli fece cenno anche con la mano. Ci andò di corsa; e quando fu
vicino, - o quel giovine, - disse quella donna: - per i vostri poveri morti,
fate la carità d'andare a avvertire il commissario che siamo qui dimenticati.
Ci hanno chiusi in casa come sospetti, perché il mio povero marito è morto; ci
hanno inchiodato l'uscio, come vedete; e da ier mattina, nessuno è venuto a
portarci da mangiare. In tante ore che siam qui, non m'è mai capitato un
cristiano che me la facesse questa carità: e questi poveri innocenti moion di
fame.
- Di
fame! - esclamò Renzo; e, cacciate le mani nelle tasche, - ecco, ecco, - disse,
tirando fuori i due pani: - calatemi giù qualcosa da metterli dentro.
- Dio
ve ne renda merito; aspettate un momento, - disse quella donna; e andò a
cercare un paniere, e una fune da calarlo, come fece. A Renzo intanto gli
vennero in mente que' pani che aveva trovati vicino alla croce, nell'altra sua
entrata in Milano, e pensava: "ecco: è una restituzione, e forse meglio
che se gli avessi restituiti al proprio padrone: perché qui è veramente
un'opera di misericordia".
In
quanto al commissario che dite, la mia donna, - disse poi, mettendo i pani nel
paniere, - io non vi posso servire in nulla; perché, per dirvi la verità, son
forestiero, e non son niente pratico di questo paese. Però, se incontro qualche
uomo un po' domestico e umano, da potergli parlare, lo dirò a lui.
La
donna lo pregò che facesse così, e gli disse il nome della strada, onde lui
sapesse indicarla.
- Anche
voi, - riprese Renzo, - credo che potrete farmi un piacere, una vera carità,
senza vostro incomodo. Una casa di cavalieri, di gran signoroni, qui di Milano,
casa *** sapreste insegnarmi dove sia?
- So
che la c'è questa casa, - rispose la donna: - ma dove sia, non lo so davvero.
Andando avanti di qua, qualcheduno che ve la insegni, lo troverete. E
ricordatevi di dirgli anche di noi.
- Non
dubitate, - disse Renzo, e andò avanti.
A ogni
passo, sentiva crescere e avvicinarsi un rumore che già aveva cominciato a
sentire mentre era lì fermo a discorrere: un rumor di ruote e di cavalli, con
un tintinnìo di carnpanelli, e ogni tanto un chioccar di fruste, con un
accompagnamento d'urli. Guardava innanzi, ma non vedeva nulla. Arrivato allo
sbocco di quella strada, scoprendosegli davanti la piazza di san Marco, la
prima cosa che gli diede nell'occhio, furon due travi ritte, con una corda, e
con certe carrucole; e non tardò a riconoscere (ch'era cosa famigliare in quel
tempo) l'abbominevole macchina della tortura. Era rizzata in quel luogo, e non
in quello soltanto, ma in tutte le piazze e nelle strade più spaziose, affinché
i deputati d'ogni quartiere, muniti a questo d'ogni facoltà più arbitraria,
potessero farci applicare immediatamente chiunque paresse loro meritevole di
pena: o sequestrati che uscissero di casa, o subalterni che non facessero il
loro dovere, o chiunque altro. Era uno di que' rimedi eccessivi e inefficaci
de' quali, a quel tempo, e in que' momenti specialmente, si faceva tanto scialacquìo.
Ora,
mentre Renzo guarda quello strumento, pensando perché possa essere alzato in
quel luogo, sente avvicinarsi sempre più il rumore, e vede spuntar dalla
cantonata della chiesa un uomo che scoteva un campanello: era un apparitore; e
dietro a lui due cavalli che, allungando il collo, e puntando le zampe,
venivano avanti a fatica; e strascinato da quelli, un carro di morti, e dopo
quello un altro, e poi un altro e un altro; e di qua e di là, monatti alle
costole de' cavalli, spingendoli, a frustate, a punzoni, a bestemmie. Eran que'
cadaveri, la più parte ignudi, alcuni mal involtati in qualche cencio,
ammonticchiati, intrecciati insieme, come un gruppo di serpi che lentamente si
svolgano al tepore della primavera; ché, a ogni intoppo, a ogni scossa, si
vedevan que' mucchi funesti tremolare e scompaginarsi bruttamente, e ciondolar
teste, e chiome verginali arrovesciarsi, e braccia svincolarsi, e batter sulle
rote, mostrando all'occhio già inorridito come un tale spettacolo poteva
divenire più doloroso e più sconcio.
Il
giovine s'era fermato sulla cantonata della piazza, vicino alla sbarra del
canale, e pregava intanto per que' morti sconosciuti. Un atroce pensiero gli
balenò in mente: "forse là, là insieme, là sotto... Oh, Signore! fate che
non sia vero! fate ch'io non ci pensi!"
Passato
il convoglio funebre, Renzo si mosse, attraversò la piazza, prendendo lungo il
canale a mancina, senz'altra ragione della scelta, se non che il convoglio era
andato dall'altra parte. Fatti que' quattro passi tra il fianco della chiesa e
il canale, vide a destra il ponte Marcellino; prese di lì, e riuscì in Borgo
Nuovo. E guardando innanzi, sempre con quella mira di trovar qualcheduno da
farsi insegnar la strada, vide in fondo a quella un.prete in farsetto, con un
bastoncino in mano, ritto vicino a un uscio socchiuso, col capo chinato, e
l'orecchio allo spiraglio; e poco dopo lo vide alzar la mano e benedire.
Congetturò quello ch'era di fatto, cioè che finisse di confessar qualcheduno; e
disse tra sé: "questo è l'uomo che fa per me. Se un prete, in funzion di
prete, non ha un po' di carità, un po' d'amore e di buona grazia, bisogna dire
che non ce ne sia più in questo mondo".
Intanto
il prete, staccatosi dall'uscio, veniva dalla parte di Renzo, tenendosi, con
gran riguardo, nel mezzo della strada. Renzo, quando gli fu vicino, si levò il
cappello, e gli accennò che desiderava parlargli, fermandosi nello stesso
tempo, in maniera da fargli intendere che non si sarebbe accostato di più.
Quello pure si fermò, in atto di stare a sentire, puntando però in terra il suo
bastoncino davanti a sé, come per farsene un baluardo. Renzo espose la sua
domanda, alla quale il prete soddisfece, non solo con dirgli il nome della
strada dove la casa era situata, ma dandogli anche, come vide che il poverino
n'aveva bisogno, un po' d'itinerario; indicandogli, cioè, a forza di diritte e
di mancine, di chiese e di croci, quell'altre sei o otto strade che aveva da
passare per arrivarci.
- Dio
la mantenga sano, in questi tempi, e sempre, - disse Renzo: e mentre quello si
moveva per andarsene, - un'altra carità, - soggiunse; e gli disse della povera
donna dimenticata. Il buon prete ringraziò lui d'avergli dato occasione di fare
una carità così necessaria; e, dicendo che andava ad avvertire chi bisognava, tirò
avanti. Renzo si mosse anche lui, e, camminando, cercava di fare a se stesso
una ripetizione dell'itinerario, per non esser da capo a dover domandare a ogni
cantonata. Ma non potreste immaginarvi come quell'operazione gli riuscisse
penosa, e non tanto per la difficoltà della cosa in sé, quanto per un nuovo
turbamento che gli era nato nell'animo. Quel nome della strada, quella traccia
del cammino l'avevan messo così sottosopra. Era l'indizio che aveva desiderato
e domandato, e del quale non poteva far di meno; né gli era stato detto
nient'altro, da che potesse ricavare nessun augurio sinistro; ma che volete?
quell'idea un po' più distinta d'un termine vicino, dove uscirebbe d'una
grand'incertezza, dove potrebbe sentirsi dire: è viva, o sentirsi dire: è morta;
quell'idea l'aveva così colpito che, in quel momento, gli sarebbe piaciuto più
di trovarsi ancora ai buio di tutto, d'essere al principio del viaggio, di cui
ormai toccava la fine. Raccolse però le sue forze, e disse a se stesso:
"ehi! se principiamo ora a fare il ragazzo, com'anderà?" Così
rinfrancato alla meglio, seguitò la sua strada, inoltrandosi nella città.
Quale
città! e cos'era mai, al paragone, quello ch'era stata l'anno avanti, per
cagion della fame!
Renzo
s'abbatteva appunto a passare per una delle parti più squallide e più desolate:
quella crociata di strade che si chiamava il carrobio di porta Nuova.
(C'era allora una croce nel mezzo, e, dirimpetto ad essa, accanto a dove ora è
san Francesco di Paola, una vecchia chiesa col titolo di sant'Anastasia). Tanta
era stata in quel vicinato la furia del contagio, e il fetor de' cadaveri
lasciati lì che i pochi rimasti vivi erano stati costretti a sgomberare:
sicché, alla mestizia che dava al passeggiero quell'aspetto di solitudine e
d'abbandono, s'aggiungeva l'orrore e lo schifo delle tracce e degli avanzi
della recente abitazione. Renzo affrettò il passo, facendosi coraggio col
pensare che la meta non doveva essere così vicina, e sperando che, prima
d'arrivarci, troverebbe mutata, almeno in parte, la scena; e infatti, di lì a
non molto, riuscì in un luogo che poteva pur dirsi città di viventi; ma quale
città ancora, e quali viventi! Serrati, per sospetto e per terrore, tutti gli
usci di strada, salvo quelli che fossero spalancati per esser le case disabitate,
o invase; altri inchiodati e sigillati, per esser nelle case morta o ammalata
gente di peste; altri segnati d'una croce fatta col carbone, per indizio ai
monatti, che c'eran de' morti da portar via: il tutto più alla ventura che
altro, secondo che si fosse trovato piuttosto qua che là un qualche commissario
della Sanità o altro impiegato, che avesse voluto eseguir gli ordini, o fare
un'angheria. Per tutto cenci e, più ributtanti de' cenci, fasce marciose,
strame ammorbato, o lenzoli buttati dalle finestre; talvolta corpi, o di
persone morte all'improvviso, nella strada, e lasciati lì fin che passasse un
carro da portarli via, o cascati da' carri medesimi, o buttati anch'essi dalle
finestre: tanto l'insistere e l'imperversar del disastro aveva insalvatichiti
gli animi, e fatto dimenticare ogni cura di pietà, ogni, riguardo sociale!
Cessato per tutto ogni rumor di botteghe, ogni strepito di carrozze, ogni grido
di venditori, ogni chiacchierìo di passeggieri, era ben raro che quel silenzio
di morte fosse rotto da altro che da rumor di carri funebri, da lamenti di
poveri, da rammarichìo d'infermi, da urli di frenetici, da grida di monatti.
All'alba, a mezzogiorno, a sera, una campana del duomo dava il segno di recitar
certe preci assegnate dall'arcivescovo: a quel tocco rispondevan le campane
dell'altre chiese; e allora avreste veduto persone affacciarsi alle finestre, a
pregare in comune; avreste sentito un bisbiglio di voci e di gemiti, che
spirava una tristezza mista pure di qualche conforto.
Morti a
quell'ora forse i due terzi de' cittadini, andati via o ammalati una buona
parte del resto, ridotto quasi a nulla il concorso della gente di fuori, de'
pochi che andavan per le strade, non se ne sarebbe per avventura, in un lungo
giro, incontrato uno solo in cui non si vedesse qualcosa di strano, e che dava
indizio d'una funesta mutazione di cose. Si vedevano gli uomini più
qualificati, senza cappa né mantello, parte allora essenzialissima del
vestiario civile; senza sottana i preti, e anche de' religiosi in farsetto;
dismessa in somma ogni sorte di vestito che potesse con gli svolazzi toccar
qualche cosa, o dare (ciò che si temeva più di tutto il resto) agio agli
untori. E fuor di questa cura d'andar succinti e ristretti il più che fosse
possibile, negletta e trasandata ogni persona; lunghe le barbe di quelli che
usavan portarle, cresciute a quelli che prima costumavan di raderle; lunghe
pure e arruffate le capigliature, non solo per quella trascuranza che nasce da
un invecchiato abbattimento, ma per esser divenuti sospetti i barbieri, da che
era stato preso e condannato, come untor famoso, uno di loro, Giangiacomo Mora:
nome che, per un pezzo, conservò una celebrità municipale d'infamia, e ne
meriterebbe una ben più diffusa e perenne di pietà. I più tenevano da una mano
un bastone, alcuni anche una pistola, per avvertimento minaccioso a chi avesse
voluto avvicinarsi troppo; dall'altra pasticche odorose, o palle di metallo o
di legno traforate, con dentro spugne inzuppate d'aceti medicati; e se le
andavano ogni tanto mettendo al naso, o ce le tenevano di continuo. Portavano
alcuni attaccata al collo una boccetta con dentro un po' d'argento vivo,
persuasi che avesse la virtù d'assorbire e di ritenere ogni esalazione
pestilenziale; e avevan poi cura di rinnovarlo ogni tanti giorni. I
gentiluomini, non solo uscivano senza il solito seguito, ma si vedevano, con
una sporta in braccio, andare a comprar le cose necessarie al vitto. Gli amici,
quando pur due s'incontrassero per la strada, si salutavan da lontano, con cenni
taciti e frettolosi. Ognuno, camminando, aveva molto da fare, per iscansare gli
schifosi e mortiferi inciampi di cui il terreno era sparso e, in qualche luogo,
anche affatto ingombro: ognuno cercava di stare in mezzo alla strada, per
timore d'altro sudiciume, o d'altro più funesto peso che potesse venir giù
dalle finestre; per timore delle polveri venefiche che si diceva esser spesso
buttate da quelle su' passeggieri; per timore delle muraglie, che potevan esser
unte. Così l'ignoranza, coraggiosa e guardinga alla rovescia, aggiungeva ora
angustie all'angustie, e dava falsi terrori, in compenso de' ragionevoli e
salutari che aveva levati da principio.
Tal era
ciò che di meno deforme e di men compassionevole si faceva vedere intorno, i
sani, gli agiati: ché, dopo tante immagini di miseria, e pensando a quella
ancor più grave, per mezzo alla quale dovrem condurre il lettore, non ci
fermeremo ora a dir qual fosse lo spettacolo degli appestati che si
strascicavano o giacevano per le strade, de' poveri, de' fanciulli, delle
donne. Era tale, che il riguardante poteva trovar quasi un disperato conforto
in ciò che ai lontani e ai posteri fa la più forte e dolorosa impressione; nel
pensare, dico, nel vedere quanto que' viventi fossero ridotti a pochi.
In
mezzo a questa desolazione aveva Renzo fatto già una buona parte del suo
cammino, quando, distante ancor molti passi da una strada in cui doveva
voltare, sentì venir da quella un vario frastono, nel quale si faceva
distinguere quel solito orribile tintinnìo.
Arrivato
alla cantonata della strada, ch'era una delle più larghe, vide quattro carri
fermi nel mezzo; e come, in un mercato di granaglie, si vede un andare e venire
di gente, un caricare e un rovesciar di sacchi, tale era il movimento in quel
luogo: monatti ch'entravan nelle case, monatti che n'uscivan con un peso su le
spalle, e lo mettevano su l'uno o l'altro carro: alcuni con la divisa rossa,
altri senza quel distintivo, molti con uno ancor più odioso, pennacchi e
fiocchi di vari colori, che quegli sciagurati portavano come per segno
d'allegria, in tanto pubblico lutto. Ora da una, ora da un'altra finestra,
veniva una voce lugubre: - qua, monatti! - E con suono ancor più sinistro, da
quel tristo brulichìo usciva qualche vociaccia che rispondeva: - ora, ora -. Ovvero
eran pigionali che brontolavano, e dicevano di far presto: ai quali i monatti
rispondevano con bestemmie.
Entrato
nella strada, Renzo allungò il passo, cercando di non guardar quegl'ingombri,
se non quanto era necessario per iscansarli; quando il suo sguardo s'incontrò
in un oggetto singolare di pietà, d'una pietà che invogliava l'animo a
contemplarlo; di maniera che si fermò, quasi senza volerlo.
Scendeva
dalla soglia d'uno di quegli usci, e veniva verso il convoglio, una donna, il
cui aspetto annunziava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa; e vi
traspariva una bellezza velata e offuscata, ma non guasta, da una gran
passione, e da un languor mortale: quella bellezza molle a un tempo e maestosa,
che brilla nel sangue lombardo. La sua andatura era affaticata, ma non
cascante; gli occhi non davan lacrime, ma portavan segno d'averne sparse tante;
c'era in quel dolore un non so che di pacato e di profondo, che attestava
un'anima tutta consapevole e presente a sentirlo. Ma non era il solo suo
aspetto che, tra tante miserie, la indicasse così particolarmente alla pietà, e
ravvivasse per lei quel sentimento ormai stracco e ammortito ne' cuori. Portava
essa in collo una bambina di forse nov'anni, morta; ma tutta ben accomodata,
co' capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle
mani l'avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per
premio. Né la teneva a giacere, ma sorretta, a sedere sur un braccio, col petto
appoggiato al petto, come se fosse stata viva; se non che una manina bianca a
guisa di cera spenzolava da una parte, con una certa inanimata gravezza, e il
capo posava sull'omero della madre, con un abbandono più forte del sonno: della
madre, ché, se anche la somiglianza de' volti non n'avesse fatto fede, l'avrebbe
detto chiaramente quello de' due ch'esprimeva ancora un sentimento.
Un
turpe monatto andò per levarle la bambina dalle braccia, con una specie però
d'insolito rispetto, con un'esitazione involontaria. Ma quella, tirandosi
indietro, senza però mostrare sdegno né disprezzo, - no! - disse: - non me la
toccate per ora; devo metterla io su quel carro: prendete -. Così dicendo, aprì
una mano, fece vedere una borsa, e la lasciò cadere in quella che il monatto le
tese. Poi continuò: - promettetemi di non levarle un filo d'intorno, né di
lasciar che altri ardisca di farlo, e di metterla sotto terra così.
Il
monatto si mise una mano al petto; e poi, tutto premuroso, e quasi ossequioso,
più per il nuovo sentimento da cui era come soggiogato, che per l'inaspettata
ricompensa, s'affaccendò a far un po' di posto sul carro per la morticina. La
madre, dato a questa un bacio in fronte, la mise lì come sur un letto, ce
l'accomodò, le stese sopra un panno bianco, e disse l'ultime parole: - addio,
Cecilia! riposa in pace! Stasera verremo anche noi, per restar sempre insieme.
Prega intanto per noi; ch'io pregherò per te e per gli altri -. Poi voltatasi
di nuovo al monatto, - voi, - disse, - passando di qui verso sera, salirete a
prendere anche me, e non me sola.
Così
detto, rientrò in casa, e, un momento dopo, s'affacciò alla finestra, tenendo
in collo un'altra bambina più piccola, viva, ma coi segni della morte in volto.
Stette a contemplare quelle così indegne esequie della prima, finché il carro
non si mosse, finché lo poté vedere; poi disparve. E che altro poté fare, se
non posar sul letto l'unica che le rimaneva, e mettersele accanto per morire
insieme? come il fiore già rigoglioso sullo stelo cade insieme col fiorellino
ancora in boccia, al passar della falce che pareggia tutte l'erbe del prato.
- O
Signore! - esclamò Renzo: - esauditela! tiratela a voi, lei e la sua
creaturina: hanno patito abbastanza! hanno patito abbastanza!
Riavuto
da quella commozione straordinaria, e mentre cerca di tirarsi in mente
l'itinerario per trovare se alla prima strada deve voltare, e se a diritta o a
mancina, sente anche da questa venire un altro e diverso strepito, un suono
confuso di grida imperiose, di fiochi lamenti, un pianger di donne, un mugolìo
di fanciulli.
Andò
avanti, con in cuore quella solita trista e oscura aspettativa. Arrivato al
crocicchio, vide da una parte una moltitudine confusa che s'avanzava, e si
fermò lì, per lasciarla passare. Erano ammalati che venivan condotti al
lazzeretto; alcuni, spinti a forza, resistevano in vano, in vano gridavano che
volevan morire sul loro letto, e rispondevano con inutili imprecazioni alle
bestemmie e ai comandi de' monatti che li guidavano; altri camminavano in
silenzio, senza mostrar dolore, né alcun altro sentimento, come insensati; donne
co' bambini in collo; fanciulli spaventati dalle grida, da quegli ordini, da
quella compagnia, più che dal pensiero confuso della morte, i quali ad alte
strida imploravano la madre e le sue braccia fidate, e la casa loro. Ahi! e
forse la madre, che credevano d'aver lasciata addormentata sul suo letto, ci
s'era buttata, sorpresa tutt'a un tratto dalla peste; e stava lì senza
sentimento, per esser portata sur un carro al lazzeretto, o alla fossa, se il
carro veniva più tardi. Forse, o sciagura degna di lacrime ancor più amare! la
madre, tutta occupata de' suoi patimenti, aveva dimenticato ogni cosa, anche i
figli, e non aveva più che un pensiero: di morire in pace. Pure, in tanta
confusione, si vedeva ancora qualche esempio di fermezza e di pietà: padri, madri,
fratelli, figli, consorti, che sostenevano i cari loro, e gli accompagnavano
con parole di conforto: né adulti soltanto, ma ragazzetti, ma fanciulline che
guidavano i fratellini più teneri, e, con giudizio e con compassione da grandi,
raccomandavano loro d'essere ubbidienti, gli assicuravano che s'andava in un
luogo dove c'era chi avrebbe cura di loro per farli guarire.
In
mezzo alla malinconia e alla tenerezza di tali viste, una cosa toccava più sul
vivo, e teneva in agitazione il nostro viaggiatore. La casa doveva esser lì
vicina, e chi sa se tra quella gente... Ma passata tutta la comitiva, e cessato
quel dubbio, si voltò a un monatto che veniva dietro, e gli domandò della
strada e della casa di don Ferrante. - In malora, tanghero, - fu la risposta che
n'ebbe. Né si curò di dare a colui quella che si meritava; ma, visto, a due
passi, un commissario che veniva in coda al convoglio, e aveva un viso un po'
più di cristiano, fece a lui la stessa domanda. Questo, accennando con un
bastone la parte donde veniva, disse: - la prima strada a diritta, l'ultima
casa grande a sinistra.
Con una
nuova e più forte ansietà in cuore, il giovine prende da quella parte. È nella
strada; distingue subito la casa tra l'altre, più basse e meschine; s'accosta
al portone che è chiuso, mette la mano sul martello, e ce la tien sospesa, come
in un'urna, prima di tirar su la polizza dove fosse scritta la sua vita, o la
sua morte. Finalmente alza il martello, e dà un picchio risoluto.
Dopo
qualche momento, s'apre un poco una finestra; una donna fa capolino, guardando
chi era, con un viso ombroso che par che dica: monatti? vagabondi? commissari?
untori? diavoli?
-
Quella signora, - disse Renzo guardando in su, e con voce non troppo sicura: -
ci sta qui a servire una giovine di campagna, che ha nome Lucia?
- La
non c'è più; andate, - rispose quella donna, facendo atto di chiudere.
- Un
momento, per carità! La non c'è più? Dov'è?
- Al
lazzeretto -; e di nuovo voleva chiudere.
- Ma un
momento, per l'amor del cielo! Con la peste?
- Già.
Cosa nuova, eh? Andate.
- Oh
povero me! Aspetti: era ammalata molto? Quanto tempo è...?
Ma
intanto la finestra fu chiusa davvero.
-
Quella signora! quella signora! una parola, per carità! per i suoi poveri
morti! Non le chiedo niente del suo: ohe! - Ma era come dire al muro.
Afflitto
della nuova, e arrabbiato della maniera, Renzo afferrò ancora il martello, e,
così appoggiato alla porta, andava stringendolo e storcendolo, l'alzava per
picchiar di nuovo alla disperata, poi lo teneva sospeso. In quest'agitazione,
si voltò per vedere se mai ci fosse d'intorno qualche vicino, da cui potesse
forse aver qualche informazione più precisa, qualche indizio, qualche lume. Ma
la prima, l'unica persona che vide, fu un'altra donna, distante forse un venti
passi; la quale, con un viso ch'esprimeva terrore, odio, impazienza e malizia,
con cert'occhi stravolti che volevano insieme guardar lui, e guardar lontano,
spalancando la bocca come in atto di gridare a più non posso, ma rattenendo
anche il respiro, alzando due braccia scarne, allungando e ritirando due mani
grinzose e piegate a guisa d'artigli, come se cercasse d'acchiappar qualcosa,
si vedeva che voleva chiamar gente, in modo che qualcheduno non se
n'accorgesse. Quando s'incontrarono a guardarsi, colei, fattasi ancor più brutta,
si riscosse come persona sorpresa.
- Che
diamine...? - cominciava Renzo, alzando anche lui le mani verso la donna; ma
questa, perduta la speranza di poterlo far cogliere all'improvviso, lasciò
scappare il grido che aveva rattenuto fin allora: - l'untore! dàgli! dàgli!
dàgli all'untore!
- Chi?
io! ah strega bugiarda! sta' zitta, - gridò Renzo; e fece un salto verso di
lei, per impaurirla e farla chetare. Ma s'avvide subito, che aveva bisogno
piuttosto di pensare ai casi suoi. Allo strillar della vecchia, accorreva gente
di qua e di là; non la folla che, in un caso simile, sarebbe stata, tre mesi
prima; ma più che abbastanza per poter fare d'un uomo solo quel che volessero.
Nello stesso tempo, s'aprì di nuovo la finestra, e quella medesima sgarbata di
prima ci s'affacciò questa volta, e gridava anche lei: - pigliatelo,
pigliatelo; che dev'essere uno di que' birboni che vanno in giro a unger le
porte de' galantuomini.
Renzo
non istette lì a pensare: gli parve subito miglior partito sbrigarsi da coloro,
che rimanere a dir le sue ragioni: diede un'occhiata a destra e a sinistra, da
che parte ci fosse men gente, e svignò di là. Rispinse con un urtone uno che
gli parava la strada; con un gran punzone nel petto, fece dare indietro otto o
dieci passi un altro che gli correva incontro; e via di galoppo, col pugno in
aria, stretto, nocchiuto, pronto per qualunque altro gli fosse venuto tra'
piedi. La strada davanti era sempre libera; ma dietro le spalle sentiva il
calpestìo e, più forti del calpestìo, quelle grida amare: - dàgli! dàgli!
all'untore! - Non sapeva quando fossero per fermarsi; non vedeva dove si
potrebbe mettere in salvo. L'ira divenne rabbia, l'angoscia si cangiò in
disperazione; e, perso il lume degli occhi, mise mano al suo coltellaccio, lo
sfoderò, si fermò su due piedi, voltò indietro il viso più torvo e più cagnesco
che avesse fatto a' suoi giorni; e, col braccio teso, brandendo in aria la lama
luccicante, gridò: - chi ha cuore, venga avanti, canaglia! che l'ungerò io
davvero con questo.
Ma, con
maraviglia, e con un sentimento confuso di consolazione, vide che i suoi
persecutori s'eran già fermati, e stavan lì come titubanti, e che, seguitando a
urlare, facevan, con le mani per aria, certi cenni da spiritati, come a gente
che venisse di lontano dietro a lui. Si voltò di nuovo, e vide (ché il gran
turbamento non gliel aveva lasciato vedere un momento prima) un carro che
s'avanzava, anzi una fila di que' soliti carri funebri, col solito
accompagnamento; e dietro, a qualche distanza, un altro mucchietto di gente che
avrebbero voluto anche loro dare addosso all'untore, e prenderlo in mezzo; ma
eran trattenuti dall'impedimento medesimo. Vistosi così tra due fuochi, gli
venne in mente che ciò che era di terrore a coloro, poteva essere a lui di
salvezza; pensò che non era tempo di far lo schizzinoso; rimise il coltellaccio
nel fodero, si tirò da una parte, prese la rincorsa verso i carri, passò il
primo, e adocchiò nel secondo un buono spazio voto. Prende la mira, spicca un
salto; è su, piantato sul piede destro, col sinistro in aria, e con le braccia
alzate.
-
Bravo! bravo! - esclamarono, a una voce, i monatti, alcuni de' quali seguivano
il convoglio a piedi, altri eran seduti sui carri, altri, per dire l'orribil
cosa com'era, sui cadaveri, trincando da un gran fiasco che andava in giro. -
Bravo! bel colpo!
- Sei
venuto a metterti sotto la protezione de' monatti; fa' conto d'essere in
chiesa, - gli disse uno de' due che stavano sul carro dov'era montato.
I
nemici, all'avvicinarsi del treno, avevano, i più, voltate le spalle, e se
n'andavano, non lasciando di gridare: - dàgli! dàgli! all'untore! - Qualcheduno
si ritirava più adagio, fermandosi ogni tanto, e voltandosi, con versacci e con
gesti di minaccia, a Renzo; il quale, dal carro, rispondeva loro dibattendo i
pugni in aria.
-
Lascia fare a me, - gli disse un monatto; e strappato d'addosso a un cadavere
un laido cencio, l'annodò in fretta, e, presolo per una delle cocche, l'alzò
come una fionda verso quegli ostinati, e fece le viste di buttarglielo,
gridando: - aspetta, canaglia! - A quell'atto, fuggiron tutti, inorriditi; e
Renzo non vide più che schiene di nemici, e calcagni che ballavano rapidamente
per aria, a guisa di gualchiere.
Tra i
monatti s'alzò un urlo di trionfo, uno scroscio procelloso di risa, un - uh! -
prolungato, come per accompagnar quella fuga.
- Ah
ah! vedi se noi sappiamo proteggere i galantuomini? disse a Renzo quel monatto:
- val più uno di noi che cento di que' poltroni.
-
Certo, posso dire che vi devo la vita, - rispose Renzo: - e vi ringrazio con
tutto il cuore.
- Di
che cosa? - disse il monatto: - tu lo meriti: si vede che sei un bravo giovine.
Fai bene a ungere questa canaglia: ungili, estirpali costoro, che non vaglion
qualcosa, se non quando son morti; che, per ricompensa della vita che facciamo,
ci maledicono, e vanno dicendo che, finita la morìa, ci voglion fare impiccar
tutti. Hanno a finir prima loro che la morìa, e i monatti hanno a restar soli,
a cantar vittoria, e a sguazzar per Milano.
- Viva
la morìa, e moia la marmaglia! - esclamò l'altro; e, con questo bel brindisi,
si mise il fiasco alla bocca, e, tenendolo con tutt'e due le mani, tra le
scosse del carro, diede una buona bevuta, poi lo porse a Renzo, dicendo: - bevi
alla nostra salute.
- Ve
l'auguro a tutti, con tutto il cuore, - disse Renzo: - ma non ho sete; non ho
proprio voglia di bere in questo momento.
- Tu
hai avuto una bella paura, a quel che mi pare, - disse il monatto: - m'hai
l'aria d'un pover'uomo; ci vuol altri visi a far l'untore.
-
Ognuno s'ingegna come può, - disse l'altro.
-
Dammelo qui a me, - disse uno di quelli che venivano a piedi accanto al carro,
- ché ne voglio bere anch'io un altro sorso, alla salute del suo padrone, che
si trova qui in questa bella compagnia... lì, lì, appunto, mi pare, in quella
bella carrozzata.
E, con
un suo atroce e maledetto ghigno, accennava il carro davanti a quello su cui
stava il povero Renzo. Poi, composto il viso a un atto di serietà ancor più
bieco e fellonesco, fece una riverenza da quella parte, e riprese: - si
contenta, padron mio, che un povero monattuccio assaggi di quello della sua
cantina? Vede bene: si fa certe vite: siam quelli che l'abbiam messo in
carrozza, per condurlo in villeggiatura. E poi, già a loro signori il vino fa
subito male: i poveri monatti han lo stomaco buono.
E tra
le risate de' compagni, prese il fiasco, e l'alzò; ma, prima di bere, si voltò
a Renzo, gli fissò gli occhi in viso, e gli disse, con una cert'aria di
compassione sprezzante: - bisogna che il diavolo col quale hai fatto il patto,
sia ben giovine; ché, se non eravamo lì noi a salvarti, lui ti dava un
bell'aiuto -. E tra un nuovo scroscio di risa, s'attaccò il fiasco alle labbra.
- E
noi? eh! e noi? - gridaron più voci dal carro ch'era avanti. Il birbone,
tracannato quanto ne volle, porse, con tutt'e due le mani, il gran fiasco a
quegli altri suoi simili, i quali se lo passaron dall'uno all'altro, fino a uno
che, votatolo, lo prese per il collo, gli fece fare il mulinello, e lo scagliò
a fracassarsi sulle lastre, gridando: - viva la morìa! - Dietro a queste
parole, intonò una loro canzonaccia; e subito alla sua voce s'accompagnaron
tutte l'altre di quel turpe coro. La cantilena infernale, mista al tintinnìo
de' campanelli, al cigolìo de' carri, al calpestìo de' cavalli, risonava nel
voto silenzioso delle strade, e, rimbombando nelle case, stringeva amaramente
il cuore de' pochi che ancor le abitavano.
Ma cosa
non può alle volte venire in acconcio? cosa non può far piacere in qualche
caso? Il pericolo d'un momento prima aveva resa più che tollerabile a Renzo la
compagnia di que' morti e di que' vivi; e ora fu a' suoi orecchi una musica,
sto per dire, gradita, quella che lo levava dall'impiccio d'una tale
conversazione. Ancor mezzo affannato, e tutto sottosopra, ringraziava intanto
alla meglio in cuor suo la Provvidenza, d'essere uscito d'un tal frangente,
senza ricever male né farne; la pregava che l'aiutasse ora a liberarsi anche
da' suoi liberatori; e dal canto suo, stava all'erta, guardava quelli, guardava
la strada, per cogliere il tempo di sdrucciolar giù quatto quatto, senza dar
loro occasione di far qualche rumore, qualche scenata, che mettesse in malizia
i passeggieri.
Tutt'a
un tratto, a una cantonata, gli parve di riconoscere il luogo: guardò più
attentamente, e ne fu sicuro. Sapete dov'era? Sul corso di porta orientale, in
quella strada per cui era venuto adagio, e tornato via in fretta, circa venti
mesi prima. Gli venne subito in mente che di lì s'andava diritto al lazzeretto;
e questo trovarsi sulla strada giusta, senza studiare, senza domandare, l'ebbe
per un tratto speciale della Provvidenza, e per buon augurio del rimanente. In
quel punto, veniva incontro ai carri un commissario, gridando a' monatti di
fermare, e non so che altro: il fatto è che il convoglio si fermò, e la musica si
cambiò in un diverbio rumoroso, Uno de' monatti ch'eran sul carro di Renzo,
saltò giù: Renzo disse all'altro: - vi ringrazio della vostra carità: Dio ve ne
renda merito -; e giù anche lui, dall'altra parte.
- Va',
va', povero untorello, - rispose colui: - non sarai tu quello che spianti
Milano.
Per
fortuna, non c'era chi potesse sentire. Il convoglio era fermato sulla sinistra
del corso: Renzo prende in fretta dall'altra parte, e, rasentando il muro,
trotta innanzi verso il ponte; lo passa, continua per la strada del borgo,
riconosce il convento de' cappuccini, è vicino alla porta, vede spuntar
l'angolo del lazzeretto, passa il cancello, e gli si spiega davanti la scena
esteriore di quel recinto: un indizio appena e un saggio, e già una vasta,
diversa, indescrivibile scena.
Lungo i
due lati che si presentano a chi guardi da quel punto, era tutto un brulichìo;
erano ammalati che andavano, in compagnie, al lazzeretto; altri che sedevano o
giacevano sulle sponde del fossato che lo costeggia; sia che le forze non
fosser loro bastate per condursi fin dentro al ricovero, sia che, usciti di là
per disperazione, le forze fosser loro ugualmente mancate per andar più avanti.
Altri meschini erravano sbandati, come stupidi, e non pochi fuor di sé affatto;
uno stava tutto infervorato a raccontar le sue immaginazioni a un disgraziato
che giaceva oppresso dal male; un altro dava nelle smanie; un altro guardava in
qua e in là con un visino ridente, come se assistesse a un lieto spettacolo. Ma
la specie più strana e più rumorosa d'una tal trista allegrezza, era un cantare
alto e continuo, il quale pareva che non venisse fuori da quella miserabile
folla, e pure si faceva sentire più che tutte l'altre voci: una canzone
contadinesca d'amore gaio e scherzevole, di quelle che chiamavan villanelle; e
andando con lo sguardo dietro al suono, per iscoprire chi mai potesse esser
contento, in quel tempo, in quel luogo, si vedeva un meschino che, seduto
tranquillamente in fondo al fossato, cantava a più non posso, con la testa per
aria.
Renzo
aveva appena fatti alcuni passi lungo il lato meridionale dell'edifizio, che si
sentì in quella moltitudine un rumore straordinario, e di lontano voci che
gridavano: guarda! piglia! S'alza in punta di piedi, e vede un cavallaccio che
andava di carriera, spinto da un più strano cavaliere: era un frenetico che,
vista quella bestia sciolta e non guardata, accanto a un carro, c'era montato
in fretta a bisdosso, e, martellandole il collo co' pugni, e facendo sproni de'
calcagni, la cacciava in furia; e monatti dietro, urlando; e tutto si ravvolse
in un nuvolo di polvere, che volava lontano.
Così,
già sbalordito e stanco di veder miserie, il giovine arrivò alla porta di quel
luogo dove ce n'erano adunate forse più che non ce ne fosse di sparse in tutto
lo spazio che gli era già toccato di percorrere. S'affaccia a quella porta,
entra sotto la volta, e rimane un momento immobile a mezzo del portico.
S'immagini
il lettore il recinto del lazzeretto, popolato di sedici mila appestati; quello
spazio tutt'ingombro, dove di capanne e di baracche, dove di carri, dove di
gente; quelle due interminate fughe di portici, a destra e a sinistra, piene,
gremite di languenti o di cadaveri confusi, sopra sacconi, o sulla paglia; e su
tutto quel quasi immenso covile, un brulichìo, come un ondeggiamento; e qua e
là, un andare e venire, un fermarsi, un correre, un chinarsi, un alzarsi, di
convalescenti, di frenetici, di serventi. Tale fu lo spettacolo che riempì a un
tratto la vista di Renzo, e lo tenne lì, sopraffatto e compreso. Questo
spettacolo, noi non ci proponiam certo di descriverlo a parte a parte, né il
lettore lo desidera; solo, seguendo il nostro giovine nel suo penoso giro, ci
fermeremo alle sue fermate, e di ciò che gli toccò di vedere diremo quanto sia
necessario a raccontar ciò che fece, e ciò che gli seguì.
Dalla
porta dove s'era fermato, fino alla cappella del mezzo, e di là all'altra porta
in faccia, c'era come un viale sgombro di capanne e d'ogni altro impedimento
stabile; e alla seconda occhiata, Renzo vide in quello un tramenìo di carri, un
portar via roba, per far luogo; vide cappuccini e secolari che dirigevano
quell'operazione, e insieme mandavan via chi non ci avesse che fare. E temendo
d'essere anche lui messo fuori in quella maniera, si cacciò addirittura tra le
capanne, dalla parte a cui si trovava casualmente voltato, alla diritta.
Andava
avanti, secondo che vedeva posto da poter mettere il piede, da capanna a
capanna, facendo capolino in ognuna, e osservando i letti ch'eran fuori allo
scoperto, esaminando volti abbattuti dal patimento, o contratti dallo spasimo,
o immobili nella morte, se mai gli venisse fatto di trovar quello che pur
temeva di trovare. Ma aveva già fatto un bel pezzetto di cammino, e ripetuto
più e più volte quel doloroso esame, senza veder mai nessuna donna: onde
s'immaginò che dovessero essere in un luogo separato. E indovinava; ma dove
fosse, non n'aveva indizio, né poteva argomentarlo. Incontrava ogni tanto
ministri, tanto diversi d'aspetto e di maniere e d'abito, quanto diverso e
opposto era il principio che dava agli uni e agli altri una forza uguale di
vivere in tali servizi: negli uni l'estinzione d'ogni senso di pietà, negli
altri una pietà sovrumana. Ma né agli uni né agli altri si sentiva di far
domande, per non procacciarsi alle volte un inciampo; e deliberò d'andare,
andare, fin che arrivasse a trovar donne. E andando non lasciava di spiare
intorno; ma di tempo in tempo era costretto a ritirare lo sguardo contristato,
e come abbagliato da tante piaghe. Ma dove rivolgerlo, dove riposarlo, che
sopra altre piaghe?
L'aria
stessa e il cielo accrescevano, se qualche cosa poteva accrescerlo, l'orrore di
quelle viste. La nebbia s'era a poco a poco addensata e accavallata in nuvoloni
che, rabbuiandosi sempre più, davano idea d'un annottar tempestoso; se non che,
verso il mezzo di quel cielo cupo e abbassato, traspariva, come da un fitto
velo, la spera del sole, pallida, che spargeva intorno a sé un barlume fioco e
sfumato, e pioveva un calore morto e pesante. Ogni tanto, tra mezzo al ronzìo
continuo di quella confusa moltitudine, si sentiva un borbottar di tuoni,
profondo, come tronco, irresoluto; né, tendendo l'orecchio, avreste saputo
distinguere da che parte venisse; o avreste potuto crederlo un correr lontano
di carri, che si fermassero improvvisamente. Non si vedeva, nelle campagne
d'intorno, moversi un ramo d'albero, né un uccello andarvisi a posare, o
staccarsene: solo la rondine, comparendo subitamente di sopra il tetto del
recinto, sdrucciolava in giù con l'ali tese, come per rasentare il terreno del
campo; ma sbigottita da quel brulichìo, risaliva rapidamente, e fuggiva. Era
uno di que' tempi, in cui, tra una compagnia di viandanti non c'è nessuno che
rompa il silenzio; e il cacciatore cammina pensieroso, con lo sguardo a terra;
e la villana, zappando nel campo, smette di cantare, senza avvedersene; di que'
tempi forieri della burrasca, in cui la natura, come immota al di fuori, e
agitata da un travaglio interno, par che opprima ogni vivente, e aggiunga non
so quale gravezza a ogni operazione, all'ozio, all'esistenza stessa. Ma in quel
luogo destinato per sé al patire e al morire, si vedeva l'uomo già alle prese
col male soccombere alla nuova oppressione; si vedevan centinaia e centinaia
peggiorar precipitosamente; e insieme, l'ultima lotta era più affannosa, e
nell'aumento de' dolori, i gemiti più soffogati: né forse su quel luogo di
miserie era ancor passata un'ora crudele al par di questa.
Già
aveva il giovine girato un bel pezzo, e senza frutto, per quell'andirivieni di capanne,
quando, nella varietà de' lamenti e nella confusione del mormorìo, cominciò a
distinguere un misto singolare di vagiti e di belati; fin che arrivò a un
assito scheggiato e sconnesso, di dentro il quale veniva quel suono
straordinario. Mise un occhio a un largo spiraglio, tra due asse, e vide un
recinto con dentro capanne sparse, e, così in quelle, come nel piccol campo,
non la solita infermeria, ma bambinelli a giacere sopra materassine, o
guanciali, o lenzoli distesi, o topponi; e balie e altre donne in faccende; e,
ciò che più di tutto attraeva e fermava lo sguardo, capre mescolate con quelle,
e fatte loro aiutanti: uno spedale d'innocenti, quale il luogo e il tempo
potevan darlo. Era, dico, una cosa singolare a vedere alcune di quelle bestie,
ritte e quiete sopra questo e quel bambino, dargli la poppa; e qualche altra
accorrere a un vagito, come con senso materno, e fermarsi presso il piccolo
allievo, e procurar d'accomodarcisi sopra, e belare, e dimenarsi, quasi
chiamando chi venisse in aiuto a tutt'e due.
Qua e
là eran sedute balie con bambini al petto; alcune in tal atto d'amore, da far
nascer dubbio nel riguardante, se fossero state attirate in quel luogo dalla
paga, o da quella carità spontanea che va in cerca de' bisogni e de' dolori.
Una di esse, tutta accorata, staccava dal suo petto esausto un meschinello
piangente, e andava tristamente cercando la bestia, che potesse far le sue
veci. Un'altra guardava con occhio di compiacenza quello che le si era
addormentato alla poppa, e baciatolo mollemente, andava in una capanna a
posarlo sur una materassina. Ma una terza, abbandonando il suo petto al
lattante straniero, con una cert'aria però non di trascuranza, ma di
preoccupazione, guardava fisso il cielo: a che pensava essa, in quell'atto, con
quello sguardo, se non a un nato dalle sue viscere, che, forse poco prima,
aveva succhiato quel petto, che forse c'era spirato sopra? Altre donne più
attempate attendevano ad altri servizi. Una accorreva alle grida d'un bambino
affamato, lo prendeva, e lo portava vicino a una capra che pascolava a un
mucchio d'erba fresca, e glielo presentava alle poppe, gridando l'inesperto
animale e accarezzandolo insieme, affinché si prestasse dolcemente all'ufizio.
Questa correva a prendere un poverino, che una capra tutt'intenta a allattarne
un altro, pestava con una zampa: quella portava in qua e in la il suo,
ninnandolo, cercando, ora d'addormentarlo col canto, ora d'acquietarlo con
dolci parole, chiamandolo con un nome ch'essa medesima gli aveva messo. Arrivò
in quel punto un cappuccino con la barba bianchissima, portando due bambini
strillanti, uno per braccio, raccolti allora vicino alle madri spirate; e una
donna corse a riceverli, e andava guardando tra la brigata e nel gregge, per
trovar subito chi tenesse lor luogo di madre.
Più
d'una volta il giovine, spinto da quello ch'era il primo, e il più forte de'
suoi pensieri, s'era staccato dallo spiraglio per andarsene; e poi ci aveva
rimesso l'occhio, per guardare ancora un momento.
Levatosi
di lì finalmente, andò costeggiando l'assito, fin che un mucchietto di capanne
appoggiate a quello, lo costrinse a voltare. Andò allora lungo le capanne, con
la mira di riguadagnar l'assito, d'andar fino alla fine di quello, e scoprir
paese nuovo. Ora, mentre guardava innanzi, per studiar la strada,
un'apparizione repentina, passeggiera, istantanea, gli ferì lo sguardo, e gli
mise l'animo sottosopra. Vide, a un cento passi di distanza, passare e perdersi
subito tra le baracche un cappuccino, un cappuccino che, anche così da lontano
e così di fuga, aveva tutto l'andare, tutto il fare, tutta la forma del padre
Cristoforo. Con la smania che potete pensare, corse verso quella parte; e lì, a
girare, a cercare, innanzi, indietro, dentro e fuori, per quegli andirivieni,
tanto che rivide, con altrettanta gioia, quella forma, quel frate medesimo; lo
vide poco lontano, che, scostandosi da una caldaia, andava, con una scodella in
mano, verso una capanna; poi lo vide sedersi sull'uscio di quella, fare un
segno di croce sulla scodella che teneva dinanzi; e, guardando intorno, come
uno che stia sempre all'erta, mettersi a mangiare. Era proprio il padre
Cristoforo.
La
storia del quale, dal punto che l'abbiam perduto di vista, fino a
quest'incontro, sarà raccontata in due parole. Non s'era mai mosso da Rimini,
né aveva pensato a moversene, se non quando la peste scoppiata in Milano gli
offrì occasione di ciò che aveva sempre tanto desiderato, di dar la sua vita
per il prossimo. Pregò, con grand'istanza, d'esserci richiamato, per assistere
e servire gli appestati. Il conte zio era morto; e del resto c'era più bisogno
d'infermieri che di politici: sicché fu esaudito senza difficoltà. Venne subito
a Milano; entrò nel lazzeretto; e c'era da circa tre mesi.
Ma la
consolazione di Renzo nel ritrovare il suo buon frate, non fu intera neppure un
momento: nell'atto stesso d'accertarsi ch'era lui, dovette vedere quant'era
mutato. Il portamento curvo e stentato; il viso scarno e smorto; e in tutto si
vedeva una natura esausta, una carne rotta e cadente, che s'aiutava e si
sorreggeva, ogni momento, con uno sforzo dell'animo.
Andava
anche lui fissando lo sguardo nel giovine che veniva verso di lui, e che, col
gesto, non osando con la voce, cercava di farsi distinguere e riconoscere. - Oh
padre Cristoforo! - disse poi, quando gli fu vicino da poter esser sentito
senza alzar la voce.
- Tu
qui! - disse il frate, posando in terra la scodella, e alzandosi da sedere.
- Come
sta, padre? come sta?
-
Meglio di tanti poverini che tu vedi qui, - rispose il frate: e la sua voce era
fioca, cupa, mutata come tutto il resto. L'occhio soltanto era quello di prima,
e un non so che più vivo e più splendido; quasi la carità, sublimata
nell'estremo dell'opera, ed esultante di sentirsi vicina al suo principio, ci
rimettesse un fuoco più ardente e più puro di quello che l'infermità ci andava
a poco a poco spegnendo.
- Ma
tu, - proseguiva, - come sei qui? perché vieni così ad affrontar la peste?
- L'ho
avuta, grazie al cielo. Vengo... a cercar di... Lucia.
-
Lucia! è qui Lucia?
- È
qui: almeno spero in Dio che ci sia ancora.
- È tua
moglie?
- Oh
caro padre! no che non è mia moglie. Non sa nulla di tutto quello che è
accaduto?
- No,
figliuolo: da che Dio m'ha allontanato da voi altri, io non n'ho saputo più
nulla; ma ora ch'Egli mi ti manda, dico la verità che desidero molto di
saperne. Ma... e il bando?
- Le sa
dunque, le cose che m'hanno fatto?
- Ma
tu, che avevi fatto?
-
Senta, se volessi dire d'aver avuto giudizio, quel giorno in Milano, direi una
bugia; ma cattive azioni non n'ho fatte punto.
- Te lo
credo, e lo credevo anche prima.
- Ora
dunque le potrò dir tutto.
-
Aspetta, - disse il frate; e andato alcuni passi fuor della capanna, chiamò: -
padre Vittore! - Dopo qualche momento, comparve un giovine cappuccino, al quale
disse: - fatemi la carità, padre Vittore, di guardare anche per me, a questi
nostri poverini, intanto ch'io me ne sto ritirato; e se alcuno però mi volesse,
chiamatemi. Quel tale principalmente! se mai desse il più piccolo segno di
tornare in sé, avvisatemi subito, per carità.
- Non
dubitate, - rispose il giovine; e il vecchio, tornato verso Renzo, - entriamo
qui, - gli disse. - Ma... - soggiunse subito, fermandosi, - tu mi pari ben
rifinito: devi aver bisogno di mangiare.
- È
vero, - disse Renzo: - ora che lei mi ci fa pensare, mi ricordo che sono ancora
digiuno.
-
Aspetta, - disse il frate; e, presa un'altra scodella, l'andò a empire alla
caldaia: tornato, la diede, con un cucchiaio, a Renzo; lo fece sedere sur un
saccone che gli serviva di letto; poi andò a una botte ch'era in un canto, e ne
spillò un bicchier di vino, che mise sur un tavolino, davanti al suo convitato;
riprese quindi la sua scodella, e si mise a sedere accanto a lui.
- Oh
padre Cristoforo! - disse Renzo: - tocca a lei a far codeste cose? Ma già lei è
sempre quel medesimo. La ringrazio proprio di cuore.
- Non
ringraziar me, - disse il frate: - è roba de' poveri; ma anche tu sei un
povero, in questo momento. Ora dimmi quello che non so, dimmi di quella nostra
poverina; e cerca di spicciarti; ché c'è poco tempo, e molto da fare, come tu
vedi.
Renzo
principiò, tra una cucchiaiata e l'altra, la storia di Lucia: com'era stata
ricoverata nel monastero di Monza, come rapita... All'immagine di tali
patimenti e di tali pericoli, al pensiero d'essere stato lui quello che aveva
indirizzata in quel luogo la povera innocente, il buon frate rimase senza
fiato; ma lo riprese subito, sentendo com'era stata mirabilmente liberata, resa
alla madre, e allogata da questa presso a donna Prassede.
- Ora
le racconterò di me, - proseguì Renzo; e raccontò in succinto la giornata di
Milano, la fuga; e come era sempre stato lontano da casa, e ora, essendo ogni
cosa sottosopra, s'era arrischiato d'andarci; come non ci aveva trovato Agnese;
come in Milano aveva saputo che Lucia era al lazzeretto. - E son qui, -
concluse, - son qui a cercarla, a veder se è viva, e se... mi vuole ancora...
perché... alle volte...
- Ma, -
domandò il frate, - hai qualche indizio dove sia stata messa, quando ci sia
venuta?
-
Niente, caro padre; niente se non che è qui, se pur la c'è, che Dio voglia!
- Oh
poverino! ma che ricerche hai tu finora fatte qui?
- Ho
girato e rigirato; ma, tra l'altre cose, non ho mai visto quasi altro che
uomini. Ho ben pensato che le donne devono essere in un luogo a parte, ma non
ci sono mai potuto arrivare: se è così, ora lei me l'insegnerà.
- Non
sai, figliuolo, che è proibito d'entrarci agli uomini che non abbiano qualche
incombenza?
-
Ebbene, cosa mi può accadere?
- La
regola è giusta e santa, figliuolo caro; e se la quantità e la gravezza de'
guai non lascia che si possa farla osservar con tutto il rigore, è una ragione
questa perché un galantuomo la trasgredisca?
- Ma,
padre Cristoforo! - disse Renzo: - Lucia doveva esser mia moglie; lei sa come
siamo stati separati; son venti mesi che patisco, e ho pazienza; son venuto fin
qui, a rischio di tante cose, l'una peggio dell'altra, e ora...
- Non
so cosa dire, - riprese il frate, rispondendo piuttosto a' suoi pensieri che
alle parole del giovine: - tu vai con buona intenzione; e piacesse a Dio che
tutti quelli che hanno libero l'accesso in quel luogo, ci si comportassero come
posso fidarmi che farai tu. Dio, il quale certamente benedice questa tua
perseveranza d'affetto, questa tua fedeltà in volere e in cercare colei ch'Egli
t'aveva data; Dio, che è più rigoroso degli uomini, ma più indulgente, non
vorrà guardare a quel che ci possa essere d'irregolare in codesto tuo modo di
cercarla. Ricordati solo, che, della tua condotta in quel luogo, avremo a
render conto tutt'e due; agli uomini facilmente no, ma a Dio senza dubbio. Vien
qui -. In così dire, s'alzò, e nel medesimo tempo anche Renzo; il quale, non
lasciando di dar retta alle sue parole, s'era intanto consigliato tra sé di non
parlare, come s'era proposto prima, di quella tal promessa di Lucia. "Se
sente anche questo, - aveva pensato, - mi fa dell'altre difficoltà sicuro. O la
trovo; e saremo sempre a tempo a discorrerne; o... e allora! che serve?"
Tiratolo
sull'uscio della capanna, ch'era a settentrione, il frate riprese: - Senti; il
nostro padre Felice, che è il presidente qui del lazzeretto, conduce oggi a far
la quarantina altrove i pochi guariti che ci sono. Tu vedi quella chiesa lì nel
mezzo... - e, alzando la mano scarna e tremolante, indicava a sinistra
nell'aria torbida la cupola della cappella, che torreggiava sopra le miserabili
tende; e proseguì: - là intorno si vanno ora radunando, per uscire in
processione dalla porta per la quale tu devi essere entrato.
- Ah!
era per questo dunque, che lavoravano a sbrattare la strada.
- Per
l'appunto: e tu devi anche aver sentito qualche tocco di quella campana.
- N'ho
sentito uno.
- Era
il secondo: al terzo saran tutti radunati: il padre Felice farà loro un piccolo
discorso; e poi s'avvierà con loro. Tu, a quel tocco, portati là; cerca di
metterti dietro quella gente, da una parte della strada, dove, senza
disturbare, né dar nell'occhio, tu possa vederli passare; e vedi... vedi... se
la ci fosse. Se Dio non ha voluto che la ci sia; quella parte, - e alzò di
nuovo la mano, accennando il lato dell'edifizio che avevan dirimpetto: - quella
parte della fabbrica, e una parte del terreno che è lì davanti, è assegnata
alle donne. Vedrai uno stecconato che divide questo da quel quartiere, ma in
certi luoghi interrotto, in altri aperto, sicché non troverai difficoltà per
entrare. Dentro poi, non facendo tu nulla che dia ombra a nessuno, nessuno
probabilmente non dirà nulla a te. Se però ti si facesse qualche ostacolo, dì
che il padre Cristoforo da *** ti conosce, e renderà conto di te. Cercala lì;
cercala con fiducia e... con rassegnazione. Perché, ricordati che non è poco
ciò che tu sei venuto a cercar qui: tu chiedi una persona viva al lazzeretto!
Sai tu quante volte io ho veduto rinnovarsi questo mio povero popolo! quanti ne
ho veduti portar via! quanti pochi uscire!... Va' preparato a fare un
sacrifizio...
- Già;
intendo anch'io, - interruppe Renzo stravolgendo gli occhi, e cambiandosi tutto
in viso; - intendo! Vo: guarderò, cercherò, in un luogo, nell'altro, e poi
ancora, per tutto il lazzeretto, in lungo e in largo... e se non la trovo!...
- Se
non la trovi? - disse il frate, con un'aria di serietà e d'aspettativa, e con
uno sguardo che ammoniva.
Ma
Renzo, a cui la rabbia riaccesa dall'idea di quel dubbio aveva fatto perdere il
lume degli occhi, ripeté e seguitò: - se non la trovo, vedrò di trovare
qualchedun altro. O in Milano, o nel suo scellerato palazzo, o in capo al
mondo, o a casa del diavolo, lo troverò quel furfante che ci ha separati; quel
birbone che, se non fosse stato lui, Lucia sarebbe mia, da venti mesi; e se
eravamo destinati a morire, almeno saremmo morti insieme. Se c'è ancora colui,
lo troverò...
-
Renzo! - disse il frate, afferrandolo per un braccio, e guardandolo ancor più
severamente.
- E se
lo trovo, - continuò Renzo, cieco affatto dalla collera, - se la peste non ha
già fatto giustizia... Non è più il tempo che un poltrone, co' suoi bravi
d'intorno, possa metter la gente alla disperazione, e ridersene: è venuto un
tempo che gli uomini s'incontrino a viso a viso: e... la farò io la giustizia!
-
Sciagurato! - gridò il padre Cristoforo, con una voce che aveva ripresa tutta
l'antica pienezza e sonorità: - sciagurato! - e la sua testa cadente sul petto
s'era sollevata; le gote si colorivano dell'antica vita; e il fuoco degli occhi
aveva un non so che di terribile.
-
Guarda, sciagurato! - E mentre con una mano stringeva e scoteva forte il
braccio di Renzo, girava l'altra davanti a sé, accennando quanto più poteva
della dolorosa scena all'intorno. - Guarda chi è Colui che gastiga! Colui che
giudica, e non è giudicato! Colui che flagella e che perdona! Ma tu, verme
della terra, tu vuoi far giustizia! Tu lo sai, tu, quale sia la giustizia! Va',
sciagurato, vattene! Io, speravo... sì, ho sperato che, prima della mia morte,
Dio m'avrebbe data questa consolazione di sentir che la mia povera Lucia fosse
viva; forse di vederla, e di sentirmi prometter da lei che rivolgerebbe una
preghiera là verso quella fossa dov'io sarò. Va', tu m'hai levata la mia
speranza. Dio non l'ha lasciata in terra per te; e tu, certo, non hai l'ardire
di crederti degno che Dio pensi a consolarti. Avrà pensato a lei, perché lei è
una di quell'anime a cui son riservate le consolazioni eterne. Va'! non ho più
tempo di darti retta.
E così
dicendo, rigettò da sé il braccio di Renzo, e si mosse verso una capanna
d'infermi.
- Ah
padre! - disse Renzo, andandogli dietro in atto supplichevole: - mi vuol mandar
via in questa maniera?
- Come!
- riprese, con voce non meno severa, il cappuccino. - Ardiresti tu di
pretendere ch'io rubassi il tempo a questi afflitti, i quali aspettano ch'io
parli loro del perdono di Dio, per ascoltar le tue voci di rabbia, i tuoi
proponimenti di vendetta? T'ho ascoltato quando chiedevi consolazione e aiuto;
ho lasciata la carità per la carità; ma ora tu hai la tua vendetta in cuore:
che vuoi da me? vattene. Ne ho visti morire qui degli offesi che perdonavano;
degli offensori che gemevano di non potersi umiliare davanti all'offeso: ho
pianto con gli uni e con gli altri; ma con te che ho da fare?
- Ah
gli perdono! gli perdono davvero, gli perdono per sempre! - esclamò il giovine.
-
Renzo! - disse, con una serietà più tranquilla, il frate: pensaci; e dimmi un
poco quante volte gli hai perdonato.
E,
stato alquanto senza ricever risposta, tutt'a un tratto abbassò il capo, e, con
voce cupa e lenta, riprese: - tu sai perché io porto quest'abito.
Renzo
esitava.
- Tu lo
sai! - riprese il vecchio.
- Lo
so, - rispose Renzo.
- Ho
odiato anch'io: io, che t'ho ripreso per un pensiero, per una parola, l'uomo
ch'io odiavo cordialmente, che odiavo da gran tempo, io l'ho ucciso.
- Sì,
ma un prepotente, uno di quelli...
-
Zitto! - interruppe il frate: - credi tu che, se ci fosse una buona ragione, io
non l'avrei trovata in trent'anni? Ah! s'io potessi ora metterti in cuore il
sentimento che dopo ho avuto sempre, e che ho ancora, per l'uomo ch'io odiavo!
S'io potessi! io? ma Dio lo può: Egli lo faccia!... Senti, Renzo: Egli ti vuol
più bene di quel che te ne vuoi tu: tu hai potuto macchinar la vendetta; ma
Egli ha abbastanza forza e abbastanza misericordia per impedirtela; ti fa una
grazia di cui qualchedun altro era troppo indegno. Tu sai, tu l'hai detto tante
volte, ch'Egli può fermar la mano d'un prepotente; ma sappi che può anche
fermar quella d'un vendicativo. E perché sei povero, perché sei offeso, credi
tu ch'Egli non possa difendere contro di te un uomo che ha creato a sua
immagine? Credi tu ch'Egli ti lascerebbe fare tutto quello che vuoi? No! ma sai
tu cosa puoi fare? Puoi odiare, e perderti; puoi, con un tuo sentimento, allontanar
da te ogni benedizione. Perché, in qualunque maniera t'andassero le cose,
qualunque fortuna tu avessi, tien per certo che tutto sarà gastigo, finché tu
non abbia perdonato in maniera da non poter mai più dire: io gli perdono.
- Sì,
sì, - disse Renzo, tutto commosso, e tutto confuso: capisco che non gli avevo
mai perdonato davvero; capisco che ho parlato da bestia, e non da cristiano: e
ora, con la grazia del Signore, sì, gli perdono proprio di cuore.
- E se
tu lo vedessi?
-
Pregherei il Signore di dar pazienza a me, e di toccare il cuore a lui.
- Ti
ricorderesti che il Signore non ci ha detto di perdonare a' nostri nemici, ci
ha detto d'amarli? Ti ricorderesti ch'Egli lo ha amato a segno di morir per
lui?
- Sì,
col suo aiuto.
-
Ebbene, vieni con me. Hai detto: lo troverò; lo troverai. Vieni, e vedrai con
chi tu potevi tener odio, a chi potevi desiderar del male, volergliene fare,
sopra che vita tu volevi far da padrone.
E,
presa la mano di Renzo, e strettala come avrebbe potuto fare un giovine sano,
si mosse. Quello, senza osar di domandar altro, gli andò dietro.
Dopo
pochi passi, il frate si fermò vicino all'apertura d'una capanna, fissò gli
occhi in viso a Renzo, con un misto di gravità e di tenerezza; e lo condusse
dentro.
La
prima cosa che si vedeva, nell'entrare, era un infermo seduto sulla paglia nel
fondo; un infermo però non aggravato, e che anzi poteva parer vicino alla
convalescenza; il quale, visto il padre, tentennò la testa, come accennando di
no: il padre abbassò la sua, con un atto di tristezza e di rassegnazione. Renzo
intanto, girando, con una curiosità inquieta, lo sguardo sugli altri oggetti,
vide tre o quattro infermi, ne distinse uno da una parte sur una materassa,
involtato in un lenzolo, con una cappa signorile indosso, a guisa di coperta:
lo fissò, riconobbe don Rodrigo, e fece un passo indietro; ma il frate,
facendogli di nuovo sentir fortemente la mano con cui lo teneva, lo tirò appiè
del covile, e, stesavi sopra l'altra mano, accennava col dito l'uomo che vi
giaceva.
Stava
l'infelice, immoto; spalancati gli occhi, ma senza sguardo; pallido il viso e
sparso di macchie nere; nere ed enfiate le labbra: l'avreste detto il viso d'un
cadavere, se una contrazione violenta non avesse reso testimonio d'una vita
tenace. Il petto si sollevava di quando in quando, con un respiro affannoso; la
destra, fuor della cappa, lo premeva vicino al cuore, con uno stringere adunco
delle dita, livide tutte, e sulla punta nere.
- Tu
vedi! - disse il frate, con voce bassa e grave. - Può esser gastigo, può esser
misericordia. Il sentimento che tu proverai ora per quest'uomo che t'ha offeso,
sì; lo stesso sentimento, il Dio, che tu pure hai offeso, avrà per te in quel
giorno. Benedicilo, e sei benedetto. Da quattro giorni è qui come tu lo vedi,
senza dar segno di sentimento. Forse il Signore è pronto a concedergli un'ora
di ravvedimento; ma voleva esserne pregato da te: forse vuole che tu ne lo
preghi con quella innocente; forse serba la grazia alla tua sola preghiera,
alla preghiera d'un cuore afflitto e rassegnato. Forse la salvezza di
quest'uomo e la tua dipende ora da te, da un tuo sentimento di perdono, di
compassione... d'amore!
Tacque;
e, giunte le mani, chinò il viso sopra di esse, e pregò: Renzo fece lo stesso.
Erano
da pochi momenti in quella positura, quando scoccò la campana. Si mossero
tutt'e due, come di concerto; e uscirono. Né l'uno fece domande, né l'altro
proteste: i loro visi parlavano.
- Va'
ora, - riprese il frate, - va' preparato, sia a ricevere una grazia, sia a fare
un sacrifizio; a lodar Dio, qualunque sia l'esito delle tue ricerche. E
qualunque sia, vieni a darmene notizia; noi lo loderemo insieme.
Qui,
senza dir altro, si separarono; uno tornò dond'era venuto; l'altro s'avviò alla
cappella, che non era lontana più d'un cento passi.
Chi
avrebbe mai detto a Renzo, qualche ora prima, che, nel forte d'una tal ricerca,
al cominciar de' momenti più dubbiosi e più decisivi, il suo cuore sarebbe
stato diviso tra Lucia e don Rodrigo? Eppure era così: quella figura veniva a
mischiarsi con tutte l'immagini care o terribili che la speranza o il timore
gli mettevan davanti a vicenda, in quel tragitto; le parole sentite appiè di
quel covile, si cacciavano tra i sì e i no, ond'era combattuta la sua mente; e
non poteva terminare una preghiera per l'esito felice del gran cimento, senza
attaccarci quella che aveva principiata là, e che lo scocco della campana aveva
troncata.
La
cappella ottangolare che sorge, elevata d'alcuni scalini, nel mezzo del
lazzeretto, era, nella sua costruzione primitiva, aperta da tutti i lati,
senz'altro sostegno che di pilastri e di colonne, una fabbrica, per dir così,
traforata: in ogni facciata un arco tra due intercolunni; dentro girava un
portico intorno a quella che si direbbe più propriamente chiesa, non composta
che d'otto archi, rispondenti a quelli delle facciate, con sopra una cupola; di
maniera che l'altare eretto nel centro, poteva esser veduto da ogni finestra
delle stanze del recinto, e quasi da ogni punto del campo. Ora, convertito
l'edifizio a tutt'altr'uso, i vani delle facciate son murati; ma l'antica
ossatura, rimasta intatta, indica chiaramente l'antico stato, e l'antica
destinazione di quello.
Renzo
s'era appena avviato, che vide il padre Felice comparire nel portico della
cappella, e affacciarsi sull'arco di mezzo del lato che guarda verso la città;
davanti al quale era radunata la comitiva, al piano, nella strada di mezzo; e
subito dal suo contegno s'accorse che aveva cominciata la predica.
Girò
per quelle viottole, per arrivare alla coda dell'uditorio, come gli era stato
suggerito. Arrivatoci, si fermò cheto cheto, lo scorse tutto con lo sguardo; ma
non vedeva di là altro che un folto, direi quasi un selciato di teste. Nel
mezzo, ce n'era un certo numero coperte di fazzoletti, o di veli: in quella parte
ficcò più attentamente gli occhi; ma, non arrivando a scoprirci dentro nulla di
più, gli alzò anche lui dove tutti tenevan fissi i loro. Rimase tocco e
compunto dalla venerabil figura del predicatore; e, con quel che gli poteva
restar d'attenzione in un tal momento d'aspettativa, sentì questa parte del
solenne ragionamento.
- Diamo
un pensiero ai mille e mille che sono usciti di là -; e, col dito alzato sopra
la spalla, accennava dietro sé la porta che mette al cimitero detto di san
Gregorio, il quale allora era tutto, si può dire, una gran fossa: - diamo
intorno un'occhiata ai mille e mille che rimangon qui, troppo incerti di dove
sian per uscire; diamo un'occhiata a noi, così pochi, che n'usciamo a
salvamento. Benedetto il Signore! Benedetto nella giustizia, benedetto nella
misericordia! benedetto nella morte, benedetto nella salute! benedetto in
questa scelta che ha voluto far di noi! Oh! perché l'ha voluto, figliuoli, se
non per serbarsi un piccol popolo corretto dall'afflizione, e infervorato dalla
gratitudine? se non a fine che, sentendo ora più vivamente, che la vita è un
suo dono, ne facciamo quella stima che merita una cosa data da Lui,
l'impieghiamo nell'opere che si possono offrire a Lui? se non a fine che la
memoria de' nostri patimenti ci renda compassionevoli e soccorrevoli ai nostri
prossimi? Questi intanto, in compagnia de' quali abbiamo penato, sperato,
temuto; tra i quali lasciamo degli amici, de' congiunti; e che tutti son poi
finalmente nostri fratelli; quelli tra questi, che ci vedranno passare in mezzo
a loro, mentre forse riceveranno qualche sollievo nel pensare che qualcheduno
esce pur salvo di qui, ricevano edificazione dal nostro contegno. Dio non
voglia che possano vedere in noi una gioia rumorosa, una gioia mondana d'avere
scansata quella morte, con la quale essi stanno ancor dibattendosi. Vedano che
partiamo ringraziando per noi, e pregando per loro; e possan dire: anche fuor
di qui, questi si ricorderanno di noi, continueranno a pregare per noi
meschini. Cominciamo da questo viaggio, da' primi passi che siam per fare, una
vita tutta di carità. Quelli che sono tornati nell'antico vigore, diano un
braccio fraterno ai fiacchi; giovani, sostenete i vecchi; voi che siete rimasti
senza figliuoli, vedete, intorno a voi, quanti figliuoli rimasti senza padre!
siatelo per loro! E questa carità, ricoprendo i vostri peccati, raddolcirà
anche i vostri dolori.
Qui un
sordo mormorìo di gemiti, un singhiozzìo che andava crescendo nell'adunanza, fu
sospeso a un tratto, nel vedere il predicatore mettersi una corda al collo, e
buttarsi in ginocchio: e si stava in gran silenzio, aspettando quel che fosse
per dire.
- Per
me, - disse, - e per tutti i miei compagni, che, senza alcun nostro merito,
siamo stati scelti all'alto privilegio di servir Cristo in voi; io vi chiedo
umilmente perdono se non abbiamo degnamente adempito un sì gran ministero. Se
la pigrizia, se l'indocilità della carne ci ha resi meno attenti alle vostre
necessità, men pronti alle vostre chiamate; se un'ingiusta impazienza, se un colpevol
tedio ci ha fatti qualche volta comparirvi davanti con un volto annoiato e
severo; se qualche volta il miserabile pensiero che voi aveste bisogno di noi,
ci ha portati a non trattarvi con tutta quell'umiltà che si conveniva, se la
nostra fragilità ci ha fatti trascorrere a qualche azione che vi sia stata di
scandolo; perdonateci! Così Dio rimetta a voi ogni vostro debito, e vi benedica
-. E, fatto sull'udienza un gran segno di croce, s'alzò.
Noi
abbiam potuto riferire, se non le precise parole, il senso almeno, il tema di
quelle che proferì davvero; ma la maniera con cui furon dette non è cosa da
potersi descrivere. Era la maniera d'un uomo che chiamava privilegio quello di
servir gli appestati, perché lo teneva per tale; che confessava di non averci degnamente
corrisposto, perché sentiva di non averci corrisposto degnamente; che chiedeva
perdono, perché era persuaso d'averne bisogno. Ma la gente che s'era veduti
d'intorno que' cappuccini non occupati d'altro che di servirla, e tanti n'aveva
veduti morire, e quello che parlava per tutti, sempre il primo alla fatica,
come nell'autorità, se non quando s'era trovato anche lui in fin di morte;
pensate con che singhiozzi, con che lacrime rispose a tali parole. Il mirabil
frate prese poi una gran croce ch'era appoggiata a un pilastro, se la inalberò
davanti, lasciò sull'orlo del portico esteriore i sandali, scese gli scalini,
e, tra la folla che gli fece rispettosamente largo, s'avviò per mettersi alla
testa di essa.
Renzo,
tutto lacrimoso, né più né meno che se fosse stato uno di quelli a cui era
chiesto quel singolare perdono, si ritirò anche lui, e andò a mettersi di
fianco a una capanna; e stette lì aspettando, mezzo nascosto, con la persona
indietro e la testa avanti, con gli occhi spalancati, con una gran palpitazion
di cuore, ma insieme con una certa nuova e particolare fiducia, nata, cred'io,
dalla tenerezza che gli aveva ispirata la predica, e lo spettacolo della
tenerezza generale.
Ed ecco
arrivare il padre Felice, scalzo, con quella corda al collo, con quella lunga e
pesante croce alzata; pallido e scarno il viso, un viso che spirava compunzione
insieme e coraggio; a passo lento, ma risoluto, come di chi pensa soltanto a
risparmiare l'altrui debolezza; e in tutto come un uomo a cui un di più di
fatiche e di disagi desse la forza di sostenere i tanti necessari e
inseparabili da quel suo incarico. Subito dopo lui, venivano i fanciulli più
grandini, scalzi una gran parte, ben pochi interamente vestiti, chi affatto in
camicia. Venivan poi le donne, tenendo quasi tutte per la mano una bambina, e
cantando alternativamente il Miserere; e il suono fiacco di quelle voci,
il pallore e la languidezza di que' visi eran cose da occupar tutto di
compassione l'animo di chiunque si fosse trovato lì come semplice spettatore.
Ma Renzo guardava, esaminava, di fila in fila, di viso in viso, senza passarne
uno; ché la processione andava tanto adagio, da dargliene tutto il comodo.
Passa e passa; guarda e guarda; sempre inutilmente: dava qualche occhiata di
corsa alle file che rimanevano ancora indietro: sono ormai poche; siamo
all'ultima; son passate tutte; furon tutti visi sconosciuti. Con le braccia
ciondoloni, e con la testa piegata sur una spalla, accompagnò con l'occhio
quella schiera, mentre gli passava davanti quella degli uomini. Una nuova
attenzione, una nuova speranza gli nacque nel veder, dopo questi, comparire
alcuni carri, su cui erano i convalescenti che non erano ancora in istato di
camminare. Lì le donne venivan l'ultime; e il treno andava così adagio che
Renzo poté ugualmente esaminarle tutte, senza che gliene sfuggisse una. Ma che?
esamina il primo carro, il secondo, il terzo, e via discorrendo, sempre con la
stessa riuscita, fino a uno, dietro al quale non veniva più che un altro
cappuccino, con un aspetto serio, e con un bastone in mano, come regolatore
della comitiva. Era quel padre Michele che abbiam detto essere stato dato per
compagno nel governo al padre Felice.
Così
svanì affatto quella cara speranza; e, andandosene, non solo portò via il
conforto che aveva recato, ma, come accade le più volte, lasciò l'uomo in
peggiore stato di prima. Ormai quel che ci poteva esser di meglio, era di
trovar Lucia ammalata. Pure, all'ardore d'una speranza presente sottentrando
quello del timore cresciuto, il poverino s'attaccò con tutte le forze
dell'animo a quel tristo e debole filo; entrò nella corsia, e s'incamminò da
quella parte di dove era venuta la processione. Quando fu appiè della cappella,
andò a inginocchiarsi sull'ultimo scalino; e lì fece a Dio una preghiera, o, per
dir meglio, una confusione di parole arruffate, di frasi interrotte,
d'esclamazioni, d'istanze, di lamenti, di promesse: uno di que' discorsi che
non si fanno agli uomini, perche non hanno abbastanza penetrazione per
intenderli, né pazienza per ascoltarli; non son grandi abbastanza per sentirne
compassione senza disprezzo.
S'alzò
alquanto più rincorato; girò intorno alla cappella; si trovò nell'altra corsia
che non aveva ancora veduta, e che riusciva all'altra porta; dopo pochi passi,
vide lo stecconato di cui gli aveva parlato il frate, ma interrotto qua e là,
appunto come questo aveva detto; entrò per una di quelle aperture, e si trovò
nel quartiere delle donne. Quasi al primo passo che fece, vide in terra un
campanello, di quelli che i monatti portavano a un piede; gli venne in mente
che un tale strumento avrebbe potuto servirgli come di passaporto là dentro; lo
prese, guardò se nessuno lo guardava, e se lo legò come usavan quelli. E si
mise subito alla ricerca, a quella ricerca, che, per la quantità sola degli
oggetti sarebbe stata fieramente gravosa, quand'anche gli oggetti fossero stati
tutt'altri; cominciò a scorrer con l'occhio, anzi a contemplar nuove miserie,
così simili in parte alle già vedute, in parte così diverse: ché, sotto la
stessa calamità, era qui un altro patire, per dir così, un altro languire, un
altro lamentarsi, un altro sopportare, un altro compatirsi e soccorrersi a
vicenda; era, in chi guardasse, un'altra pietà e un altro ribrezzo.
Aveva
già fatto non so quanta strada, senza frutto e senza accidenti; quando si sentì
dietro le spalle un - oh! - una chiamata, che pareva diretta a lui. Si voltò e
vide, a una certa distanza, un commissario, che alzò una mano, accennando
proprio a lui, e gridando: - là nelle stanze, ché c'è bisogno d'aiuto: qui s'è
finito ora di sbrattare.
Renzo
s'avvide subito per chi veniva preso, e che il campanello era la cagione
dell'equivoco; si diede della bestia d'aver pensato solamente agl'impicci che
quell'insegna gli poteva scansare, e non a quelli che gli poteva tirare
addosso; ma pensò nello stesso tempo alla maniera di sbrigarsi subito da colui.
Gli fece replicatamente e in fretta un cenno col capo, come per dire che aveva
inteso, e che ubbidiva; e si levò dalla sua vista, cacciandosi da una parte tra
le capanne.
Quando
gli parve d'essere abbastanza lontano, pensò anche a liberarsi dalla causa
dello scandolo; e, per far quell'operazione senz'essere osservato, andò a
mettersi in un piccolo spazio tra due capanne che si voltavan, per dir così, la
schiena. Si china per levarsi il campanello, e stando così col capo appoggiato
alla parete di paglia d'una delle capanne, gli vien da quella all'orecchio una
voce... Oh cielo! è possibile? Tutta la sua anima è in quell'orecchio: la
respirazione è sospesa... Sì! sì! è quella voce!... - Paura di che? - diceva
quella voce soave: - abbiam passato ben altro che un temporale. Chi ci ha
custodite finora, ci custodirà anche adesso.
Se
Renzo non cacciò un urlo, non fu per timore di farsi scorgere, fu perché non
n'ebbe il fiato. Gli mancaron le ginocchia, gli s'appannò la vista; ma fu un
primo momento; al secondo, era ritto, più desto, più vigoroso di prima; in tre
salti girò la capanna, fu sull'uscio, vide colei che aveva parlato, la vide
levata, chinata sopra un lettuccio. Si volta essa al rumore; guarda, crede di
travedere, di sognare; guarda più attenta, e grida: - oh Signor benedetto!
-
Lucia! v'ho trovata! vi trovo! siete proprio voi! siete viva! esclamò Renzo,
avanzandosi, tutto tremante.
- Oh
Signor benedetto! - replicò, ancor più tremante, Lucia: - voi? che cosa è
questa! in che maniera? perché? La peste!
- L'ho
avuta. E voi...?
-
Ah!... anch'io. E di mia madre...?
- Non
l'ho vista, perché è a Pasturo; credo però che stia bene. Ma voi... come siete
ancora pallida! come parete debole! Guarita però, siete guarita?
- Il
Signore m'ha voluto lasciare ancora quaggiù. Ah Renzo! perché siete voi qui?
-
Perché? - disse Renzo avvicinandosele sempre più: - mi domandate perché? Perché
ci dovevo venire? Avete bisogno che ve lo dica? Chi ho io a cui pensi? Non mi
chiamo più Renzo, io? Non siete più Lucia, voi?
- Ah
cosa dite! cosa dite! Ma non v'ha fatto scrivere mia madre...?
- Sì:
pur troppo m'ha fatto scrivere. Belle cose da fare scrivere a un povero
disgraziato, tribolato, ramingo, a un giovine che, dispetti almeno, non ve
n'aveva mai fatti!
- Ma
Renzo! Renzo! giacché sapevate... perché venire? perché?
-
Perché venire! Oh Lucia! perché venire, mi dite? Dopo tante promesse! Non siam
più noi? Non vi ricordate più? Che cosa ci mancava?
- Oh
Signore! - esclamò dolorosamente Lucia, giungendo le mani, e alzando gli occhi
al cielo: - perché non m'avete fatta la grazia di tirarmi a Voi...! Oh Renzo!
cos'avete mai fatto? Ecco; cominciavo a sperare che... col tempo... mi sarei
dimenticata...
- Bella
speranza! belle cose da dirmele proprio sul viso!
- Ah,
cos'avete fatto! E in questo luogo! tra queste miserie! tra questi spettacoli!
qui dove non si fa altro che morire, avete potuto...!
-
Quelli che moiono, bisogna pregare Iddio per loro, e sperare che anderanno in
un buon luogo; ma non è giusto, né anche per questo, che quelli che vivono
abbiano a viver disperati...
- Ma,
Renzo! Renzo! voi non pensate a quel che dite. Una promessa alla Madonna!... Un
voto!
- E io
vi dico che son promesse che non contan nulla.
- Oh
Signore! Cosa dite? Dove siete stato in questo tempo? Con chi avete trattato?
Come parlate?
- Parlo
da buon cristiano; e della Madonna penso meglio io che voi; perché credo che
non vuol promesse in danno del prossimo. Se la Madonna avesse parlato, oh,
allora! Ma cos'è stato? una vostra idea. Sapete cosa dovete promettere alla
Madonna? Promettetele che la prima figlia che avremo, le metteremo nome Maria:
ché questo son qui anch'io a prometterlo: queste son cose che fanno ben più
onore alla Madonna: queste son divozioni che hanno più costrutto, e non portan
danno a nessuno.
- No
no; non dite così: non sapete quello che vi dite: non lo sapete voi cosa sia
fare un voto: non ci siete stato voi in quel caso: non avete provato. Andate,
andate, per amor del cielo!
E si
scostò impetuosamente da lui, tornando verso il lettuccio.
-
Lucia! - disse Renzo, senza moversi: - ditemi almeno, ditemi: se non fosse
questa ragione... sareste la stessa per me?
- Uomo
senza cuore! - rispose Lucia, voltandosi, e rattenendo a stento le lacrime: -
quando m'aveste fatte dir delle parole inutili, delle parole che mi farebbero
male, delle parole che sarebbero forse peccati, sareste contento? Andate, oh
andate! dimenticatevi di me: si vede che non eravamo destinati! Ci rivedremo
lassù: già non ci si deve star molto in questo mondo. Andate; cercate di far
sapere a mia madre che son guarita, che anche qui Dio m'ha sempre assistita,
che ho trovato un'anima buona, questa brava donna, che mi fa da madre; ditele
che spero che lei sarà preservata da questo male, e che ci rivedremo quando Dio
vorrà, e come vorrà... Andate, per amor del cielo, e non pensate a me... se non
quando pregherete il Signore.
E, come
chi non ha più altro da dire, né vuol sentir altro, come chi vuol sottrarsi a un
pericolo, si ritirò ancor più vicino al lettuccio, dov'era la donna di cui
aveva parlato.
-
Sentite, Lucia, sentite! - disse Renzo, senza però accostarsele di più.
- No,
no; andate per carità!
-
Sentite: il padre Cristoforo...
- Che?
- È
qui.
- Qui?
dove? Come lo sapete?
- Gli
ho parlato poco fa; sono stato un pezzo con lui: e un religioso della sua
qualità, mi pare...
- È
qui! per assistere i poveri appestati, sicuro. Ma lui? l'ha avuta la peste?
- Ah
Lucia! ho paura, ho paura pur troppo... - e mentre Renzo esitava così a
proferir la parola dolorosa per lui, e che doveva esserlo tanto a Lucia, questa
s'era staccata di nuovo dal lettuccio, e si ravvicinava a lui: - ho paura che
l'abbia adesso!
- Oh
povero sant'uomo! Ma cosa dico, pover'uomo? Poveri noi! Com'è? è a letto? è
assistito?
- È
levato, gira, assiste gli altri; ma se lo vedeste, che colore che ha, come si
regge! Se n'è visti tanti e tanti, che pur troppo... non si sbaglia!
- Oh
poveri noi! E è proprio qui!
- Qui,
e poco lontano: poco più che da casa vostra a casa mia... se vi ricordate...!
- Oh
Vergine Santissima!
- Bene,
poco più. E pensate se abbiam parlato di voi! M'ha detto delle cose... E se
sapeste cosa m'ha fatto vedere! Sentirete; ma ora voglio cominciare a dirvi
quel che m'ha detto prima, lui, con la sua propria bocca. M'ha detto che facevo
bene a venirvi a cercare, e che al Signore gli piace che un giovine tratti
così, e m'avrebbe aiutato a far che vi trovassi; come è proprio stato la
verità: ma già è un santo. Sicché, vedete!
- Ma,
se ha parlato così, è perché lui non sa...
- Che
volete che sappia lui delle cose che avete fatte voi di vostra testa, senza
regola e senza il parere di nessuno? Un brav'uomo, un uomo di giudizio, come è
lui, non va a pensar cose di questa sorte. Ma quel che m'ha fatto vedere! - E
qui raccontò la visita fatta a quella capanna: Lucia, quantunque i suoi sensi e
il suo animo, avessero, in quel soggiorno, dovuto avvezzarsi alle più forti
impressioni, stava tutta compresa d'orrore e di compassione.
- E
anche lì, - proseguì Renzo, - ha parlato da santo: ha detto che il Signore
forse ha destinato di far la grazia a quel meschino... (ora non potrei proprio
dargli un altro nome)... che aspetta di prenderlo in un buon punto; ma vuole
che noi preghiamo insieme per lui... Insieme! avete inteso?
- Sì,
sì; lo pregheremo, ognuno dove il Signore ci terrà: le orazioni le sa mettere
insieme Lui.
- Ma se
vi dico le sue parole...!
- Ma
Renzo, lui non sa...
- Ma
non capite che, quando è un santo che parla, è il Signore che lo fa parlare? e
che non avrebbe parlato così, se non dovesse esser proprio così?... E l'anima
di quel poverino? Io ho bensì pregato, e pregherò per lui: di cuore ho pregato,
proprio come se fosse stato per un mio fratello. Ma come volete che stia nel
mondo di là, il poverino, se di qua non s'accomoda questa cosa, se non è
disfatto il male che ha fatto lui? Che se voi intendete la ragione, allora
tutto è come prima: quel che è stato è stato: lui ha fatto la sua penitenza di
qua...
- No,
Renzo, no: il Signore non vuole che facciamo del male, per far Lui
misericordia. Lasciate fare a Lui, per questo: noi, il nostro dovere è di
pregarlo. S'io fossi morta quella notte, non gli avrebbe dunque potuto
perdonare? E se non son morta, se sono stata liberata...
- E
vostra madre, quella povera Agnese, che m'ha sempre voluto tanto bene, e che si
struggeva tanto di vederci marito e moglie, non ve l'ha detto anche lei che l'è
un'idea storta? Lei, che v'ha fatto intender la ragione anche dell'altre volte,
perché, in certe cose, pensa più giusto di voi...
- Mia
madre! volete che mia madre mi desse il parere di mancare a un voto! Ma, Renzo!
non siete in voi.
- Oh!
volete che ve la dica? Voi altre donne, queste cose non le potete sapere. Il
padre Cristoforo m'ha detto che tornassi da lui a raccontargli se v'avevo
trovata. Vo: lo sentiremo: quel che dirà lui...
- Sì,
sì; andate da quel sant'uomo; ditegli che prego per lui, e che preghi per me,
che n'ho bisogno tanto tanto! Ma, per amor del cielo, per l'anima vostra, per
l'anima mia, non venite più qui, a farmi del male, a... tentarmi. Il padre
Cristoforo, lui saprà spiegarvi le cose, e farvi tornare in voi; lui vi farà
mettere il cuore in pace.
- Il
cuore in pace! Oh! questo, levatevelo dalla testa. Già me l'avete fatta
scrivere questa parolaccia; e so io quel che m'ha fatto patire; e ora avete
anche il cuore di dirmela. E io in vece vi dico chiaro e tondo che il cuore in
pace non lo metterò mai. Voi volete dimenticarvi di me; e io non voglio
dimenticarmi di voi. E vi prometto, vedete, che, se mi fate perdere il
giudizio, non lo racquisto più. Al diavolo il mestiere, al diavolo la buona
condotta! Volete condannarmi a essere arrabbiato per tutta la vita; e da
arrabbiato viverò... E quel disgraziato! Lo sa il Signore se gli ho perdonato
di cuore; ma voi... Volete dunque farmi pensare per tutta la vita che se non
era lui...? Lucia! avete detto ch'io vi dimentichi: ch'io vi dimentichi! Come
devo fare? A chi credete ch'io pensassi in tutto questo tempo?... E dopo tante
cose! dopo tante promesse! Cosa v'ho fatto io, dopo che ci siamo lasciati?
Perché ho patito, mi trattate così? perché ho avuto delle disgrazie? perché la
gente del mondo m'ha perseguitato? perché ho passato tanto tempo fuori di casa,
tristo, lontano da voi? perché, al primo momento che ho potuto, son venuto a
cercarvi?
Lucia,
quando il pianto le permise di formar parole, esclamò, giungendo di nuovo le
mani, e alzando al cielo gli occhi pregni di lacrime: - o Vergine santissima,
aiutatemi voi! Voi sapete che, dopo quella notte, un momento come questo non
l'ho mai passato. M'avete soccorsa allora; soccorretemi anche adesso!
- Sì,
Lucia; fate bene d'invocar la Madonna; ma perché volete credere che Lei che è
tanto buona, la madre delle misericordie, possa aver piacere di farci patire...
me almeno... per una parola scappata in un momento che non sapevate quello che
vi dicevate? Volete credere che v'abbia aiutata allora, per lasciarci
imbrogliati dopo?... Se poi questa fosse una scusa; se è ch'io vi sia venuto in
odio... ditemelo... parlate chiaro.
- Per
carità, Renzo, per carità, per i vostri poveri morti, finitela, finitela; non
mi fate morire... Non sarebbe un buon momento. Andate dal padre Cristoforo;
raccomandatemi a lui, non tornate più qui, non tornate più qui.
- Vo;
ma pensate se non voglio tornare! Tornerei se fosse in capo al mondo, tornerei
-. E disparve.
Lucia
andò a sedere, o piuttosto si lasciò cadere in terra, accanto al lettuccio; e,
appoggiata a quello la testa, continuò a piangere dirottamente. La donna, che
fin allora era stata a occhi e orecchi aperti, senza fiatare, domandò cosa
fosse quell'apparizione, quella contesa, questo pianto. Ma forse il lettore
domanda dal canto suo chi fosse costei; e, per soddisfarlo, non ci vorranno, né
anche qui, troppe parole.
Era
un'agiata mercantessa, di forse trent'anni. Nello spazio di pochi giorni, s'era
visto morire in casa il marito e tutti i figliuoli: di lì a poco, venutale la
peste anche a lei, era stata trasportata al lazzeretto, e messa in quella
capannuccia, nel tempo che Lucia, dopo aver superata, senza avvedersene, la
furia del male, e cambiate, ugualmente senza avvedersene, più compagne,
cominciava a riaversi, e a tornare in sé; ché, fin dal principio della
malattia, trovandosi ancora in casa di don Ferrante, era rimasta come insensata.
La capanna non poteva contenere che due persone: e tra queste due, afflitte,
derelitte, sbigottite, sole in tanta moltitudine, era presto nata
un'intrinsichezza, un'affezione, che appena sarebbe potuta venire da un lungo
vivere insieme. In poco tempo, Lucia era stata in grado di poter aiutar
l'altra, che s'era trovata aggravatissima. Ora che questa pure era fuori di
pericolo, si facevano compagnia e coraggio e guardia a vicenda; s'eran promesse
di non uscir dal lazzeretto, se non insieme; e avevan presi altri concerti per
non separarsi neppur dopo. La mercantessa che, avendo lasciata in custodia d'un
suo fratello commissario della Sanità, la casa e il fondaco e la cassa, tutto
ben fornito, era per trovarsi sola e trista padrona di molto più di quel che le
bisognasse per viver comodamente, voleva tener Lucia con sé, come una figliuola
o una sorella. Lucia aveva aderito, pensate con che gratitudine per lei, e per
la Provvidenza; ma soltanto fin che potesse aver nuove di sua madre, e sapere,
come sperava, la volontà di essa. Del resto, riservata com'era, né della
promessa dello sposalizio, né dell'altre sue avventure straordinarie, non aveva
mai detta una parola. Ma ora, in un così gran ribollimento d'affetti, aveva
almen tanto bisogno di sfogarsi, quanto l'altra desiderio di sentire. E,
stretta con tutt'e due le mani la destra di lei, si mise subito a soddisfare
alla domanda, senz'altro ritegno, che quello che le facevano i singhiozzi.
Renzo
intanto trottava verso il quartiere del buon frate. Con un po' di studio, e non
senza dover rifare qualche pezzetto di strada, gli riuscì finalmente
d'arrivarci. Trovò la capanna; lui non ce lo trovò; ma, ronzando e cercando nel
contorno, lo vide in una baracca, che, piegato a terra, e quasi bocconi, stava
confortando un moribondo. Si fermò lì, aspettando in silenzio. Poco dopo, lo
vide chiuder gli occhi a quel poverino, poi mettersi in ginocchio, far orazione
un momento, e alzarsi. Allora si mosse, e gli andò incontro
- Oh! -
disse il frate, vistolo venire; - ebbene?
- La c'è:
l'ho trovata!
- In
che stato?
-
Guarita, o almeno levata.
- Sia
ringraziato il Signore!
- Ma...
- disse Renzo, quando gli fu vicino da poter parlar sottovoce: - c'è un altro
imbroglio.
- Cosa
c'è?
-
Voglio dire che... Già lei lo sa come è buona quella povera giovine; ma alle
volte è un po' fissa nelle sue idee. Dopo tante promesse, dopo tutto quello che
sa anche lei, ora dice che non mi può sposare, perché dice, che so io? che,
quella notte della paura, s'è scaldata la testa, e s'è, come a dire, votata alla
Madonna. Cose senza costrutto, n'è vero? Cose buone, chi ha la scienza e il
fondamento da farle, ma per noi gente ordinaria, che non sappiamo bene come si
devon fare... n'è vero che son cose che non valgono?
-
Dimmi: è molto lontana di qui?
- Oh
no: pochi passi di là dalla chiesa.
-
Aspettami qui un momento, - disse il frate: - e poi ci anderemo insieme.
- Vuol
dire che lei le farà intendere...
- Non
so nulla, figliuolo; bisogna ch'io senta lei.
-
Capisco, - disse Renzo, e stette con gli occhi fissi a terra, e con le braccia
incrociate sul petto, a masticarsi la sua incertezza, rimasta intera. Il frate
andò di nuovo in cerca di quel padre Vittore, lo pregò di supplire ancora per
lui, entrò nella sua capanna, n'uscì con la sporta in braccio, tornò da Renzo,
gli disse: - andiamo -; e andò innanzi, avviandosi a quella tal capanna, dove,
qualche tempo prima, erano entrati insieme. Questa volta, entrò solo, e dopo un
momento ricomparve, e disse: - niente! Preghiamo; preghiamo -. Poi riprese: -
ora, conducimi tu.
E senza
dir altro, s'avviarono.
Il
tempo s'era andato sempre più rabbuiando, e annunziava ormai certa e poco
lontana la burrasca. De' lampi fitti rompevano l'oscurità cresciuta, e
lumeggiavano d'un chiarore istantaneo i lunghissimi tetti e gli archi de'
portici, la cupola della cappella, i bassi comignoli delle capanne; e i tuoni
scoppiati con istrepito repentino, scorrevano rumoreggiando dall'una all'altra
regione del cielo. Andava innanzi il giovine, attento alla strada, con una
grand'impazienza d'arrivare, e rallentando però il passo, per misurarlo alle
forze del compagno; il quale, stanco dalle fatiche, aggravato dal male,
oppresso dall'afa, camminava stentatamente, alzando ogni tanto al cielo la
faccia smunta, come per cercare un respiro più libero.
Renzo,
quando vide la capanna, si fermò, si voltò indietro, disse con voce tremante: -
è qui.
Entrano...
- Eccoli! - grida la donna del lettuccio. Lucia si volta, s'alza
precipitosamente, va incontro al vecchio, gridando: - oh chi vedo! O padre
Cristoforo!
-
Ebbene, Lucia! da quante angustie v'ha liberata il Signore! Dovete esser ben
contenta d'aver sempre sperato in Lui.
- Oh
sì! Ma lei, padre? Povera me, come è cambiato! Come sta? dica: come sta?
- Come
Dio vuole, e come, per sua grazia, voglio anch'io, rispose, con volto sereno,
il frate. E, tiratala in un canto, soggiunse: - sentite: io non posso rimaner
qui che pochi momenti. Siete voi disposta a confidarvi in me, come altre volte?
- Oh!
non è lei sempre il mio padre?
-
Figliuola, dunque; cos'è codesto voto che m'ha detto Renzo?
- È un
voto che ho fatto alla Madonna... oh! in una gran tribolazione!... di non
maritarmi.
-
Poverina! Ma avete pensato allora, ch'eravate legata da una promessa?
-
Trattandosi del Signore e della Madonna!... non ci ho pensato.
- Il
Signore, figliuola, gradisce i sagrifizi, l'offerte, quando le facciamo del
nostro. È il cuore che vuole, è la volontà: ma voi non potevate offrirgli la
volontà d'un altro, al quale v'eravate già obbligata.
- Ho
fatto male?
- No,
poverina, non pensate a questo: io credo anzi che la Vergine santa avrà gradita
l'intenzione del vostro cuore afflitto, e l'avrà offerta a Dio per voi. Ma
ditemi; non vi siete mai consigliata con nessuno su questa cosa?
- Io
non pensavo che fosse male, da dovermene confessare: e quel poco bene che si
può fare, si sa che non bisogna raccontarlo.
- Non
avete nessun altro motivo che vi trattenga dal mantener la promessa che avete
fatta a Renzo?
- In
quanto a questo... per me... che motivo...? Non potrei proprio dire... -
rispose Lucia, con un'esitazione che indicava tutt'altro che un'incertezza del
pensiero; e il suo viso ancora scolorito dalla malattia, fiorì tutt'a un tratto
del più vivo rossore.
-
Credete voi, - riprese il vecchio, abbassando gli occhi, - che Dio ha data alla
sua Chiesa l'autorità di rimettere e di ritenere, secondo che torni in maggior
bene, i debiti e gli obblighi che gli uomini possono aver contratti con Lui?
- Sì,
che lo credo.
- Ora
sappiate che noi, deputati alla cura dell'anime in questo luogo, abbiamo, per
tutti quelli che ricorrono a noi, le più ampie facoltà della Chiesa; e che per
conseguenza, io posso, quando voi lo chiediate, sciogliervi dall'obbligo,
qualunque sia, che possiate aver contratto a cagion di codesto voto.
- Ma
non è peccato tornare indietro, pentirsi d'una promessa fatta alla Madonna? Io
allora l'ho fatta proprio di cuore... - disse Lucia, violentemente agitata
dall'assalto d'una tale inaspettata, bisogna pur dire speranza, e
dall'insorgere opposto d'un terrore fortificato da tutti i pensieri che, da
tanto tempo, eran la principale occupazione dell'animo suo.
-
Peccato, figliuola? - disse il padre: - peccato il ricorrere alla Chiesa, e
chiedere al suo ministro che faccia uso dell'autorità che ha ricevuto da essa,
e che essa ha ricevuta da Dio? Io ho veduto in che maniera voi due siete stati
condotti ad unirvi; e, certo, se mai m'è parso che due fossero uniti da Dio,
voi altri eravate quelli: ora non vedo perché Dio v'abbia a voler separati. E
lo benedico che m'abbia dato, indegno come sono, il potere di parlare in suo
nome, e di rendervi la vostra parola. E se voi mi chiedete ch'io vi dichiari
sciolta da codesto voto, io non esiterò a farlo; e desidero anzi che me lo
chiediate.
-
Allora...! allora...! lo chiedo; - disse Lucia, con un volto non turbato più
che di pudore.
Il
frate chiamò con un cenno il giovine, il quale se ne stava nel cantuccio il più
lontano, guardando (giacché non poteva far altro) fisso fisso al dialogo in cui
era tanto interessato; e, quando quello fu lì, disse, a voce più alta, a Lucia:
- con l'autorità che ho dalla Chiesa, vi dichiaro sciolta dal voto di
verginità, annullando ciò che ci poté essere d'inconsiderato, e liberandovi da
ogni obbligazione che poteste averne contratta.
Pensi
il lettore che suono facessero all'orecchio di Renzo tali parole. Ringraziò
vivamente con gli occhi colui che le aveva proferite; e cercò subito, ma
invano, quelli di Lucia.
-
Tornate, con sicurezza e con pace, ai pensieri d'una volta, seguì a dirle il
cappuccino: - chiedete di nuovo al Signore le grazie che Gli chiedevate, per
essere una moglie santa; e confidate che ve le concederà più abbondanti, dopo
tanti guai. E tu, - disse, voltandosi a Renzo, - ricordati, figliuolo, che se
la Chiesa ti rende questa compagna, non lo fa per procurarti una consolazione
temporale e mondana, la quale, se anche potesse essere intera, e senza mistura
d'alcun dispiacere, dovrebbe finire in un gran dolore, al momento di lasciarvi;
ma lo fa per avviarvi tutt'e due sulla strada della consolazione che non avrà fine.
Amatevi come compagni di viaggio, con questo pensiero d'avere a lasciarvi, e
con la speranza di ritrovarvi per sempre. Ringraziate il cielo che v'ha
condotti a questo stato, non per mezzo dell'allegrezze turbolente e
passeggiere, ma co' travagli e tra le miserie, per disporvi a una allegrezza
raccolta e tranquilla. Se Dio vi concede figliuoli, abbiate in mira d'allevarli
per Lui, d'istillar loro l'amore di Lui e di tutti gli uomini; e allora li
guiderete bene in tutto il resto. Lucia! v'ha detto, - e accennava Renzo, - chi
ha visto qui?
- Oh
padre, me l'ha detto!
- Voi
pregherete per lui! Non ve ne stancate. E anche per me pregherete!...
Figliuoli! voglio che abbiate un ricordo del povero frate -. E qui levò dalla
sporta una scatola d'un legno ordinario, ma tornita e lustrata con una certa
finitezza cappuccinesca; e proseguì: - qui dentro c'è il resto di quel pane...
il primo che ho chiesto per carità; quel pane, di cui avete sentito parlare! Lo
lascio a voi altri: serbatelo; fatelo vedere ai vostri figliuoli. Verranno in
un tristo mondo, e in tristi tempi, in mezzo a' superbi e a' provocatori: dite
loro che perdonino sempre, sempre! tutto, tutto! e che preghino, anche loro,
per il povero frate!
E porse
la scatola a Lucia, che la prese con rispetto, come si farebbe d'una reliquia.
Poi, con voce più tranquilla, riprese: - ora ditemi; che appoggi avete qui in
Milano? Dove pensate d'andare a alloggiare, appena uscita di qui? E chi vi
condurrà da vostra madre, che Dio voglia aver conservata in salute?
-
Questa buona signora mi fa lei intanto da madre: noi due usciremo di qui
insieme, e poi essa penserà a tutto.
- Dio
la benedica, - disse il frate, accostandosi al lettuccio.
- La
ringrazio anch'io, - disse la vedova, - della consolazione che ha data a queste
povere creature; sebbene io avessi fatto conto di tenerla sempre con me, questa
cara Lucia. Ma la terrò intanto; l'accompagnerò io al suo paese, la consegnerò
a sua madre; e, soggiunse poi sottovoce, - voglio farle io il corredo. N'ho
troppa della roba; e di quelli che dovevan goderla con me, non ho più nessuno!
- Così,
- rispose il frate, - lei può fare un gran sacrifizio al Signore, e del bene al
prossimo. Non le raccomando questa giovine: già vedo che è come sua: non c'è
che da lodare il Signore, il quale sa mostrarsi padre anche ne' flagelli, e
che, col farle trovare insieme, ha dato un così chiaro segno d'amore all'una e
all'altra. Orsù, riprese poi, voltandosi a Renzo, e prendendolo per una mano:
noi due non abbiam più nulla da far qui: e ci siamo stati anche troppo.
Andiamo.
- Oh
padre! - disse Lucia: - la vedrò ancora? Io sono guarita, io che non fo nulla
di bene a questo mondo; e lei...!
- È già
molto tempo, - rispose con tono serio e dolce il vecchio, - che chiedo al
Signore una grazia, e ben grande: di finire i miei giorni in servizio del
prossimo. Se me la volesse ora concedere, ho bisogno che tutti quelli che hanno
carità per me, m'aiutino a ringraziarlo. Via; date a Renzo le vostre
commissioni per vostra madre.
-
Raccontatele quel che avete veduto, - disse Lucia al promesso sposo: - che ho
trovata qui un'altra madre, che verrò con questa più presto che potrò, e che
spero, spero di trovarla sana.
- Se
avete bisogno di danari, - disse Renzo, - ho qui tutti quelli che m'avete
mandati, e...
- No,
no, - interruppe la vedova: - ne ho io anche troppi.
-
Andiamo, - replicò il frate.
- A
rivederci, Lucia...! e anche lei, dunque, quella buona signora, - disse Renzo,
non trovando parole che significassero quello che sentiva.
- Chi
sa che il Signore ci faccia la grazia di rivederci ancora tutti! - esclamò
Lucia.
- Sia
Egli sempre con voi, e vi benedica, - disse alle due compagne fra Cristoforo; e
uscì con Renzo dalla capanna.
Mancava
poco alla sera, e il tempo pareva sempre più vicino a risolversi. Il cappuccino
esibì di nuovo al giovine di ricoverarlo per quella notte nella sua baracca. -
Compagnia, non te ne potrò fare, - soggiunse: - ma avrai da stare al coperto.
Renzo
però si sentiva una smania d'andare; e non si curava di rimaner più a lungo in
un luogo simile, quando non poteva profittarne per veder Lucia, e non avrebbe
neppur potuto starsene un po' col buon frate. In quanto all'ora e al tempo, si
può dire che notte e giorno, sole e pioggia, zeffiro e tramontano, eran
tutt'uno per lui in quel momento. Ringraziò dunque il frate, dicendo che voleva
andar più presto che fosse possibile in cerca d'Agnese.
Quando
furono nella strada di mezzo, il frate gli strinse la mano, e disse: - se la
trovi, che Dio voglia! quella buona Agnese, salutala anche in mio nome; e a
lei, e a tutti quelli che rimangono, e si ricordano di fra Cristoforo, dì che
preghin per lui. Dio t'accompagni, e ti benedica per sempre.
- Oh
caro padre...! ci rivedremo? ci rivedremo?
-
Lassù, spero -. E con queste parole, si staccò da Renzo; il quale, stato lì a
guardarlo fin che non l'ebbe perso di vista, prese in fretta verso la porta,
dando a destra e a sinistra l'ultime occhiate di compassione a quel luogo di
dolori. C'era un movimento straordinario, un correr di monatti, un trasportar
di roba, un accomodar le tende delle baracche, uno strascicarsi di
convalescenti a queste e ai portici, per ripararsi dalla burrasca imminente.
Appena
infatti ebbe Renzo passata la soglia del lazzeretto e preso a diritta, per
ritrovar la viottola di dov'era sboccato la mattina sotto le mura, principiò
come una grandine di goccioloni radi e impetuosi, che, battendo e risaltando
sulla strada bianca e arida, sollevavano un minuto polverìo; in un momento,
diventaron fitti; e prima che arrivasse alla viottola, la veniva giù a secchie.
Renzo, in vece d'inquietarsene, ci sguazzava dentro, se la godeva in quella
rinfrescata, in quel susurrìo, in quel brulichìo dell'erbe e delle foglie,
tremolanti, gocciolanti, rinverdite, lustre; metteva certi respironi larghi e
pieni; e in quel risolvimento della natura sentiva come più liberamente e più
vivamente quello che s'era fatto nel suo destino.
Ma
quanto più schietto e intero sarebbe stato questo sentimento, se Renzo avesse
potuto indovinare quel che si vide pochi giorni dopo: che quell'acqua portava
via il contagio; che, dopo quella, il lazzeretto, se non era per restituire ai
viventi tutti i viventi che conteneva, almeno non n'avrebbe più ingoiati altri;
che, tra una settimana, si vedrebbero riaperti usci e botteghe, non si
parlerebbe quasi più che di quarantina; e della peste non rimarrebbe se non
qualche resticciolo qua e là; quello strascico che un tal flagello lasciava
sempre dietro a sé per qualche tempo.
Andava
dunque il nostro viaggiatore allegramente, senza aver disegnato né dove, né
come, né quando, né se avesse da fermarsi la notte, premuroso soltanto di
portarsi avanti, d'arrivar presto al suo paese, di trovar con chi parlare, a
chi raccontare, soprattutto di poter presto rimettersi in cammino per Pasturo,
in cerca d'Agnese. Andava, con la mente tutta sottosopra dalle cose di quel
giorno; ma di sotto le miserie, gli orrori, i pericoli, veniva sempre a galla
un pensierino: l'ho trovata; è guarita; è mia! E allora faceva uno sgambetto, e
con ciò dava un'annaffiata all'intorno, come un can barbone uscito dall'acqua;
qualche volta si contentava d'una fregatina di mani; e avanti, con più ardore
di prima. Guardando per la strada, raccattava, per dir così, i pensieri, che ci
aveva lasciati la mattina e il giorno avanti, nel venire; e con più piacere
quelli appunto che allora aveva più cercato di scacciare, i dubbi, le
difficoltà, trovarla, trovarla viva, tra tanti morti e moribondi! "E l'ho
trovata viva!" concludeva. Si rimetteva col pensiero nelle circostanze più
terribili di quella giornata; si figurava con quel martello in mano: ci sarà o
non ci sarà? e una risposta così poco allegra; e non aver nemmeno il tempo di
masticarla, che addosso quella furia di matti birboni; e quel lazzeretto, quel
mare! lì ti volevo a trovarla! E averla trovata! Ritornava su quel momento
quando fu finita di passare la processione de' convalescenti: che momento! che
crepacore non trovarcela! e ora non gliene importava più nulla. E quel
quartiere delle donne! E là dietro a quella capanna, quando meno se
l'aspettava, quella voce, quella voce proprio! E vederla, vederla levata! Ma
che? c'era ancora quel nodo del voto, e più stretto che mai. Sciolto anche
questo. E quell'odio contro don Rodrigo, quel rodìo continuo che esacerbava
tutti i guai, e avvelenava tutte le consolazioni, scomparso anche quello.
Talmenteché non saprei immaginare una contentezza più viva, se non fosse stata
l'incertezza intorno ad Agnese, il tristo presentimento intorno al padre
Cristoforo, e quel trovarsi ancora in mezzo a una peste.
Arrivò
a Sesto, sulla sera; né pareva che l'acqua volesse cessare. Ma, sentendosi più
in gambe che mai, e con tante difficoltà di trovar dove alloggiare, e così
inzuppato, non ci pensò neppure. La sola cosa che l'incomodasse, era un
grand'appetito: ché una consolazione come quella gli avrebbe fatto smaltire
altro che la poca minestra del cappuccino. Guardò se trovasse anche qui una
bottega di fornaio; ne vide una; ebbe due pani con le molle, e con quell'altre
cerimonie. Uno in tasca e l'altro alla bocca, e avanti.
Quando
passò per Monza, era notte fatta: nonostante, gli riuscì di trovar la porta che
metteva sulla strada giusta. Ma meno questo, che, per dir la verità, era un
gran merito, potete immaginarvi come fosse quella strada, e come andasse facendosi
di momento in momento. Affondata (com'eran tutte; e dobbiamo averlo detto
altrove) tra due rive, quasi un letto di fiume, si sarebbe a quell'ora potuta
dire, se non un fiume, una gora davvero; e ogni tanto pozze, da volerci del
buono e del bello a levarne i piedi, non che le scarpe. Ma Renzo n'usciva come
poteva, senz'atti d'impazienza, senza parolacce, senza pentimenti; pensando che
ogni passo, per quanto costasse, lo conduceva avanti, e che l'acqua cesserebbe
quando a Dio piacesse, e che, a suo tempo, spunterebbe il giorno, e che la
strada che faceva intanto, allora sarebbe fatta.
E dirò
anche che non ci pensava se non proprio quando non poteva far di meno. Eran
distrazioni queste; il gran lavoro della sua mente era di riandare la storia di
que' tristi anni passati: tant'imbrogli, tante traversìe, tanti momenti in cui
era stato per perdere anche la speranza, e fare andata ogni cosa; e di
contrapporci l'immaginazioni d'un avvenire così diverso: e l'arrivar di Lucia,
e le nozze, e il metter su casa, e il raccontarsi le vicende passate, e tutta
la vita.
Come la
facesse quando trovava due strade; se quella poca pratica, con quel poco
barlume, fossero quelli che l'aiutassero a trovar sempre la buona, o se
l'indovinasse sempre alla ventura, non ve lo saprei dire; ché lui medesimo, il
quale soleva raccontar la sua storia molto per minuto, lunghettamente anzi che
no (e tutto conduce a credere che il nostro anonimo l'avesse sentita da lui più
d'una volta), lui medesimo, a questo punto, diceva che, di quella notte, non se
ne rammentava che come se l'avesse passata in letto a sognare. Il fatto sta
che, sul finir di essa, si trovò alla riva dell'Adda.
Non era
mai spiovuto; ma, a un certo tempo, da diluvio era diventata pioggia, e poi
un'acquerugiola fine fine, cheta cheta, ugual uguale: i nuvoli alti e radi
stendevano un velo non interrotto, ma leggiero e diafano; e il lume del
crepuscolo fece vedere a Renzo il paese d'intorno. C'era dentro il suo; e quel
che sentì, a quella vista, non si saprebbe spiegare. Altro non vi so dire, se
non che que' monti, quel Resegone vicino, il territorio di Lecco, era
diventato tutto come roba sua. Diede un'occhiata anche a sé, e si trovò un po'
strano, quale, per dir la verità, da quel che si sentiva, s'immaginava già di
dover parere: sciupata e attaccata addosso ogni cosa: dalla testa alla vita,
tutto un fradiciume, una grondaia; dalla vita alla punta de' piedi, melletta e
mota: le parti dove non ce ne fosse si sarebbero potute chiamare esse zacchere
e schizzi. E se si fosse visto tutt'intero in uno specchio, con la tesa del
cappello floscia e cascante, e i capelli stesi e incollati sul viso, si sarebbe
fatto ancor più specie. In quanto a stanco, lo poteva essere, ma non ne sapeva
nulla: e il frescolino dell'alba aggiunto a quello della notte e di quel poco
bagno, non gli dava altro che una fierezza, una voglia di camminar più presto.
È a
Pescate; costeggia quell'ultimo tratto dell'Adda, dando però un'occhiata
malinconica a Pescarenico; passa il ponte; per istrade e campi, arriva in un momento
alla casa dell'ospite amico. Questo, che s'era levato allora, e stava
sull'uscio, a guardare il tempo, alzò gli occhi a quella figura così inzuppata,
così infangata, diciam pure così lercia, e insieme così viva e disinvolta: a'
suoi giorni non aveva visto un uomo peggio conciato e più contento.
- Ohe!
- disse: - già qui? e con questo tempo? Com'è andata?
- La
c'è, - disse Renzo: - la c'è: la c'è.
- Sana?
-
Guarita, che è meglio. Devo ringraziare il Signore e la Madonna fin che campo.
Ma cose grandi, cose di fuoco: ti racconterò poi tutto.
- Ma
come sei conciato!
- Son
bello eh?
- A dir
la verità, potresti adoprare il da tanto in su, per lavare il da tanto in giù.
Ma, aspetta, aspetta; che ti faccia un buon fuoco.
- Non
dico di no. Sai dove la m'ha preso? proprio alla porta del lazzeretto. Ma
niente! il tempo il suo mestiere, e io il mio.
L'amico
andò e tornò con due bracciate di stipa: ne mise una in terra, l'altra sul
focolare, e, con un po' di brace rimasta della sera avanti, fece presto una
bella fiammata. Renzo intanto s'era levato il cappello, e, dopo averlo scosso
due o tre volte, l'aveva buttato in terra: e, non così facilmente, s'era tirato
via anche il farsetto. Levò poi dal taschino de' calzoni il coltello, col
fodero tutto fradicio, che pareva stato in molle; lo mise su un panchetto, e
disse: - anche costui è accomodato a dovere; ma l'è acqua! l'è acqua! sia
ringraziato il Signore... Sono stato lì lì...! Ti dirò poi -. E si fregava le
mani. - Ora fammi un altro piacere, - soggiunse: - quel fagottino che ho
lasciato su in camera, va' a prendermelo, ché prima che s'asciughi questa roba
che ho addosso...!
Tornato
col fagotto, l'amico disse: - penso che avrai anche appetito: capisco che da
bere, per la strada, non te ne sarà mancato; ma da mangiare...
- Ho
trovato da comprar due pani, ieri sul tardi; ma, per dir la verità, non m'hanno
toccato un dente.
-
Lascia fare, - disse l'amico; mise l'acqua in un paiolo, che attaccò poi alla
catena; e soggiunse: - vado a mungere: quando tornerò col latte, l'acqua sarà
all'ordine; e si fa una buona polenta. Tu intanto fa' il tuo comodo.
Renzo,
rimasto solo, si levò, non senza fatica, il resto de' panni, che gli s'eran
come appiccicati addosso; s'asciugò, si rivestì da capo a piedi. L'amico tornò,
e andò al suo paiolo: Renzo intanto si mise a sedere, aspettando.
- Ora
sento che sono stanco, - disse: - ma è una bella tirata! Però questo è nulla!
Ne ho da raccontartene per tutta la giornata. Com'è conciato Milano! Le cose
che bisogna vedere! Le cose che bisogna toccare! Cose da farsi poi schifo a se
medesimo. Sto per dire che non ci voleva meno di quel bucatino che ho avuto. E
quel che m'hanno voluto fare que' signori di laggiù! Sentirai. Ma se tu vedessi
il lazzeretto! C'è da perdersi nelle miserie. Basta; ti racconterò tutto... E
la c'è, e la verrà qui, e sarà mia moglie; e tu devi far da testimonio, e,
peste o non peste, almeno qualche ora, voglio che stiamo allegri.
Del
resto mantenne ciò, che aveva detto all'amico, di voler raccontargliene per
tutta la giornata; tanto più, che, avendo sempre continuato a piovigginare,
questo la passò tutta in casa, parte seduto accanto all'amico, parte in
faccende intorno a un suo piccolo tino, e a una botticina, e ad altri lavori,
in preparazione della vendemmia; ne' quali Renzo non lasciò di dargli una mano;
ché, come soleva dire, era di quelli che si stancano più a star senza far
nulla, che a lavorare. Non poté però tenersi di non fare una scappatina alla
casa d'Agnese, per rivedere una certa finestra, e per dare anche lì una fregatina
di mani. Tornò senza essere stato visto da nessuno; e andò subito a letto.
S'alzò prima che facesse giorno; e, vedendo cessata l'acqua, se non ritornato
il sereno, si mise in cammino per Pasturo.
Era
ancor presto quando ci arrivò: ché non aveva meno fretta e voglia di finire, di
quel che possa averne il lettore. Cercò d'Agnese; sentì che stava bene, e gli
fu insegnata una casuccia isolata dove abitava. Ci andò; la chiamò dalla
strada: a una tal voce, essa s'affacciò di corsa alla finestra; e, mentre stava
a bocca aperta per mandar fuori non so che parola, non so che suono, Renzo la
prevenne dicendo: - Lucia è guarita: l'ho veduta ierlaltro; vi saluta; verrà
presto. E poi ne ho, ne ho delle cose da dirvi.
Tra la
sorpresa dell'apparizione, e la contentezza della notizia, e la smania di
saperne di più, Agnese cominciava ora un'esclamazione, ora una domanda, senza
finir nulla: poi, dimenticando le precauzioni ch'era solita a prendere da molto
tempo, disse: - vengo ad aprirvi.
-
Aspettate: e la peste? - disse Renzo: - voi non l'avete avuta, credo.
- Io
no: e voi?
- Io
sì; ma voi dunque dovete aver giudizio. Vengo da Milano; e, sentirete, sono
proprio stato nel contagio fino agli occhi. È vero che mi son mutato tutto da
capo a piedi; ma l'è una porcheria che s'attacca alle volte come un malefizio.
E giacché il Signore v'ha preservata finora, voglio che stiate riguardata fin
che non è finito quest'influsso; perché siete la nostra mamma: e voglio che
campiamo insieme un bel pezzo allegramente, a conto del gran patire che abbiam
fatto, almeno io.
- Ma...
- cominciava Agnese.
- Eh! -
interruppe Renzo: - non c'è ma che tenga. So quel che volete dire; ma
sentirete, sentirete, che de' ma non ce n'è più. Andiamo in qualche luogo
all'aperto, dove si possa parlar con comodo, senza pericolo; e sentirete.
Agnese
gl'indicò un orto ch'era dietro alla casa; e soggiunse: - entrate lì, e vedrete
che c'è due panche, l'una in faccia all'altra, che paion messe apposta. Io
vengo subito.
Renzo
andò a mettersi a sedere sur una: un momento dopo, Agnese si trovò lì
sull'altra: e son certo che, se il lettore, informato come è delle cose
antecedenti, avesse potuto trovarsi lì in terzo, a veder con gli occhi quella
conversazione così animata, a sentir con gli orecchi que' racconti, quelle domande,
quelle spiegazioni, quell'esclamare, quel condolersi, quel rallegrarsi, e don
Rodrigo, e il padre Cristoforo, e tutto il resto, e quelle descrizioni
dell'avvenire, chiare e positive come quelle del passato, son certo, dico, che
ci avrebbe preso gusto, e sarebbe stato l'ultimo a venir via. Ma d'averla sulla
carta tutta quella conversazione, con parole mute, fatte d'inchiostro, e senza
trovarci un solo fatto nuovo, son di parere che non se ne curi molto, e che gli
piaccia più d'indovinarla da sé. La conclusione fu che s'anderebbe a metter su
casa tutti insieme in quel paese del bergamasco dove Renzo aveva già un buon
avviamento: in quanto al tempo, non si poteva decider nulla, perché dipendeva
dalla peste, e da altre circostanze: appena cessato il pericolo, Agnese
tornerebbe a casa, ad aspettarvi Lucia, o Lucia ve l'aspetterebbe: intanto
Renzo farebbe spesso qualche altra corsa a Pasturo, a veder la sua mamma, e a
tenerla informata di quel che potesse accadere.
Prima
di partire, offrì anche a lei danari, dicendo: - gli ho qui tutti, vedete, que'
tali: avevo fatto voto anch'io di non toccarli, fin che la cosa non fosse
venuta in chiaro. Ora, se n'avete bisogno, portate qui una scodella d'acqua e
aceto; vi butto dentro i cinquanta scudi belli e lampanti.
- No,
no, - disse Agnese: - ne ho ancora più del bisogno per me: i vostri, serbateli,
che saran buoni per metter su casa.
Renzo
tornò al paese con questa consolazione di più d'aver trovata sana e salva una
persona tanto cara. Stette il rimanente di quella giornata, e la notte, in casa
dell'amico; il giorno dopo, in viaggio di nuovo, ma da un'altra parte, cioè
verso il paese adottivo.
Trovò
Bortolo, in buona salute anche lui, e in minor timore di perderla; ché, in que'
pochi giorni, le cose, anche là, avevan preso rapidamente una bonissima piega.
Pochi eran quelli che s'ammalavano; e il male non era più quello; non più que'
lividi mortali, né quella violenza di sintomi; ma febbriciattole, intermittenti
la maggior parte, con al più qualche piccol bubbone scolorito, che si curava
come un fignolo ordinario. Già l'aspetto del paese compariva mutato; i rimasti
vivi cominciavano a uscir fuori, a contarsi tra loro, a farsi a vicenda
condoglianze e congratulazioni. Si parlava già di ravviare i lavori: i padroni
pensavano già a cercare e a caparrare operai, e in quell'arti principalmente
dove il numero n'era stato scarso anche prima del contagio, com'era quella
della seta. Renzo, senza fare il lezioso, promise (salve però le debite
approvazioni) al cugino di rimettersi al lavoro, quando verrebbe accompagnato,
a stabilirsi in paese. S'occupò intanto de' preparativi più necessari: trovò
una casa più grande; cosa divenuta pur troppo facile e poco costosa; e la fornì
di mobili e d'attrezzi, intaccando questa volta il tesoro, ma senza farci un
gran buco, ché tutto era a buon mercato, essendoci molta più roba che gente che
la comprassero.
Dopo
non so quanti giorni, ritornò al paese nativo, che trovò ancor più notabilmente
cambiato in bene. Trottò subito a Pasturo; trovò Agnese rincoraggita affatto, e
disposta a ritornare a casa quando si fosse; di maniera che ce la condusse lui:
né diremo quali fossero i loro sentimenti, quali le parole, al rivedere insieme
que' luoghi.
Agnese
trovò ogni cosa come l'aveva lasciata. Sicché non poté far a meno di non dire
che, questa volta, trattandosi d'una povera vedova e d'una povera fanciulla,
avevan fatto la guardia gli angioli.
- E
l'altra volta, - soggiungeva, - che si sarebbe creduto che il Signore guardasse
altrove, e non pensasse a noi, giacché lasciava portar via il povero fatto
nostro; ecco che ha fatto vedere il contrario, perché m'ha mandato da un'altra
parte di bei danari, con cui ho potuto rimettere ogni cosa. Dico ogni cosa, e
non dico bene; perché il corredo di Lucia che coloro avevan portato via bell'e
nuovo, insieme col resto, quello mancava ancora; ma ecco che ora ci viene da
un'altra parte. Chi m'avesse detto, quando io m'arrapinavo tanto a allestir
quell'altro: tu credi di lavorar per Lucia: eh povera donna! lavori per chi non
sai: sa il cielo, questa tela, questi panni, a che sorte di creature anderanno
indosso: quelli per Lucia, il corredo davvero che ha da servire per lei, ci
penserà un'anima buona, la quale tu non sai né anche che la sia in questo
mondo.
Il
primo pensiero d'Agnese fu quello di preparare nella sua povera casuccia
l'alloggio il più decente che potesse, a quell'anima buona: poi andò in cerca
di seta da annaspare; e lavorando ingannava il tempo.
Renzo,
dal canto suo, non passò in ozio que' giorni già tanto lunghi per sé: sapeva
far due mestieri per buona sorte; si rimise a quello del contadino. Parte
aiutava il suo ospite, per il quale era una gran fortuna l'avere in tal tempo
spesso al suo comando un'opera, e un'opera di quell'abilità; parte coltivava,
anzi dissodava l'orticello d'Agnese, trasandato affatto nell'assenza di lei. In
quanto al suo proprio podere, non se n'occupava punto, dicendo ch'era una
parrucca troppo arruffata, e che ci voleva altro che due braccia a ravviarla. E
non ci metteva neppure i piedi; come né anche in casa: ché gli avrebbe fatto
male a vedere quella desolazione; e aveva già preso il partito di disfarsi
d'ogni cosa, a qualunque prezzo, e d'impiegar nella nuova patria quel tanto che
ne potrebbe ricavare.
Se i
rimasti vivi erano, l'uno per l'altro, come morti resuscitati, Renzo, per
quelli del suo paese, lo era, come a dire, due volte: ognuno gli faceva
accoglienze e congratulazioni, ognuno voleva sentir da lui la sua storia.
Direte forse: come andava col bando? L'andava benone: lui non ci pensava quasi
più, supponendo che quelli i quali avrebbero potuto eseguirlo, non ci
pensassero più né anche loro: e non s'ingannava. E questo non nasceva solo
dalla peste che aveva fatto monte di tante cose; ma era, come s'è potuto vedere
anche in vari luoghi di questa storia, cosa comune a que' tempi, che i decreti,
tanto generali quanto speciali, contro le persone, se non c'era qualche
animosità privata e potente che li tenesse vivi, e li facesse valere,
rimanevano spesso senza effetto, quando non l'avessero avuto sul primo momento;
come palle di schioppo, che, se non fanno colpo, restano in terra, dove non
dànno fastidio a nessuno. Conseguenza necessaria della gran facilità con cui li
seminavano que' decreti. L'attività dell'uomo è limitata; e tutto il di più che
c'era nel comandare, doveva tornare in tanto meno nell'eseguire. Quel che va
nelle maniche, non può andar ne' gheroni.
Chi
volesse anche sapere come Renzo se la passasse con don Abbondio, in quel tempo
d'aspetto, dirò che stavano alla larga l'uno dall'altro: don Abbondio, per
timore di sentire intonar qualcosa di matrimonio: e, al solo pensarci, si
vedeva davanti agli occhi don Rodrigo da una parte, co' suoi bravi, il
cardinale dall'altra, co' suoi argomenti: Renzo, perché aveva fissato di non
parlargliene che al momento di concludere, non volendo risicare di farlo
inalberar prima del tempo, di suscitar, chi sa mai? qualche difficoltà, e
d'imbrogliar le cose con chiacchiere inutili. Le sue chiacchiere, le faceva con
Agnese. - Credete voi che verrà presto? - domandava l'uno. - Io spero di sì, -
rispondeva l'altro: e spesso quello che aveva data la risposta, faceva poco
dopo la domanda medesima. E con queste e con simili furberie, s'ingegnavano a
far passare il tempo, che pareva loro più lungo, di mano in mano che n'era più
passato.
Al
lettore noi lo faremo passare in un momento tutto quel tempo, dicendo in
compendio che, qualche giorno dopo la visita di Renzo al lazzeretto, Lucia
n'uscì con la buona vedova; che, essendo stata ordinata una quarantina generale,
la fecero insieme, rinchiuse nella casa di quest'ultima; che una parte del
tempo fu spesa in allestire il corredo di Lucia, al quale, dopo aver fatto un
po' di cerimonie, dovette lavorare anche lei; e che, terminata che fu la
quarantina, la vedova lasciò in consegna il fondaco e la casa a quel suo
fratello commissario; e si fecero i preparativi per il viaggio. Potremmo anche
soggiunger subito: partirono, arrivarono, e quel che segue; ma, con tutta la
volontà che abbiamo di secondar la fretta del lettore, ci son tre cose
appartenenti a quell'intervallo di tempo, che non vorremmo passar sotto
silenzio; e, per due almeno, crediamo che il lettore stesso dirà che avremmo
fatto male.
La
prima, che, quando Lucia tornò a parlare alla vedova delle sue avventure, più
in particolare, e più ordinatamente di quel che avesse potuto in
quell'agitazione della prima confidenza, e fece menzione più espressa della
signora che l'aveva ricoverata nel monastero di Monza, venne a sapere di costei
cose che, dandole la chiave di molti misteri, le riempiron l'animo d'una
dolorosa e paurosa maraviglia. Seppe dalla vedova che la sciagurata, caduta in
sospetto d'atrocissimi fatti, era stata, per ordine del cardinale, trasportata
in un monastero di Milano; che lì, dopo molto infuriare e dibattersi, s'era
ravveduta, s'era accusata; e che la sua vita attuale era supplizio volontario
tale, che nessuno, a meno di non togliergliela, ne avrebbe potuto trovare un
più severo. Chi volesse conoscere un po' più in particolare questa trista storia,
la troverà nel libro e al luogo che abbiam citato altrove, a proposito della
stessa persona (Ripam. Hist. Pat., Dec. V, Lib. VI, Cap. III.).
L'altra
cosa è che Lucia, domandando del padre Cristoforo a tutti i cappuccini che poté
vedere nel lazzeretto, sentì, con più dolore che maraviglia, ch'era morto di
peste.
Finalmente,
prima di partire, avrebbe anche desiderato di saper qualcosa de' suoi antichi
padroni, e di fare, come diceva, un atto del suo dovere, se alcuno ne rimaneva.
La vedova l'accompagnò alla casa, dove seppero che l'uno e l'altra erano andati
tra que' più. Di donna Prassede, quando si dice ch'era morta, è detto tutto; ma
intorno a don Ferrante, trattandosi ch'era stato dotto, l'anonimo ha creduto
d'estendersi un po' più; e noi, a nostro rischio, trascriveremo a un di presso
quello che ne lasciò scritto.
Dice
adunque che, al primo parlar che si fece di peste, don Ferrante fu uno de' più
risoluti a negarla, e che sostenne costantemente fino all'ultimo,
quell'opinione; non già con ischiamazzi, come il popolo; ma con ragionamenti,
ai quali nessuno potrà dire almeno che mancasse la concatenazione.
- In
rerum natura, - diceva, - non ci son che due generi di cose: sostanze e
accidenti; e se io provo che il contagio non può esser né l'uno né l'altro,
avrò provato che non esiste, che è una chimera. E son qui. Le sostanze sono, o spirituali,
o materiali. Che il contagio sia sostanza spirituale, è uno sproposito che
nessuno vorrebbe sostenere; sicché è inutile parlarne. Le sostanze materiali
sono, o semplici, o composte. Ora, sostanza semplice il contagio non è; e si
dimostra in quattro parole. Non è sostanza aerea; perché, se fosse tale, in
vece di passar da un corpo all'altro, volerebbe subito alla sua sfera. Non è
acquea; perché bagnerebbe, e verrebbe asciugata da' venti. Non è ignea; perché
brucerebbe. Non è terrea; perché sarebbe visibile. Sostanza composta, neppure;
perché a ogni modo dovrebbe esser sensibile all'occhio o al tatto; e questo
contagio, chi l'ha veduto? chi l'ha toccato? Riman da vedere se possa essere
accidente. Peggio che peggio. Ci dicono questi signori dottori che si comunica
da un corpo all'altro; ché questo è il loro achille, questo il pretesto per far
tante prescrizioni senza costrutto. Ora, supponendolo accidente, verrebbe a essere
un accidente trasportato: due parole che fanno ai calci, non essendoci, in
tutta la filosofia, cosa più chiara, più liquida di questa: che un accidente
non può passar da un soggetto all'altro. Che se, per evitar questa Scilla, si
riducono a dire che sia accidente prodotto, dànno in Cariddi: perché, se è
prodotto, dunque non si comunica, non si propaga, come vanno blaterando. Posti
questi princìpi, cosa serve venirci tanto a parlare di vibici, d'esantemi,
d'antraci...?
- Tutte
corbellerie, - scappò fuori una volta un tale.
- No,
no, - riprese don Ferrante: - non dico questo: la scienza è scienza; solo
bisogna saperla adoprare. Vibici, esantemi, antraci, parotidi, bubboni
violacei, furoncoli nigricanti, son tutte parole rispettabili, che hanno il
loro significato bell'e buono; ma dico che non han che fare con la questione.
Chi nega che ci possa essere di queste cose, anzi che ce ne sia? Tutto sta a
veder di dove vengano.
Qui
cominciavano i guai anche per don Ferrante. Fin che non faceva che dare addosso
all'opinion del contagio, trovava per tutto orecchi attenti e ben disposti:
perché non si può spiegare quanto sia grande l'autorità d'un dotto di
professione, allorché vuol dimostrare agli altri le cose di cui sono già
persuasi. Ma quando veniva a distinguere, e a voler dimostrare che l'errore di
que' medici non consisteva già nell'affermare che ci fosse un male terribile e
generale; ma nell'assegnarne la cagione; allora (parlo de' primi tempi, in cui
non si voleva sentir discorrere di peste), allora, in vece d'orecchi, trovava
lingue ribelli, intrattabili; allora, di predicare a distesa era finita; e la
sua dottrina non poteva più metterla fuori, che a pezzi e bocconi.
- La
c'è pur troppo la vera cagione, - diceva; - e son costretti a riconoscerla
anche quelli che sostengono poi quell'altra così in aria... La neghino un poco,
se possono, quella fatale congiunzione di Saturno con Giove. E quando mai s'è
sentito dire che l'influenze si propaghino...? E lor signori mi vorranno negar
l'influenze? Mi negheranno che ci sian degli astri? O mi vorranno dire che
stian lassù a far nulla, come tante capocchie di spilli ficcati in un
guancialino?... Ma quel che non mi può entrare, è di questi signori medici;
confessare che ci troviamo sotto una congiunzione così maligna, e poi venirci a
dire, con faccia tosta: non toccate qui, non toccate là, e sarete sicuri! Come
se questo schivare il contatto materiale de' corpi terreni, potesse impedir
l'effetto virtuale de' corpi celesti! E tanto affannarsi a bruciar de' cenci!
Povera gente! brucerete Giove? brucerete Saturno?
His
fretus, vale a dire su questi bei fondamenti, non prese nessuna
precauzione contro la peste; gli s'attaccò; andò a letto, a morire, come un
eroe di Metastasio, prendendosela con le stelle.
E
quella sua famosa libreria? È forse ancora dispersa su per i muriccioli.
Una
sera, Agnese sente fermarsi un legno all'uscio. - È lei, di certo! - Era
proprio lei, con la buona vedova. L'accoglienze vicendevoli se le immagini il
lettore.
La
mattina seguente, di buon'ora, capita Renzo che non sa nulla, e vien solamente
per isfogarsi un po' con Agnese su quel gran tardare di Lucia. Gli atti che
fece, e le cose che disse, al trovarsela davanti, si rimettono anche quelli
all'immaginazion del lettore. Le dimostrazioni di Lucia in vece furon tali, che
non ci vuol molto a descriverle. - Vi saluto: come state? - disse, a occhi
bassi, e senza scomporsi. E non crediate che Renzo trovasse quel fare troppo
asciutto, e se l'avesse per male. Prese benissimo la cosa per il suo verso; e,
come, tra gente educata, si sa far la tara ai complimenti, così lui intendeva
bene che quelle parole non esprimevan tutto ciò che passava nel cuore di Lucia.
Del resto, era facile accorgersi che aveva due maniere di pronunziarle: una per
Renzo, e un'altra per tutta la gente che potesse conoscere.
- Sto
bene quando vi vedo, - rispose il giovine, con una frase vecchia, ma che
avrebbe inventata lui, in quel momento.
- Il
nostro povero padre Cristoforo...! - disse Lucia: - pregate per l'anima sua:
benché si può esser quasi sicuri che a quest'ora prega lui per noi lassù.
- Me
l'aspettavo, pur troppo, - disse Renzo. E non fu questa la sola trista corda
che si toccasse in quel colloquio. Ma che? di qualunque cosa si parlasse, il
colloquio gli riusciva sempre delizioso. Come que' cavalli bisbetici che
s'impuntano, e si piantan lì, e alzano una zampa e poi un'altra, e le
ripiantano al medesimo posto, e fanno mille cerimonie prima di fare un passo, e
poi tutto a un tratto prendon l'andare, e via, come se il vento li portasse,
così era divenuto il tempo per lui: prima i minuti gli parevan ore; poi l'ore
gli parevan minuti.
La
vedova, non solo non guastava la compagnia, ma ci faceva dentro molto bene; e
certamente, Renzo, quando la vide in quel lettuccio, non se la sarebbe potuta
immaginare d'un umore così socievole e gioviale. Ma il lazzeretto e la
campagna, la morte e le nozze, non son tutt'uno. Con Agnese essa aveva già
fatto amicizia; con Lucia poi era un piacere a vederla, tenera insieme e
scherzevole, e come la stuzzicava garbatamente, e senza spinger troppo, appena
quanto ci voleva per obbligarla a dimostrar tutta l'allegria che aveva in
cuore.
Renzo
disse finalmente che andava da don Abbondio, a prendere i concerti per lo
sposalizio. Ci andò, e, con un certo fare tra burlesco e rispettoso, - signor
curato, - gli disse: - le è poi passato quel dolor di capo, per cui mi diceva
di non poterci maritare? Ora siamo a tempo; la sposa c'è: e son qui per sentire
quando le sia di comodo: ma questa volta, sarei a pregarla di far presto -. Don
Abbondio non disse di no; ma cominciò a tentennare, a trovar cert'altre scuse,
a far cert'altre insinuazioni: e perché mettersi in piazza, e far gridare il
suo nome, con quella cattura addosso? e che la cosa potrebbe farsi ugualmente
altrove; e questo e quest'altro.
- Ho
inteso, - disse Renzo: - lei ha ancora un po' di quel mal di capo. Ma senta,
senta -. E cominciò a descrivere in che stato aveva visto quel povero don
Rodrigo; e che già a quell'ora doveva sicuramente essere andato. - Speriamo, -
concluse, - che il Signore gli avrà usato misericordia.
-
Questo non ci ha che fare, - disse don Abbondio: - v'ho forse detto di no? Io
non dico di no; parlo... parlo per delle buone ragioni. Del resto, vedete, fin
che c'è fiato... Guardatemi me: sono una conca fessa; sono stato anch'io, più
di là che di qua: e son qui; e... se non mi vengono addosso de' guai...
basta... posso sperare di starci ancora un pochino. Figuratevi poi certi
temperamenti. Ma, come dico, questo non ci ha che far nulla.
Dopo
qualche altra botta e risposta, né più né meno concludenti, Renzo strisciò una
bella riverenza, se ne tornò alla sua compagnia, fece la sua relazione, e finì
con dire: - son venuto via, che n'ero pieno, e per non risicar di perdere la
pazienza, e di levargli il rispetto. In certi momenti, pareva proprio quello
dell'altra volta; proprio quella mutria, quelle ragioni: son sicuro che, se la
durava ancora un poco, mi tornava in campo con qualche parola in latino. Vedo
che vuol essere un'altra lungagnata: è meglio fare addirittura come dice lui,
andare a maritarsi dove andiamo a stare.
-
Sapete cosa faremo? - disse la vedova: - voglio che andiamo noi altre donne a
fare un'altra prova, e vedere se ci riesce meglio. Così avrò anch'io il gusto
di conoscerlo quest'uomo, se è proprio come dite. Dopo desinare voglio che
andiamo; per non tornare a dargli addosso subito. Ora, signore sposo, menateci
un po' a spasso noi altre due, intanto che Agnese è in faccende: ché a Lucia
farò io da mamma: e ho proprio voglia di vedere un po' meglio queste montagne,
questo lago, di cui ho sentito tanto parlare; e il poco che n'ho già visto, mi
pare una gran bella cosa.
Renzo
le condusse prima di tutto alla casa del suo ospite, dove fu un'altra festa: e
gli fecero promettere che, non solo quel giorno, ma tutti i giorni, se potesse,
verrebbe a desinare con loro.
Passeggiato,
desinato, Renzo se n'andò, senza dir dove. Le donne rimasero un pezzetto a
discorrere, a concertarsi sulla maniera di prender don Abbondio; e finalmente
andarono all'assalto.
"Son
qui loro", disse questo tra sé; ma fece faccia tosta: gran congratulazioni
a Lucia, saluti ad Agnese, complimenti alla forestiera. Le fece mettere a
sedere, e poi entrò subito a parlar della peste: volle sentir da Lucia come
l'aveva passata in que' guai: il lazzeretto diede opportunità di far parlare
anche quella che l'era stata compagna; poi, com'era giusto, don Abbondio parlò
anche della sua burrasca; poi de' gran mirallegri anche a Agnese, che l'aveva
passata liscia. La cosa andava in lungo: già fin dal primo momento, le due
anziane stavano alle velette, se mai venisse l'occasione d'entrar nel discorso
essenziale: finalmente non so quale delle due ruppe il ghiaccio. Ma cosa
volete? Don Abbondio era sordo da quell'orecchio. Non che dicesse di no; ma
eccolo di nuovo a quel suo serpeggiare, volteggiare e saltar di palo in frasca.
- Bisognerebbe, - diceva, - poter far levare quella catturaccia. Lei, signora,
che è di Milano, conoscerà più o meno il filo delle cose, avrà delle buone
protezioni, qualche cavaliere di peso: ché con questi mezzi si sana ogni piaga.
Se poi si volesse andar per la più corta, senza imbarcarsi in tante storie;
giacché codesti giovani, e qui la nostra Agnese, hanno già intenzione di
spatriarsi (e io non saprei cosa dire: la patria è dove si sta bene), mi pare
che si potrebbe far tutto là, dove non c'è cattura che tenga. Non vedo proprio
l'ora di saperlo concluso questo parentado, ma lo vorrei concluso bene,
tranquillamente. Dico la verità: qui, con quella cattura viva, spiattellar
dall'altare quel nome di Lorenzo Tramaglino, non lo farei col cuor quieto: gli
voglio troppo bene; avrei paura di fargli un cattivo servizio. Veda lei; vedete
voi altre.
Qui,
parte Agnese, parte la vedova, a ribatter quelle ragioni; don Abbondio a
rimetterle in campo, sott'altra forma: s'era sempre da capo; quando entra
Renzo, con un passo risoluto, e con una notizia in viso; e dice: - è arrivato
il signor marchese ***.
- Cosa
vuol dir questo? arrivato dove? - domanda don Abbondio, alzandosi.
- E
arrivato nel suo palazzo, ch'era quello di don Rodrigo; perché questo signor
marchese è l'erede per fidecommisso, come dicono; sicché non c'è più dubbio.
Per me, ne sarei contento, se potessi sapere che quel pover'uomo fosse morto
bene. A buon conto, finora ho detto per lui de' paternostri, adesso gli dirò
de' De profundis. E questo signor marchese è un bravissim'uomo.
-
Sicuro, - disse don Abbondio: - l'ho sentito nominar più d'una volta per un
bravo signore davvero, per un uomo della stampa antica. Ma che sia proprio
vero...?
- Al
sagrestano gli crede?
-
Perché?
-
Perché lui l'ha veduto co' suoi occhi. Io sono stato solamente lì ne' contorni,
e, per dir la verità, ci sono andato appunto perché ho pensato: qualcosa là si
dovrebbe sapere. E più d'uno m'ha detto lo stesso. Ho poi incontrato Ambrogio
che veniva proprio di lassu, e che l'ha veduto, come dico, far da padrone. Lo
vuol sentire, Ambrogio? L'ho fatto aspettar qui fuori apposta.
-
Sentiamo, - disse don Abbondio. Renzo andò a chiamare il sagrestano. Questo
confermò la cosa in tutto e per tutto, ci aggiunse altre circostanze, sciolse
tutti i dubbi; e poi se n'andò.
- Ah! è
morto dunque! è proprio andato! - esclamò don Abbondio. - Vedete, figliuoli, se
la Provvidenza arriva alla fine certa gente. Sapete che l'è una gran cosa! un
gran respiro per questo povero paese! che non ci si poteva vivere con colui. E
stata un gran flagello questa peste; ma è anche stata una scopa; ha
spazzato via certi soggetti, che, figliuoli miei, non ce ne liberavamo più:
verdi, freschi, prosperosi: bisognava dire che chi era destinato a far loro
l'esequie, era ancora in seminario, a fare i latinucci. E in un batter
d'occhio, sono spariti, a cento per volta. Non lo vedremo più andare in giro
con quegli sgherri dietro, con quell'albagìa, con quell'aria, con quel palo in
corpo, con quel guardar la gente, che pareva che si stesse tutti al mondo per
sua degnazione. Intanto, lui non c'è più, e noi ci siamo. Non manderà più di
quell'imbasciate ai galantuomini. Ci ha dato un gran fastidio a tutti, vedete:
ché adesso lo possiamo dire.
- Io
gli ho perdonato di cuore, - disse Renzo.
- E fai
il tuo dovere, - rispose don Abbondio: - ma si può anche ringraziare il cielo,
che ce n'abbia liberati. Ora, tornando a noi, vi ripeto: fate voi altri quel
che credete. Se volete che vi mariti io, son qui; se vi torna più comodo in
altra maniera, fate voi altri. In quanto alla cattura, vedo anch'io che, non
essendoci ora più nessuno che vi tenga di mira, e voglia farvi del male, non è
cosa da prendersene gran pensiero: tanto più, che c'è stato di mezzo quel
decreto grazioso, per la nascita del serenissimo infante. E poi la peste! la
peste! ha dato di bianco a di gran cose la peste! Sicché, se volete... oggi è
giovedì... domenica vi dico in chiesa; perché quel che s'è fatto l'altra volta,
non conta più niente, dopo tanto tempo; e poi ho la consolazione di maritarvi
io.
- Lei
sa bene ch'eravamo venuti appunto per questo, - disse Renzo.
-
Benissimo; e io vi servirò: e voglio darne parte subito a sua eminenza.
- Chi è
sua eminenza? - domandò Agnese.
- Sua
eminenza, - rispose don Abbondio, - è il nostro cardinale arcivescovo, che Dio
conservi.
- Oh!
in quanto a questo mi scusi, - replicò Agnese: - ché, sebbene io sia una povera
ignorante, le posso accertare che non gli si dice così; perché, quando siamo
state la seconda volta per parlargli, come parlo a lei, uno di que' signori
preti mi tirò da parte, e m'insegnò come si doveva trattare con quel signore, e
che gli si doveva dire vossignoria illustrissima, e monsignore.
- E
ora, se vi dovesse tornare a insegnare, vi direbbe che gli va dato
dell'eminenza: avete inteso? Perché il papa, che Dio lo conservi anche lui, ha
prescritto, fin dal mese di giugno, che ai cardinali si dia questo titolo. E
sapete perché sarà venuto a questa risoluzione? Perché l'illustrissimo, ch'era
riservato a loro e a certi principi, ora, vedete anche voi altri, cos'è
diventato, a quanti si dà: e come se lo succiano volentieri! E cosa doveva
fare, il papa? Levarlo a tutti? Lamenti, ricorsi, dispiaceri, guai; e per di
più, continuar come prima. Dunque ha trovato un bonissimo ripiego. A poco a
poco poi, si comincerà a dar dell'eminenza ai vescovi; poi lo vorranno gli
abati, poi i proposti: perché gli uomini son fatti così; sempre voglion salire,
sempre salire; poi i canonici...
- Poi i
curati, - disse la vedova.
- No
no, - riprese don Abbondio: - i curati a tirar la carretta: non abbiate paura
che gli avvezzin male, i curati: del reverendo, fino alla fin del mondo.
Piuttosto, non mi maraviglierei punto che i cavalieri, i quali sono avvezzi a
sentirsi dar dell'illustrissimo, a esser trattati come i cardinali, un giorno
volessero dell'eminenza anche loro. E se la vogliono, vedete, troveranno chi
gliene darà. E allora, il papa che ci sarà allora, troverà qualche altra cosa
per i cardinali. Orsù, ritorniamo alle nostre cose: domenica vi dirò in chiesa;
e intanto, sapete cos'ho pensato per servirvi meglio? Intanto chiederemo la
dispensa per l'altre due denunzie. Hanno a avere un bel da fare laggiù in curia,
a dar dispense, se la va per tutto come qui. Per domenica ne ho già... uno...
due... tre; senza contarvi voi altri: e ne può capitare ancora. E poi vedrete,
andando avanti, che affare vuol essere: non ne deve rimanere uno scompagnato.
Ha proprio fatto uno sproposito Perpetua a morire ora; ché questo era il
momento che trovava l'avventore anche lei. E a Milano, signora, mi figuro che
sarà lo stesso.
-
Eccome! si figuri che, solamente nella mia cura, domenica passata, cinquanta
denunzie.
- Se lo
dico; il mondo non vuol finire. E lei, signora, non hanno principiato a
ronzarle intorno de' mosconi?
- No,
no; io non ci penso, né ci voglio pensare.
- Sì,
sì, che vorrà esser lei sola. Anche Agnese, veda; anche Agnese...
- Uh!
ha voglia di scherzare, lei, - disse questa.
-
Sicuro che ho voglia di scherzare: e mi pare che sia ora finalmente. Ne abbiam
passate delle brutte, n'è vero, i miei giovani? delle brutte n'abbiam passate:
questi quattro giorni che dobbiamo stare in questo mondo, si può sperare che
vogliano essere un po' meglio. Ma! fortunati voi altri, che, non succedendo
disgrazie, avete ancora un pezzo da parlare de' guai passati: io in vece, sono
alle ventitre e tre quarti, e... i birboni posson morire; della peste si può
guarire; ma agli anni non c'è rimedio: e, come dice, senectus ipsa est
morbus.
- Ora,
- disse Renzo, - parli pur latino quanto vuole; che non me n'importa nulla.
- Tu
l'hai ancora col latino, tu: bene bene, t'accomoderò io: quando mi verrai
davanti, con questa creatura, per sentirvi dire appunto certe paroline in
latino, ti dirò: latino tu non ne vuoi: vattene in pace. Ti piacerà?
- Eh!
so io quel che dico, - riprese Renzo: - non è quel latino lì che mi fa paura:
quello è un latino sincero, sacrosanto, come quel della messa: anche loro, lì,
bisogna che leggano quel che c'è sul libro. Parlo di quel latino birbone, fuor
di chiesa, che viene addosso a tradimento, nel buono d'un discorso. Per
esempio, ora che siam qui, che tutto è finito; quel latino che andava cavando
fuori, lì proprio, in quel canto, per darmi ad intendere che non poteva, e che
ci voleva dell'altre cose, e che so io? me lo volti un po' in volgare ora.
- Sta'
zitto, buffone, sta' zitto: non rimestar queste cose; ché, se dovessimo ora
fare i conti, non so chi avanzerebbe. Io ho perdonato tutto: non ne parliam
più: ma me n'avete fatti de' tiri. Di te non mi fa specie, che sei un
malandrinaccio; ma dico quest'acqua cheta, questa santerella, questa madonnina
infilzata, che si sarebbe creduto far peccato a guardarsene. Ma già, lo so io
chi l'aveva ammaestrata, lo so io, lo so io -. Così dicendo, accennava Agnese
col dito, che prima aveva tenuto rivolto a Lucia: e non si potrebbe spiegare
con che bonarietà, con che piacevolezza facesse que' rimproveri. Quella notizia
gli aveva dato una disinvoltura, una parlantina, insolita da gran tempo; e
saremmo ancor ben lontani dalla fine, se volessimo riferir tutto il rimanente
di que' discorsi, che lui tirò in lungo, ritenendo più d'una volta la compagnia
che voleva andarsene, e fermandola poi ancora un pochino sull'uscio di strada,
sempre a parlar di bubbole.
Il
giorno seguente, gli capitò una visita, quanto meno aspettata tanto più
gradita: il signor marchese del quale s'era parlato: un uomo tra la virilità e
la vecchiezza, il cui aspetto era come un attestato di ciò che la fama diceva
di lui: aperto, cortese, placido, umile, dignitoso, e qualcosa che indicava una
mestizia rassegnata.
-
Vengo, - disse, - a portarle i saluti del cardinale arcivescovo.
- Oh
che degnazione di tutt'e due!
-
Quando fui a prender congedo da quest'uomo incomparabile, che m'onora della sua
amicizia, mi parlò di due giovani di codesta cura, ch'eran promessi sposi, e
che hanno avuto de' guai, per causa di quel povero don Rodrigo. Monsignore
desidera d'averne notizia. Son vivi? E le loro cose sono accomodate?
-
Accomodato ogni cosa. Anzi, io m'era proposto di scriverne a sua eminenza; ma
ora che ho l'onore...
- Si
trovan qui?
- Qui;
e, più presto che si potrà, saranno marito e moglie.
- E io
la prego di volermi dire se si possa far loro del bene, e anche d'insegnarmi la
maniera più conveniente. In questa calamità, ho perduto i due soli figli che
avevo, e la madre loro, e ho avute tre eredità considerabili. Del superfluo,
n'avevo anche prima: sicché lei vede che il darmi una occasione d'impiegarne, e
tanto più una come questa, è farmi veramente un servizio.
- Il
cielo la benedica! Perché non sono tutti come lei i...? Basta; la ringrazio
anch'io di cuore per questi miei figliuoli. E giacché vossignoria illustrissima
mi dà tanto coraggio, sì signore, che ho un espediente da suggerirle, il quale
forse non le dispiacerà. Sappia dunque che questa buona gente son risoluti
d'andare a metter su casa altrove, e di vender quel poco che hanno al sole qui:
una vignetta il giovine, di nove o dieci pertiche, salvo il vero, ma trasandata
affatto: bisogna far conto del terreno, nient'altro; di più una casuccia lui, e
un'altra la sposa: due topaie, veda. Un signore come vossignoria non può sapere
come la vada per i poveri, quando voglion disfarsi del loro. Finisce sempre a
andare in bocca di qualche furbo, che forse sarà già un pezzo che fa all'amore
a quelle quattro braccia di terra, e quando sa che l'altro ha bisogno di
vendere, si ritira, fa lo svogliato; bisogna corrergli dietro, e dargliele per
un pezzo di pane: specialmente poi in circostanze come queste. Il signor
marchese ha già veduto dove vada a parare il mio discorso. La carità più
fiorita che vossignoria illustrissima possa fare a questa gente, è di cavarli
da quest'impiccio, comprando quel poco fatto loro. Io, ner dir la verità, do un
parere interessato, perché verrei ad acquistare nella mia cura un compadrone
come il signor marchese; ma vossignoria deciderà secondo che le parrà meglio:
io ho parlato per ubbidienza.
Il
marchese lodò molto il suggerimento; ringraziò don Abbondio, e lo pregò di
voler esser arbitro del prezzo, e di fissarlo alto bene; e lo fece poi restar
di sasso, col proporgli che s'andasse subito insieme a casa della sposa, dove
sarebbe probabilmente anche lo sposo.
Per la
strada, don Abbondio, tutto gongolante, come vi potete immaginare, ne pensò e
ne disse un'altra. - Giacché vossignoria illustrissima è tanto inclinato a far
del bene a questa gente, ci sarebbe un altro servizio da render loro. Il
giovine ha addosso una cattura, una specie di bando, per qualche scappatuccia
che ha fatta in Milano, due anni sono, quel giorno del gran fracasso, dove s'è
trovato impicciato, senza malizia, da ignorante, come un topo nella trappola:
nulla di serio, veda: ragazzate, scapataggini: di far del male veramente, non è
capace: e io posso dirlo, che l'ho battezzato, e l'ho veduto venir su: e poi,
se vossignoria vuol prendersi il divertimento di sentir questa povera gente
ragionar su alla carlona, potrà fargli raccontar la storia a lui, e sentirà.
Ora, trattandosi di cose vecchie, nessuno gli dà fastidio; e, come le ho detto,
lui pensa d'andarsene fuor di stato; ma, col tempo, o tornando qui, o altro,
non si sa mai, lei m'insegna che è sempre meglio non esser su que' libri. Il
signor marchese, in Milano, conta, come è giusto, e per quel gran cavaliere, e
per quel grand'uomo che è... No, no, mi lasci dire; ché la verità vuole avere
il suo luogo. Una raccomandazione, una parolina d'un par suo, è più del bisogno
per ottenere una buona assolutoria.
- Non
c'è impegni forti contro codesto giovine?
- No,
no; non crederei. Gli hanno fatto fuoco addosso nel primo momento; ma ora credo
che non ci sia più altro che la semplice formalità.
-
Essendo così, la cosa sarà facile; e la prendo volentieri sopra di me
- E poi
non vorrà che si dica che è un grand'uomo. Lo dico, e lo voglio dire; a suo
dispetto, lo voglio dire. E anche se io stessi zitto, già non servirebbe a
nulla, perché parlan tutti; e vox populi, vox Dei.
Trovarono
appunto le tre donne e Renzo. Come questi rimanessero, lo lascio considerare a
voi: io credo che anche quelle nude e ruvide pareti, e l'impannate, e i
panchetti, e le stoviglie si maravigliassero di ricever tra loro una visita
così straordinaria. Avviò lui la conversazione, parlando del cardinale e
dell'altre cose, con aperta cordialità, e insieme con delicati riguardi. Passò
poi a far la proposta per cui era venuto. Don Abbondio, pregato da lui di
fissare il prezzo, si fece avanti; e, dopo un po' di cerimonie e di scuse, e
che non era sua farina, e che non potrebbe altro che andare a tastoni, e che
parlava per ubbidienza, e che si rimetteva, proferì, a parer suo, uno
sproposito. Il compratore disse che, per la parte sua, era contentissimo, e,
come se avesse franteso, ripeté il doppio; non volle sentir rettificazioni, e
troncò e concluse ogni discorso invitando la compagnia a desinare per il giorno
dopo le nozze, al suo palazzo, dove si farebbe l'istrumento in regola.
"Ah!
- diceva poi tra sé don Abbondio, tornato a casa: - se la peste facesse sempre
e per tutto le cose in questa maniera, sarebbe proprio peccato il dirne male:
quasi quasi ce ne vorrebbe una, ogni generazione; e si potrebbe stare a patti
d'averla; ma guarire, ve'".
Venne
la dispensa, venne l'assolutoria, venne quel benedetto giorno: i due promessi
andarono, con sicurezza trionfale, proprio a quella chiesa, dove, proprio per
bocca di don Abbondio, furono sposi. Un altro trionfo, e ben più singolare, fu
l'andare a quel palazzotto; e vi lascio pensare che cose dovessero passar loro
per la mente, in far quella salita, all'entrare in quella porta; e che discorsi
dovessero fare, ognuno secondo il suo naturale. Accennerò soltanto che, in
mezzo all'allegria, ora l'uno, ora l'altro motivò più d'una volta, che, per
compir la festa, ci mancava il povero padre Cristoforo. - Ma per lui, - dicevan
poi, - sta meglio di noi sicuramente.
Il
marchese fece loro una gran festa, li condusse in un bel tinello, mise a tavola
gli sposi, con Agnese e con la mercantessa; e prima di ritirarsi a pranzare
altrove con don Abbondio, volle star lì un poco a far compagnia agl'invitati, e
aiutò anzi a servirli. A nessuno verrà, spero, in testa di dire che sarebbe
stata cosa più semplice fare addirittura una tavola sola. Ve l'ho dato per un
brav'uomo, ma non per un originale, come si direbbe ora; v'ho detto ch'era
umile, non già che fosse un portento d'umiltà. N'aveva quanta ne bisognava per
mettersi al di sotto di quella buona gente, ma non per istar loro in pari.
Dopo i
due pranzi, fu steso il contratto per mano d'un dottore, il quale non fu
l'Azzecca-garbugli. Questo, voglio dire la sua spoglia, era ed è tuttavia a
Canterelli. E per chi non è di quelle parti, capisco anch'io che qui ci vuole
una spiegazione.
Sopra
Lecco forse un mezzo miglio, e quasi sul fianco dell'altro paese chiamato
Castello, c'è un luogo detto Canterelli, dove s'incrocian due strade; e da una
parte del crocicchio, si vede un rialto, come un poggetto artificiale, con una
croce in cima; il quale non è altro che un gran mucchio di morti in quel
contagio. La tradizione, per dir la verità, dice semplicemente i morti del
contagio; ma dev'esser quello senz'altro, che fu l'ultimo, e il più micidiale
di cui rimanga memoria. E sapete che le tradizioni, chi non le aiuta, da sé
dicon sempre troppo poco.
Nel
ritorno non ci fu altro inconveniente, se non che Renzo era un po' incomodato
dal peso de' quattrini che portava via. Ma l'uomo, come sapete, aveva fatto ben
altre vite. Non parlo del lavoro della mente, che non era piccolo, a pensare
alla miglior maniera di farli fruttare. A vedere i progetti che passavan per
quella mente, le riflessioni, l'immaginazioni; a sentire i pro e i contro, per
l'agricoltura e per l'industria, era come se ci si fossero incontrate due
accademie del secolo passato. E per lui l'impiccio era ben più reale; perché,
essendo un uomo solo, non gli si poteva dire: che bisogno c'è di scegliere?
l'uno e l'altro, alla buon'ora; ché i mezzi, in sostanza, sono i medesimi; e
son due cose come le gambe, che due vanno meglio d'una sola.
Non si
pensò più che a fare i fagotti, e a mettersi in viaggio: casa Tramaglino per la
nuova patria, e la vedova per Milano. Le lacrime, i ringraziamenti, le promesse
d'andarsi a trovare furon molte. Non meno tenera, eccettuate le lacrime, fu la
separazione di Renzo e della famiglia dall'ospite amico: e non crediate che con
don Abbondio le cose passassero freddamente. Quelle buone creature avevan
sempre conservato un certo attaccamento rispettoso per il loro curato; e
questo, in fondo, aveva sempre voluto bene a loro. Son que' benedetti affari,
che imbroglian gli affetti.
Chi
domandasse se non ci fu anche del dolore in distaccarsi dal paese nativo, da
quelle montagne; ce ne fu sicuro: ché del dolore, ce n'è, sto per dire, un po'
per tutto. Bisogna però che non fosse molto forte, giacché avrebbero potuto
risparmiarselo, stando a casa loro, ora che i due grand'inciampi, don Rodrigo e
il bando, eran levati. Ma, già da qualche tempo, erano avvezzi tutt'e tre a
riguardar come loro il paese dove andavano. Renzo l'aveva fatto entrare in
grazia alle donne, raccontando l'agevolezze che ci trovavano gli operai, e
cento cose della bella vita che si faceva là. Del resto, avevan tutti passato
de' momenti ben amari in quello a cui voltavan le spalle; e le memorie triste,
alla lunga guastan sempre nella mente i luoghi che le richiamano. E se que'
luoghi son quelli dove siam nati, c'è forse in tali memorie qualcosa di più
aspro e pungente. Anche il bambino, dice il manoscritto, riposa volentieri sul
seno della balia, cerca con avidità e con fiducia la poppa che l'ha dolcemente
alimentato fino allora; ma se la balia, per divezzarlo, la bagna d'assenzio, il
bambino ritira la bocca, poi torna a provare, ma finalmente se ne stacca;
piangendo sì, ma se ne stacca.
Cosa
direte ora, sentendo che, appena arrivati e accomodati nel nuovo paese, Renzo
ci trovò de' disgusti bell'e preparati? Miserie; ma ci vuol così poco a
disturbare uno stato felice! Ecco, in poche parole, la cosa.
Il
parlare che, in quel paese, s'era fatto di Lucia, molto tempo prima che la ci
arrivasse; il saper che Renzo aveva avuto a patir tanto per lei, e sempre
fermo, sempre fedele; forse qualche parola di qualche amico parziale per lui e
per tutte le cose sue, avevan fatto nascere una certa curiosità di veder la
giovine, e una certa aspettativa della sua bellezza. Ora sapete come è
l'aspettativa: immaginosa, credula, sicura; alla prova poi, difficile,
schizzinosa: non trova mai tanto che le basti, perché, in sostanza, non sapeva
quello che si volesse; e fa scontare senza pietà il dolce che aveva dato senza
ragione. Quando comparve questa Lucia, molti i quali credevan forse che dovesse
avere i capelli proprio d'oro, e le gote proprio di rosa, e due occhi l'uno più
bello dell'altro, e che so io? cominciarono a alzar le spalle, ad arricciar il
naso, e a dire: - eh! l'è questa? Dopo tanto tempo, dopo tanti discorsi,
s'aspettava qualcosa di meglio. Cos'è poi? Una contadina come tant'altre. Eh!
di queste e delle meglio, ce n'è per tutto -. Venendo poi a esaminarla in
particolare, notavan chi un difetto, chi un altro: e ci furon fin di quelli che
la trovavan brutta affatto.
Siccome
però nessuno le andava a dir sul viso a Renzo, queste cose; così non c'era gran
male fin lì. Chi lo fece il male, furon certi tali che gliele rapportarono: e
Renzo, che volete? ne fu tocco sul vivo. Cominciò a ruminarci sopra, a farne di
gran lamenti, e con chi gliene parlava, e più a lungo tra sé. "E cosa
v'importa a voi altri? E chi v'ha detto d'aspettare? Son mai venuto io a
parlarvene? a dirvi che la fosse bella? E quando me lo dicevate voi altri, v'ho
mai risposto altro, se non che era una buona giovine? È una contadina! V'ho
detto mai che v'avrei menato qui una principessa? Non vi piace? Non la
guardate. N'avete delle belle donne: guardate quelle".
E vedete
un poco come alle volte una corbelleria basta a decidere dello stato d'un uomo
per tutta la vita. Se Renzo avesse dovuto passar la sua in quel paese, secondo
il suo primo disegno, sarebbe stata una vita poco allegra. A forza d'esser
disgustato, era ormai diventato disgustoso. Era sgarbato con tutti, perché
ognuno poteva essere uno de' critici di Lucia. Non già che trattasse proprio
contro il galateo; ma sapete quante belle cose si posson fare senza offender le
regole della buona creanza: fino sbudellarsi. Aveva un non so che di sardonico
in ogni sua parola; in tutto trovava anche lui da criticare, a segno che, se
faceva cattivo tempo due giorni di seguito, subito diceva: - eh già, in questo
paese! - Vi dico che non eran pochi quelli che l'avevan già preso a noia, e
anche persone che prima gli volevan bene; e col tempo, d'una cosa nell'altra,
si sarebbe trovato, per dir così, in guerra con quasi tutta la popolazione,
senza poter forse né anche lui conoscer la prima cagione d'un così gran male.
Ma si
direbbe che la peste avesse preso l'impegno di raccomodar tutte le malefatte di
costui. Aveva essa portato via il padrone d'un altro filatoio, situato quasi
sulle porte di Bergamo; e l'erede, giovine scapestrato, che in tutto
quell'edifizio non trovava che ci fosse nulla di divertente, era deliberato,
anzi smanioso di vendere, anche a mezzo prezzo; ma voleva i danari l'uno sopra
l'altro, per poterli impiegar subito in consumazioni improduttive. Venuta la
cosa agli orecchi di Bortolo, corse a vedere; trattò: patti più grassi non si
sarebbero potuti sperare; ma quella condizione de' pronti contanti guastava
tutto, perché quelli che aveva messi da parte, a poco a poco, a forza di
risparmi, erano ancor lontani da arrivare alla somma. Tenne l'amico in mezza
parola, tornò indietro in fretta, comunicò l'affare al cugino, e gli propose di
farlo a mezzo. Una così bella proposta troncò i dubbi economici di Renzo, che
si risolvette subito per l'industria, e disse di sì. Andarono insieme, e si
strinse il contratto. Quando poi i nuovi padroni vennero a stare sul loro,
Lucia, che lì non era aspettata per nulla, non solo non andò soggetta a
critiche, ma si può dire che non dispiacque; e Renzo venne a risapere che s'era
detto da più d'uno: - avete veduto quella bella baggiana che c'è venuta? -
L'epiteto faceva passare il sostantivo.
E anche
del dispiacere che aveva provato nell'altro paese, gli restò un utile
ammaestramento. Prima d'allora era stato un po' lesto nel sentenziare, e si
lasciava andar volentieri a criticar la donna d'altri, e ogni cosa. Allora
s'accorse che le parole fanno un effetto in bocca, e un altro negli orecchi; e
prese un po' più d'abitudine d'ascoltar di dentro le sue, prima di proferirle.
Non
crediate però che non ci fosse qualche fastidiuccio anche lì. L'uomo (dice il
nostro anonimo: e già sapete per prova che aveva un gusto un po' strano in
fatto di similitudini; ma passategli anche questa, che avrebbe a esser
l'ultima), l'uomo, fin che sta in questo mondo, è un infermo che si trova sur
un letto scomodo più o meno, e vede intorno a sé altri letti, ben rifatti al di
fuori, piani, a livello: e si figura che ci si deve star benone. Ma se gli
riesce di cambiare, appena s'è accomodato nel nuovo, comincia, pigiando, a
sentire qui una lisca che lo punge, lì un bernoccolo che lo preme: siamo in
somma, a un di presso, alla storia di prima. E per questo, soggiunge l'anonimo,
si dovrebbe pensare più a far bene, che a star bene: e così si finirebbe anche
a star meglio. È tirata un po' con gli argani, e proprio da secentista; ma in
fondo ha ragione. Per altro, prosegue, dolori e imbrogli della qualità e della
forza di quelli che abbiam raccontati, non ce ne furon più per la nostra buona
gente: fu, da quel punto in poi, una vita delle più tranquille, delle più
felici, delle più invidiabili; di maniera che, se ve l'avessi a raccontare, vi
seccherebbe a morte.
Gli
affari andavan d'incanto: sul principio ci fu un po' d'incaglio per la
scarsezza de' lavoranti e per lo sviamento e le pretensioni de' pochi ch'eran
rimasti. Furon pubblicati editti che limitavano le paghe degli operai; malgrado
quest'aiuto, le cose si rincamminarono, perché alla fine bisogna che si
rincamminino. Arrivò da Venezia un altro editto, un po' più ragionevole:
esenzione, per dieci anni, da ogni carico reale e personale ai forestieri che
venissero a abitare in quello stato. Per i nostri fu una nuova cuccagna.
Prima
che finisse l'anno del matrimonio, venne alla luce una bella creatura; e, come
se fosse fatto apposta per dar subito opportunità a Renzo d'adempire quella sua
magnanima promessa, fu una bambina; e potete credere che le fu messo nome
Maria. Ne vennero poi col tempo non so quant'altri, dell'uno e dell'altro
sesso: e Agnese affaccendata a portarli in qua e in là, l'uno dopo l'altro,
chiamandoli cattivacci, e stampando loro in viso de' bacioni, che ci lasciavano
il bianco per qualche tempo. E furon tutti ben inclinati; e Renzo volle che
imparassero tutti a leggere e scrivere, dicendo che, giacché la c'era questa
birberia, dovevano almeno profittarne anche loro.
Il
bello era a sentirlo raccontare le sue avventure: e finiva sempre col dire le
gran cose che ci aveva imparate, per governarsi meglio in avvenire. - Ho
imparato, - diceva, - a non mettermi ne' tumulti: ho imparato a non predicare
in piazza: ho imparato a guardare con chi parlo: ho imparato a non alzar troppo
il gomito: ho imparato a non tenere in mano il martello delle porte, quando c'è
lì d'intorno gente che ha la testa calda: ho imparato a non attaccarmi un
campanello al piede, prima d'aver pensato quel che possa nascere -. E
cent'altre cose.
Lucia
però, non che trovasse la dottrina falsa in sé, ma non n'era soddisfatta; le
pareva, così in confuso, che ci mancasse qualcosa. A forza di sentir ripetere
la stessa canzone, e di pensarci sopra ogni volta, - e io, - disse un giorno al
suo moralista, - cosa volete che abbia imparato? Io non sono andata a cercare i
guai: son loro che sono venuti a cercar me. Quando non voleste dire, -
aggiunse, soavemente sorridendo, - che il mio sproposito sia stato quello di
volervi bene, e di promettermi a voi.
Renzo,
alla prima, rimase impicciato. Dopo un lungo dibattere e cercare insieme,
conclusero che i guai vengono bensì spesso, perché ci si è dato cagione; ma che
la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani; e che quando
vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce, e li
rende utili per una vita migliore. Questa conclusione, benché trovata da povera
gente, c'è parsa così giusta, che abbiam pensato di metterla qui, come il sugo
di tutta la storia.
La
quale, se non v'è dispiaciuta affatto, vogliatene bene a chi l'ha scritta, e
anche un pochino a chi l'ha raccomodata. Ma se in vece fossimo riusciti ad
annoiarvi, credete che non s'è fatto apposta.
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