Eneide
Tradotto da Annibal Caro
Libro VII
Ed
ancor tu, d'Enea fida nutrice
Caieta, ai nostri liti eterna fama
desti
morendo; ed essi anco a te diêro
sede onorata, se d'onore a' morti
è
d'aver l'ossa consecrate e 'l nome
ne la famosa Esperia. Ebbe Caieta
dal
suo pietoso alunno esequie e lutto,
e sepoltura alteramente eretta.
lndi, già fatto il mar tranquillo e queto,
spiegâr le vele a' vènti, e i
vènti al corso
eran secondi; e 'n sul calar del sole,
la luna, che
sorgea lucente e piena,
chiare l'onde facea tremole e crespe.
Uscîr del
porto; e pria rasero i liti
ove Circe, del Sol la ricca figlia,
gode
felice, e mai sempre cantando
soavemente al periglioso varco
de le sue
selve i peregrini invita:
e de la reggia, ove tessendo stassi
le ricche
tele, con l'arguto suono
che fan le spole e i pettini e i telari,
e co'
fuochi de' cedri e de' ginepri
porge lunge la notte indicio e lume.
Quinci là verso il dí, lontano udissi
ruggir lioni, urlar lupi, adirarsi,
e fremire e grugnire orsi e cignali,
ch'eran uomini in prima; e 'n
queste forme
da lei con erbe e con malie cangiati
giacean di ferri e di
ferrate sbarre
ne le sue stalle incatenati e chiusi;
e perché ciò non
avvenisse ai Teucri,
che buoni erano e pii, da cotal porto
e da spiaggia
sí ria Nettuno stesso
spinse i lor legni, e diè lor vento e fuga,
tal
che fuor d'ogni rischio li condusse.
Già rosseggiava d'Oriente il balzo,
e nel suo carro d'ostro ornata e d'oro
l'Aurora si traea de l'onde
fuori:
quando subitamente ogn'aura, ogn'alito
cessò del vento, e ne fu
'l mare in calma
sí ch'a forza ne gian de' remi a pena.
Qui la terra
mirando, il padre Enea
vede un'ampia foresta, e dentro, un fiume
rapido,
vorticoso e queto insieme,
che per l'amena selva, e per la bionda
sua
molta arena si devolve al mare.
Questo era il Tebro, il tanto desïato,
il tanto cerco suo Tebro fatale:
a le cui ripe, a le cui selve intorno,
e di sopra volando, ivan le schiere
di piú canori suoi palustri augelli.
Allor: «Via, - dice a suoi - volgete il corso
itene a riva». E tutti in
un momento
rivolti e giunti, de l'opaco fiume
preser la foce, e
lietamente entraro.
Porgimi, Èrato, aíta a dir quai regi,
quai tempi,
e quale stato avesse allora
l'antico Lazio, quando prima i Teucri
con
questa armata a' suoi liti approdaro;
ch'io dirò da principio le cagioni
e gli accidenti, onde con essi a l'arme
si venne in pria: dirò battaglie
orrende,
dirò stragi d'eserciti, e duelli
di regi stessi, e la Toscana
tutta,
e tutta anco l'Esperia in arme accolta.
Tu, d'Elicona dea, tu ciò
mi detta;
ch'altr'ordine di cose, altro lavoro,
e maggior opra ordisco.
Era signore,
quando ciò fu, di Lazio il re Latino,
un re che vèglio e
placido gran tempo
avea 'l suo regno amministrato in pace.
Questi nacque
di Fauno e di Marica,
ninfa di Laürento, e Fauno a Pico
era figliuolo, e
Pico, a te, Saturno,
del suo regio legnaggio ultimo autore.
Non avea
questo re stirpe virile,
com'era il suo destino; e quella ch'ebbe,
gli
fu nel fior de' suoi verd'anni ancisa.
Sola d'un sangue tal, d'un tanto
regno
restava una sua figlia unica erede,
che già d'anni matura, e di
bellezza
piú d'ogni altra famosa, era da molti
eroi del Lazio e de
l'Ausonia tutta
desïata e ricerca. Avanti agli altri
la chiedea Turno,
un giovine il piú bello,
il piú possente e di piú chiara stirpe
che gli
altri tutti; e piú ch'a gli altri, a lui,
anzi a lui sol la sua regina madre
con mirabil affetto era inchinata.
Ma che sua sposa fosse, avverso fato,
vari portenti e spaventosi augúri
facean contesa. Era un cortile in
mezzo
a le stanze reali, ove un gran lauro
già di gran tempo consecrato
e cólto
con molta riverenza era serbato.
Si dicea che Latino esso re
stesso
nel designare i suoi primi edifici,
là 've trovollo, di sua mano
a Febo
l'avea dicato; e ch'indi il nome diede
a' suoi Laurenti. A questo
lauro in cima
meravigliosamente di lontano
romoreggiando a la sua vetta
intorno
venne d'api una nugola a posarsi;
e con l'ali e co' piè l'una
con l'altra,
e tutte insieme aggraticciate e strette
stiêr d'uva in
guisa a le sue frondi appese.
Ciò l'indovino interpretando: «Io veggo -
disse - venir da lunge un duce esterno,
ed una gente che d'un loco
uscita
in un loco medesmo si rauna,
ed altamente ivi s'alloga e regna».
Stando un giorno, oltre a ciò, Lavinia virgo
sacrificando col suo padre
a canto,
ed a l'altar caste facelle offrendo,
parve (nefanda vista!) che
dal foco
fossero i lunghi suoi capelli appresi,
e che stridendo, non pur
l'oro ardesse
de le sue trecce, ma il suo regio arnese
e la corona
stessa che di gemme
era fregiata. Indi con rogio vampo,
con nero fumo e
con volumi attorti
s'avventasse d'intorno, e l'alta reggia
tutta di
fiamme empiesse: orrendo mostro,
e di gran meraviglia a chiunque il vide.
Gli àuguri ne dicean che fama illustre
e gran fortuna a lei si
portendea;
ma ruina a lo stato, e guerra a' popoli.
A questi mostri
attonito e confuso
il re tosto a l'oracolo di Fauno
suo genitor ne
l'alta Albúnea selva
per consiglio ricorse. È questa selva
immensa,
opaca, ove mai sempre suona
un sacro fonte, onde mai sempre esala
una
tetra vorago. Il Lazio tutto
e tutta Italia in ogni dubbio caso
quindi
certezza, aíta e 'ndrizzo attende.
E l'oracolo è tale. Il sacerdote
nel
profondo silenzio de la notte
si fa de l'immolate pecorelle
sotto un
covile, ove s'adagia e dorme.
Nel sonno con mirabili apparenze
si vede
intorno i simulacri e l'ombre
di ciò ch'ivi si chiede; e varie voci
ne
sente, e con gli dèi parla e con gl'inferi.
In questa guisa il re Latino
stesso
al vaticinio del suo padre intento
cento pecore ancide e i velli
e i terghi
nel suol ne stende, e vi s'involve e corca:
ed ecco un'alta
repentina voce
che, de la selva uscendo, intuona e dice:
«Invan, figlio,
procuri, invan t'imagini
che tua figlia s'ammogli a sposo ausonio.
Vane
e nulle saran le sponsalizie
ch'or le prepari. Di lontano un genero
venir ti veggio, per cui sopra a l'ètera
salirà 'l nostro nome; e i
nostri posteri
ne vedran sotto i piè quanto l'Oceano
d'ambi i lati
circonda, e 'l sole illumina».
Questa risposta e questi avvertimenti,
perché di notte e di secreta parte
fosser da Fauno usciti, il re non
tenne
in se stesso celati; anzi la Fama
per le terre d'Ausonia gli
spargea,
quando la frigia armata al Tebro aggiunse.
Enea col figlio e
co' suoi primi duci
a l'ombre d'un grand'albero in disparte
degli altri
a prender cibo insieme unissi.
Eran su l'erba agiati; e, come avviso
creder si dee che del gran Giove fosse,
avean poche vivande; e quelle
poche
gran forme di focacce e di farrate
in vece avean di tavole e di
quadre,
e la terra medesma e i solchi suoi
ai pomi agresti eran fiscelle
e nappi.
Altro per avventura allor non v'era
di che cibarsi. Onde,
finiti i cibi,
volser per fame a quei lor deschi i denti,
e motteggiando
allora: «O - disse Iulo -
fino a le mense ancor ne divoriamo?»
E rise e
tacque. A questa voce Enea,
sí come a fin de le fatiche loro,
avvertí
primamente, e stupefatto
del suo misterio, subito inchinando
disse: «O
da' fati a me promessa terra,
io te devoto adoro: e voi ringrazio,
santi
numi di Troia, amiche e fide
scorte degli error miei. Questa è la patria,
quest'è l'albergo nostro, e questo è 'l segno
che 'l mio padre lasciommi
(or mi ricordo
de gli occulti miei fati): "Allor - dicendo -
che sarai,
figlio, in peregrina terra
da fame a manducar le mense astretto,
fia 'l
tuo riposo: allor fonda gli alberghi,
allor le mura. Or questa è quella
fame,
ultimo rischio ad ultimar prescritto
tutti i nostri altri
perigliosi affanni.
Or via, dimane a l'apparir del sole,
per diversi
sentier lungi dal porto
tutti gioiosamente investighiamo
che paese sia
questo, da che gente
sia cólto, dove sien le terre loro.
Ora a Giove si
bea; faccinsi preci
al padre Anchise; e sian le mense tutte
di vin piene
e di tazze». E, ciò dicendo,
di frondi s'inghirlanda; e del paese
il
genio, e de la Terra il primo nume
primieramente inchina, e le sue Ninfe,
e 'l fiume ancor non conto. Indi la Notte,
e de la Notte le sorgenti
stelle,
e Giove idèo, e d'Ida la gran madre,
e la madre di lui dal cielo
invoca,
e da l'Èrebo il padre. E qui di lampi
cinto, di luce e d'oro, e
di sua mano
folgorando il gran Giove a ciel sereno
tonò tre volte. In
ciò repente nacque
tra le squadre troiane un lieto grido,
ch'era già 'l
tempo di fondar venuto
le desïate mura. A tanto annunzio
tutti commossi,
a rinnovar le mense,
ad invitarsi, a coronarsi, a bere
lietamente si
diêro. Il dí seguente
nel sorger de l'aurora uscîr diversi
a spïar del
paese, che contrade
e che liti eran quelli, e di che genti.
Trovâr che
di Numíco era lo stagno,
e che 'l fiume era il Tebro, e la cittade
da'
feroci Latini era abitata.
Allor d'Anchise il generoso figlio
cento
fra tutti i piú scelti oratori
d'oliva incoronati al re destina
con
doni, con avvisi e con richieste
d'amicizia, di comodi e di pace.
Questi il vïaggio lor sollecitando
se ne van senza indugio. Ed egli intanto,
preso nel lito il primo alloggiamento,
di picciol fosso la muraglia
insolca;
e 'n sembianza di campo e di fortezza
d'argini lo circonda e di
steccato.
Seguon gl'imbasciatori, e già da presso
la città, l'alte
torri e i gran palagi
scoprendo de' Latini, anzi a le mura
veggono il
fior de' giovinetti loro
su' cavalli e su' carri esercitarsi,
lotteggiar, tirar d'arco, avventar pali,
e cotali altre oprar contese e
prove
di corso, d'attitudine e di forza.
Tosto che compariscono, un
messaggio
quindi si spicca in fretta, e precorrendo
riporta al vecchio
re, che nuova gente
di gran sembiante e d'abito straniero
vien dal mare
a sua corte. Il re comanda
che siano ammessi; e ne l'antico seggio
per
ascoltarli in maestà si reca.
Era la corte un ampio, antico, augusto
di piú di cento colonnati estrutto
in cima a la città sublime albergo:
Pico di Laürento il vecchio rege
l'avea fondata. Era d'oscure selve,
era de' numi de' primi avi suoi
sovra d'ogn'altra veneranda e sacra.
Qui de' lor scettri, qui de' primi fasci
s'investivano i regi. In questo
tempio
era la curia, eran le sacre cene,
eran de' padri i pubblici
conviti
de l'occiso arïete. Avea d'antico
cedro, nel primo entrar, un
dietro a l' altro,
de' suoi grand'avi i simulacri eretti.
Italo v'era, e
il buon padre Sabino,
Saturno con la vite e con la falce,
Giano con le
due teste, e gli altri regi
tutti di mano in man, che combattendo
non
fur di sangue a la lor patria avari.
Pendean da le pareti e da' pilastri
un gran numero d'armi e d'altre spoglie
prese in battaglia. Ai portici
d'intorno
carri, trofei, catene, elmi e cimieri
e securi e corazze e
scudi e lance
e rostri di navili e ferri e sbarre
di fracassate porte
erano affisse.
In abito succinto e con la verga
che fu poi di Quirino,
e con l'ancile
ne la sinistra esso re Pico assiso
v'era, pria cavaliero,
e poscia augello:
ch'in augello il cangiò la maga Circe,
sdegnosa
amante; e gli suoi regi fregi
gli converse in colori, e 'l manto in ali.
In questo tempio sovra il seggio agiato
de' suoi maggiori, a sé Latino
i Teucri
chiamar si fece; e dolcemente in prima
cosí parlò: «Dite,
Troiani amici,
a che venite? ché venite in luogo
c'ha di Troia e di voi
contezza a pieno;
siatevi, o per errore o per tempesta
o per bisogno a
questi liti addotti,
come a gente di mar sovente avviene;
ch'a buon
fiume, a buon porto, a buon ospizio
siete arrivati. Da Saturno scesi
sono i Latini, ed ospitali e buoni,
non per forza o per leggi, ma per
uso
e per natura; e del buon vecchio dio
seguitiam l'orme e de' suoi
tempi d'oro.
Io mi ricordo (ancor che questa fama
sia per molt'anni omai
debile e scura)
che per vanto soleano i vecchi Aurunci
dir che Dardano
vostro in queste parti
ebbe il suo nascimento; e quinci in Ida
passò di
Frigia, e ne la tracia Samo,
ch'or Samotracia è detta. Da' Tirreni,
e da
Còrito uscio Dardano vostro,
ch'or fatto è dio, e tra' celesti in cielo
d'oro ha la sua magion, di stelle il seggio,
e qua giú tra' mortali,
altari e vóti».
Avea ciò detto, quando a' detti suoi
il saggio Ilïoneo
cosí rispose:
«Alto signor, di Fauno egregio figlio,
non tempesta di
mar, non venti avversi,
non di stelle, o di liti o di nocchieri
error
qui n'have, od ignoranza addotti.
Noi di nostro voler, di nostro avviso
ci siam venuti, discacciati e privi
d'un regno de' maggiori e de' piú
chiari,
ch'unqua vedesse d'orïente il sole.
Da Dardano e da Giove il suo
legnaggio
ha quella gente, e quel troiano Enea
ch'a te ne manda. La
tempesta, i fati,
e la ruina che ne' campi idèi
venne di Grecia, onde
l'Europa e l'Asia
e 'l mondo tutto sottosopra andonne,
cui non è conta?
chi sí lunge è posto
da noi, che non l'udisse? o che da l'acque
de
l'estremo Oceàno, o che dal foco
de la torrida zona sia diviso
da la
nostra notizia? Il nostro affanno
tal fece intorno a sé diluvio e moto,
che scosse ed allagò la terra tutta.
Da indi in qua dispersi e vagabondi
per tanti mari, un sol picciol ridotto
agli dèi nostri, un lito che
n'accolga,
non da nemici, un poco d'acqua e d'aura,
lassi! quel
ch'ogn'uom ha, cercando andiamo.
Non disutili, credo, e non indegni
sarem del regno vostro: a voi non lieve
ne verrà fama; e d'un tal merto
tanto
vi sarem grati, che l'ausonia terra
non mai si pentirà d'aver i
figli
de la misera Troia in grembo accolti.
Io ti giuro, signor, per le
fatiche,
per gli fati d'Enea, per la possente
sua destra, già per fede e
per valore
famosa al mondo, che da molte genti
molte fïate (e ciò vil
non ti sembri,
che da noi stessi a te ci proferiamo
e ti preghiamo) siam
pregati noi,
e per compagni desïati e cerchi:
ma dai fati, signor, e
dagli dèi
siam qui mandati. Dardano qui nacque,
qua Febo ne richiama.
Febo stesso,
e quel di Delo, è ch'ai Tirreni, al Tebro,
al fonte di
Numíco, a voi c'invia.
Queste, oltre a ciò, poche reliquie, e segni
de
l'andata fortuna e del suo amore
il re nostro vi manda; che dal foco
son
de la patria ricovrate a pena.
Con questa coppa il suo buon padre Anchise
sacrificava. Questo regno in testa,
quando era in solio, il gran Prïamo
avea:
questo è lo scettro, questa è la tïara,
sacro suo portamento; e
queste vesti
son de le donne d'Ilio opre e fatiche».
Al dir d'Ilïoneo
stava Latino
fisso col volto a terra immoto e saldo
come in astratto, e
solo avea le luci
degli occhi intese a rimirar, non tanto
il
dipint'ostro e gli altri regi arnesi,
quanto in pensar de la diletta figlia
il maritaggio, e 'l vaticinio uscito
dal vecchio Fauno. E 'n se stesso
raccolto,
"Questi è certo - dicea, - quei che da' fati
si denunzia venir
di stran paese
genero a me, sposo a Lavinia mia,
del mio regno partecipe
e consorte.
Questi è da cui verrà l'egregia stirpe,
che col valor
farassi e con le forze
soggetto e tributario il mondo tutto".
Ed al fin
lieto: «O - disse, - eterni dèi,
secondate voi stessi i vostri augúri
e
i pensier miei. Da me, Troiani, arete
tutto che desiate; e i vostri doni
gradisco e pregio; e mentre re Latino
sarà, sarete voi nel regno suo
cortesemente accolti, e 'l seggio e i campi
e ciò ch'è d'uopo, come a
Troia foste,
in copia arete. Or s'ei tanto desia
l'amistà nostra e 'l
nostro ospizio, vegna
egli in persona, e non abborra omai
il nostro
amico aspetto. Arra e certezza
ne fia di pace il convenir con lui,
e di
lui stesso aver la fede in pegno.
Da l'altra parte, a mio nome gli dite
quel ch'io dirovvi. Io senza piú mi trovo
una mia figlia. A questa il
mio paterno
oracolo, e del ciel molti prodigi
vietan ch'io dia marito
altro ch'esterno.
D'esterna parte, tal d'Italia è 'l fato,
un genero dal
ciel mi si promette,
per la cui stirpe il mio nome e 'l mio sangue
ergerassi a le stelle. Or se del vero
punto è 'l mio cor presago, egli è
quel desso
cred'io, che 'l fato accenna, e 'l credo, e 'l bramo».
Ciò
detto, de' trecento, che mai sempre
a' suoi presepi avea, nitidi e pronti
destrier di fazïone e di rispetto,
per gli cento orator cento n'elegge,
ch'avean le lor coverte e i lor girelli,
le pettiere e le briglie in
varie guise
d'ostro e di seta ricamati e d'oro,
e d'òr le ghiere, e d'òr
le borchie e i freni.
Al troian duce assente un carro invia
con due
corsier ch'eran di quei del Sole
generosi bastardi, e vampa e foco
sbruffavan per le nari. Al Sol suo padre
la razza ne furò la scaltra
Circe
allor ch'a l'incantate sue giumente
Eto e Piròo furtivamente
impose.
Tali in su tai cavalli alteramente
tornando i Teucri al teucro
duce, allegre
portâr novelle e parentela e pace.
Ed ecco che di Grecia
uscendo e d'Argo,
l'empia moglie di Giove, alto da terra
sospesa, infin
dal sicolo Pachino
vide i legni troiani; e vide Enea
con tutti i suoi,
che lieto e fuor del mare
e secur de la terra, incominciava
d'alzar gli
alberghi, e di fondar le mura
già d'un altr'Ilio. E, punta il cor di doglia
squassando il capo: «Ah, - disse, - a me pur troppo
nimica razza! ah
troppo a' fati miei
fati de' Frigi avversi! E forse estinti
fûr ne'
campi sigèi? forse potuti
si son prender già presi, ed arder arsi?
Per
mezzo de le schiere e de gl'incendi
han trovata la via. Stanca fia dunque
questa mia deità, quando ancor sazia
non è de l'odio? E già s'è resa,
quando
ha fin qui nulla oprato? E che mi giova
che sian del regno, e de
la patria in bando?
Che mi val ch'io mi sia con tutto il mare
a loro
opposta? Ah! che del mar già tutte,
e del ciel contra lor le forze ho logre.
E che le Sirti, e che Scilla e Cariddi
a me con lor son valse? Ecco han
del Tebro
la desïata foce; e non han téma
del mar piú, né di me. Marte
poteo
disfar la gente de' Lapíti immane;
poté Dïana aver da Giove in
preda
del suo disegno i Calidóni antichi,
quando de' Calidóni e de'
Lapíti,
vèr le pene, era il fallo o nullo o leve:
ed io consorte del
gran Giove e suora,
misera, incontro a lor che non ho mosso?
Che di me
non ho fatto? E pur son vinta.
Enea, Enea mi vince. Ah se con lui
il mio
nume non può, perché d'ognuno,
chïunque sia, non ogni aíta imploro?
Se
mover contra lui non posso il cielo,
moverò l'Acheronte. Oh non per questo
il fato si distorna; ed ei non meno
di Latino otterrà la figlia e 'l
regno.
Che piú? Lo tratterrò, gli darò briga:
porrò, s'altro non posso,
in tanto affare
gara, indugio e scompiglio: a strage, a morte,
ad ogni
strazio condurrò le genti
de l'un rege e de l'altro; e questi avanzi
faran primieramente i lor suggetti
de la lor amistà. Con questo in
prima,
si sian suocero e genero. Di sangue
de' Troiani e de' Rutuli
dotata
n'andrai, regia donzella, al tuo marito;
e del tuo maritaggio e
del tuo letto
auspice fia Bellona in vece mia.
Cotal non partorí di face
pregna
Ecuba a Troia incendio, qual Ciprigna
arà con questo suo novello
Pari
partorito altro foco, altra ruina
a quest'altr'Ilio». Ciò dicendo,
in terra
discese irata, e da l'inferne grotte
a sé chiamò la nequitosa
Aletto.
De le tre dire Furie una e costei,
cui son l'ire, i dannaggi, i
tradimenti,
le guerre, le discordie, le ruine,
ogn'empio officio, ogni
mal'opra a core.
E tale un mostro in tanti e cosí fieri
sembianti si
trasmuta, e de' serpenti
sí tetra copia le germoglia intorno,
che Pluto
e le tartaree sorelle
sue stesse in odio ed in fastidio l'hanno.
Giunon
le parla, e via piú co' suoi detti
in tal guisa l'accende: «O de la Notte
possente figlia, io per mio proprio affetto,
per onor dei mio nume, per
salvezza
de la mia fama un tuo servigio agogno.
Adoprati per me, che,
mal mio grado,
questo troiano Enea del re Latino
genero non divenga, e
nel suo regno
con gran mio pregiudicio non s'annidi.
Tu puoi, volendo,
armar l'un contra l'altro
i concordi fratelli: odi e zizzanie
seminar
tra' congiunti; e per le case
con mill'arti nocendo, in mille guise
infra' mortali indur morti e ruine.
Scuoti il fecondo petto, e le sue
forze
tutt'a quest'opra accampa. Inferma, annulla
questa lor pace;
infiamma i cori e l'armi,
arme ognun brami, ognun le gridi e prenda».
Di serpi e di gorgónei veneni
guarnissi Aletto; e per lo Lazio in prima
scorrendo, e per Laurento, e per la corte,
de la regina Amata entro la
soglia
insidiosamente si nascose.
Era allor la regina, come donna,
e come madre, dal materno affetto,
da lo scorno de' Teucri, dal disturbo
de le nozze di Turno in molte guise
afflitta e conturbata, quando
Aletto,
per rivolgerla in furia, e co' suoi mostri
sossopra rivoltar la
reggia tutta,
da' suoi cerulei crini un angue in seno
l'avventò sí, che
l'entrò poscia al core.
Ei primamente infra la gonna e 'l petto
strisciando, e non mordendo, a poco a poco
col suo vipereo fiato non
sentito
furor le spira. Or le si fa monile
attorcigliato al collo: or
lunga benda
le pende da le tempie, or quasi un nastro
l'annoda il crine.
Alfin lubrico errando,
per ogni membro le s'avvolge e serpe.
Ma fin che
prima andò languido e molle
soli i sensi occupando il suo veleno,
fin
che il suo foco penetrando a l'ossa
non avea tutto ancor l'animo acceso,
ella donnescamente lagrimando
sovra la figlia e sovra le sue nozze
con tal queto rammarco si dolea:
«Adunque si darà Lavinia mia
a
Troiani? a banditi? E tu, suo padre,
tu cosí la collochi? E non t'incresce
di lei, di te, di sua madre infelice?
Ch'al primo vento ch'a' suoi legni
spiri,
di cosí caro pegno orba rimasa
(come dir si potrà), da questo
infido
fuggitivo ladrone abbandonata
del mar vedrolla e de' corsari in
preda?
O non cosí di Sparta anco rapita
fu la figlia di Leda? E chi
rapilla
non fu troiano anch'egli? Ah! dov'è, sire,
quella tua santa
invïolabil fede?
quella cura de' tuoi? quella promessa
che s'è fatta da
te già tante volte
al nostro Turno? Se d'esterna gente
genero ne si dee;
se fisso e saldo
è ciò nel tuo pensiero; se di Fauno
tuo padre il
vaticinio a ciò si stringe;
io credo ch'ogni terra, ch'al tuo scettro
non è soggetta, sia straniera a noi.
Cosí ragion mi detta, e cosí penso
che l'oracolo intenda. Oltre che Turno
(se la sua prima origine si
mira),
per suoi progenitori Inaco, Acrisio,
e per patria ha Micene». A
questo dire
stava nel suo proposito Latino
ognor piú duro. E la regina
intanto
piú dal veleno era del serpe infetta:
e già tutta compresa, e da
gran mostri
agitata, sospinta e forsennata,
senza ritegno a correre, a
scagliarsi,
a gridar fra le genti e fuor d'ogni uso
a tempestar per la
città si diede.
Qual per gli atri scorrendo e per le sale
infra la turba
de' fanciulli a volo
va sferzato palèo ch'a salti, a scosse,
ed a suon
di guinzagli roteando
e ronzando s'aggira e si travolve,
quando con
meraviglia e con diletto
gli va lo stuol de' semplicetti intorno,
e gli
dan co' flagelli animo e forza;
tal per mezzo del Lazio e de' feroci
suoi popoli vagando, insana andava
la regina infelice. E, quel che
poscia
fu d'ardire e di scandalo maggiore,
di Bacco simulando il nume e
'l coro
per tôr la figlia ai Teucri, e le sue nozze
distornare, o
'ndugiare, a' monti ascesa
ne le selve l'ascose: «O Bacco, o Libero, -
gridando - Eüöè; questa mia vergine
sola a te si convien, solo a te
serbasi.
Ecco per te nel tuo coro s'esercita,
per te prende i tuoi
tirsi, a te s'impampina,
a te la chioma sua nodrisce e dedica».
Divolgasi di ciò la fama intanto
fra le donne di Lazio, e tutte insieme
da furor tratte, e d'uno ardore accese
saltan fuor degli alberghi a la
foresta.
Ed altre ignude i colli e sciolte i crini,
d'irsute pelli
involte, e d'aste armate,
di tralci avviticchiate e di corimbi,
orrende
voci e tremuli ululati
mandano a l'aura. E la regina in mezzo
a tutte
l'altre una facella in mano
prende di pino ardente, e l'imeneo
de la
figlia e di Turno imita e canta;
e con gli occhi di sangue e d'ira infetti
al cielo ad ora ad or la voce alzando:
«Uditemi, - dicea - madri di
Lazio,
quante ne siete in ogni loco, uditemi.
Se può pietade in voi, se
può la grazia
de la misera Amata, e la miseria
di lei, ch'ad ogni madre
è d'infortunio,
disvelatevi tutte e scapigliatevi;
Eüöè; a questo
sacrificio
ne venite con me, meco ululatene».
Cosí da Bacco e da le
Furie spinta
ne gia per selve e per deserti alpestri
la regina infelice,
quando Aletto,
ch'assai già disturbato avea il consiglio
di re Latino e
la sua reggia tutta,
ratto su le fosc'ali a l'aura alzossi;
e là 've già
d'Acrisio il seggio pose
l'avara figlia, ivi dal vento esposta,
a
l'orgoglioso Turno si rivolse.
Ardea fu quella terra allor nomata,
e di
Ardea il nome insino ad or le resta,
ma non già la fortuna. In questo loco
entro al suo gran palagio a mezza notte
prendea Turno riposo. Allor
ch'Aletto
vi giunse, e 'l torvo suo maligno aspetto
con ciò ch'avea di
Furia, in senil forma
cangiando, raggruppossi, incanutissi,
e di bende e
d'olivo il crin velossi:
Càlibe in tutto fessi, una vecchiona
ch'era
sacerdotessa e guardïana
del tempio di Giunone; e 'n cotal guisa
si pose
a lui davanti, e cosí disse:
«Turno, adunque avrai tu sofferto indarno
tante fatiche, e questi Frigi avranno
la tua sposa e 'l tuo regno? Il
re, la figlia
e la dote, ch'a te per gli tuoi merti,
per lo sparso tuo
sangue era dovuta,
e già da lui promessa, or ti ritoglie;
e de l'una e
de l'altro erede e sposo
fassi un esterno. O va, cosí deluso,
e per
ingrati la persona e l'alma
inutilmente a tanti rischi esponi.
Va, fa
strage de' Toschi. Va, difendi
i tuoi Latini, e in pace li mantieni.
Questo mi manda apertamente a dirti
la gran saturnia Giuno. Arma, arma i
tuoi;
preparati a la guerra; esci in campagna;
assagli i Frigi, e
snidagli dal fiume
c'han di già preso, e i lor navili incendi.
Dal ciel
ti si comanda. E se Latino
a le promissïon non corrisponde,
se Turno non
accetta e non gradisce
né per suo difensor né per suo genero,
provi qual
sia ne l'armi, e quel ch'importi
averlo per nimico». Al cui parlare
il
giovine con beffe e con rampogne
cosí rispose: «Io non son, vecchia, ancora,
come te, fuor de' sensi; e ben sentita
ho la nuova de' Teucri, e me ne
cale
piú che non credi. Non però ne temo
quel che tu ne vaneggi; e non
m'ha Giuno
(penso) in tanto dispregio e 'n tale oblio.
Ma tu dagli anni
rimbambita e scema
entri, folle, in pensier d'armi e di stati,
ch'a te
non tocca. Quel ch'è tuo mestiero,
governa i templi, attendi ai simulacri,
e di pace pensar lascia e di guerra
a chi di guerreggiar la cura è
data».
Furia a la Furia questo dire accrebbe,
sí che d'ira avvampando,
ella il suo volto
riprese e rincagnossi: ed ei, negli occhi
stupido ne
rimase, e tremò tutto:
con tanti serpi s'arruffò l'Erinne,
con tanti ne
fischiò, tale una faccia
le si scoverse. Indi le bieche luci
di foco
accesa, la viperea sferza
gli girò sopra: e sí com'era immoto
per lo
stupore, ed a piú dire inteso,
lo risospinse; e i suoi detti e i suoi
scherni
cosí rabbiosamente improverogli:
«Or vedrai ben se rimbambita
e scema
sono entrata in pensier d'armi e di stati,
ch'a me non tocchi; e
se son vecchia e folle:
guardami, e riconoscimi; ch'a questo
son dal
Tartaro uscita, e guerra e morte
meco ne porto». E, ciò detto, avventogli
tale una face e con tal fumo un foco,
che fe' tenebre agli occhi e
fiamme al core.
Lo spavento del giovine fu tale,
che rotto il sonno,
di sudor bagnato
si trovò per angoscia il corpo tutto:
e stordito
sorgendo, arme d'intorno
cercossi, armi gridò, d'ira s'accese,
d'empio
disio, di scelerata insania,
di scompigli e di guerra: in quella guisa
che con alto bollor risuona e gonfia
un gran caldar, quand'ha di verghe
a' fianchi
chi gli ministra ognor foco maggiore,
quando l'onda piú
ferve, e gorgogliando
piú rompe, piú si volve e spuma e versa,
e 'l suo
negro vapore a l'aura esala.
Cosí Turno commosso a muover gli altri
si
volge incontinente; e de' suoi primi,
altri al re manda con la rotta pace,
ad altri l'apparecchio impon de l'arme,
onde Italia difenda, onde i
Troiani
sian d'Italia cacciati, ed ei si vanta
contra de' Teucri e
contra de' Latini
aver forze a bastanza. E ciò commesso,
e ne' suoi vóti
i suoi numi invocati,
i Rutuli infra loro a gara armando
s'esortavan
l'un l'altro; e tutti insieme
eran tratti da lui, chi per lui stesso
(che giovin era amabile e gentile),
chi per la nobiltà de' suoi
maggiori,
e chi per la virtude, e per le pruove
di lui viste altre volte
in altre guerre.
Mentre cosí de' suoi Turno dispone
gli animi e
l'armi, in altra parte Aletto
sen vola a' Teucri; e con nuov'arte apposta
in su la riva un loco, ove in campagna
correndo e 'nsidïando, il bello
Iulo
seguia le fere fuggitive in caccia.
Qui di súbita rabbia i cani
accese
la virgo di Cocíto, e per la traccia
gli mise tutti; onde
scopriro un cervo
che fu poi di tumulto, di rottura,
di guerra, e d'ogni
mal prima cagione.
Questo era un cervo mansueto e vago,
già grande e
di gran corna, che divelto
da la sua madre, era nel gregge addotto
di
Tirro e de' suoi figli: ed era Tirro
il custode maggior de' regi armenti
e de' regi poderi; ed egli stesso
l'avea nutrito e fatto umile e manso.
Silvia, una giovinetta sua figliuola,
l'avea per suo trastullo; e con
gran cura
di fior l'inghirlandava, il pettinava,
lo lavava sovente. Era
a la mensa
a lor d'intorno: e da lor tutti amava
esser pasciuto e
vezzeggiato e tocco.
Errava per le selve a suo diletto,
e da se stesso
poi la sera a casa,
come a proprio covil, se ne tornava.
Quel dí per
avventura di lontano
lungo il fiume venia tra l'ombre e l'onde,
da la
sete schermendosi e dal caldo;
quando d'Ascanio l'arrabbiate cagne
gli
s'avventaro; ed esso a farsi inteso
d'un tale onore e di tal preda acquisto,
diede a l'arco di piglio, e saettollo.
La Furia stessa gli drizzò la
mano,
e spinse il dardo sí ch'a pieno il colse
ne l'un de' fianchi, e
penetrogli a l'epa.
Ferito, insanguinato, e con lo strale
il meschinello
ne le coste infisso,
al consueto albergo entro ai presepi
mugghiando e
lamentando si ritrasse;
ch'un lamentarsi, un dimandar aíta
d'uomo in
guisa piú tosto che di fera,
erano i mugghi onde la casa empiea.
Silvia
lo vide in prima, e col suo pianto,
col batter de le mani, e con le strida
mosse i villani a far turbe e tumulto.
Sta questa peste per le macchie
ascosa
di topi in guisa, a razzolar la terra
in ogni tempo, sí che
d'ogni lato
n'usciron d'improvviso; altri con pali
e con forche, e con
bronchi aguzzi al foco;
altri con mazze nodorose e gravi,
e tutti con
quell'armi ch'a ciascuno
fecer l'ira e la fretta. Era per sorte
Tirro in
quel punto ad una quercia intorno,
e per forza di cogni e di bipenne
l'avea tronca e squarciata: onde affannoso,
di sudor pieno, fieramente
ansando
con la stessa ch'avea secure in mano
corse a le grida, e le
masnade accolse.
L'infernal dea, ch'a la veletta stava
di tutto che
seguia, veduto il tempo
accomodato al suo pensier malvagio,
tosto nel
maggior colmo se ne salse
de la capanna, e con un corno a bocca
sonò de
l'armi il pastorale accento.
La spaventosa voce che n'uscio
dal Tartaro
spiccossi. E pria le selve
ne tremâr tutte; indi di mano in mano
di Nemo
udilla e di Diana il lago,
udilla de la Nera il bianco fiume,
e di
Velino i fonti, e tal l'udiro,
che ne strinser le madri i figli in seno.
A quella voce, e verso quella parte
onde sentissi, i contadini armati,
comunque ebber tra via d'armi rincontro,
subitamente insieme s'adunaro.
Da l'altro lato i giovani troiani
al soccorso d'Ascanio in campo usciro,
spiegâr le schiere, misersi in battaglia,
vennero a l'armi; sí che non
piú zuffa
sembrava di villani, e non piú pali
avean per armi, ma forbiti
ferri
serrati insieme, che dal sol percossi,
per le campagne e fin sotto
a le nubi
ne mandavano i lampi; in quella guisa
che lieve al primo vento
il mar s'increspa,
poscia biancheggia, ondeggia e gonfia e frange
e
cresce in tanto, che da l'imo fondo
sorge fino a le stelle. Almone, il primo
figlio di Tirro, primamente cadde
in questa pugna. Ebbe di strale un
colpo
in su la strozza, che la via col sangue
gli chiuse e de la voce e
de la vita.
Caddero intorno a lui molt'altri corpi
di buona gente. Cadde
tra' migliori,
mentre l'armi detesta, e per la pace
or con questi or con
quelli si travaglia,
Galèso il vecchio, il piú giusto e 'l piú ricco
de
la contrada. Cinque greggi avea
con cinque armenti; e con ben cento aratri
coltivava e pascea l'ausonia terra.
Mentre cosí ne' campi si combatte
con egual Marte, Aletto già compita
la sua promessa, poi ch'a l'armi, al
sangue
ed a le stragi era la guerra addotta,
uscí del Lazio, e
baldanzosa a l'aura
levossi, ed a Giunon superba disse:
«Eccoti l'arme e
la discordia in campo,
e la guerra già rotta. Or di' ch'amici,
di' che
confederati, e che parenti
si sieno omai, poiché d'ausonio sangue
già
sono i Teucri aspersi. Io, se piú vuoi,
piú farò. Di rumori e di sospetti
empierò questi popoli vicini;
condurrogli in aiuto; andrò per tutto
destando amor di guerra; andrò spargendo
per le campagne orror, furore
ed armi».
«Assai, - Giuno rispose, - hai di terrore
e di frode commesso:
ha già la guerra
le sue cagioni; hanno (comunque in prima
la sorte le si
regga) ambe le parti
le genti in campo, e l'armi in mano; e l'armi
son
già di sangue tinte, e 'l sangue è fresco.
Or queste sponsalizie e queste
nozze
comincino a godersi il re Latino,
e questo di Ciprigna egregio
figlio.
Tu, perché non consente il padre eterno
ch'in questa eterea luce
e sopra terra
cosí licenziosa te ne vada,
torna a' tuoi chiostri; ed io,
s'altro in ciò resta
da finir, finirò». Ciò disse a pena
la figlia di
Saturno, che d'Aletto
fischiâr le serpi, e dispiegârsi l'ali
in vèr
Cocíto. È de l'Italia in mezzo
e de' suoi monti una famosa valle,
che
d'Amsanto si dice. Ha quinci e quindi
oscure selve, e tra le selve un fiume
che per gran sassi rumoreggia e cade,
e sí rode le ripe e le scoscende,
che fa spelonca orribile e vorago,
onde spira Acheronte, e Dite esala.
In questa buca l'odïoso nume
de la crudele e spaventosa Erinne
gittossi, e dismorbò l'aura di sopra.
Non però Giuno di condur la
guerra
rimansi intanto, ed ecco dal conflitto
venir ne la città la rozza
turba
de' contadini, e riportare i corpi
del giovinetto Almone e di
Galèso,
cosí com'eran sanguinosi e sozzi.
Gli mostrano, ne gridano,
n'implorano
dagli dèi, da Latino e da le genti
testimonio, pietà, sdegno
e vendetta.
Evvi Turno presente, che, con essi
tumultuando esclama, e 'l
fatto aggrava,
e detesta e rimprovera e spaventa,
«Questi, questi, -
dicendo, - son chiamati
a regnar ne l'Ausonia: ai Frigi, ai Frigi
dà
Latino il suo sangue, e Turno esclude».
Sopravvengono intanto i furïosi,
che, con le donne attonite scorrendo,
gian con Amata per le selve in
tresca;
ché grande era d'Amata in tutto il regno
la stima e 'l nome; e
d'ogni parte accolti
tutti contra gli annunzi, contra i fati
l'armi
chiedendo e la non giusta guerra,
van di Latino a la magione intorno.
Egli di rupe in guisa immoto stassi,
di rupe che, nel mar fondata e salda,
né per venti si crolla, né per onde
che le fremano intorno, e gli suoi
scogli
son di spuma coverti e d'alga invano.
Ma poiché superar non puote
il cieco
lor malvagio consiglio, e che le cose
givan di Turno e di
Giunone a vóto,
molto pria con gli dèi, con le van'aure
si protestò;
poscia: «Dal fato, - disse, -
son vinto, e la tempesta mi trasporta.
Ma
voi per questo sacrilegio vostro
il fio ne pagherete. E tu fra gli altri,
Turno, tu pria n'avrai supplizio e morte;
e preci e vóti a tempo ne
farai,
ch'a tempo non saranno. Io, quanto a me,
già de' miei giorni e de
la mia quïete
son quasi in porto: e da voi sol m'e tolto
morir
felicemente». E qui si tacque,
e 'l governo depose e ritirossi.
Era in
Lazio un costume, che venuto
è poi di mano in man di Lazio in Alba,
e
d'Alba in Roma, ch'or del mondo è capo,
che nel muover de l'armi ai Geti,
agl'Indi,
agli Arabi, agl'Ircani, a qual sia gente
ch'elle sian mosse,
sí com'ora a' Parti
per ricovrar le mal perdute insegne,
s'apron le
porte de la guerra in prima.
Queste son due, che per la riverenza,
per
la religïone e per la téma
del fiero Marte, orribili e tremende
sono a
le genti; e con ben cento sbarre
di rovere, di ferro e di metallo
stan
sempre chiuse; e lor custode è Giano.
Ma quando per consiglio e per decreto
de' padri si determina e s'appruova
che si guerreggi, il consolo egli
stesso,
sí come è l'uso, in abito e con pompa
c'ha da' Gabini origine e
da' regi,
solennemente le disferra e l'apre:
ed egli stesso al suon de
le catene
e de la rugginosa orrida soglia
la guerra intuona: guerra dopo
lui
grida la gioventú: guerra e battaglia
suonan le trombe; ed è la
guerra inditta.
In questa guisa era Latino astretto
d'annunzïarla ai
Teucri; a lui quest'atto
d'aprir le triste e spaventose porte
si dovea
come a rege. Ma 'l buon padre,
schivo di sí nefando ministero,
s'astenne
di toccarle, e gli occhi indietro
volse per non vederle, e si nascose.
Ma per tôrre ogni indugio un'altra volta,
ella stessa regina de' celesti
dal ciel discese, e di sua propria mano
pinse, disgangherò, ruppe e
sconfisse
de le sbarrate porte ogni ritegno,
sí che l'aperse. Allor
l'Ausonia tutta,
ch'era dianzi pacifica e quïeta,
s'accese in ogni
parte. E qua pedoni,
là cavalieri; a la campagna ognuno,
ognuno a
l'arme, a maneggiar destrieri,
a fornirsi di scudi, a provar elmi,
a
far, chi con la cote, e chi con l'unto,
ciascuno i ferri suoi lucidi e
tersi.
Altri s'addestra a sventolar l'insegne,
altri a spiegar le
schiere, e con diletto
s'ode annitrir cavalli e sonar tube.
Cinque
grosse città con mille incudi
a fabbricare, a risarcir si dànno
d'ogni
sorte armi: la possente Atina,
Ardea l'antica, Tivoli il superbo,
e
Crustumerio, e la torrita Antenna.
Qui si vede cavar elmi e celate;
là
torcere e covrir targhe e pavesi:
per tutto riforbire, aüzzar ferri,
annestar maglie, rinterzar corazze,
e per fregiar piú nobili armature,
tirar lame d'acciar, fila d'argento.
Ogni bosco fa lance, ogni fucina
disfà vomeri e marre, e spiedi e spade
si forman dai bidenti e da le
falci.
Suonan le trombe, dassi il contrassegno,
gridasi a l'armi: e chi
cavalli accoppia,
e chi prende elmo, e chi picca, e chi scudo.
Questi ha
la piastra, e quei la maglia indosso,
e la sua fida spada ognuno a canto.
Or m'aprite Elicona, e di conserto
meco il canto movete, alme sorelle,
a dir qual regi e quai genti e qual'armi
militassero allora, e di che
forze,
e di quanto valore era in quei tempi
la milizia d'Italia. A voi
conviensi
di raccontarlo, a cui conto e ricordo
de le cose e de' tempi è
dato eterno:
a noi per tanti secoli rimasa
n'è di picciola fama un'aura
a pena.
Il primo, che le genti a questa guerra
ponesse in campo, fu
Mezenzio, il fiero
del ciel dispregiatore e degli dèi.
D'Etruria era
signore, e di Tirreni
conducea molte squadre. Avea suo figlio
Lauso con
esso, un giovine il piú bello,
da Turno in fuori, che l'Ausonia avesse.
Gran cavaliero, egregio cacciatore
fino allor si mostrava; e mille
armati
avea la schiera sua, che seco uscita
fuor d'Agillina, ne
l'esiglio ancora
indarno lo seguia; degno che fosse
ne l'imperio del
padre. A questi dopo
segue Aventino, de l'invitto Alcide
leggiadro
figlio. Questi col suo carro
di palme adorno, e co' vittorïosi
suoi
corridori in campo appresentossi.
Eran di mazzafrusti, di spuntoni,
di
chiavarine, e di savelli spiedi
armate le sue schiere. Ed egli, a piedi,
d'un cuoio di leon velluto ed irto
vestia gli omeri e 'l dorso, e del
suo ceffo,
che quasi digrignando ignudi e bianchi
mostrava i denti e
l'una e l'altra gota,
si copria 'l capo. E con tal fiera mostra
d'Ercole
in guisa, a corte si condusse.
Vennero appresso i suoi fratelli argivi
Catillo e Cora, e di Tiburte il terzo
guidâr le genti, che da lui nomate
fûr Tiburtine. Dai lor colli entrambi
calando avanti a l'ordinate
schiere,
due Centauri sembravano a vedergli,
che giú correndo da' nevosi
gioghi
d'Omole e d'Otri, risonando fansi
dar la via da' virgulti e da le
selve.
Cècolo, di Preneste il fondatore,
comparve anch'egli: un re che
da bambino
fu tra l'agresti belve appo d'un foco
trovato esposto; onde
di foco nato
si credé poscia, e di Volcano figlio.
Avea costui di
rustici d'intorno
una gran compagnia, ch'eran de l'alta
Preneste, de'
sassosi Ernici monti,
de la gabina Giuno e d'Anïene,
e d'Amasèno e de la
ricca Anagni
abitanti e cultori: e come gli altri,
non eran in su'
carri, o d'aste armati
o di scudi coverti. Una gran parte
eran
frombolatori, e spargean ghiande
di grave piombo, e parte avean due dardi
ne la sinistra, e cappelletti in testa
d'orridi lupi: il manco piè
discalzo
il destro o d'uosa o di corteccia involto.
Messapo venne
poscia, de' cavalli
il domatore e di Nettuno il figlio,
contro al ferro
fatato e contro al foco.
Questi subitamente armando spinse
le genti sue
per lunga pace imbelli;
deviò dalle nozze i Fescennini,
da le leggi i
Falisci: armò Soratte,
armò Flavinio, e tutti che d'intorno
ha di Cimini
e la montagna e 'l lago,
e di Capena i boschi. Ivan del pari
in
ordinanza, e del suo re cantando,
come soglion talor da la pastura
tornarsi in vèr le rive al ciel sereno
i bianchi cigni, e le distese
gole
disnodar gorgheggiando, e far di tutti
tale una melodia, che di
Caïstro
ne suona il fiume e d'Asia la palude.
Né pur un si movea di
tanta schiera
da la sua fila, in ciò lo stuol sembrando
de' rochi
augelli allor che di passaggio
vien d'alto mare, e come intera nube
a
terra unitamente se ne cala.
Ecco di poi venir Clauso il sabino,
di
quel vero sabino antico sangue;
ch'avea gran gente, e la sua gente tutta
pareggiava sol egli. Il nome suo
fece Claudia nomare e la famiglia
e
la tribú Romana allor che Roma
diessi a' Sabini in parte. Era con lui
la
schiera d'Amiterno e de' Quiriti
di quegli antichi. Eravi il popol tutto
d'Ereto, di Mutisca, di Nomento
e di Velino e quei che da l'alpestra
Tètrica, da Severo, da Caspèria,
da Fòruli e d'Imella eran venuti:
quei che bevean del Fàbari e del Tebro,
che da la fredda Norcia eran
mandati;
le squadre degli Ortini, il Lazio tutto,
e tutti alfin che nel
calarsi al mare
bagna d'ambe le sponde Allia infelice.
Tanti flutti non
fa di Libia il golfo
quando cade Orïon ne l'onde, il verno:
né tante
spiche hanno dal sole aduste
la state, o d'Ermo o de la Licia i campi,
quante eran genti. Arme sonare e scudi
s'udian per tutto, e tutta al
suon de' piedi
trepidar si vedea l'ausonia terra.
Quindi ne vien
l'agamennonio auriga
Aleso, del troian nome nimico;
che di mille feroci
nazïoni,
in aíta di Turno, un gran miscuglio
dietro al suo carro avea di
montanari.
Parte de' pampinosi a Bacco amici
Màssici colli, e parte
degli Aurunci,
de' Sidicini liti, di Volturno,
di Cale, de' Satícoli e
degli Osci.
Questi per armi avean mazze e lanciotti
irti di molte punte,
e di soatto
scudisci al braccio, onde erano i lor colpi,
traendo e
ritraendo, in molti modi
continüati e doppi. E pur con essi
aveano e per
ferire e per coprirsi
targhe ne la sinistra, e storte al fianco.
Né tu
senza il tuo nome a questa impresa,
Èbalo, te n'andrai, del gran Telone
e de la bella Ninfa di Sebeto
figlio onorato. Di costui si dice
che,
non contento del paterno regno,
Capri al vecchio lasciando e i Teleboi,
fe' d'esterni paesi ampio conquisto,
e fu re de' Sarrasti e de le genti
che Sarno irriga. Insignorissi appresso
di Bàtulo, di Rufra, di Celenne
e de' campi fruttiferi d'Avella.
Mezze picche avean questi a la tedesca
per avventarle, e per celate in capo
súveri scortecciati, e di metallo
brocchieri a la sinistra, e stocchi a lato.
Calò di Nersa e de' suoi
monti alpestri
Ufente, un condottier ch'era in quei tempi
di molta fama
e fortunato in arme.
Equícoli, avea seco, la piú parte
orrida gente, per
le selve avvezza
cacciar le fere, adoperar la marra,
arar con l'armi in
dosso, e tutti insieme
viver di cacciagioni e di rapine.
De la gente
Marrubia un sacerdote
venne fra gli altri; sacerdote insieme
e capitan
di genti ardito e forte:
Umbrone era il suo nome; Archippo il rege
che
lo mandava. Di felice oliva
avea il cimiero e l'elmo intorno avvolto.
Era gran ciurmatore, e con gl'incanti
e col tatto ogni serpe
addormentava:
degl'idri, de le vipere, e degli aspi
placava l'ira,
raddolciva il tòsco,
e risanava i morsi. E non per tanto
poté, né con
incanti né con erbe
de' Marsi monti, risanare il colpo
de la dardania
spada; onde il meschino
ne fu da le foreste de l'Anguizia,
dal
cristallino Fúcino e dagli altri
laghi d'intorno disïato e pianto.
Mandò la madre Aricia a questa guerra
Virbio, del casto Ippolito un
figliuolo
gentile e bello; e da le selve il trasse
d'Egèria, ove d'Imeto
in su la riva
piú cólta e piú placabile è Dïana;
ché, per fama,
d'Ippolito si dice,
poscia che fu per froda o per disdegno
de l'iniqua
madrigna al padre in ira,
e che gli spaventati suoi cavalli
strazio e
scempio ne fêro, egli di nuovo,
per virtú d'erbe e per pietà che n'ebbe
la casta dea, fu rivocato in vita.
Sdegnossi il padre eterno ch'un
mortale
fosse a morte ritolto; e l'inventore
di cotal arte, che d'Apollo
nacque,
fulminando mandò ne' regni bui.
Ippolito da Trivia in parte
occulta,
scevro da tutti, a cura fu mandato
d'Egèria ninfa, e ne la
selva ascoso,
là 've solingo, e col cangiato nome
di Virbio, sconosciuto
i giorni mena
d'un'altra vita. E quinci è che dal tempio
e da le selve a
Trivia consecrate
i cavalli han divieto: ché, lor colpa,
fu 'l suo carro
e 'l suo corpo al marin mostro,
e poscia a morte indegnamente esposto.
Il figlio, che pur Virbio era nomato,
non men di lui feroce, i suoi
destrieri
esercitava, e 'n su 'l paterno carro
arditamente a questa
guerra uscio.
Turno infra' primi, di persona e d'armi
riguardevole e
fiero, e sopra tutti
con tutto 'l capo, in campo appresentossi.
Un elmo
avea con tre cimieri in testa
e suvvi una Chimera, che con tante
bocche
foco anelava quante a pena
non apria Mongibello; e con piú fremito
spargea le fiamme, come piú crudele
era la zuffa, e piú di sangue avea.
Lo scudo era d'acciaio, e d'oro intorno
tutto commesso, e d'òr nel mezzo
un'Io
era scolpita, che già 'l manto e 'l ceffo,
le setole e le corna
avea di bue;
memorabil soggetto! Eravi appresso
Argo che la guardava;
eravi il padre
Inaco che, chiamandola, versava,
non men de gli occhi che
de l'urna, un fiume.
Dopo Turno venia di fanti un nembo,
un'ordinanza,
una campagna piena
tutta di scudi. Eran le genti sue
Argivi, Aurunci,
Rutuli, Sicani
e Sacrani e Labici, che dipinti
portan gli scudi. Avea
del tiberino,
avea del sacro lito di Numíco
e de' rutuli colli e del
Circèo,
d'Ànsure a Giove sacro, di Feronia
diletta a Giuno, de la
paludosa
Sàtura, e del gelato e scemo Ufente
gran turba di villani e
d'aratori.
L'ultima a la rassegna vien Camilla
ch'era di volsca gente
una donzella,
non di conocchia o di ricami esperta,
ma d'armi e di
cavalli, e benché virgo,
di cavalieri e di caterve armate
gran
condottiera, e ne le guerre avvezza.
Era fiera in battaglia, e lieve al
corso
tanto che, quasi un vento sopra l'erba
correndo, non avrebbe anco
de' fiori
tocco, né de l'ariste il sommo a pena;
non avrebbe per l'onde
e per gli flutti
del gonfio mar, non che le piante immerse,
ma né pur
tinte. Per veder costei
uscian de' tetti, empiean le strade e i campi
le
genti tutte; e i giovini e le donne
stavan con meraviglia e con diletto
mirando e vagheggiando quale andava,
e qual sembrava; come regiamente
d'ostro ornato avea 'l tergo, e 'l capo d'oro;
e con che disprezzata
leggiadria
portava un pastoral nodoso mirto
con picciol ferro in punta;
e con che grazia
se ne gia d'arco e di faretra
armata.
Libro
VIII
Poscia
che di Laurento in su la ròcca
fe' Turno inalberar di guerra il segno,
e
che guerra sonâr le roche trombe,
spinti i carri e i destrieri, e l'armi
scosse
di Marte al tempio, incontinente i cuori
si turbâr tutti, e tutto
il Lazio insieme
con súbito tumulto si ristrinse.
Fremessi, congiurossi,
rassettossi
ognun ne l'arme. I tre gran condottieri
Messàpo, Ufente, e
l'empio de' celesti
dispregiator Mezenzio, usciro in prima.
Accolsero i
sussidi; armâr gli agresti;
spogliâr d'agricoltor le ville e i campi.
In Arpi a Dïomede si destina
Vènulo imbasciatore, e gli s'impone
che
soccorso gli chiegga, e che gli esponga
quanto ciò de l'Italia e del suo
stato
torni a grand'uopo: con che gente Enea,
con quale armata v'ha già
posto il piede,
e fermo il seggio, e rintegrato il culto
a' suoi vinti
Penati; come aspira
a questo regno, e come anco per fato,
e per retaggio
del dardanio seme,
lo si promette. Che perciò da molti
è già seguito, e
ch'ogni giorno avanza
e di forze e di nome. Indi soggiunga:
«Quel che 'l
duce de' Teucri in ciò disegni
e che miri e che tenti (se fortuna
gli va
seconda) a te via piú ch'a Turno
esser può manifesto, e ch'a Latino».
Questi andamenti e queste trame allora
correan per Lazio, e lo scaltrito
eroe
le sapea tutte, onde in un mare entrato
di gran pensieri, or la sua
mente a questo,
or a quel rivolgendo in varie parti,
d'ogni cosa avea
téma e speme e cura.
Cosí di chiaro umor pieno un gran vaso,
dal sol
percosso, un tremulo splendore
vibra ondeggiando, e rinfrangendo a volo
manda i suoi raggi, e le pareti e i palchi
e l'aura d'ogni intorno empie
di luce.
Era la notte, e già per ogni parte
del mondo ogni animal
d'aria e di terra
altamente giacea nel sonno immerso,
allor che 'l padre
Enea, cosí com'era
dal pensier de la guerra in ripa al Tebro
già stanco
e travagliato, addormentossi.
Ed ecco Tiberino, il dio del loco
veder
gli parve, un che già vecchio al volto
sembrava. Avea di pioppe ombra
d'intorno
di sottil velo e trasparente in dosso
ceruleo ammanto, e i
crini e 'l fronte avvolto
d'ombrosa canna. E de l'ameno fiume
placido
uscendo a consolar lo prese
in cotal guisa: «Enea, stirpe divina,
che
Troia da' nemici ne riporti
e la ravvivi e la conservi eterna;
o da me,
da' Laurenti e da' Latini
già tanto tempo a tanta speme atteso,
questa è
la casa tua, questo è secura-
mente, non t'arrestare, il fatal seggio
che t'è promesso. Le minacce e 'l grido
non temer de la guerra.
Ogn'odio, ogn'ira
cessa già de' celesti. E perché 'l sonno
credenza non
ti scemi, ecco a la riva
sei già del fiume, u' sotto a l'elce accolta
sta la candida troia con quei trenta
candidi figli a le sue poppe
intorno.
Questo fia dunque il segno e 'l tempo e 'l loco
da fermar la
tua sede. E questo è 'l fine
de' tuoi travagli: onde il tuo figlio Ascanio
dopo trent'anni il memorabil regno
fonderà d'Alba, che cosí nomata
fia dal candore e dal felice incontro
di questa fera. E tutto
adempirassi
ch'io ti predíco, e t'è predetto avanti.
Or brevemente quel
ch'oprar convienti,
per uscir glorïoso e vincitore
di questa guerra,
ascolta. È di qui lunge
non molto Evandro, un re che de l'Arcadia
è qua
venuto; e sopra a questi monti
ha degli Arcadi suoi locato il seggio.
Il
loco, da Pallante suo bisavo,
è stato Pallantèo da lui nomato:
ed essi,
perché son nel Lazio esterni,
son nemici a' Latini, ed han con loro
perpetua guerra. A te fa di mestiero
con lor confederarti, e per
compagni
a questa impresa avergli. Io, fra le ripe
mie stesse, incontro
a l'acqua a la magione
d'Evandro agevolmente condurrotti.
Dèstati, de la
dea pregiato figlio;
e come pria vedrai cader le stelle,
porgi
solennemente a la gran Giuno
preghiere e vóti; e supplicando vinci
de
l'inimica dea l'ira e l'orgoglio;
ed a me, poi che vincitor sarai,
paga
il dovuto onore. Io sono il Tebro
cerco da te, che, qual tu vedi, ondoso
rado queste mie rive, e fendo i campi
de la fertile Ausonia, al cielo
amico
sovr'ogni fiume. Quel che qui m'è dato,
è 'l mio seggio maggiore:
e fia che poscia
sovr'ogni altra cittade il capo estolla».
Cosí disse,
e tuffossi. Enea dal sonno
si scosse; il giorno aprissi, ed ei col sole
sorgendo insieme, al suo nascente raggio
si volse umíle, e con le cave
palme
de l'onda si spruzzò del fiume, e disse:
«Ninfe lauremti, ninfe,
ond'hanno i fiumi
l'umore e 'l corso; e tu con l'onde tue,
padre Tebro
sacrato, al vostro Enea
date ricetto, e da' perigli omai
lo liberate. Ed
io da qual sia fonte
che sgorghi, in qual sii riva, in qual sii foce
(poiché tanta di me pietà ti stringe)
sempre t'onorerò, sempre di doni
ti sarò largo. O de l'esperid'onde
superbo regnatore, amico e mite
ne sia il tuo nume, e i tuoi detti non vani».
Cosí dicendo, de' suoi
legni elegge
i due migliori, e gli correda e gli arma
di tutto punto. Ed
ecco d'improvviso
(mirabil mostro!) de la selva uscita
una candida
scrofa, col suo parto
di candor pari, sopra l'erba verde
ne la riva
accosciata gli si mostra.
Tosto il pietoso eroe col gregge tutto
a
l'altar la condusse, e poiché sacra
l'ebbe al gran nume tuo, massima Giuno,
a te l'uccise. Il Tebro quella notte
quanto fu lunga, di turbato e
gonfio
ch'egli era, si rendé tranquillo e queto,
sí che, senza rumore e
quasi in dietro
tornando, come stagno o come piana
palude adeguò l'onde,
e tolse a' remi
ogni contesa. Accelerando adunque
il cammin preso, i ben
unti e spalmati
lor legni se ne vanno incontro al fiume
com'a seconda;
sí che l'onde stesse
stavan meravigliose, e i boschi intorno,
non soliti
a veder l'armi e gli scudi
e i dipinti navili, che da lunge
facean
novella e peregrina mostra.
Se ne van notte e giorno remigando
di tutta
forza, e i seni e le rivolte
varcan di mano in mano, or a l'aperto,
or
tra le macchie occulti, e via volando
segan l'onde e le selve. Era il sol
giunto
a mezzo il giorno, quando incominciaro
da lunge a discovrir la
ròcca e 'l cerchio
e i rari allor del poverello Evandro
umili alberghi,
ch'ora al cielo adegua
la romana potenza. Immantinente
volser le prore a
terra, ed appressârsi
là 've per avventura il re quel giorno
solennemente in un sacrato bosco
avanti a la città stava onorando
il
grande Alcide. Avea Pallante seco
suo figlio, e del suo povero senato
e
de' suoi primi giovini un drappello
che d'incensi, di vittime e di fumo
di caldo sangue empiean l'are e gli altari.
Tosto che di lontan vider
le gaggie,
e per entro de' boschi occulte e chete
gir navi esterne,
insospettiti in prima
si levâr da le mense. Ma Pallante
arditamente:
«Non movete, - disse, -
seguite il sacrificio». E tosto a l'armi
dato di
piglio, incontro a lor si spinse.
Giunto, gridò da l'argine: «O compagni,
qual fin v'adduce, o qual v'intrica errore
per cosí torta e disusata
via?
Ov'andate? chi siete? onde venite?
che ne recate voi? la pace, o
l'armi?
Enea di su la poppa un ramo alzando
di pacifera oliva: «Amici -
disse -
vi siamo, e siam Troiani, e coi Latini
vostri nimici inimicizia
avemo.
Questi superbamente il nostro esiglio
perseguitando ne fan guerra
ed onta.
Ricorremo ad Evandro. A lui porgete
da nostra parte, che de'
Teucri alcuni
son qui venuti condottieri eletti
per sussidi impetrarne e
lega d'arme».
Stupí primieramente a sí gran nome
Pallante, indi vèr
lui rivolto umíle:
«Signor, qual che tu sii, scendi e tu stesso
parla, -
disse, - al mio padre, e nosco alloggia».
E lo prese per mano ed
abbracciollo.
Lasciato il fiume e ne la selva entrati,
Enea dinanzi al
re comparve e disse:
«Signor, che di bontà sovr'ogni Greco,
e di
fortuna sovr'a me ten vai
tanto che supplichevole, e co' rami
di benda
avvolti a tua magion ne vengo;
io, perché sia Troiano e tu di Troia
per
nazïon nimico e per legnaggio
agli Atridi congiunto, or non pavento
venirti avanti, ché 'l mio puro affetto,
gli oracoli divini, il sangue
antico
de' maggior nostri, il tuo famoso grido,
e 'l fato e 'l mio voler
m'han teco unito.
Dardano, de' Troiani il primo autore,
nacque
d'Elettra, come i Greci han detto;
e d'Elettra fu padre il grande Atlante,
che con gli omeri suoi folce le stelle.
Vostro progenitor Mercurio fue,
che nel gelido monte di Cillene
de la candida Maia al mondo nacque;
e Maia ancor, se questa fama è vera,
venne d'Atlante, e da lo stesso
Atlante
che fa con le sue spalle al ciel sostegno.
Cosí d'un fonte lo
tuo sangue e 'l mio
traggon principio. E quinci è che securo
senza opra
di messaggi e senza scritti,
pria ch'io ti tenti, e pria che tu m'affidi,
posto ho me stesso e la mia vita a rischio,
e supplichevolmente a la tua
casa
ne son venuto. I Rutuli ch'infesti
sono anche a te, se de l'Italia
fuori
cacceran noi, già de l'Italia tutta
l'imperio si promettono, e di
quanto
bagna l'un mare e l'altro. Or la tua fede
mi porgi, e la mia
prendi; ch'ancor noi
siamo usi a guerra, e cor ne' petti avemo».
Il
re, mentre ch'Enea parlando stette,
il volto e gli occhi e la persona tutta
gli andò squadrando; e brevemente al fine
cosí rispose: «Valoroso eroe,
come lieto io t'accolgo, e come certo
raffigurar mi sembra il volto e i
gesti
e la favella di quel grande Anchise
tuo genitore! Io mi ricordo
quando
Priamo per riveder la sua sorella
Esïone e 'l suo regno, in un
passaggio
che perciò fe' da Troia a Salamina,
toccò d'Arcadia i gelidi
confini.
De le prime lanugini fiorito
era il mio mento a pena allor
ch'io vidi
quei gran duci di Troia, e de' Troiani
lo stesso re. Con
molto mio diletto
gli mirai, gli ammirai, notai di tutti
gli abiti e le
fattezze, e sopra tutti
leggiadro, riguardevole ed altero
sembrommi
Anchise. Un desiderio ardente
mi prese allor d'offrirmi, e d'esser conto
a quel signore. Il visitai, gli porsi
la destra, ospite il fei, nel mio
Fenèo
meco l'addussi. Ond'ei poscia partendo,
un arco, una faretra e
molti strali
di Licia presentommi, e d'oro appresso
una ricca intessuta
sopravesta
con due freni indorati ch'ancor oggi
son di Pallante mio: sí
che già ferma
è tra noi quella fede e quella lega
ch'or ne chiedete. E
non fia il sol dimane
dal balcon d'orïente uscito a pena,
che le mie
genti e i miei sussidi arete.
Intanto a questa festa, che solenne
facciamo ogni anno, e tralasciar non lece
(già che venuti siete amici
nostri),
nosco restate, e come di compagni
queste mense onorate». Avea
ciò detto,
allor che nuovi cibi e nuove tazze
ripor vi fece, e lor tutti
nel prato
a seder pose; e sopra tutti Enea,
di villoso leon disteso un
tergo,
seco al suo desco ed al suo seggio accolse.
Per man de' sacerdoti
e de' ministri
del sacrificio, d'arrostite carni
de' tori, di vin puro,
di focacce,
gran piatti, gran canestri e gran tazzoni
n'andaro a torno;
e co' suoi Teucri tutti
Enea fu de le viscere pasciuto
del saginato, a
dio devoto, bue.
Tolte le mense, e 'l desiderio estinto
de le vivande,
a ragionar rivolti,
Evandro incominciò: «Troiano amico,
questo convito e
questo sacrificio
cosí solenne, e questo a tanto nume
sacrato altare,
instituiti e posti
non sono a caso; ché del vero culto
e de gli antichi
dèi notizia avemo.
Per memoria, per merito e per vóto
d'un gran periglio
sua mercé scampato,
son questi onori a questo dio dovuti.
Mira colà
quella scoscesa rupe,
e que' rotti macigni, e di quel colle
quell'alpestra ruina, e quel deserto.
Ivi era già remota e dentro al
monte
cavata una spelonca, ov'unqua il sole
non penetrava. Abitatore un
ladro
n'era, Caco chiamato, un mostro orrendo
mezzo fera e mezz'uomo, e
d'uman sangue
avido sí, che 'l suol n'avea mai sempre
tiepido. Ne
grommavan le pareti,
ne pendevano i teschi intorno affissi,
di pallor,
di squallor luridi e marci.
Volcano era suo padre; e de' suoi fochi
per
la bocca spirando atri vapori,
gia d'un colosso, e d'una torre in guisa.
Contra sí diro mostro, dopo molti
dannaggi e molte morti, il tempo al
fine
ne diede e questo dio soccorso e scampo.
Egli di Spagna vincitor ne
venne
in queste parti, de le spoglie altero
di Gerïone, in cui tre volte
estinse
in tre corpi una vita, e ne condusse
tal qui d'Ibèro un copïoso
armento,
ch'avea pien questo fiume e questa valle.
Caco ladron feroce
e furïoso,
d'ogni misfatto e d'ogni sceleranza
ardito e frodolente
esecutore,
quattro tori involonne e quattro vacche,
ch'eran fior de
l'armento. E perché l'orme
indicio non ne dessero, a rovescio
per la
coda gli trasse; e ne la grotta
gli condusse e celogli. Eran l'impronte
de' lor piè volte al campo, e verso l'antro
segno non si vedea ch'a la
spelonca
il cercator drizzasse. Avea già molti
giorni d'Anfitrïon tenuto
il figlio
qui le sue mandre, e ben pasciuto e grasso
era il suo armento,
sí che nel partire
tutte queste foreste e questi colli
di querimonia e
di muggiti empiero.
Mugghiò da l'altro canto, e 'l vasto speco
da lunge
rintonar fece una vacca
de le rinchiuse: onde schernita e vana
restò di
Caco la custodia e 'l furto;
ch'udilla Alcide, e d'ira e di furore
in un
súbito acceso, a la sua mazza,
ch'era di quercia nodorosa e grave,
diè
di piglio, e correndo al monte ascese.
Quel dí da' nostri primamente Caco
temer fu visto. Si smarrí negli occhi,
si mise in fuga, e fu la fuga un
volo:
tal gli aggiunse un timor le penne a' piedi.
Tosto che ne la
grotta si rinchiuse,
allentò le catene, e di quel monte
una gran falda a
la sua bocca oppose;
ch'a la bocca de l'antro un sasso immane
avea con
ferri e con paterni ordigni
di cataratta accomodato in guisa
con
puntelli per entro e stanghe e sbarre.
Ecco Tirinzio arriva, e come è spinto
da la sua furia, va per tutto in volta
fremendo, ora ai vestigi, ora ai
muggiti,
ora a l'entrata de la grotta intento.
E portato da l'impeto,
tre volte
scórse de l'Aventino ogni pendice:
tre volte al sasso de la
soglia intorno
si mise indarno; e tre volte affannato
ritornò ne la
valle a riposarsi.
Era de la spelonca al dorso in cima
di selce
d'ogn'intorno dirupata
un cucuzzolo altissimo ed alpestro
ch'ai nidi
d'avvoltoi e di tali altri
augelli di rapina e di carogna
era opportuno
albergo. A questo intorno
alfin si mise; e siccom'era al fiume
da
sinistra inchinato, egli a rincontro
lo spinse da la destra, lo divelse,
col calce de la mazza a leva il pose,
e gli diè volta. A quel fracasso
il cielo
rintonò tutto, si crollâr le ripe,
e 'l fiume impaurito si
ritrasse.
Allor di Caco fu lo speco aperto:
scoprissi la sua reggia, e
le sue dentro
ombrose e formidabili caverne.
Come chi de la terra il
globo aprisse
a viva forza, e de l'inferno il centro
discovrisse in un
tempo, e che di sopra
de l'abisso vedesse quelle oscure
del cielo
abbominate orride bolge;
vedesse Pluto a l'improvviso lume
restar del
sole attonito e confuso:
cotal Caco da súbito splendore
ne la sua tomba
abbarbagliato e chiuso
digrignar qual mastino Ercole vide;
e non piú
tosto il vide, che di sopra
sassi, travi, tronconi, ogn'arme addosso
fulgurando avventogli. Ei che né fuga
avea né schermo al suo periglio
altronde,
da le sue fauci (meraviglia a dirlo!)
vapori e nubi a vomitar
si diede
di fumo, di caligine e di vampa,
tal che miste le tenebre col
foco
togliean la vista agli occhi e 'l lume a l'antro.
Non però si
contenne il forte Alcide,
che d'un salto in quel baratro gittossi
per lo
spiraglio, e là 'v'era del fumo
la nebbia e l'ondeggiar piú denso, e 'l foco
piú roggio, a lui che 'l vaporava indarno,
s'addusse, e lo ghermí; gli
fece un nodo
de le sue braccia, e sí la gola e 'l fianco
gli strinse che
scoppiar gli fece il petto,
e schizzar gli occhi; e 'l foco e 'l fiato e
l'alma
in un tempo gli estinse. Indi la bocca
aprí de l'antro, e la
frodata preda,
e del suo frodatore il sozzo corpo
fuor per un piè ne
trasse, a cui d'intorno
corser le genti a meraviglia ingorde
di veder
gli occhi biechi, il volto atroce,
l'ispido petto e l'ammorzato foco.
Da indi in qua questo dí santo ogni anno
da' nostri è lietamente celebrato:
e ne sono i Potizi i primi autori,
e i Pinari ministri. Allor quest'ara,
che Massima si disse, e che mai sempre
massima ne sarà, fu consecrata
in questo bosco. Or via dunque, figliuoli,
per celebrar tant'onorata
festa,
coi rami in fronte e con le tazze in mano
il comun dio chiamate,
e lietamente
l'un con l'altro invitatevi, e beete».
Ciò detto, il
divisato erculeo pioppo
tessero altri in ghirlande, altri in festoni,
altri i mai ne piantaro. E di già pieno
di sacrato liquore il gran
catino,
tutti a mensa gioiosi s'adagiaro,
e spargendo e beendo, ai santi
numi
porser preghiere e vóti. Espero intanto
era a l'occidental lito
vicino
già per tuffarsi, quando i sacerdoti
un'altra volta, e 'l buon
Potizio avanti
con pelli indosso e con facelle in mano,
com'è costume, a
convivar tornaro,
e le seconde mense e l'are sante
di grati doni e di
gran piatti empiero.
I Salii intorno ai luminosi altari
givano in
tresca, e di populea fronde
cingean le tempie. I vecchi da l'un coro
le
prodezze cantavano e le lodi
del grande Alcide; i giovini da l'altro
n'atteggiavano i fatti: come prima
fanciul da la matrigna insidïato
i due serpenti strangolasse in culla;
come al suolo adeguasse Ecalia e
Troia,
città famose; come superasse
mill'altre insuperabili fatiche
sotto al duro tiranno, e contr'ai fati
de l'empia dea. «Tu sei, - dicean
cantando, -
invitto iddio, che de le nubi i figli
Nilèo e Folo uccidi;
tu che 'l mostro
domi di Creta: tu che vinci il fiero
nemèo leone; te
gl'inferni laghi,
te l'inferno custode ebbe in orrore
ne l'orrendo suo
stesso e diro speco,
là, 've tra 'l sangue e le corrose membra
ha de la
morta gente il suo covile.
Cosa non è sí spaventosa al mondo,
che te
spaventi, non lo stesso armato
incontr'al ciel Tifèo; né quel di Lerna
con tanti e tanti capi orribil angue
senza avviso ti vide o senza
ardire.
A te vera di Giove inclita prole,
umilmente inchiniamo, a te del
cielo
nuovo aggiunto ornamento. E tu benigno
mira i cor nostri e i
sacrifici tuoi».
Cosí pregando e celebrando in versi
cantavan le sue
pruove. E sopra tutto
dicean di Caco e de la sua spelonca
e de' suoi
fochi: e i boschi e i colli intorno
rispondean rintonando. Eran finiti
i
sacrifici, quando il vecchio Evandro
mosse vèr la cittade; e seco a pari
da l'un de' lati Enea, da l'altro il figlio
avea, cui s'appoggiava; e
ragionando
di varie cose, agevolava il calle.
Enea, meravigliando, in
ogni parte
volgea le luci, desïoso e lieto
di veder quel paese e di
saperne
i siti, i luoghi e le memorie antiche.
Di che spïando, il primo
fondatore
de la romana ròcca in cotal guisa
a dir gli cominciò: «Questi
contorni
eran pria selve; e gli abitanti loro
eran qui nati, ed eran
fauni e ninfe,
e genti che di roveri e di tronchi
nate, né di costumi,
né di culto,
né di tori accoppiar, né di por viti,
né d'altr'arti, o
d'acquisto, o di risparmio
avean notizia o cura: e 'l vitto loro
era di
cacciagion, d'erbe e di pomi,
e la lor vita, aspra, innocente e pura.
Saturno il primo fu che in queste parti
venne, dal ciel cacciato, e vi
s'ascose.
E quelle rozze genti, che disperse
eran per questi monti,
insieme accolse
e diè lor leggi: onde il paese poi
da le latèbre sue
Lazio nomossi.
Dicon che sotto il suo placido impero
con giustizia, con
pace e con amore
si visse un secol d'oro, in fin che poscia
l'età,
degenerando, a poco a poco
si fe' d'altro colore e d'altra lega.
Quinci
di guerreggiar venne il furore,
l'ingordigia d'avere, e le mischianze
de
l'altre genti. L'assalîr gli Ausoni;
l'inondaro i Sicani; onde piú volte
questa, che pria Saturnia era nomata,
ha con la signoria cangiato il
nome,
e co' signori. E quinci è che da Tebro,
che ne fu re terribile ed
immane,
Tebro fu detto questo fiume ancóra,
ch'Àlbula si dicea ne' tempi
antichi.
Ed ancor me de la mia patria in bando,
dopo molti perigli e
molti affanni
del mar sofferti, ha qui l'onnipotente
fortuna e
l'invincibil mio destino
portato alfine; e qui posar mi fêro
gli oracoli
tremendi e spaventosi
di Carmenta mia madre, e Febo stesso
che mia madre
inspirava». E fin qui detto,
si spinse avanti; e quell'ara mostrogli,
e
quella porta che fu poi di Roma,
Carmental detta, onore e ricordanza
de
la ninfa indovina, ch'anzi a tutti
del Pallantèo predisse e de' Romani
la futura grandezza. Indi seguendo,
un gran bosco gli mostra, ove
l'Asilo
Romolo contraffece; e 'l Lupercale,
che, quale era in Arcadia a
Pan Liceo,
sotto una fredda rupe era dicato.
Poscia de l'Argileto gli
dimostra
la sacra selva; e d'Argo ospite il caso
gli conta, e se ne
purga e se ne scusa.
A la Tarpeia rupe, al Campidoglio
poscia l'addusse;
al Campidoglio or d'oro,
che di spini in quel tempo era coverto:
un ermo
colle dai vicini agresti
per la religïon del loco stesso
insino allor
temuto e riverito:
ch'a veder sol quel sasso e quella selva
si
paventava. E qui soggiunse Evandro:
«In questo bosco, e là 've questo
monte
è piú frondoso, un dio, non si sa quale,
ma certo abita un dio.
Queste mie genti
d'Arcadia han ferma fede aver veduto
qui Giove stesso
balenar sovente,
e far di nembi accolta. Oltre a ciò vedi
qui su, quelle
ruine e quei vestigi
di quei due cerchi antichi. Una di queste
città
fondò Saturno, e l'altra Giano,
che Saturnia e Gianicolo fûr dette».
In cotal guisa ragionando Evandro,
se ne gian verso il suo picciolo ostello.
E ne l'andar, là 'v'or di Roma è il Foro,
ov'è quella piú florida
contrada
de le Carine, ad ogni passo intorno
udian greggi belar,
mugghiare armenti.
Giunti che furo: «In questo umile albergo
alloggiò -
disse - il vincitore Alcide.
Questa fu la sua reggia. E tu v'alloggia,
e
tu 'l gradisci, e le delizie e gli agi
spregiando, imita in ciò Tirinzio e
dio,
e del tugurio mio meco t'appaga».
Cosí dicendo, il grand'ospite
accolse
ne l'angusta magione, e collocollo
là dove era di frondi e
d'irta pelle
di libic'orsa attappezzato un seggio.
Venne la notte, e
le fosc'ali stese
avea di già sovra la terra, quando
Venere come madre,
e non in vano
del suo figlio gelosa, il gran tumulto
veggendo e le
minacce de' Laurenti,
con Volcan suo marito si ristrinse
con gran
dolcezza; in tal guisa gli disse:
«Caro consorte, infinché i regi Argivi
furo a' danni di Troia, e che per fato
cader dovea, nullo da te soccorso
volsi, o da l'arte tua; né ti richiesi
d'armi allor, né di macchine, né
d'altro
per iscampo de' miseri Troiani.
Le man, l'ingegno tuo, le tue
fatiche
oprar non volli indarno, ancor che molto
con Prïamo e co' figli
obbligo avessi,
e molto mi premesse il duro affanno
d'Enea mio figlio.
Or per imperio espresso
e de' fati e di Giove egli nel Lazio
e tra'
Rutuli è fermo. A te, mio sposo,
ricorro, a te, mio venerando nume;
e,
madre, per un figlio arme ti chieggio;
quel che da te di Nèrëo la figlia,
e di Titon la moglie hanno impetrato.
Mira in quant'uopo io le ti
chieggio, e quanti
e che popoli sono, a mia ruina
e de' miei,
congregati; e qual fan d'armi
a porte chiuse orribile apparecchio».
E
'l buon marito, che d'eterno amore
avea il cor punto, le si volse, e disse:
«A che sí lungo esordio? Ov'è, consorte,
vèr me la tua fidanza? Io fin
d'allora,
se t'era grado, avrei d'arme provvisti
i Teucri tuoi; né 'l
padre onnipotente,
né i fati ci vietavano che Troia
non si tenesse, e
Prïamo non fosse
restato ancor per diece altr'anni in vita.
Ed or s'a
guerra t'apparecchi, e questo
è tuo consiglio, quel che l'arte puote
o
di ferro o di liquido metallo,
quanto i mantici han fiato, e forza il foco,
io ti prometto. E tu con questi preghi
cessa di rivocar la possa in
forse
del tuo volere, e 'l mio desir ch'è sempre
di far le voglie tue
paghe e contente».
Finito il primo sonno, e de la notte
già corso il
mezzo, come femminella
che col fuso, con l'ago e con la spola
la sua
vita sostenta e de' suoi figli;
che la notte aggiungendo al suo lavoro,
e dal suo focolar pria che dal sole
procacciandosi 'l lume, a la
conocchia,
a l'aspo, a l'arcolaio esercitando
sta le povere ancelle,
onde mantenga
il casto letto e i pargoletti suoi;
tale in tal tempo, e
con tal cura a l'opra
surse il gran fabbro, e la fucina aperse.
Giace
tra la Sicania da l'un canto,
e Lipari da l'altro un'Isoletta
ch'alpestra ed alta esce de l'onde, e fuma.
Ha sotto una spelonca, e
grotte intorno,
che di feri Ciclopi antri e fucine
son, da' lor fochi
affumicati e rosi.
Il picchiar de l'incudi e de' martelli
ch'entro si
sente, lo stridor de' ferri,
il fremere e 'l bollir de le sue fiamme
e
de le sue fornaci, d'Etna in guisa
intonar s'ode ed anelar si vede.
Questa è la casa, ove qua giú s'adopra
Volcano, onde da lui Volcania è
detta;
e qui per l'armi fabbricar discese
del grand'Enea. Stavan ne
l'antro allora
Stèrope e Bronte e Piracmóne ignudi
a rinfrescar l'aspre
saette a Giove.
Ed una allor n'avean parte polita,
parte abbozzata, con
tre raggi attorti
di grandinoso nembo, tre di nube
pregna di pioggia,
tre d'acceso foco,
e tre di vento impetuoso e fiero.
I tuoni
v'aggiungevano e i baleni,
e di fiamme e di furia e di spavento
un cotal
misto. Altrove erano intorno
di Marte al carro, e le veloci ruote
accozzavano insieme, ond'egli armato
le genti e le città scuote e
commuove.
Lo scudo, la corazza e l'elmo e l'asta
avean da l'altra parte
incominciati
de l'armigera Palla, e di commesso
la fregiavano a gara.
Erano i fregi
nel petto de la dea gruppi di serpi
che d'oro avean le
scaglie, e cento intrichi
facean guizzando di Medusa intorno
al fiero
teschio, che cosí com'era
disanimato e tronco, le sue luci
volgea
d'intorno minacciose e torve.
Tosto che giunse: «Via, - disse a' Ciclopi -
sgombratevi davanti ogni lavoro,
e qui meco guarnir d'arme attendete
un gran campione. E s'unqua fu mestiero
d'arte, di sperïenza e di
prestezza,
è questa volta. Or v'accingete a l'opra
senz'altro indugio».
E fu ciò detto a pena,
che, divise le veci e i magisteri,
a fondere, a
bollire, a martellare
chi qua chi là si diede. Il bronzo e l'oro
corrono
a rivi; s'ammassiccia il ferro,
si raffina l'acciaio; e tempre e leghe
in piú guise si fan d'ogni metallo.
Di sette falde in sette doppi unite,
ricotte al foco e ribattute e salde,
si forma un saldo e smisurato
scudo,
da poter solo incontro a l'armi tutte
star de' Latini. Il fremito
del vento
che spira da' gran mantici, e le strida
che ne' laghi
attuffati, e ne l'incudi
battuti, fanno i ferri, in un sol tuono
ne
l'antro uniti, di tenore in guisa
corrispondono a' colpi de' Ciclopi,
ch'al moto de le braccia or alte or basse
con le tenaglie e co' martelli
a tempo
fan concerto, armonia, numero e metro.
Mentre in Eolia era a
quest'opra intento
di Lenno il padre, ecco, sorgendo il sole,
surse al
cantar de' mattutini augelli
il vecchio Evandro; e fuori uscio vestito
di giubba con le guigge a' piedi avvolte,
com'è tirrena usanza. Avea dal
destro
omero a la Tegèa nel manco lato
una sua greca scimitarra appesa.
Avea da la sinistra di pantera
una picchiata pelle, che d'un tergo
gli si volgea su l'altro; e da la ròcca
scendendo, gli venian due cani
avanti,
come custodi i suoi passi osservando.
In questa guisa il
generoso eroe,
come quei che tenea memoria e cura
di compir quanto avea
la sera avanti
ragionato e promesso, a le secrete
stanze del padre Enea
si ricondusse.
Enea da l'altra parte assai per tempo
s'era levato: e
solo in compagnia
l'un seco avea Pallante, e l'altro Acate.
Poscia che
rincontrati e 'nsieme accolti
si salutaro, alfin, tra loro assisi,
a
ragionar si diêro. E prima Evandro
cosí parlò: «Signor, cui vivo, in vita
dir si può che sia Troia, e che del tutto
non sia caduta e vinta; in
questa guerra
quel che poss'io per tuo sussidio è poco
a tanto affare.
Il mio paese è chiuso
quinci dal tosco fiume, e quindi ha l'armi
che gli
suonan de' Rutuli d'intorno
fin sulle porte. Avviso e pensier mio
è per
confederati e per compagni
darti una gente numerosa e grande
con molti
regni. In tal qui tempo a punto
sei capitato, e tal felice incontro
ti
porge amica e non pensata sorte.
È non lunge di qui, su questi monti
d'Etruria, una famosa e nobil terra
ch'è sopra un sasso anticamente
estrutta;
Agillina si dice, ove lor seggio
posero (è già gran tempo) i
bellicosi
e chiari Lidi: e floridi e felici
vi fûr gran tempo ancora. Or
sotto il giogo
son di Mezenzio capitati al fine.
A che di lui contar le
sceleranze?
A che la ferità? Dio le riservi
per suo castigo e de'
seguaci suoi.
Questo crudele insino a' corpi morti
mescolava co' vivi
(odi tormento)
che giunte mani a mani, e bocca a bocca
in cosí miserando
abbracciamento
gli facea di putredine e di lezzo,
vivi, di lunga morte
alfin morire.
I cittadini afflitti, disperati,
e fatti per paura alfin
securi,
tesero insidie a lui, fecero strage
de' suoi, posero assedio,
avventâr foco
a le sue case. Ei de le mani uscito
degli uccisori, ebbe
rifugio a Turno
ch'or l'accoglie e 'l difende. Onde commossa
e per
giusta cagione in furia volta
l'Etruria tutta in contra al suo tiranno
grida che muoia, e già con l'armi in mano
a morte lo persegue. A questa
gente
di molte mila condottiero e capo
aggiungerotti. E già d'armate
navi
son pieni i liti: ognun freme, ognun chiede
che si spieghin
l'insegne. Un vecchio solo
aruspice e 'ndovino è, che sospesi
gli tiene
infino a qui: "Gente meonia, -
dicendo, - fior di gente antica e nobile,
benché giusto dolor contra a Mezenzio,
e degn'ira v'incenda, incontro a
Lazio
non movete voi già; ch'a nessun Italo
domar d'Italia una tal gente
è lecito,
s'esterno duce a tant'uopo non prendesi".
Cosí parato, e per
timor confuso
del vaticinio stassi il campo etrusco.
E già Tarconte
stesso a questa impresa
m'invita, e già mandato a presentarmi
ha la
sedia e lo scettro e l'altre insegne
del tosco regno, perch'io re ne sia,
ed a l'oste ne vada. Ma la tarda
e fredda mia vecchiezza, e le mie forze
debili, smunte e diseguali al peso
fan ch'io rifiuti. Esorterei Pallante
mio figlio a questo impero, se non fosse
che nato di Sabella, Italo
anch'egli
è per materna razza. Or questo incarco
dagli anni, da la
gente, dal destino,
dal tuo stesso valore a te si deve.
E tu il prendi,
signor, ch'abile e forte
sei piú d'ogni Troian, d'ogni Latino
a
sostenerlo. Ed io Pallante mio,
la mia speranza e 'l mio sommo conforto,
manderò teco; che 'l mestier de l'arme,
che le fatiche del gravoso Marte
ne la tua scuola a tollerare impari:
e te da' suoi prim'anni, e i gesti
tuoi
meravigliando ad imitar s'avvezze.
Dugento cavalieri, il nervo e 'l
fiore
de' miei d'Arcadia, spedirò con lui,
e dugento altri il mio
Pallante stesso
in suo nome daratti». Avea ciò detto
Evandro a pena, che
d'Anchise il figlio
e 'l fido Acate stêr co' volti a terra
chinati. E da
pensier gravi e molesti
fôran oppressi, se dal ciel sereno
la madre
Citerea segno non dava,
sí come diè. Ché tal per l'aria un lume
vibrossi
d'improvviso e con tal suono,
che parve di repente il mondo tutto
come
scoppiando e ruinando ardesse;
ed in un tempo di tirrene tube
squillar
ne l'aura alto concento udissi.
Alzaron gli occhi: e la seconda volta,
e
la terza iterar sentiro il tuono;
e vider là 've il cielo era piú scarco
e piú tranquillo, una dorata nube
e d'armi un nembo che tra lor
percosse,
scintillando, facean fremiti e lampi.
Stupiron gli altri. Ma
il troiano eroe
che 'l cenno riconobbe e la promessa
de la diva sua
madre: «Ospite, - disse, -
di saver non ti caglia quel ch'importi
questo
prodigio; basta ch'ammonito
son io dal cielo, e questo è 'l segno e 'l
tempo,
che la mia genitrice mi predisse:
che quandunque di guerra
incontro avessi,
allora ella dal ciel presta sarebbe
con l'armi di
Volcano a darmi aíta.
Oh quanta di voi strage mi prometto,
infelici
Laurenti! e qual castigo
Turno, da me n'avrai! quant'armi, quanti
corpi
volgere al mar, Tebro, ti veggio!
Via, patto e guerra mi si rompa omai».
Cosí detto, dal soglio alto levossi:
e con Evandro e co' suoi Teucri
in prima
d'Ercole visitando i santi altari,
il sopito carbon del giorno
avanti
lieto desta e raccende; i Lari inchina;
i pargoletti suoi Penati
adora,
e di piú scelte agnelle il sangue offrisce.
Indi torna a le
navi, e de' compagni
fatte due parti, la piú forte elegge
per seco
addurre a preparar la guerra:
l'altra a seconda per lo fiume invia,
che
pianamente e senz'alcun contrasto
si rivolga ad Ascanio, e dia novelle
de le cose e del padre. A quei che seco
in Etruria adducea, tosto
provvisti
furo i cavalli. A lui venne in disparte
da tutti gli altri un
palafreno eletto,
di pelle di leon tutto coverto,
ch'i velli avea di
seta e l'ugna d'oro.
Per la piccola terra in un momento
si sparge il
grido ch'ai tirreni liti
ne va lo stuol de' cavalieri in fretta.
Le
madri, paventose, ai templi intorno
rinnovellano i vóti; e già per téma
piú vicino il periglio, e piú l'aspetto
sembra di Marte atroce. Evandro
il figlio
nel dipartir teneramente abbraccia;
né divelto da lui, né
sazio ancora
di lagrimar, gli dice: «O se da Giove
mi fosse, figlio, di
tornar concesso
ora in quegli anni e 'n quelle forze, ond'io
sotto
Preneste il primo incontro fei
co' miei nemici, e vincitore i monti
arsi
de' scudi, allor ch'Èrilo stesso,
lo stesso re con queste mani ancisi,
a
cui nascendo avea Feronia madre
date tre vite e tre corpi, e tre volte
(meraviglia a contarlo!) era mestiero
combatterlo e domarlo; ed io tre
volte
lo combattei, lo vinsi, e lo spogliai
d'armi e di vita; se tal,
dico, io fossi,
mai non sarei da te, figlio, diviso;
mai non fôra
Mezenzio oso d'opporsi
a questa barba; né per tal vicino
vedova
resterebbe or la mia terra
di tanti cittadini. O dii superni,
o de'
superni dii nume maggiore,
pietà d'un re servo e devoto a voi,
e d'un
padre che padre è sol d'un figlio
unicamente amato. E se da' fati,
se da
voi m'è Pallante preservato,
e s'io vivo or per rivederlo mai,
questa
mia vita preservate ancora
con quanti unqua soffrir potessi affanni.
Ma
se fortuna ad infortunio il tragge,
ch'io dir non oso, or or, prego, rompete
questa misera vita, or ch'è la téma,
or ch'è la speme del futuro
incerta,
e che te, figlio mio, mio sol diletto
e da me desïato in
braccio io tengo,
anzi ch'altra novella me ne venga,
che 'l cor pria che
gli orecchi mi percuota».
Cosí 'l padre ne l'ultima partita
disse al suo
figlio; e da l'ambascia vinto,
fu da' sergenti riportato a braccio.
A la
campagna i cavalieri intanto
erano usciti. Enea col fido Acate,
e co'
suoi primi era nel primo stuolo;
Pallante in mezzo risplendea ne l'armi
commesse d'oro, risplendea ne l'ostro
che l'arme avean per sopravesta
intorno;
ma via piú risplendea ne' suoi sembianti
ch'eran di fiero e di
leggiadro insieme.
Tale è quando Lucifero, il piú caro
lume di Citerea,
da l'Oceàno,
quasi da l'onde riforbito, estolle
il sacro volto, e l'aura
fosca inalba.
Stan le timide madri in su le mura
pallide attentamente
rimirando
quanto puon lunge il polveroso nembo
de l'armate caterve, e i
lustri e i lampi
che facean l'armi tra i virgulti e i dumi
lungo le vie.
Va per la schiera il grido
che si cavalchi; e lo squadron già mosso
al
calpitar de la ferrata torma
fa 'l campo risonar tremante e trito.
È
di Cere vicino, appo il gelato
suo fiume un sacro bosco antico e grande
d'ombrosi abeti, che da cavi colli
intorno è cinto, venerabil molto
e di gran lunge. È fama che i Pelasgi,
primi del Lazio occupatori
esterni,
a Silvan, dio de' campi e degli armenti,
consecrâr questa
selva, e con solenne
rito gli dedicâr la festa e 'l giorno.
Quinci poco
lontano era Tarconte
co' Tirreni accampato; e qui del campo
giunti a la
vista, là 've un alto colle
lo scopria tutto. Enea, co' primi suoi
fermossi, ove i cavalli e i corpi loro
già stanchi ebbero alfin posa e
ristoro.
Era Venere in ciel candida e bella
sovr'un etereo nembo
apparsa intanto
con l'armi di Volcano; e visto il figlio
ch'oltre al
gelido rio per erma valle
sen gia da gli altri solitario e scevro,
apertamente gli s'offerse, e disse:
«Eccoti 'l don che da me, figlio,
attendi,
di man del mio consorte. Or francamente
gli orgogliosi Laurenti
e 'l fiero Turno
sfida a battaglia, e gli combatti e vinci».
E, ciò
detto, l'abbraccia. Indi gli addita
d'armi quasi un trofeo, ch'appo una
quercia
dianzi da lei diposte, incontro agli occhi
facean barbaglio, e,
contro al sol, piú soli.
D'un tanto dono Enea, d'un tale onore
lieto,
e non sazio di vederlo, il mira,
l'ammira e 'l tratta. Or l'elmo in man si
prende
e l'orribil cimier contempla e 'l foco
che d'ogni parte avventa:
or vibra il brando
fatale; or ponsi la corazza avanti
di fino acciaio e
di gravoso pondo,
che di sanguigna luce e di colori
diversamente accesi
era splendente:
qual sembra di lontan cerulea nube,
arder col sole e
varïar col moto.
Brandisce l'asta; gli stinier vagheggia
nitidi e lievi,
che fregiati e fusi
son di fin oro e di forbito elettro.
Meravigliando
alfin sopra lo scudo
si ferma, e l'incredibile artificio
ond'era
intesto, e l'argomento esplora.
In questo di commesso e di rilievo
avea fatto de' fochi il gran maestro
(come de' vaticini e del futuro
presago anch'egli) con mirabil arte
le battaglie, i trionfi e i fatti
egregi
d'Italia, de' Romani e de la stirpe
che poi scese da lui; dal
figlio Ascanio
incominciando, i discendenti tutti
e le guerre che fêr di
mano in mano.
V'avea del Tebro in su la verde riva
finta la marzïal
nudrice lupa
in un antro accosciata, e i due gemelli
che da le poppe di
sí fiera madre
lascivetti pendean, senza paura
seco scherzando. Ed ella
umíle e blanda
stava col collo in giro, or l'uno or l'altro
con la
lingua forbendo e con la coda.
V'era poco lontan Roma novella
con una
pompa, e con un circo avanti
pien di tumulto, ov'era un'insolente
rapina
di donzelle, un darsi a l'arme
infra Romolo e Tazio, e Roma e Curi.
E
poscia infra gli stessi regi armati,
di Giove anzi a l'altare un tener tazze
invece d'armi in mano, un ferir d'ambe
le parti un porco, e far connubi
e pace.
Né di qui lunge, erano a quattro a quattro
giunti a due carri
otto destrier feroci,
che, qual Tullo imponea (stato non fossi
tu sí
mendace e traditore, Albano!)
in due parti traean di Mezio il corpo;
e
sí com'era tratto, i brani e 'l sangue
ne mostravan le siepi, i carri e 'l
suolo.
V'era, oltre a ciò, Porsenna, il tosco rege,
ch'imperiosamente da
l'esiglio
rivocava i Tarquini, e 'n duro assedio
ne tenea Roma, che del
giogo schiva
s'avventava nel ferro. Avea nel volto
scolpito questo re
sdegno e minacce,
e meraviglia, che sol Cocle osasse
tener il ponte; e
Clelia, una donzella,
varcar il Tebro e sciôr la patria e lei.
In cima
dello scudo il Campidoglio
era formato e la Tarpeia rupe,
e Manlio che
del tempio e de la ròcca
stava a difesa; e la romulea reggia
che 'l
comignolo avea di stoppia ancora.
Tra' portici dorati iva d'argento
l'ali sbattendo e schiamazzando un'oca,
ch'apria de' Galli il periglioso
agguato:
e i Galli per le macchie e per le balze
de l'erta ripa, da la
buia notte
difesi, quatti quatti erano in cima
già de la ròcca ascesi.
Avean le chiome,
avean le barbe d'oro: aveano i sai
di lucid'ostri
divisati a liste,
e d'òr monili ai bianchi colli avvolti.
Di forti
alpini dardi avea ciascuno
da la destra una coppia, e ne' pavesi
stavan
coi corpi rannicchiati e chiusi.
Quinci de' Salii e de' Luperci ignudi,
e de' greggi de' Flàmini scolpito
v'avea le tresche e i cantici e i
tripudi,
ed essi tutti o coi lor fiocchi in testa,
o con gli ancili e
con le tibie in mano:
cui le sacre carrette ivano appresso
coi santi
simulacri e con gli arredi,
che traean per le vie le madri in pompa.
E
piú lunge nel fondo era la bocca
de la tartarea tomba, e del gran Dite
la reggia aperta: ov'anco eran le pene
e i castighi degli empi. E quivi
appresso
stavi tu, scellerato Catilina,
sopra d'un ruinoso acuto scoglio
agli spaventi de le Furie esposto.
E scevri eran da questi i fortunati
luoghi de' buoni, a cui 'l buon Cato è duce.
Gonfiava in mezzo una
marina d'oro
con la spuma d'argento, e con delfini
d'argentino color,
che con le code
givan guizzando, e con le schiene in arco
gli aurati
flutti a loco a loco aprendo.
E i liti e 'l mare e 'l promontorio tutto
si vedea di Leucàte a l'azia pugna
star preparati; e d'una parte Augusto
sovra d'un'alta poppa aver d'intorno
Europa, Italia, Roma e i suoi
Quiriti,
e 'l senato e i Penati e i grandi iddii.
Di tre stelle il suo
volto era lucente.
Due ne facea con gli occhi, ed una sempre
del divo
padre ne portava in fronte.
Ne l'altro corno Agrippa era con lui
del
marittimo stuolo invitto duce,
ch'altero, e 'l capo alteramente adorno
de la rostrata sua naval corona,
i vènti e i numi avea fausti e secondi.
Da l'altra parte vincitore Antonio,
di vèr l'aurora e di vèr l'onde
rubre
barbari aiuti, esterne nazïoni
e diverse armi dal Cataio al Nilo
tutto avea seco l'Orïente addotto:
e la zingara moglie era con lui,
milizia infame. Ambe le parti mosse
se ne gian per urtarsi, e d'ambe il
mare
scisso da' remi e da' stridenti rostri
lacero si vedea, spumoso e
gonfio.
Prendean de l'alto i legni in tanta altezza,
che Cicladi con
Cicladi divelte
parean nel mar gir a 'ncontrarsi, o 'n terra
monti con
monti: da sí fatte moli
avventavan le genti e foco e ferro,
onde il mar
tutto era sanguigno e roggio.
Stava qual Isi la regina in mezzo
col
patrio sistro, e co' suoi cenni il moto
dava alla pugna; e non vedea
(meschina!)
quai due colúbri le venian da tergo.
L'abbaiatore Anúbi e i
mostri tutti,
ch'eran suoi dii, contra Nettuno e contra
Venere e Palla
armati eran con lei,
e Marte in mezzo, che nel campo d'oro
di ferro era
scolpito, or questi or quelli
a la zuffa infiammava: e l'empie Furie
co'
lor serpenti, la Discordia pazza
col suo squarciato ammanto, con la sferza
di sangue tinta la crudel Bellona
sgominavan le genti; e l'azio Apollo
saettava di sopra: agli cui strali
l'Egitto e gl'Indi e gli Arabi e i
Sabei
davan le spalle. E già chiamare i vènti,
scioglier le funi,
inalberar le vele
si vedea la regina a fuggir vòlta;
già del pallor de
la futura morte,
ond'era dal gran fabbro il volto aspersa,
in abbandono
a l'onde, e de la Puglia
ne giva al vento. Avea d'incontro il Nilo,
un
vasto corpo, che, smarrito e mesto,
a' vinti aperto il seno e steso il
manto,
i latebrosi suoi ridotti offriva.
Cesare v'era alfin che
trïonfando
tre volte in Roma entrava; e per trecento
gran templi a'
nostri dii vóti immortali
si vedean consecrati. Eran le strade
piene
tutte di plauso, di letizia,
e di feste e di giuochi. Ad ogni tempio
concorso di matrone; ad ogni altare
vittime, incensi e fiori. Egli di
Febo
anzi al delúbro in maestade assiso
riconoscea de' popoli i tributi,
e la candida soglia e le superbe
sue porte ne fregiava. Iva la pompa
de le genti da lui domate intanto
varie di gonne, d'idïomi e d'armi.
Qui di Nomadi e d'Afri era una schiera
in abito discinta; ivi un
drappello
di Lèlegi, di Cari e di Geloni
con archi e strali. Infin dai
liti estremi
i Mòrini condotti erano al giogo,
e gl'indomiti Dai. Con
meno orgoglio
giva l'Eufrate: ambe le corna fiacche
portava il Reno:
disdegnoso il ponte
nel dorso si scotea l'Armenio Arasse.
A tal, da
tanta madre avuto dono,
e d'un tanto maestro, Enea mirando,
benché il
velame del futuro occulte
gli tenesse le cose, ardire e speme
prese e
gioia a vederle; e de' nepoti
la gloria e i fati agli omeri
s'impose.
Libro
IX
Mentre
cosí de' suoi scevro e lontano,
Enea fa d'armi e di sussidi acquisto,
Giuno di concitar la furia e l'ira
di Turno unqua non resta. Erasi Turno
col pensier della guerra al sacro bosco
di Pilunno suo padre allor
ridotto,
che mandata da lei di Taümante
gli fu la figlia in cotal guisa
a dire:
«Ecco, quel che tu mai chiedere a lingua,
o 'mpetrar dagli
dèi, Turno, potessi,
per sé l'occasïon ti porge e 'l tempo.
Enea, mentre
dagli altri implora aíta,
le sue mura, i suoi legni e le sue genti
lascia ora a te, se tu 'l conosci, in preda.
Ei coi migliori al palatino
Evandro
se n'è passato, e quindi è ne l'estremo
penetrato d'Etruria. Ora
è nel campo
de' Toschi, e favvi indugio, ed arma agresti.
E tu qui badi
or che di carri e d'armi
e di prestezza è d'uopo? E che non prendi
i
suoi steccati che son or di tanto
per l'assenza di lui turbati e scemi?»
Poscia che cosí disse, alto su l'ali
la dea levossi; e tra l'opache nubi
per entro al suo grand'arco ascese e sparve.
Turno, che la conobbe,
ambe a le stelle
alza le palme; e nel fuggir con gli occhi
seguilla e
con la voce: «Iri, - dicendo, -
lume e fregio del cielo, e chi ti spiega
or da le nubi? E chi quaggiú ti manda?
Ond'è l'aër sí chiaro e sí
tranquillo
cosí repente? Io veggio aprirsi il cielo,
vagar le stelle. O
qual tu de' celesti
sii, ch'a l'armi m'inviti, io lieto accetto
un tanto
augurio, e lo gradisco e 'l seguo».
Cosí dicendo al fiume si rivolse;
n'attinse; se ne sparse; e preci e vóti
molte fïate al ciel porse e
riporse.
Eran già le sue genti a la campagna,
e de' cavalli il
condottier Messàpo
di ricca sopraveste ornato e d'oro
movea davanti. I
giovini di Tirro
tenean l'ultime squadre, e Turno in mezzo
con tutto il
capo a tutta la battaglia
sopravanzando, armato cavalcava
per
l'ordinanza. In cotal guisa i campi
primieramente inonda il Gange o 'l Nilo
con sette fiumi; indi ristretto e queto
correndo, entro al suo letto si
raccoglie.
Qui d'improvviso d'un oscuro nembo
di polve il ciel
ravvilupparsi i Teucri
scorgon da lunge, e 'ntorbidarsi i campi.
Caíco
il primo da l'avversa mole
gridando: «O, - disse, - cittadini, un gruppo
vèr noi di polverio ne l'aura ondeggia.
Ognuno a l'armi; ognun a la
muraglia:
ecco i nemici». Di ciò corre il grido
per tutta la città;
chiuggon le porte:
empion le mura. Tale avea, partendo,
dato il sagace
Enea precetto e norma,
ch'in caso di rottura, a campo aperto
senza lui
non s'ardisse o spiegar schiere
o far conflitto; e solo a la difesa
s'attendesse del cerchio. Ira e vergogna
gli animava a la zuffa: editto
e téma
gli ritenea del duce. Ond'entro armati
ne le torri, in su' merli
e ne' ripari
aspettaro i nemici. A lento passo
procedea l'ordinanza; e
Turno a volo
con venti eletti cavalieri avanti
si spinse e d'improvviso
appresentossi.
Cavalcava di Tracia un gran corsiero,
di bianche macchie
il vario tergo asperso,
e 'l suo dorato e luminoso elmetto
d'alto cimier
copria cresta vermiglia.
Qui fermo: «Chi di voi, giovini, - disse, -
meco sarà, contr'a' nemici il primo?»
E quel ch'era di pugna indizio e
segno,
l'asta a l'aura avventando, alteramente
trascorse il campo, ed
ingaggiò battaglia.
Con alte grida e con orribil voci
fremendo lo
seguiro i suoi compagni,
non senza meraviglia che sí vili
fossero i
Teucri a non osar del pari
uscirgli a fronte, non mostrarsi in campo,
ferir da lunge, e di muraglia armarsi.
Turno di qua di là turbato e
fiero
si spinge e scorre il piano, e cerchia il muro,
e d'entrar
s'argomenta ov'anche è chiuso.
Come rabbioso ed affamato lupo
al pieno
ovile insidïando, freme
la notte, al vento ed a la pioggia esposto;
quando sotto le madri i puri agnelli
belan securi, ed ei la fame e l'ira
incontro a lor che gli son lunge, accoglie;
cosí gli occhi di foco e 'l
cor di sdegno
il Rutulo infiammato, anelo e fiero
va de' nimici agli
steccati intorno,
ogni loco, ogni astuzia, ogni sentiero
lnvestigando,
onde o co' suoi vi salga
o lor ne sbuchi, e ne gli tiri al piano.
Alfin l'armata assaglie, ch'a' ripari
da l'un canto congiunta, entro un
canale
d'onde e d'argini cinta, era nascosta.
Qui foco esclama, e foco
di sua mano
con un ardente pino a' suoi seguaci
dispensa, e lor con la
presenza accende:
onde tosto e le faci e i legni appresi,
fumo, fiamme,
faville e vampi e nubi
e volumi di pece al ciel n'andaro.
Muse, ditene
or voi qual nume allora
scampò de' Teucri i legni, e come un tanto
de la
novella Troia incendio estinse.
Fama di tempo in tempo e prisca fede
n'avvera il fatto, e voi conto ne 'l fate.
Dicon che quando a navigar
costretto
Enea primieramente i suoi navili
a formar cominciò nel bosco
idèo:
d'Ida, di Berecinto e degli dèi
la madre, al sommo Giove orando,
disse:
«Figlio, che sei per me de l'universo
monarca eterno, a me tua
cara madre
fa quel ch'io chieggio, e tu mi devi, onore.
È nel Gàrgaro
giogo un bosco in cima
da me diletto, ed al mio nume additto
già di gran
tempo. Era d'abeti e d'aceri
e di pini e di peci ombroso e denso;
ma
quando de l'armata ebbe uopo in prima
il giovine troiano, al magistero
volentier de' suoi legni il concedei.
Quinci uscîr le sue navi; e come
figlie
di quella selva, a me son sacre e care
sí ch'or ne temo; e del
timor che n'aggio
priego che m'assicuri: e 'l priego mio
questo possa
appo te, che tanto puoi,
che né da corso mai, né da fortuna
sian di
vènti, o di flutti, o di tempeste
squassate o vinte: e lor vaglia che nate
son ne' miei monti». A cui Giove rispose:
«Madre, a che stringi i
fati? E qual, per cui
cerchi tu privilegio? A mortal cosa
farò dono
immortale? E mortal uomo
non sarà sottoposto a' rischi umani?
Ed a qual
degli dèi tanto è permesso?
Piú tosto allor che saran giunte al fine,
e
che in porto saranno, a quelle tutte
che, scampate da l'onde il teucro duce
avran ne' campi di Laurento esposto,
torrò la mortal forma, e dee
farolle,
che qual di Nèreo, e Doto, e Galatea
fendan coi petti e con le
braccia il mare».
Cosí detto, il torrente e la vorago
e la squallida
ripa e l'atra pece
d'Acheronte giurando, abbassò 'l ciglio,
e fe' tutto
tremar col cenno il mondo.
Or questo era quel dí, quest'era il fine
da
le Parche dovuto ai teucri legni:
onde la madre idèa contra l'oltraggio
si fe' di Turno, e gli sottrasse al foco.
Primieramente inusitata luce
balenando rifulse; indi un gran nembo
di coribanti per lo ciel trascorse
di vèr l'aurora; ed una voce udissi
ch'empié di meraviglia e di spavento
l'un esercito e l'altro: «O miei Troiani, -
dicendo, - non vi caglia a'
miei navili
porger soccorso; né perciò nel campo
uscite a rischio.
Arderà Turno il mare
pria che le sacre a me dilette navi,
e voi, mie
navi, itene sciolte: e dee
siate del mare. Io genitrice vostra
lo vi
comando». A questa voce, in quanto
udissi a pena, s'allentâr le funi
de'
lor ritegni; e di delfini in guisa
coi rostri si tuffaro. Indi sorgendo
(mirabil mostro!), quante a riva in prima
eran le navi, tanti di
donzelle
si vider per lo mar sereni aspetti.
Sgomentaronsi i Rutuli; e
Messapo
co' suoi cavalli attonito fermossi.
Il padre Tiberin roco
mugghiando
dal mar fuggissi. Né perciò di Turno
cessò l'audacia, anzi
via piú feroce,
gli altri esortando e riprendendo: «Ah, - disse, -
di
che temete? Incontro ai Teucri stessi
vengon questi prodigi; e loro ha Giove
de le lor forze esausti. Il ferro e 'l fuoco
non aspettan de' Rutuli:
han del mare
perduta e de la fuga ogni speranza.
Essi del mare infino a
qui son privi;
e la terra è per noi: tante son genti
d'Italia in arme.
Nè tem'io de' vanti
che de' lor vaticini e de' lor fati
da lor si dànno.
Assai de' fati, assai
è l'intento di Venere adempito,
che son nel Lazio.
E 'ncontro ai fati loro
son anco i miei, che tôr del Lazio io deggia,
anzi del mondo, questi scellerati
de l'altrui donne usurpatori e drudi:
ché non soli gli Atridi, e non sola Argo
n'han duolo e sdegno. Oh! basta
ch'una volta
ne son periti. Sí, se lor bastasse
d'aver in ciò sol una
volta errato.
Nuovo error; nuova pena. Or non aranno
omai quest'infelici
in odio affatto
le donne tutte, a tal di già condotti,
che non han de la
vita altra fidanza,
che questo poco e debile steccato
che da lor ne
divide? e tanto a pena
son lunge dal morir, quanto s'indugia
a varcar
questa fossa. In ciò riposto
han la speme e l'ardire. O non han visto
le
mura anco di Troia, che costrutte
fûr per man di Nettuno, a terra sparse
e 'n cenere converse? Ma chi meco
di voi, guerrieri eletti, è che
s'accinga
d'assalir queste mura e queste genti
già di paura offese? A me
lor contra
d'uopo non son né l'armi di Volcano,
né mille navi. E vengane
pur tutta
l'Etruria insieme. E non furtivamente
e non di notte, come
fanno i vili,
il Palladio involando, e de la ròcca
i custodi occidendo,
assalirogli;
né del cavallo ne l'oscuro ventre
m'appiatterò. Di giorno
apertamente
d'armi e di fuoco cingerogli in guisa,
ch'altro lor sembri
che garzoni e cerne
aver di Greci e di Pelasgi intorno,
di cui l'assedio
infino al decim'anno
Ettor sostenne. Or poscia che del giorno
s'è buona
parte insino a qui passata
felicemente, il resto che n'avanza
attendete
a posarvi, a ristorarvi,
a disporvi a l'assalto; e ne sperate
lieto
successo». Indi a Messapo incarco
si dà, che sentinelle e guardie e fochi
disponga anzi a le porte e 'ntorno al muro.
Ei sette e sette capitani
egregi,
Rutuli tutti, a quest'impresa elesse,
con cento che n'avea
ciascuno appresso
di purpurei cimieri ornati e d'oro.
Questi, le mute
varïando e l'ore,
scorrevano a vicenda; e 'ntorno a' fochi
desti in su
l'erba, infra le tazze e l'urne
traean la notte in gozzoviglie e 'n giuochi.
Stavano i Teucri il campo rimirando
da la muraglia; e per timore,
armati
visitavan le porte, e 'n su' ripari
facean bertesche e sferratoie
e ponti.
Era Memmo lor sopra e 'l buon Sergesto,
che fûr dal padre Enea
nel suo partire
a guerreggiar, se guerra si rompesse,
per condottieri e
per maestri eletti.
Già su le mura, ovunque o da periglio
o da la vece
eran disposti, ognuno
tenea il suo luogo. Un de' piú fieri in arme
Niso,
d'Irtaco il figlio, ad una porta
era preposto. Da le cacce d'Ida
venne
costui mandato al troian duce,
gran feritor di dardo e di saette.
Eurïalo era seco, un giovinetto
il piú bello, il piú gaio e 'l piú
leggiadro
che nel campo troiano arme vestisse;
ch'a pena avea la
rugiadosa guancia
del primo fior di gioventute aspersa.
Era tra questi
due solo un amore
ed un volere; e nel mestier de l'armi
l'un sempre era
con l'altro, ed ambi insieme
stavano allor vegghiando a la difesa
di
quella porta. Disse Niso in prima:
«Eurïalo, io non so se dio mi sforza
a seguir quel ch'io penso, o se 'l pensiero
stesso di noi fassi a noi
forza e dio.
Un desiderio ardente il cor m'invoglia
d'uscire a campo, e
far contr'a' nemici
un qualche degno e memorabil fatto:
sí di star pigro
e neghittoso aborro.
Tu vedi là come securi ed ebri
e sonnacchiosi i
Rutuli si stanno
con rari fochi e gran silenzio intorno.
L'occasione è
bella, ed io son fermo
di porla in uso: or in qual modo, ascolta.
Ascanio, i consiglieri e 'l popol tutto,
per richiamare Enea, per avvisarlo,
e per avvisi riportar da lui,
cercan messaggi. Io, quando a te promesso
premio ne sia (ch'a me la fama sola
basta del fatto), di poter m'affido
lungo a quel colle investigar sentiero,
onde a Pallanto a ritrovarlo io
vada
securamente». Eurïalo a tal dire
stupissi in prima; indi d'amore
acceso
di tanta lode, al suo diletto amico
cosí rispose: «Adunque ne
l'imprese
di momento e d'onore io da te, Niso,
son cosí rifiutato? E te
poss'io
lassar sí solo a sí gran rischio andare?
A me non diè questa
creanza Ofelte
mio genitore, il cui valor mostrossi
ne gli affanni di
Troia, e nel terrore
de l'argolica guerra. Ed io tal saggio
non t'ho
dato di me, teco seguendo
il duro fato e la fortuna avversa
del
magnanimo Enea. Questo mio core
è spregiatore, è spregiatore anch'egli
di questa vita, e degnamente spesa
la tiene allor che gloria se ne
merchi,
e quel che cerchi, ed a me nieghi, onore».
Soggiunse Niso:
«Altro di te concetto
non ebbi io mai, né tal sei tu ch'io deggia
averlo
in altra guisa. Cosí Giove
vittorïoso mi ti renda e lieto
da questa
impresa, o qual altro sia nume
che propizio e benigno ne si mostri.
Ma
se per caso o per destino avverso
(come sovente in questi rischi avvène)
io vi perissi, il mio contento in questo
è che tu viva, sí perché di
vita
son piú degni i tuoi giorni, e sí perch'io
aggia chi dopo me, se
non con l'arme,
almen con l'oro il mio corpo ricovre,
e lo ricuopra. E
s'ancor ciò m'è tolto,
alfin sia chi d'esequie e di sepolcro
lontan
m'onori. Oltre di ciò cagione
esser non deggio a tua madre infelice
d'un
dolor tanto: a tua madre che sola
di tante donne ha di seguirti osato,
i
comodi spregiando e la quïete
de la città d'Aceste». A ciò di nuovo
Eurïalo rispose: «Indarno adduci
sí vane scuse; ed io già fermo e saldo
nel proposito mio pensier non muto.
Affrettiamoci a l'impresa». E, cosí
detto,
destò le sentinelle, e le ripose
in vece loro; e l'uno e l'altro
insieme
se ne partiro, e ne la reggia andaro.
Tutti gli altri animali
avean, dormendo,
sovra la terra oblio, tregua e riposo
da le fatiche e
dagli affanni loro.
I Teucri condottieri e gli altri eletti,
che de la
guerra avean l'imperio e 'l carco,
s'erano e de la guerra e de la somma
di tutto 'l regno a consigliar ristretti:
e nel mezzo del campo altri
agli scudi,
altri a l'aste appoggiati, avean consulta
di che far si
dovesse, e chi per messo
ad Enea si mandasse. I due compagni
d'essere
ammessi e 'ncontinente uditi
fecer gran ressa e di portar sembiante
cosa
di gran momento e di gran danno
se s'indugiasse. A questa fretta, il primo
si fece Ascanio avanti, e, vòlto a Niso,
comandò che dicesse. Egli
altamente
parlando incominciò: «Troiani, udite
discretamente, e quel che
si propone
e si dice da noi, non misurate
da gli anni nostri. I Rutuli
sepolti
se ne stan da la crapula e dal sonno;
e noi stessi appostato
avemo un loco
da quella porta che riguarda al mare,
atto a le nostre
insidie, ove la strada
piú larga in due si parte. Intorno al campo
sono
i fochi interrotti; il fumo oscuro
sorge a le stelle. Se da voi n'è dato
d'usar questa fortuna, e quest'onore
ne si fa di mandarne al nostro
duce,
al Pallantèo n'andremo, e ne vedrete
assai tosto tornar carchi di
spoglie
de gli avversari nostri, e tutti aspersi
del sangue loro. E non
fia che la strada
ne gabbi, ché piú volte qui d'intorno
cacciando, avemo
e tutta questa valle
e tutto il fiume attraversato e scórso».
Qui
d'anni grave e di pensier maturo
Alete, al ciel rivolto: «O patrii dii, -
disse esclamando - il cui nome fu sempre
propizio a Troia, pur del tutto
spenta
non volete che sia mercé di voi,
poscia che questo ardire e
questi cori
ne' petti a' nostri giovini ponete».
E stringendo le man,
gli omeri e 'l collo
or de l'uno or de l'altro, ambi onorava,
di
dolcezza piangendo. «E qual, - dicea -
qual, generosi figli, a voi darassi
di voi degna mercede? Iddio, ch'è primo
degli uomini e supremo
guiderdone,
e la vostra virtú premio a se stessa
sia primamente. Enea
poscia useravvi
sua largitate, e questo giovinetto
che d'un tal vostro
merto avrà mai sempre
dolce ricordo». - «Anzi io, - soggiunse Iulo -
che
senza il padre mio la mia salute
veggio in periglio, per gli dèi Penati,
per la casa d'Assaraco, per quanto
dovete al sacro e venerabil nume
de la gran Vesta, ogni fortuna mia
ponendo, ogni mio affare in grembo a
voi,
vi prego a rivocare il padre mio.
Fate ch'io lo riveggia, e nulla
poi
sarà di ch'io piú tema. E già vi dono
due gran vasi d'argento, che
scolpiti
sono a figure; un de' piú ricchi arnesi
che del sacco d'Arisba
in preda avesse
il padre mio; due tripodi, due d'oro
maggior talenti, ed
un tazzone antico
de la sidonia Dido. E se n'è dato
tener d'Italia il
desïato regno,
e che preda sortirne unqua mi tocchi,
quello stesso
destrier, quelle stesse armi
guarnite d'oro, onde va Turno altero,
e
quel suo scudo, e quel cimier sanguigno
sottrarrò dalla sorte, e di già,
Niso,
gli ti consegno; e ti prometto in nome
del padre mio che
largiratti ancora
dodici fra mill'altri eletti corpi
di bellissime donne
e dodici altri
di giovini prigioni, e l'armi loro
con essi insieme, e di
Latino stesso
la regia villa. Or te, mio venerando
fanciullo, abbraccio,
a gli cui giorni i miei
van piú vicini. Io te con tutto il core
accetto
per compagno e per fratello
in ogni caso; e nulla o gloria o gioia
procurerommi in pace unqua od in guerra,
che non sii meco d'ogni mio
pensiero,
e d'ogni ben partecipe e consorte;
e ne le tue parole e ne'
tuoi fatti
somma speme avrò sempre e somma fede».
Eurïalo rispose: «O
fera o mite
che fortuna mi sia, non sarà mai
ch'io discordi da me: mai
non uguale
lo mio cor non vedrassi a questa impresa:
ma sopra agli altri
tuoi promessi doni
questo solo bram'io: la madre mia
che dal ceppo di
Prïamo è discesa,
e che per me seguire ha, la meschina
non pur di Troia
abbandonato il nido,
ma 'l ricovro d'Aceste, e la sua vita
stessa (a
tanti per me l'ha rischi esposta),
di questo mio periglio, qual che e' sia,
nulla ha notizia; ed io da lei mi parto
senza che la saluti e che la
veggia.
Per questa man, per questa notte io giuro,
signor, che né
vederla, né la pieta
soffrir de le sue lagrime non posso.
Tu questa
derelitta poverella
consola, te ne priego, e la sovvieni
in vece mia. Se
tu di ciò m'affidi,
andrò, con questa speme, ad ogni rischio
con piú
baldanza». Si commosser tutti
a tai parole, e lagrimaro i Teucri;
e piú
di tutti Ascanio, a cui sovvenne
de la pietà ch'ebbe suo padre al padre;
e disse al giovinetto: «Io mi ti lego
per fede a tutto ciò che la
grandezza
di questa impresa e 'l tuo valor richiede.
E perché mia sia la
tua madre, il nome
sol di Creusa, e null'altro, le manca.
Né di picciolo
merto è ch'un tal figlio
n'aggia prodotto; segua che che sia
di questo
fatto. Ed io per lo mio capo
ti giuro, per lo qual solea pur dianzi
giurar mio padre, ch'a la madre tua,
a tutta la tua stirpe si daranno
i doni stessi che serbar mi giova
pur a te nel felice tuo ritorno».
Cosí disse piangendo; e la sua spada,
che di man di Licàone guarnito
avea d'avorio il fodro, e l'else d'oro,
distaccossi dal fianco, e lui ne
cinse.
Memmo al tergo di Niso un tergo impose
di villoso leone; e 'l
fido Alete
gli scambiò l'elmo. Cosí tosto armati
se n'uscîr da la
reggia; e i primi tutti,
giovini e vecchi, in vece d'onoranza
fino a la
porta con preconi e vóti
gli accompagnaro. Il giovinetto Iulo
con viril
cura e con pensier maturi
innanzi agli anni, ragionando in mezzo
giva
d'entrambi: ed or l'uno ed or l'altro
molto avvertendo, molte cose a dire
mandava al padre: le quai tutte al vento
furon commesse, e dissipate a
l'aura.
Escono alfine. E già varcato il fosso,
da le notturne tenebre
coverti,
si metton per la via che gli conduce
al campo de' nemici, anzi
a la morte.
Ma non morranno, che macello e strage
faran di molti in
prima. Ovunque vanno
veggion corpi di genti, che sepolti
son dal sonno e
dal vino. In carri vòti
con ruote e briglie intorno, uomini ed otri
e
tazze e scudi in un miscuglio avvolti.
Disse d'Irtaco il figlio: «Or qui
bisogna,
Eurïalo, aver core, oprar le mani,
e conoscere il tempo. Il
cammin nostro
è per di qua. Tu qui ti ferma, e l'occhio
gira per tutto,
che non sia da tergo
chi n'impedisca; ed io tosto col ferro
sgombrerò 'l
passo, e t'aprirò 'l sentiero».
Ciò cheto disse. Indi Rannete assalse,
il superbo Rannete, che per sorte
entro una sua trabacca avanti a lui
in su' tappeti a grand'agio dormia
e russava altamente. Era costui
al re Turno gratissimo, ed anch'egli
rege e 'ndovino; ma non seppe il
folle
indovinar quel ch'a lui stesso avvenne.
Tre suoi famigli, che
dormendo appresso
giacean fra l'armi rovesciati a caso,
tutti in un
mucchio uccise, ed un valletto
ch'era di Remo, e sotto i suoi cavalli
lo
stesso auriga. A costui trasse un colpo
che gli mandò giú ciondoloni il
collo:
indi al padron di netto lo recise
sí, che 'l sangue spicciando
d'ogni vena,
la terra, lo stramazzo e 'l desco intrise.
Tàmiro estinse
dopo questi e Lamo,
e 'l giovine Serrano. Un bel garzone
era costui,
gran giocatore, e 'n gioco
insino ad ora avea sempre vegliato.
Felice
lui per lo suo vizio stesso,
se giocato e perduto ancora avesse
tutta la
notte! Era a veder tra loro
il fiero Niso, qual da fame spinto
non
pasciuto leone un pieno ovile
imbelle e per timor già muto assaglie,
che
d'unghie armato, e sanguinoso il dente
traendo e divorando ancide e rugge.
Né fe' strage minor da l'altro canto
Eurïalo, ch'acceso e furïoso
tra molta plebe molti senza nome
e quasi senza vita a morte trasse;
sí dal sonno eran vinti: e de' nomati
occise Ebèso, Fabo, Àbari e Reto.
Questo Reto era desto: onde veggendo
con la morte degli altri il suo
periglio,
per la paura appo d'un'urna ascoso
quatto e queto si stava.
Indi sorgendo
gli fu 'l giovine sopra, e 'l ferro tutto
entro al petto
gl'immerse, e con gran parte
de la sua vita indietro lo ritrasse;
sí che
tra 'l vino e 'l sangue ond'era involta,
gli uscí l'alma di purpura vestita.
Con questa occisïon di buia notte
e di furtivo agguato il buon garzone
fervidamente instava. E già rivolto
s'era contro a la schiera di Messapo
là 've 'l foco vedea del tutto estinto,
e là 've i suoi cavalli a la
campagna
pascean legati, allor che Niso il vide
che da l'occisïone e da
l'ardore
trasportar si lasciava. E brevemente:
«Non piú, - gli disse -
ché 'l nimico sole
ne sorge incontra. Assai di sangue ostile
fin qui s'è
sparso: assai di largo avemo».
Molt'armi, molt'argenti e molt'arnesi
lasciaro indietro. I guarnimenti soli
del caval di Rannete e le sue
borchie
Eurïalo si prese, con un cinto
bollato d'oro, un prezïoso dono
che Cèdico, un ricchissimo tiranno,
a Rèmolo tiburte ospite assente
fece in quel tempo. Rèmolo al nipote
lo lasciò per retaggio e questi in
guerra
ne fu poscia da' Rutuli spogliato;
quinci gli ebbe Rannete, e
quinci preda
fûr d'Eurïalo al fine. Egli gravonne
i forti omeri indarno.
Appresso in campo
s'adattò di Messapo un lucid'elmo
d'alto cimiero
adorno: e 'n questa guisa
se ne partian vittorïosi e salvi.
Intanto di
Laurento eran le schiere
uscite a campo, e i lor cavalli avanti
precorrean l'ordinanza, ed al re Turno
ne portavano avviso. Eran
trecento
tutti di scudo armati; e capo e guida
n'era Volscente. Già
vicini al campo
scorgean le mura; quando fuor di strada
videro da man
manca i due compagni
tener sentiero obliquo. Era un barlume
là 'v'era
l'ombra; e là 'v'era la luna,
a gli avversi suoi raggi la celata
del
male accorto Eurïalo rifulse.
Di cotal vista insospettí Volscente,
e
gridò da la squadra: «Olà, fermate.
chi viva? A che venite? Ove n'andate?
Chi siete voi?» La lor risposta incontro
fu sol di porsi in fuga, e
prevalersi
de la selva e del buio. I cavalieri
ratto chi qua chi là
corsero a' passi,
circondarono il bosco; ad ogni uscita
posero assedio.
Era la selva un'ampia
macchia d'elci e di pruni orrida e folta,
ch'avea
rari i sentieri, occulti e stretti.
E gl'intrichi de' rami e de la preda
ch'era pur grave, e 'l dubbio de la strada
tenean sovente Eurïalo
impedito.
Niso disciolto e lieve, e del compagno
non s'accorgendo ch'era
indietro assai,
oltre si spinse. E già fuor de' nemici
era ne' campi che
dal nome d'Alba
si son poi detti Albani. Allor le razze
e le stalle
v'avea de' suoi cavalli
il re Latino. E qui poscia ch'un poco
ebbe il
suo caro amico indarno atteso,
gridando: «Ah! - disse - Eurïalo infelice,
u' sei rimaso? U' piú (lasso!) ti trovo
per questo labirinto?» E tosto
indietro
rivolto, per le vie, per l'orme stesse
di tornar ricercando, si
rimbosca.
Erra pria lungamente, e nulla sente;
poscia sente di trombe e
di cavalli
e di voci un tumulto; e vede appresso
Eurïalo fra mezzo a
quelle genti,
qual cacciato leone. E già dal loco
e da la notte oppresso
si travaglia,
e si difende il poverello invano.
Che farà? Con che forze,
e con qual armi
fia che lo scampi? Avventerassi in mezzo
de' nimici a
morir morte onorata?
Cosí risolve, e prestamente un dardo
s'adatta in
mano; e vòlto in vèr la luna,
ch'allora alto splendea, cosí la prega:
«Tu, dea, tu de la notte eterno lume,
tu, regina de' boschi, in tanto
rischio
ne porgi aíta. E s'Irtaco mio padre
per me de le sue cacce, io
de le mie
il dritto unqua t'offrimmo; e se t'appesi,
e se t'affissi mai
teschio né spoglia
di fera belva, or mi concedi ch'io
questa gente
scompigli, e la mia mano
reggi e i miei colpi». E ciò dicendo, il dardo
vibrò di tutta forza. Egli volando
fendé la notte, e giunse ove a
rincontro
era Sulmone, e l'investí nel tergo
là 've pendea la targa; e
'l ferro e l'asta
passogli al petto, e gli trafisse il core.
Cadde
freddo il meschino; e, con un caldo
fiume di sangue, che gli uscio davanti,
finí la vita, e con singhiozzo il fiato.
Guardansi l'uno a l'altro; e
tutti insieme
miran d'intorno di stupor confusi
e di timor d'insidie. E
Niso intanto
via piú si studia; ed ecco un altro fiero
colpo, ch'avea di
già librato, e dritto
di sopra gli si spicca da l'orecchio,
e per l'aura
ronzando in una tempia
si conficca di Tago, e passa a l'altra.
Volscente, acceso d'ira, non veggendo
con chi sfogarla, al giovine
rivolto:
«Tu me ne pagherai per ambi il fio» -
disse, e strinse la
spada, e vèr lui corse.
Niso a tal vista spaventato, e fuori
uscito de
l'agguato e di se stesso
(che soffrir non poteo tanto dolore):
«Me, me,
- gridò - me, Rutuli, uccidete.
io son che 'l feci, io son che questa froda
ho prima ordito. In me l'armi volgete;
ché nulla ha contro a voi questo
meschino
osato, né potuto. Io lo vi giuro
per lo ciel che n'è conscio e
per le stelle,
questo tanto di mal solo ha commesso,
che troppo amato ha
l'infelice amico».
Mentre cosí dicea, Volscente il colpo
già con gran
forza spinto, il bianco petto
del giovine trafisse. E già morendo
Eurïalo cadea, di sangue asperso
le belle membra, e rovesciato il collo,
qual reciso dal vomero languisce
purpureo fiore, o di rugiada pregno
papavero ch'a terra il capo inchina.
In mezzo de lo stuol Niso si
scaglia
solo a Volscente, solo contra lui
pon la sua mira. I cavalier
che intorno
stavano a sua difesa, or quinci or quindi
lo tenevano a
dietro. Ed ei pur sempre
addosso a lui la sua fulminea spada
rotava a
cerco. E si fe' largo in tanto
ch'al fin lo giunse; e mentre che gridava,
cacciogli il ferro ne la strozza, e spinse.
Cosí non morse, che si vide
avanti
morto il nimico. Indi da cento lance
trafitto addosso a lui, per
cui moriva,
gittossi; e sopra lui contento giacque.
Fortunati ambidue!
Se i versi miei
tanto han di forza, né per morte mai,
né per tempo sarà
che 'l valor vostro
glorïoso non sia, finché la stirpe
d'Enea possederà
del Campidoglio
l'immobil sasso, e finché impero e lingua
avrà l'invitta
e fortunata Roma.
I Rutuli con l'armi e con le spoglie
dei due
compagni uccisi, il morto corpo
al campo ne portâr del duce loro.
Lagrimosa vittoria! E non meno anco
fu nel campo di lagrime e di lutto,
allor che di Rannete e di Serrano
e di Numa la strage si scoverse,
e
di tant'altri ch'eran morti in prima.
Corse ognuno a veder; ché parte
spenti,
parte eran mezzi vivi; e caldo e pieno
e spumante di sangue era
anco il suolo
ove giacean quegl'infelici estinti.
Riconobber tra lor le
spoglie e l'elmo
e 'l cimier di Messapo, e i guarnimenti
che con tanto
sudor ricoverati
s'erano a pena. Era vermiglio e rancio
fatto già de la
notte il nero ammanto,
lasciando di Titon l'Aurora il letto;
e comparso
era il sole, e discoverto
già 'l mondo tutto, allor che Turno armato
a
l'arme, a l'ordinanza, a la battaglia
concitò 'l campo; e diede ordine e
loco
ciascuno a' suoi. Vendetta, ira e disio
d'assalir, di combatter, di
far sangue
vedeansi in tutti. A due grand'aste in cima
conficcaron le
teste (orribil mostra!)
d'Eurïalo e di Niso, e con le grida
ne fêro onta
e spettacolo a' nemici.
I Teucri arditamente in su le mura
da la
sinistra incontra si mostraro;
ché la destra dal fiume era difesa.
E chi
da le trincee, chi da le torri
stavan dolenti rimirando i teschi
ne
l'aste affissi, polverosi e lordi,
ch'ancor sangue gocciando eran pur troppo
cosí lunge da' miseri compagni
raffigurati a le fattezze conte.
Spiegò la Fama le sue penne intanto,
e la trista novella in ogni parte
sparse per la città, sí ch'agli orecchi
de la madre d'Eurïalo pervenne.
Corse subitamente un gel per l'ossa
a la meschina; e da le man le usciro
le sue tele e i suoi fili. Indi, rapita
dal duolo e da la furia,
forsennata
e scapigliata ne la strada uscio;
e per mezzo de l'armi e de
le genti
correndo, e mugolando, senza téma
di periglio e di biasmo, andò
gridando,
e di questi lamenti il cielo empiendo:
«Ahi, cosí concio,
Eurïalo, mi torni?
Eurïalo, sei tu? Tu sei 'l mio figlio,
ch'eri la mia
speranza e 'l mio riposo
ne l'estreme giornate di mia vita?
Ahi! come
cosí sola mi lasciasti,
crudele? E come a cosí gran periglio
n'andasti,
anzi a la morte, che tua madre
non ti parlasse, ohimè! l'ultima volta,
né che pur ti vedesse? Ah! ch'or ti veggio
in peregrina terra esca di
cani,
d'avoltoi e di corvi. Ed io tua madre,
io cui l'esequie eran
dovute e 'l duolo
d'un cotal figlio, non t'ho chiusi gli occhi,
né
lavate le piaghe, né coperte
con quella veste che con tanto studio
t'ho
per trastullo de la mia vecchiezza
tessuta io stessa e ricamata invano.
Figlio, dove ti cerco? ove ti trovo
sí diviso da te? come raccozzo
le tue cosí sbranate e sparse membra?
Sol questa parte del tuo corpo
rendi
a la tua madre, che per esser teco
t'ha per terra e per mar tanto
seguito,
e seguiratti dopo morte ancora?
In me, Rutuli, in me tutti
volgete
i vostri ferri, se pur regna in voi
pietade alcuna. A me la
morte date
pria ch'a null'altro. O tu, padre celeste,
miserere di me. Tu
col tuo tèlo
mi trabocca nel Tartaro e m'ancidi,
poiché romper non posso
in altra guisa
questa crudele e disperata vita».
Da questo pianto una
mestizia, un duolo
nacque ne' Teucri, e tale anco ne l'armi
un languore,
un timore, una desidia,
che grami, addolorati e di già vinti
sembravan
tutti. Onde Àttore ed ldèo
con quel di lei togliendo il pianto altrui,
per consiglio del saggio Ilïonèo
e per compassïon del buono Iulo
che
molto amaramente ne piangea,
tosto a braccia prendendola, ambedue
la
portaro a l'albergo. Ed ecco intanto
squillar s'ode da lunge un suon di
trombe,
un dare a l'arme ed un gridar di genti
tal, che ne tuona e ne
rimugghia il cielo.
E veggonsi in un tempo i Volsci tutti,
sotto pavesi
consertati e stretti
in guisa di testuggine, appressarsi,
empier le
fosse, dirupare il vallo,
e tentar la salita, e por le scale
là dove la
muraglia era di sopra
con minor guardia, e là 've raro il cerchio
tralucea de la gente. Incontro a loro
i Teucri i sassi, i travi ed ogni
tèlo
avventaron dal muro; e con le picche
risospingendo, come il lungo
assedio
insegnò lor di Troia, a la difesa
si fermâr de' ripari; e le
pareti
e i pilastri e le torri addosso a loro
e sopra la testuggine
gittando,
gli scudi dissiparono e le genti,
sí che piú di combattere al
coverto
non si curaro. Ma d'ogni arme un nembo
lanciando a la scoperta,
i bastïoni
offendean de' Troiani. E d'una parte
Mezenzio, formidabile a
vedere,
sen gia con un gran pino acceso in mano
lo steccato infocando.
Iva da l'altro
il fier Messapo di Nettuno il figlio,
domator de'
corsieri; e scisso il vallo:
- «Scale, scale!» - gridava, e per lo muro
rampicando saliva. Or qui m'è d'uopo,
Callïope, il tuo canto a dir le
pruove,
a dir l'occisïon che di sua mano
fece Turno in quel dí; chi,
quali e quanti
a l'Orco ne mandasse. Ogni successo
spiega di questa
guerra in queste carte.
Tutto a voi, Muse, è conto; e voi la possa
e
l'arte avete di contarlo altrui.
Era una torre di sublime altezza
con
bertesche e con ponti un sopra l'altro,
loco opportuno. A questa eran
d'intorno
di fuor gl'Italïani, e dentro i Teucri;
e quei facean per
espugnarla ogni opra,
e questi per tenerla. Avanti a tutti
si spinse
Turno; ed una face ardente
lanciovvi da l'un fianco, ove s'apprese
con
molta fiamma; cosí fiero il vento,
cosí secchi e disposti erano i legni.
Ardea la torre da quel canto, e dentro
la gente per timor cercava
indarno
di ritrarsi dal foco: onde a la parte
da l'incendio remota in un
sol mucchio
si ristrinsero insieme; e da quel peso
da quel lato in un
súbito la torre
quasi spinta inchinossi, aprissi e cadde.
Il ciel ne
rintonò; la gente infranta,
storpiata, sfracellata, infra i suoi legni
da l'armi proprie infissa, e fin ne l'aura
morta e sepolta a terra se ne
venne.
Soli due vivi e per ventura intatti
dal nembo de la polvere, e
dal fumo
uscîr nel campo: Elènore fu l'uno,
Lico fu l'altro; Elènore, un
garzone
di prima barba, a militar mandato
furtivamente. E' si trovò
com'era
pria ne la terra lievemente armato
col brando ignudo e con la
targa al collo
bianca del tutto, come non dipinta
d'alcun suo fatto
glorïoso ancora.
Questi, vistosi in mezzo a tante genti
di Turno e de'
Latini, come fera
ch'aggia di cacciatori un cerchio intorno,
muove
contra agli spiedi, incontr'a l'armi;
mosse là 've piú folte eran le
schiere,
e certo di morire a morte corse.
Ma Lico in su le gambe assai
piú destro
infra l'armi e i nimici a fuggir vòlto,
giunse a le mura ed
aggrappossi in guisa
che stendea già le mani a' suoi compagni;
quando
Turno e co' piedi e con la spada
lo sopraggiunse, e come vincitore
rampognando gli disse: «E che? pensasti,
folle, uscirmi di mano?» E le
man tosto
gli pose addosso, e sí come dal muro
pendea, col muro insieme
a terra il trasse.
In quella guisa che gli adunchi ugnoni
contra una
lepre, o contra un bianco cigno
stende l'augel di Giove, o 'l marzio lupo
da le reti rapisce un agnelletto,
che da la madre sia belato invano.
Si rinnovâr le grida, e tutti insieme
o le faci avventando, o 'l fosso
empiendo,
rinforzavan l'assalto. Ilïonèo
con un pezzo di monte, a cui la
pinta
diè giú da' merli, sopra al ponte infranse
Lutezio ch'a la porta
era col foco.
Ligero occise Emazïone; Asila
uccise Corinèo, buon
feritori
l'uno di dardo, e l'altro di saette.
Ortigio da Cenèo trafitto
giacque:
Cenèo da Turno: ammazzò Turno ancora
Iti e Pròmolo e Clònio e
Dïosippo,
e Sàgari con Ida: Ida che in alto
stava d'un torrïone a la
difesa.
Capi ancise Priverno. Avea costui
pria nel fianco una picciola
ferita,
anzi una graffiatura, che passando
fe' l'asta di Temilla: e il
male accorto,
per su porvi la mano, abbandonato
avea lo scudo; quando
ecco volando
venne una freccia che la mano e 'l fianco
insieme gli
confisse; e via passando
penetrogli al polmone. Il mortal colpo
sí lo
spirar de l'anima gli tolse,
che non mai piú spirò. Stavasi Arcente,
d'Arcente il figlio, in su' ripari ardito
egregiamente armato, e sopra
l'arme
d'una purpurea cotta era addobbato
di ferrigno color, di drappo
ibèro;
un giovine leggiadro, che dal padre
fu nel bosco di Marte a
l'armi avvezzo
lungo al Simeto, u' l'ara di Palico
tinta non come pria
di sangue umano,
piú pingue e piú placabile si mostra.
Mezenzio il vide:
e l'altre armi deposte,
prese la fromba, e con tre giri intorno
se
l'avvolse a la testa. Indi scoppiando
allentò 'l piombo, che dal moto acceso
squagliossi, e con gran rombo in una tempia
il garzon percotendo, ne
l'arena
morto, quanto era lungo, lo distese.
Ascanio che fin qui solo
a la caccia
avea l'arco adoprato, or primamente
oprollo in guerra, e col
primiero colpo
il feroce Numano a terra stese.
Rèmolo era costui per
soprannome
chiamato; e poco avanti avea per moglie
presa di Turno una
minor sorella.
Ei di questo favor, di questo nuovo
suo regno
insuperbito, altero e gonfio
stava ne l'antiguardia, e con le grida
si
ringrandiva: e di lontano i Teucri
schernendo, in cotal guisa alto dicea:
«Questo è l'onor che voi, Frigi, vi fate
d'un altro assedio? un'altra
volta in gabbia
vi riponete; e pur col vostro muro,
e coi vostri ripari
or da la morte
vi riparate? E voi, voi fate guerra
per usurpare a noi le
donne nostre?
Qual dio, qual infortunio, qual follia
v'ha condotti in
Italia? e chi pensaste
di trovar qui? quei profumati Atridi,
o 'l ben
parlante Ulisse? In una gente
avete dato che da stirpe è dura.
I nostri
figli non son nati a pena,
che si tuffan ne' fiumi. A l'onde al gelo
noi
gl'induriamo e gl'incallimo in prima;
poscia per le montagne e per le selve
fanciulli se ne van la notte e 'l giorno.
Il lor studio è la caccia; e
'l lor diletto
è 'l cavalcare, e 'l trar di fromba e d'arco.
La gioventú
ne le fatiche avvezza,
e contenta del poco, o col bidente
doma la terra,
o con l'aratro i buoi,
o col ferro i nemici. Il ferro sempre
avemo per
le mani. Una sol'asta
ne fa picca e pungetto. A noi vecchiezza
non
toglie ardire, e de le forze ancora
non ci fa, come voi, debili e scemi.
Per canute che sian le nostre teste,
veston celate, e nuove prede
ognora,
quando da' boschi e quando da' nemici,
addur ne giova, e viver
di rapina.
Voi con l'ostro e co' fregi e co' ricami,
con le cotte a
divisa e con le giubbe
immanicate e coi fiocchetti in testa,
a che
valete? A gir cosí dipinti
e cosí neghittosi? A far balletti
da
donnicciuole? O Frigi, o Frigïesse
piú tosto! In questa guisa si guerreggia?
Via ne' Dindimi monti, ove la piva
vi chiama e 'l tamburino e 'l
zufoletto;
e con quei vostri galli, anzi galline
di Berecinto, ite
saltando in tresca;
e l'armi e 'l ferro, che non fan per voi,
lasciate a
quei che son prodi e guerrieri».
Non poté tanto orgoglio e tanto oltraggio
soffrir d'un folle il generoso Iulo,
e teso l'arco con la cocca al
nervo,
rimirò 'l cielo e disse: «Onnipotente
Giove, tu l'ardir mio, tu
la mia mano
fomenta e reggi, ed io sacri e solenni
ti farò doni: io
condurrotti a l'ara
un candido giovenco che la fronte
aggia indorata, e
de la madre al pari
erga la testa, e già scherzi e già cozzi
con le
corna, e co' piè sparga l'arena».
Giove, mentre dicea, tonò dal manco
sereno lato: e col suo tuono insieme
scoccò l'arco mortifero di Iulo.
Volò l'orribil tèlo, e per le tempie
di Rèmolo passando, le trafisse.
«Or va', t'insuperbisci: or va', deridi,
scempio, l'altrui virtú. Queste
risposte
mandano i Frigi che son chiusi in gabbia
ai Rutuli signor de la
campagna».
Questo sol disse Ascanio; ed al suo colpo
le grida i Teucri e
gli animi in un tempo
al cielo alzaro. Era il crinito Apollo,
quando ciò
fu, ne la celeste piaggia
sovra una nube assiso; e d'alto il campo
scorgendo de' Troiani e degli Ausoni,
come vede ogni cosa, visto il
colpo
del vincitore arciero, in vèr lui disse:
«Ahi, buon fanciullo, in
cui vertú s'avanza!
cosí vassi a le stelle. Or ben tu mostri
che dagli
dii sei nato, e ch'altri dii
nasceranno da te. Tu sei ben degno
ch'ogni
guerra, che 'l fato ancor minacci
a la casa d'Assaraco, s'acqueti
per
tua grandezza, a cui Troia è minore,
sí che già non ti cape». E, cosí detto,
si fendé l'aura avanti e vèr la terra
calossi, trasmutossi, e come fusse
il vecchio Bute, al giovine accostossi.
Fu Bute in prima del dardanio
Anchise
valletto d'arme e cameriero e paggio,
e poscia per custode e per
compagno
l'ebbe Ascanio dal padre. A questo vecchio
mostrossi Apollo di
color, di voce,
d'andar, di canutezza e d'armatura
simile in tutto; ed a
l'ardente Iulo
fatto vicino, in tal guisa gli disse:
«Bàstiti aver,
d'Enea preclaro figlio,
senza alcun rischio tuo Numano ucciso.
Di questa
prima lode il grande Apollo
ti privilegia, e non t'invidia il colpo,
né
'l paraggio de l'arco. Or da la pugna
ritraggiti». E, ciò detto, da la vista
de' circostanti si ritrasse anch'egli,
e sormontando dissipossi e
sparve.
Rassembrarono in Bute i Teucri Apollo
e riconobber la faretra e
l'arco,
che fuggendo sonar anco s'udiro.
E fêr sí con le preci e col
precetto
d'un tanto iddio, ch'Ascanio, ancor che vago
fosse di pugna, se
ne tolse alfine;
ed essi apertamente a ripentaglio
misero in vece sua le
vite loro.
Spargesi un grido per le mura intanto,
per tutte le difese;
e tutti agli archi,
tutti a tirar, tutti a lanciar si diêro
d'ogni sorte
arme, e d'ogni parte il suolo
n'era coverto; quando altro conflitto
cominciossi di scudi e di celate;
una mischia di picche, una battaglia
che crescea, tuttavolta, rinforzando
con quella furia che di pioggia un
nembo
vien da l'occaso, allor che d'orïente
fan sorgendo i Capretti a
noi tempesta:
o quando orrido e torbo e d'austri cinto
e 'n grandine
converso irato Giove,
d'alto precipitando, si devolve
sopra la terra, e
'l ciel rompendo intuona.
Pàndaro e Bizia d'Alcanòro idèo,
e d'Iëra
salvatica sua moglie
figli, in Ida acquistati, e d'Ida usciti
l'uno a
l'altro simíle, ed ambidue
a quegli abeti ed a quei monti uguali
ond'eran nati, avean dal teucro duce
una porta in custodia. E confidati
ne le forze e ne l'armi, a bello studio
la lasciarono aperta, ed a'
nemici
fêr da le mura marzïale invito:
essi armati di ferro, un da la
destra,
l'altro da la sinistra, a due pilastri
sembianti, anzi a due
torri che nel mezzo
tengan la porta, con le teste in alto
e co' raggi
degli elmi i campi intorno
folgorando, squassavano i cimieri
fin sovr'a'
merli. In cotal guisa nate
ne le ripe si veggon di Liquezio,
de l'Adige,
o del Po due querce altiere
sorgere al cielo e sventolarsi a l'aura.
Visto l'adito aperto, incontinente
vi si spinsero i Rutuli. E Quercente
ed Equícolo, i primi armati e fieri,
l'ardito Omàro e 'l bellicoso Emone
tutti co' lor compagni impeto fêro;
e tutti o fûr da' Teucri in fuga
vòlti,
o ne l'entrar di quella porta ancisi.
Giunto agli animi infesti
il sangue sparso,
s'accrebber l'ire e de' Troiani intanto
tale un numero
altronde vi concorse,
che prender zuffa e tener campo osaro.
Turno
sfogava il suo furore altrove
contr'a nemici; quando un messo avanti
gli
comparve dicendo, che di Troia
erano usciti, e stavan con le porte,
quanto eran larghe, a far strage e macello,
de le sue genti. Ei tosto da
quel canto
lasciò l'impresa; e contra i due fratelli
a la dardania porta
irato accorse.
E primamente Antífate, che primo
gli venne avanti, un
giovine bastardo
di Sarpedonte e di tebana madre,
con un colpo di dardo
a terra stese.
Colpillo ne lo stomaco, e passolli
oltre al polmone, onde
di caldo sangue,
quasi d'un antro, dilagossi un fonte.
Mèrope, Afidno ed
Erimanto appresso
uccise con la spada, un dopo l'altro
come a caso
incontrogli. Atterrò Bizia
dopo costoro, ma non già col dardo,
e men col
brando; ch'altro colpo er'uopo
a sí gran corpo. A costui, mentre infuria,
mentre stizza per gli occhi avventa e foco,
infuocato, impiombato e
grave un tèlo
scaricò di falarica, che in guisa
di fulmine stridendo e
percotendo
lo giunse sí che né lo scudo avvolto
di due bovine terga, né
la fida
lorica di due squame e d'or contesta
non lo sostenne.
Barcollando cadde
la smisurata mole, e tal diè crollo
che 'l terren se
ne scosse, e 'l gran suo scudo
gli tonò sopra. In tal guisa di Baia
su
l'eüboica riva il grave sasso,
ch'è sopra l'onde a fermar l'opre eretto,
da l'alto ordigno ov'era dianzi appreso,
si spicca e piomba, e fin ne
l'imo fondo
ruinando si tuffa, e frange il mare,
e disperge l'arena:
onde ne trema
Procida ed Ischia, e il gran Tifèo se n'ange,
cui sí duro
covile ha Giove imposto.
Qui Marte il suo potere e 'l suo favore
volse
verso i Latini. Animi e forze
aggiunse loro, gl'incitò, gli accese;
e di
téma e di fuga e di scompiglio
diè cagione a' Troiani. E già ch'a pugna
s'era venuto, e de la pugna il nume
era con loro; accolti d'ogni parte
si ristringono i Rutuli, e fan testa.
Pàndaro, poi che 'l suo fratello
estinto
si vide avanti, e la fortuna avversa,
a la porta con gli omeri
appuntossi;
e sí com'era poderoso e grande,
con molta forza la rispinse
e chiuse,
molti esclusi de' suoi, che per la fretta
rimaser ne le peste;
e molti inclusi
ch'eran nimici: e non s'avvide il folle,
che de' nimici
in quella calca ancora
era lo stesso re da lui raccolto
a far de' suoi,
qual tra le greggi imbelli
ircana tigre immane. Ei non piú tosto
fu
dentro, che raggiò dagli occhi un lume
spaventevole e fiero; e l'armi sue
fieramente sonaro. Il suo cimiero
ne l'aura ondeggiò sangue, e dal suo
scudo
uscîr folgori e lampi. Incontinente
la sua faccia odïata e 'l suo
gran fusto
raffigurando i Teucri si turbaro.
Pàndaro allor de la
fraterna morte
fervidamente irato, avanti a tutti
gli si fe' incontro e
disse: «E' non è, Turno,
questa la reggia che t'assegna in dote
la tua
regina; e non hai d'Ardea intorno
le patrie mura. Ne le forze entrato
sei de' nemici onde scampar non puoi».
«Or via, - Turno ghignando gli
rispose
placidamente, - via, se tanto ardisci,
meco ti prova; ché ben
tostamente
a Prïamo dirai ch'in questa Troia,
come ancor ne la sua,
trovossi Achille».
Ciò detto, gli avventò Pàndaro un dardo
di tutta
forza nodoroso e grave,
e di ruvida ancor corteccia involto.
L'aura lo
prese, e la Saturnia Giuno
deviò 'l colpo sí che da la mira
si torse e
ne la porta si confisse.
«Non sí cadrà questa mia spada in fallo, -
disse allor Turno; - tale è chi la vibra,
e tal fa colpo». Ed a ferire
alzato
l'investí ne la fronte, e gli divise
le tempie, le mascelle e 'l
mento ignudo
ancor di barba, infin là 've s'appicca
il collo al petto.
Al suon de la percossa,
al fracasso de l'armi, a la ruina,
che fêr
cadendo quelle membra immani,
tremò la terra e ne fu d'atro sangue
e di
cervella aspersa. Egli morendo
giacque rovescio, e dechinò la testa
parte a l'omero destro e parte al manco.
Al cader di costui tal prese
i Teucri
téma e spavento, che dispersi in fuga
sen gîro. E s'era il
vincitore accorto
d'aprir la porta e di por dentro i suoi,
fôra stato
quel giorno e de la guerra
e de' Troiani il fine. Ma la furia
e l'ardor
di combattere e l'insana
ingordigia di sangue ne 'l distolse.
Onde
seguendo, in Falari ed in Gige
s'abbatté prima. A l'uno il petto aperse;
sgherrettò l'altro. A quei ch'erano in fuga
con l'aste di color ch'eran
caduti
feria le terga: e nuova occisïone
gli ponea tuttavia nuov'armi in
mano:
sí come ancor Giunon nuovo ardimento
gli dava e nuove forze. Ali
tra questi
mandò per terra, e Fègëa confisse
con lo suo scudo. Occise in
su le mura,
mentre a' nemici eran di fuori intenti,
Alio ed Alcandro e
Prítane e Nomone.
A Líncëo, ch'osò di starli a fronte
e chiamare i
compagni, con un colpo,
che di rovescio con gran forza dielli,
recise il
capo, e l'avventò con l'elmo
lunge dal busto. Dopo questi ancise
Àmico,
un cacciator ch'era in campagna
gran distruttor di fere, e gran maestro
d'armar di tòsco le saette e 'l ferro:
e Clizio ancise, d'Eölo il buon
figlio,
e Cretèo, de le Muse il caro amico
e 'l diletto compagno, che di
versi
e di cetre e di numeri e di corde
era sol vago, e di cantar mai
sempre
o d'armi o di cavalli o di battaglie.
I condottier de' Teucri
udita alfine
de' suoi la strage, insieme s'adunaro,
Memmo e Seresto. E
visti i lor compagni
dispersi, e già 'l nemico in salvo addursi,
gridando: «Oh, - disse Memmo, - ove fuggite?
Ove n'andate? e qual
ridotto avete
o di mura o di sito altro che questo?
Dunque un sol uomo,
e d'ogni parte chiuso
in poter vostro, avrà, miei cittadini,
senza alcun
danno suo fatto di noi
ne la nostra città sí gran macello?
Tanti de'
nostri giovini sotterra
avrà mandati? E noi, noi non avremo
(sí codardi
saremo) o de la nostra
infortunata patria, o degli antichi
nostri
Penati, o del gran nostro Enea
né pietà, né rispetto, né vergogna?»
Da
questo dire accesi e rincorati
si ristrinsero insieme. E Turno intanto
da la pugna allentando in vèr la parte
che dal fiume era cinta, a poco a
poco
appressossi a la riva: onde i Troiani
con impeto maggior, con
maggior grida
gli furon sopra. E qual fiero leone
che da la moltitudine
e da l'armi
si vede oppresso, tra fierezza e téma
torvamente mirando si
ritira;
ché né 'l valor, né l'ira gli consente
volgere il tergo, né de'
cacciatori,
né di spiedi spuntar puote il rincontro;
cosí Turno dubbioso
o di ritrarsi
o di spingersi avanti, irato e lento,
guardingo e
minaccioso se n'andava:
e due volte avventandosi nel mezzo
si cacciò de'
nemici; ed altrettante
gli ruppe e salvo indietro si ritrasse.
Alfine in
un drappello insieme accolte
le teucre genti incontro gli si fêro,
e di
Saturno non osò la figlia
di piú forza prestargli; ché dal cielo
Giove a
la sua sorella avea mandato
Iri a farne richiamo, e minacciarlo,
se
Turno immantinente da le mura
non uscia de' Troiani. Or non potendo
piú
'l giovine supplire o con la destra,
ch'era a ferir già stanca, o con lo
scudo,
che di dardi e di frecce era coverto;
l'elmo già spennacchiato, e
l'armi tutte
smagliate e fesse, con un nembo addosso
di sassi per le
tempie e d'aste a' fianchi
già da Memmo incalzato, alfin cedette.
E
come di sudor colava, ansava,
e quasi rifiatar piú non potea,
con tutte
l'armi indosso un salto prese,
e nel Tebro avventossi. Il biondo Tebro
placido lo raccolse e salvo e lieto,
e da l'occisïon purgato e mondo,
su l'altra riva a' suoi lo ricondusse.
Libro
X
Aprissi
la magion celeste intanto,
e del cielo il gran padre in cima ascese
del
suo cerchio stellato. Indi mirando
la terra, e de' Troiani e de' Latini
visto il conflitto, a sé degli altri dèi
chiamò 'l consiglio. E com'era
da l'orto
e da l'occaso la sua reggia aperta,
ratto tutti adunati,
assisi e cheti,
disse egli in prima: «Cittadini eterni,
qual v'ha
cagione a distornar rivolti
quel ch'è già stabilito? A che tra voi
con
tanta iniquità tanto contrasto?
Non s'è da me già proibito e fermo
che
non deggian gli Ausoni incontro a' Teucri
sorgere a l'armi? Che discordia è
questa
contro al divieto mio? Qual ha timore
a la guerra incitati o
questi o quelli?
Tempo vi si darà ben degno allora
di guerreggiar (non
l'affrettate or voi)
che la fera Cartago aprirà l'Alpi,
grave a Roma
portando esizio e strage.
Allora agli odi, al sangue, a le rapine
larga
vi si darà licenza e campo.
Or lietamente la tenzone e l'armi
fermate, e
sia tra voi concordia e pace».
Tal fece ragionando il gran monarca
breve proposta. Ma non brevemente
Venere in questa guisa gli rispose:
«Padre e re de' celesti, e de' mortali
eterna possa (e qual altra
maggiore
s'implora altronde?), ecco tu stesso vedi
l'arroganza de'
Rutuli, e quel fasto
con che Turno cavalca; e vedi il vampo
e la ruina
che si mena avanti,
da la sua tracotanza e dal successo
di questa pugna
insuperbito e gonfio.
Vedi i Teucri infelici, ch'ancor chiusi
non son
securi; e 'n fin dentro a le porte
e 'n su' ripari e 'n su le lor difese
son combattuti: e la lor propria fossa
è di lor sangue un lago. Di ciò
nulla
il mio figlio non sa; tanto n'è lunge.
Or non fia ch'una volta
esca d'assedio
questa misera gente? Ecco han le mura
de l'altra Troia
altri nimici a torno;
altro esercito in campo; un'altra volta
d'Arpi
vien Dïomede a' danni suoi.
Resta cred'io ch'un'altra volta ancora
io
sia da lui ferita, e che di nuovo
sia la tua figlia a mortal ferro esposta.
Signor, se contra la tua voglia i Teucri
son venuti in Italia, è ben
ragione
che sian puniti, e del tuo aiuto indegni:
ma se tratti vi sono,
e s'è lor dato
dagli oracoli tutti e de' celesti
e degl'inferni, qual
può senno o forza
a Giove opporsi, e far nuovo destino?
Ch'io non vo'
dir de le combuste navi
su la spiaggia ericina, né de' vènti
che 'l re
spinse d'Eolia a tempestarlo,
né d'Iri che di qui fu già mandata
per
darle al foco. Infin da l'Acheronte
tratte ha le Furie (questa sol mancava
parte de l'universo non tentata
a loro offesa); d'Acheronte, dico,
ha tratto Aletto a suscitar l'Italia
incontr'a loro. Or, Signor mio, non
curo
piú d'altro imperio. Io lo sperava allora
ch'era piú fortunata.
Imperi e vinca
or chi t'aggrada. E s'anco non è loco
nel mondo, ove a la
tua dura consorte
piaccia che sian quest'infelici accolti,
per
l'incendio, signor, per la ruina,
e per la solitudine ti prego
de la mia
Troia che ritrar mi lasci
salvo da questa guerra Ascanio almeno.
Lasciami, padre mio, questo nipote
mantener vivo; e se ne vada Enea
ramingo ovunque il mare o la fortuna
lo si tramandi. Io lo terrò da
l'armi
remoto ne' miei lochi o d'Amatunta
o d'Idalio o di Pafo o di
Citèra
a menar vita ignobile e privata,
pur che sicura. E tu, come a te
piace,
comanda ch'a l'Ausonia il giogo imposto
sia da Cartago, sí che
piú non l'osti
in alcun tempo. Or che, padre, ne giova
che da
l'occisïoni e dagl'incendi
de la lor patria e da tant'altri rischi
sian
già del mare e de la terra usciti?
E che val che da te sia lor promessa,
da lor tanto ricerca, e già trovata
questa Troia novella, se di nuovo
convien che caggia? Assai meglio sarebbe
che fosser tra le ceneri e nel
guasto,
dove fu l'altra. A Xanto, a Simoenta
fa, ti prego, signor, che
si radduca
questa gente infelice, e che ritorni
a passar d'Ilio i guai».
Giunone allora
infurïata: «A che, - disse - mi tenti,
perch'io rompa il
silenzio, e mostri il duolo
c'ho portato nel cor gran tempo ascoso?
Qual
è mai per tua fé stato uomo o dio
ch'Enea sforzasse a cercar briga, e farsi
nemico il re Latino? Oh 'l fato addotto
l'ha ne l'Italia! Sí, ma da le
furie
c'è spinto di Cassandra. E chi gli ha dato
consiglio, io forse?
Ch'abbandoni i suoi?
Io, che dia la sua vita in preda a' vènti?
Io, che
la cura e 'l carco de la guerra
lasci in man d'un fanciullo? e che sollevi
i popoli d'Etruria, e l'altre genti
che si stavano in pace? E quale dio,
qual mia durezza de' lor danni è rea?
Qui che rileva o di Giuno lo
sdegno,
o d'Iri il ministero? Indegna cosa
è certo che dagl'Itali
s'infesti
questa tua nuova Troia; e degno e giusto
sarà che Turno non si
stia sicuro
ne la sua patria terra? un tal nipote
di Pilunno ch'è divo,
un tanto figlio
di Venilia ch'è ninfa? E degna cosa
ti par che muova
Enea la guerra a Lazio?
ch'assalga, che soggioghi, che deprede
le terre
altrui? che l'altrui donne usurpi?
ch'in man porti la pace, e che per mare
e per terra armi? Tu potrai tuo figlio
scampar da' Greci; tu riporre
invece
di lui la nebbia e 'l vento; tu la forma
cangiar de le sue navi
in altrettante
ninfe di mare; ed io cosa nefanda
farò, se porgo a'
Rutuli un aiuto,
per minimo che sia? Non v'è tuo figlio
presente; non vi
sia: non sa; non sappia.
Sei regina di Pafo, d'Amatunta,
di Citèra e
d'Idàlio: e che vai dunque
provocando con l'armi una contrada
non tua,
pregna di guerra? e stuzzicando
sí bellicosa gente? Ed io son quella,
io, che l'afflitte lor fortune agogno
di porre al fondo? E perché non
piú tosto
chi de' Greci a le man gli pose in prima?
Chi prima fu cagion
ch'a guerra addusse
l'Europa e l'Asia? chi commise il furto
che fu de la
rottura il primo seme?
Io condussi l'adultero pastore
a l'impresa di
Sparta? Io fui ch'a l'armi,
io ch'a l'amor l'accesi? Allora il tempo
fu
d'aver téma e gelosia de' tuoi,
non or che le querele e le rampogne
che
ne fai, sono ingiuste e tarde e vane».
Cosí Giuno dicea; quando fremendo
gli dèi tutti mostrâr che chi con questa
consentian, chi con quella. In
guisa tale
s'odono i primi vènti entro una selva
mormorar lunge, e non
veduti ancora
porgere a' marinari indicio e téma
di propinqua tempesta.
Allor del cielo
il sommo, eterno, onnipotente padre
riprese a dire. Al
suo parlar chetossi
la celeste magion; chetârsi i vènti,
e l'aria e
l'onde; e sola infino al centro
tremò la terra. Ei disse: «Or che gli Ausoni
confederar co' Teucri ne si toglie,
e voi tra voi non v'accordate, udite
quel ch'io vi dico, e i miei detti avvertite.
Quella stessa fortuna e
quella speme,
qual ch'ella sia, ch'i Rutuli o i Troiani
oggi da lor
faransi, io vi prometto
aver per rata, e non punto inchinarmi
piú da
quei che da questi: e sia l'assedio
de' Teucri o per destino, o per errore,
o per false risposte. E ciò dico anco
de' Rutuli. Il successo e buono e
rio
fia d'una parte e d'altra qual ciascuna
per sé lo s'ordirà. Giove
con ambi
si starà parimente, e 'l fato in mezzo».
Cosí detto, il
torrente e la vorago
e la squallida ripa e l'atra pece
d'Acheronte
giurando, abbassò 'l ciglio,
e tremar fe' col cenno il mondo tutto.
Finito il ragionar, suso levossi
del seggio d'oro; e gli fêr tutti
intorno
corona e compagnia fino a l'albergo.
L'esercito de' Rutuli
stringendo
l'assedio intanto, in su le porte e 'ntorno
facea de la
muraglia incendi e stragi;
e i Teucri assedïati, entro ai ripari
e sopr
ai torrïoni a la difesa
stavan, miseri! indarno; e senza speme
di fuga
un raro cerchio avean disteso
su per le mura. Era de' primi Iaso
d'Imbrasio il figlio, e 'l figlio d'Icetone
detto Timete, e 'l buon
Càstore insieme
col vecchio Timbri, ed ambi dopo questi
di Sarpedonte i
frati: e Chiaro, ed Emo
onor di Licia, e di Lirnesso Ammone.
Questi con
un gran sasso era venuto
su la muraglia, che 'l maggior catollo
era d'un
monte; ed egli era non punto
minor del padre Clizio e di Menesto
suo
famoso fratello. Altri con sassi,
altri con dardi, e chi con le saette,
e chi col foco a guardia eran del muro.
In mezzo de le schiere il vago
Iulo,
gran nipote di Dardano e gran cura
de la bella Ciprigna, il volto
e 'l capo
ignudo, risplendea qual chiara gemma
che in òr legata altrui
raggi dal petto
o da la fronte; o qual da dotta mano
in ebano commesso,
o in terebinto
candido avorio agli occhi s'appresenta.
Sovra al collo di
latte il biondo crine
avea disteso, e d'oro un lento nastro
gli facea
sotto e fregio insieme e nodo.
Ismaro, e tu fra sí famosa gente
con
l'arco saettar ferite e tòsco
fosti veduto, generosa pianta
del meonio
paese, ove fecondi
sono i campi di biade, e i fiumi d'oro.
Memmo v'era
ancor egli, a cui la fuga
dianzi di Turno avea gloria acquistata,
ond'era fino al ciel sublime e chiaro.
Eravi Capi, onde poi Capua il
nome
e l'origine ha presa. Avean costoro
tra lor diviso il carico e 'l
periglio
di sí dura battaglia. E 'n questo mentre
solcava Enea di mezza
notte il mare.
Egli, poi che d'Evandro ebbe lasciato
l'amico albergo e
che nel campo giunse
de' Toschi, al tosco rege appresentossi;
e con lui
ristringendosi, il suo nome
il suo lignaggio, la sua patria, in somma
chi fosse, che chiedesse, che portasse
gli espose; e qual Mezenzio
appoggio avesse,
e l'orgoglio di Turno, e l'apparecchio
e l'incostanza
de l'umane cose
gli pose avanti. A le ragioni aggiunse
esempi e preci
sí, ch'immantinente
Tarconte acconsentí. Strinser la lega,
unîr le £orze
ed apprestâr le genti
in un momento. Di straniero duce
provvisti i Lidi,
e già dal fato sciolti,
salîr sovra l'armata. E pria di tutti
uscio
d'Enea la capitana avanti.
Questa avea sotto al suo rostro dipinti,
quai sotto al carro de la madre idèa,
due che 'l legno traean frigi
leoni,
e d'Ida gli pendea di sopra il monte,
amaro suo disio, dolce
ricordo
del patrio nido. In su la poppa assiso
stava il duce troiano; e
da sinistra
avea d'Evandro il figlio, che tra via
l'interrogava or del
vïaggio stesso
e de le stelle, ed or degli altri suoi
o per terra o per
mar passati affanni.
Apritemi Elicona, alme sorelle,
e cantate con me
che gente e quanta
d'Etruria Enea seguisse, e di che parte,
e con
qual'armi e come il mar solcasse.
Màssico il primo in su la Tigre imposto
avea di mille giovini un drappello,
che di Chiusi e di Cosa eran venuti
con l'arco in mano e con saette a' fianchi.
Appresso a lui, seguendo, il
torvo Abante
sotto l'insegna del dorato Apollo
seicento n'imbarcò di
Populonia,
trecento d'Elba, in cui ferrigna vena
abbonda sí, che n'erano
ancor essi
dal capo ai piè tutti di ferro armati.
Asíla il terzo,
sacerdote e mago
che di fibre e di fulmini e d'uccelli
e di stelle era
interprete e 'ndovino,
mille ne conducea, ch'un'ordinanza
facean tutta
di picche: e tutti a Pisa
eran soggetti, a la novella Pisa,
che, già
figlia d'Alfeo, d'Arno ora è sposa.
Asture, ardito cavaliero e bello,
e
con bell'armi di color diverse,
vien dopo questi con trecento appresso
di vari lochi, ma d'un solo amore
accesi a seguitarlo. Eran mandati
da Cerète e dai campi di Mignone,
dai Pirgi antichi e da l'aperte
spiagge
de la non salutifera Gravisca.
Di te non tacerò, Cigno gentile,
di Cupàvo dicendo, ancor che poche
fosser le genti sue. Questi di Cigno
era figliuol, onde ne l'elmo avea
de le sue penne un candido cimiero
in memoria del padre, e de la nuova
forma in ch'ei si cangiò, tua colpa,
Amore.
Ché de l'amor di Faetonte acceso,
come si dice, mentre che
piangendo
stava la morte sua, mentre ch'a l'ombra
de le pioppe, che pria
gli eran sorelle,
sfogava con la musa il suo dolore,
fatto cantando già
canuto e vèglio
in augel si converse, e con la voce
e con l'ali da terra
al cielo alzossi.
Il suo figlio co' suoi portava un legno
a cui sotto la
prora e sopra l'onde
stava un centauro minaccioso e torvo,
che con le
braccia e con un sasso in atto
sembrava di ferirle, e via correndo
col
petto le facea spumose e bianche.
Ocno poscia venia, del tosco fiume
e
di Manto indovina il chiaro figlio,
che te, mia patria, eresse e che dal
nome
de la gran madre sua Mantua ti disse:
Mantua d'alto legnaggio,
illustre e ricca,
e non d'un sangue. Tre le genti sono,
e de le tre
ciascuna a quattro impera,
di cui tutte ella è capo, e tutte insieme
son
con le forze de l'Etruria unite.
Quinci ne fûr contra Mezenzio armati
cinquecento altri; e Mincio, un figlio altero
del gran Benàco, fu che
gli condusse,
di verdi canne inghirlandato il fronte.
Giva il superbo
Aulete con un legno
di cento travi il mar solcando in guisa
che spumante
il facea, sonoro e crespo.
Premea le spalle d'un Tritone immane
che con
la cava sua cerulea conca
tremar si facea l'acqua e i liti intorno.
Dal
mezzo in su, la fronte ispido e 'l mento
sembra d'umana forma; e 'l ventre
in pesce
gli si ristringe, e col ferino petto
fende il mar sí che
rumoreggia e spuma.
Da questi eletti eroi, con queste genti
eran l'onde
tirrene allor solcate
in sussidio di Troia. E già dal cielo
caduto il
giorno, era de l'erta in cima
la vaga luna, quando il frigio duce,
or al
timone, or a la vela intento,
co' suoi pensier vegliava. Ed ecco avanti
nuotando gli si fa di ninfe un coro,
di lui prima compagne, e quelle
stesse
che, già sue navi, da Cibele in ninfe
furon converse, e dee fatte
del mare.
Tante in frotta ne gian per l'onde a nuoto
quante eran navi in
prima. E di lontano
riconosciuto il re, danzando in cerchio
gli si
strinsero intorno. Una fra l'altre,
la piú di tutte accorta parlatrice,
Cimodocèa, la sua nave seguendo,
con la destra a la poppa, e con la
manca
tacita remigando, il capo e 'l dorso
solo a galla tenendo,
d'improvviso
cosí gli disse: «Enea, stirpe divina,
vegli tu? Veglia: il
fune allenta, e 'l seno
apri a le vele tue. De la tua classe
noi fummo i
legni e de la selva idèa,
e siamo or ninfe. I Rutuli col foco
n'hanno e
col ferro dipartite e spinte
da' tuoi nostro malgrado. Or te cercando
siam qui venute. Per pietà di noi
la berecinzia madre in questa forma
n'ha del mar fatte abitatrici e dee.
Ma 'l tuo fanciullo Iulo in mezzo
a l'armi
si sta cinto di fossa e di muraglia
da' feroci Latini
assedïato.
I tuoi cavalli e gli Arcadi e gli Etruschi
unitamente han di
già preso il loco
comandato da te. Turno disegna
co' suoi
d'attraversarli e porsi in mezzo
tra 'l campo e loro. Or via, naviga,
approda;
sorgi tu pria che 'l sole, e sii tu 'l primo
ad ordinar le tue
genti a battaglia.
Prendi l'invitto e luminoso scudo
da Volcan
fabbricato, e d'òr commesso;
ché diman, se mi credi, alta e famosa
farai
tu strage de' nemici tuoi».
Ciò disse, e, come esperta, al legno in poppa
tal diè pinta al partir, che piú veloce
corse che dardo o stral che 'l
vento adegui.
Dietro gli altri affrettâr, sí che stupore
n'ebbe
d'Anchise il figlio. E rincorato
da sí felice annunzio, al cielo orando
divotamente si rivolse, e disse:
«Alma dea, degli dèi gran genitrice,
di Díndimo regina, che di torri
vai coronata e 'n su leoni assisa,
te per mia duce a questa pugna invoco.
Tu rendi questo augurio e questo
giorno,
ti priego, a i Frigi tuoi propizio e lieto».
Questo sol disse;
e luminoso intanto
si fece il mondo. Ei primamente impose
che ratto al
segno suo ciascun ne gisse,
ch'ognun s'armasse, ognuno a la battaglia
si
disponesse. E già venuto a vista
de' Rutuli e de' Teucri, alto levossi
in su la poppa; s'imbracciò lo scudo,
e lo vibrò sí ch'ambedue raggiando
empié di luce e di baleni i campi.
Di su le mura la dardania gente
gioiosa infino al ciel le grida alzaro,
e sopraggiunta la speranza a
l'ira,
a trar di nuovo e saettar si diêro
con un rumor, qual sotto
l'atre nubi
nel dar segno di nembi e nel fuggirli
fan le strimonie gru
schiamazzo e rombo.
Mentre ciò Turno e gli altri ausoni duci
stavan
meravigliando, ecco a la riva
si fa pien d'armi e di navili il mare.
Enea di cima al capo e da la cresta
del fin elmo spargea lampi e
scintille
d'ardente fiamma; e gran lustri e gran fochi
raggiava de lo
scudo il colmo e l'oro,
come ne la serena umida notte
la lugubre e
mortifera cometa
sembra che sangue avventi, o 'l sirio Cane
quando
nascendo a' miseri mortali
ardore e sete e pestilenza apporta,
e col
funesto lume il ciel contrista.
Non men per questo ha Turno ardire e speme
d'occupar prima il lito, e da la terra
ributtare i nemici. Egli,
animando
e riprendendo la sua gente, avanti
si spinge a tutti, e griada:
«Ecco adempito
vostro maggior disio. Piú non vi sono
le mura in mezzo.
In voi, ne le man vostre
la pugna e Marte e la vittoria è posta.
Or qui
de la sua donna, de' suoi figli,
de la sua casa si rammenti ognuno;
ognun davanti si proponga i fatti
e le lodi de' padri. Andiam noi prima
a rincontrargli, infin che l'onde e 'l moto
ce gli rende del mar non
fermi ancora.
Via, ch'agli arditi è la fortuna amica».
Detto cosí, va
divisando come
parte lor contra ne conduca, e parte
a l'assedio ne
lasci. Intanto Enea
per disbarcare i suoi, le scafe e i ponti
avea già
presti. E di lor molti attenti
al ritorno de' flutti con un salto
si
lanciarono in secco; e chi co' remi,
chi con le travi ne l'arena usciro.
Tarconte, poi ch'ebbe la riva tutta
ben adocchiata, non là dove il
vado
disperava del tutto, o dove l'onda
mormorando frangea, ma dove
cheta
e senza intoppo avea corso e ricorso,
voltò le prore; e: «Via, -
disse - compagni,
via, gente eletta, ite con tutti i remi,
di tutta
forza, e sí pingete i legni,
che si faccian da lor canale e stazzo.
Dividete co' rostri e con le prore
questa nemica terra: in questa terra
mi gittate una volta, e che che sia
segua poi del navile. A questo
pregio
non curo del suo danno: afferri, e pèra».
Al detto di Tarconte
alto in su' remi
levârsi e sí co' rostri a' liti urtaro,
ch'empiêr di
spuma il mar, di sabbia i campi;
e i legni tutti ne l'asciutto infissi
fermârsi interi. Ma non già, Tarconte,
il legno tuo, che d'una ascosa
falda
ebbe di sasso in approdando intoppo;
dal cui dorso inchinato, e
dal mareggio
lungamente battuto, alfin del tutto
aperto e sconquassato,
in mezzo a l'onde
le genti espose; e 'l peso e l'imbarazzo
de l'armi, e
gli armamenti infranti e sparsi
del rotto legno, e 'l flutto che rediva
le tennero impedite e risospinte.
Turno le schiere sue rapidamente
al mar condusse, e tutte in ordinanza
su 'l lito incontra a' Teucri le
dispose.
Diêron le trombe il segno. Il troian duce
fu che prima assalí
le torme agresti,
e si fe' con la strage de' Latini
e con la morte di
Terone in prima
augurio a la vittoria. Era Terone
un di corpo maggior
degli altri tutti;
e tanto ebbe d'ardir che da se stesso
incontr'Enea si
mosse. Enea col brando
tal un colpo gli trasse, che lo scudo,
benché
ferrato, e la corazza e 'l fianco
forogli insieme. Indi avventossi a Lica
che da l'aperte viscere fu tratto
de la già morta madre, e pargoletto,
preservato dal ferro, a te fu sacro,
Febo, padre di luce; ed or morendo
vittima cadde a Marte. Occise appresso
Cisso feroce, e Gía di corpo
immane,
ch'ambi di mazze armati ivan le schiere
de' suoi Teucri
atterrando. E lor non valse
né d'Ercole aver l'armi né le braccia
d'erculea forza, né che già Melampo
lor padre in compagnia d'Ercole
fosse
allor che de la terra a soffrir ebbe
i duri affanni. A Faro un
dardo trasse,
mentre gridando e millantando incontra
gli si facea.
Colpillo in bocca a punto,
sí che la chiuse e l'acchetò per sempre.
E
tu, Cidon, per le sue mani estinto
misero! giaceresti a Clizio appresso,
tuo novo amore, a cui de' primi fiori
eran le guance colorite a pena;
se non che de' fratelli ebbe una schiera
subitamente a dosso. Eran
costoro
sette figli di Forco, e sette dardi
gli avventaro in un tempo.
Altri de' quali
da l'elmo e da lo scudo risospinti,
altri furon da
Venere sbattuti
sí, ch'o vani, o leggieri il corpo a pena
leccâr
passando. In questa, Enea rivolto:
«Dammi, - disse ad Acate, - degl'intrisi
nel sangue greco, e sotto Ilio provati;
e non fia colpo in fallo». Una
grand'asta
gli porse Acate in prima, ed ei la trasse
sí, che volando ne
lo scudo aggiunse
di Mèone, e la piastra ond'era cinto
e la corazza e 'l
petto gli trafisse.
Alcanor suo fratello nel cadere,
mentre le braccia
al tergo gli puntella,
l'asta nel trapassare, il suo tenore
continüando,
insanguinata e calda
la destra gli confisse: e da le spalle
pendé del
frate, infin che l'un già morto,
e l'altro moribondo a terra stesi
giacquero entrambi. Numitore il terzo
da questo sconficcandola e da
quello,
lanciolla incontro Enea. Di ferir lui
non gli successe, ma del
grande Acate
graffiò la coscia lievemente, e scórse.
Clauso, il
Sabino, ardito e poderoso
qui si mostrò con una picca in mano,
e Drïope
investí nel primo incontro.
Glie n'appuntò nel gorgozzule, e pinse
tanto, che la parola e 'l fiato e l'alma
in un gli tolse. Ed ei cadde
boccone,
e per bocca gittò di sangue un fiume.
Cacciossi avanti, e tre
di Tracia appresso
de la gente di Borea, e tre de' figli
d'Idante,
alunni d'Ismara e di Troia,
in varïate guise a terra stese.
Venne a
rincontro Aleso, e degli Aurunci
un'ordinanza. Di Nettuno il figlio
Messapo i suoi cavalli avanti spinse,
ed or questi sforzandosi, ed or
quelli
di cacciare i nemici, in su l'entrata
si combattea d'Italia. E
quai tra loro
s'azzuffano a le volte avversi, e pari
di contesa e di
forza in aria i vènti,
che né lor, né le nugole, né 'l mare
ceder si
vede, e lungamente incerta
sí la mischia travaglia, ch'ogni cosa
d'ogni
parte tumultüa e contrasta;
tale appunto de' Rutuli e de' Teucri
era la
pugna e sí fiera e sí stretta,
che giunte si vedean l'armi con l'armi,
e
le man con le mani, e i piè co' piedi.
D'altra parte ove rapido e torrente
avea 'l fiume travolti arbori e sassi,
da loco malagevole impediti
gli Arcadi cavalieri a piè smontaro;
e ne' pedestri assalti ancor non
usi,
da' Latini incalzati, avean le terga
già volte a Lazio, quando
(quel che s'usa
in sí duri partiti) a lor rivolto
Pallante, or con
preghiere, or con rampogne:
«Ah, compagni, ah, fratelli, - iva gridando, -
dove fuggite? Per onor di voi,
per la memoria di tant'altri vostri
egregi fatti, per l'egregia fama,
per le vittorie del gran duce Evandro,
e per la speme che di me concetta
a la paterna lode emula avete,
non
ponete ne' piè vostra fidanza.
Col ferro aprir la strada ne conviene
per
mezzo di color che là vedete,
che piú folti n'incalzano e piú feri.
Per
là comanda l'alta patria nostra
che voi meco n'andiate. E di lor nullo
è
che sia dio: son uomini ancor essi
come siam noi: e noi com'essi avemo
il cor, le mani e l'armi. E dove, dove
vi salverete? Non vedete il mare
che v'è davanti, e che la terra manca
al fuggir vostro? E se per l'onde
ancora
fuggiste, alfin dove n'andrete? a Troia?»
E, cosí detto, in
mezzo de' piú densi
e de' piú formidabili nemici
anzi a tutti
avventossi. E Lago il primo
per sua disavventura gli s'oppose.
Stava
costui chinato, e per ferirlo
divelto avea di terra un gran macigno,
quando lo sopraggiunse, e nella schiena
tra costa e costa il suo dardo
piantogli;
sí che tirando e dimenando a pena
ne lo ritrasse. Isbon, di
Lago amico,
mentr'egli in ciò s'occúpa, ebbe speranza
di vendicarlo, e
'ncontra gli si mosse.
Ma non gli riuscí: ché mentre, incauto,
dal dolor
trasportato e da lo sdegno
del suo morto compagno, infurïava,
ne la
spada del giovine infilzossi
da l'un de' fianchi: onde trafitto e smunto
ne fu di sangue il cor, d'ira il polmone.
Poscia Stènelo occise; occise
appresso
Anchèmolo. Costui fu de l'antica
stirpe di Reto. E voi, Laride
e Timbro,
figli di Dauco, ambi d'un parto nati,
per le sue man cadeste.
Eran costoro
sí l'un del tutto a l'altro somigliante,
che dal padre
indistinti e da la madre
facean lor grato errore e dolce inganno.
Sol or
Pallante (ahi! troppo duramente)
vi fe' diversi: ch'a te 'l capo netto,
Timbro, recise; a te, Laride, in terra
mandò la destra. E questa anche
guizzando
te per suo riconobbe, e con le dita
strinse il tuo ferro, e 'l
brancicò piú volte.
Gli Arcadi da' conforti e da le prove
accesi di
Pallante; e per dolore
e per vergogna di furor s'armaro
contr'a' nimici.
Seguitò Pallante;
ed a Retèo ch'era fuggendo in volta
sopra una biga,
nel passargli a canto,
trasse d'un'asta; e tanto Ilo d'indugio
ebbe a la
morte sua, ch'ad Ilo indritto
era quel colpo in prima. Ma Retèo
venne di
mezzo, e ricevello in vece
d'altri colpi che dietro minacciando
gli
venian Teutro e Tiro, i due buon frati
che gli eran sopra. Traboccò dal
carro
mezzo tra vivo e morto, e calcitrando
de' Rutuli batté l'amica
terra.
Come il pastor ne' dolci estivi giorni
a lo spirar de' vènti il
foco accende
in qualche selva: che diversamente
lo sparge in prima; e
con diversi incendi
súbito di Volcan ne va la schiera
ciò ch'è di mezzo
divorando in guisa
ch'un sol diventa; ed ei stassi in disparte
del fatto
altero, e di veder gioioso
la vincitrice fiamma, e l'arso bosco;
cosí 'l
valor degli Arcadi ristretto
per soccorrer Pallante insieme unissi.
Ma
'l bellicoso Aleso incontro a loro
si ristrinse ancor ei con l'armi sue,
e Ladone e Demòdoco e Fereto
occise in prima. Indi a Strimonio un colpo
trasse di spada, che la destra mano,
mentre con un pugnal gli era a la
gola,
gli recise di netto. E sí d'un sasso
ferí Toante in volto, che
gl'infranse
il teschio tutto, e ne schizzâr col sangue
l'ossa e 'l
cervello. Era d'Aleso il padre
mago e 'ndovino; e del suo figlio il fato
avea previsto; onde gran tempo ascoso
in una selva il tenne. E non per
questo
franse il destino; ché già vèglio a pena
chiusi ebbe gli occhi,
che le Parche addosso
gli diêr di mano: onde a morir devoto
fu per
l'armi d'Evandro. Incontro a lui
mosse Pallante in cotal guisa orando:
«Da', padre Tebro, a questo dardo indrizzo,
fortuna e strada; ond'io nel
petto il pianti
del duro Aleso; e 'l dardo e le sue spoglie,
a te fian
poscia in questa quercia appese».
Udillo il Tebro: e mentre Aleso, aíta
porgendo ad Imaon, lo scudo stende
per coprir lui, se stesso discoverse
al colpo di Pallante, e morto cadde.
Lauso che de la pugna era gran
parte,
visto al cader d'un sí degno campione
caduta la contesa e
l'ardimento
de le schiere latine, egli in sua vece
tosto avanti si
spinse e rinfrancolle.
E prima di sua mano Abante ancise,
ch'era di
quella zuffa un duro intoppo,
e de' nemici il piú saldo sostegno.
Or
qui strage si fa d'Arcadi insieme,
e di Toschi e di voi, Troiani, intatti
ancor da' Greci. E qui d'ambe le parti
tutti con tutti ad affrontar si
vanno.
Pari le forze e pari i capitani
son d'ambi i lati; e quinci e
quindi ardenti
si ristringono in guisa che gli estremi
fanno ancor calca
e 'mpedimento a' primi.
Da questa parte sta Pallante, e Lauso
da
quella, i suoi ciascuno inanimando,
spingendo e combattendo. E l'un diverso
non è molto da l'altro né d'etate
né di bellezza; e parimente il fato
a ciascuno ha di lor tolto il ritorno
ne la sua patria. E non però tra
loro
s'affrontâr mai; ché 'l regnator celeste
riserbava la morte
d'ambedue
a nemici maggiori. In questo mezzo
la ninfa, che di Turno era
sorella,
il suo frate avvertisce che soccorso
procuri a Lauso. Ond'ei
tosto col carro
le schiere attraversando, a' suoi compagni
giunto che
fu: «Via, - disse - or non è tempo
che voi piú combattiate. Io sol ne vado
contra Pallante; a me solo è dovuta
la morte sua: cosí 'l suo padre
stesso
v'intervenisse, e spettator ne fosse».
Detto ch'egli ebbe,
incontinente i suoi,
siccome imposto avea, del campo usciro.
Pallante,
visti i Rutuli ritrarsi,
e lui sentendo che con tanto orgoglio
lor
comandava, poscia che 'l conobbe,
lo squadrò tutto, e stupido fermossi
a
veder sí gran corpo. Indi feroce
gli occhi intorno girando, a i detti suoi
cosí rispose: «Oggi o d'opime spoglie
o di morte onorata il pregio
acquisto.
E 'l padre mio (tal è d'animo invitto
incontr'ogni fortuna, o
buona o rea
che sia la mia) ne porrà 'l core in pace.
Via, che d'altro è
mestier che di minacce».
E, ciò detto, si mosse, e fiero in mezzo
presentossi del campo. Un gel per l'ossa
e per le vene agli Arcadi ne
corse.
E Turno dalla biga con un salto
lanciossi a terra; ch'assalirlo a
piedi
prese consiglio. E qual fiero leone
che, veduto nel pian da lunge
un toro
con le corna a battaglia esercitarsi,
dal monte si dirupa e
rugge e vola,
tal fu di Turno la sembianza a punto
nel girgli incontro.
Il giovine, che meno
avea di forze, s'avvisò di tempo
prender vantaggio,
e di provare osando
s'aver potesse in alcun modo amica
almen fortuna; e
già ch'a tiro d'asta
s'eran vicini, al ciel rivolto disse:
«Ercole, se
ti fu del padre mio
l'ospizio accetto, e la sua mensa a grado,
allor che
peregrin seco albergasti,
dammi, ti priego, a tanta impresa aíta,
sí che
Turno egli stesso in chiuder gli occhi
veggia e senta, morendo, ch'a me
tocca
vincere e spogliar lui d'armi e di vita».
Udillo Alcide, e per
pietà che n'ebbe
nel suo cor se ne dolse e lacrimonne,
quantunque
indarno. E Giove, per conforto
del figlio suo, cosí seco ne disse:
«Destinato a ciascuno è 'l giorno suo;
e breve in tutti e lubrica e
fugace
e non mai reparabile sen vola
l'umana vita. Sol per fama è dato
agli uomini che sian vivaci e chiari
piú lungamente. Ma virtute è quella
che gli fa tali. E non per questo alcuno
è che non muoia. E quanti ne
moriro
sotto il grand'Ilio, ch'eran nati in terra
di voi celesti? E
Sarpedonte è morto
ch'era mio figlio, e Turno anco morrà;
e già de la
sua vita è giunto al fine».
Cosí disse, e da' rutuli confini
torse la
vista. Allor Pallante trasse
con gran forza il suo dardo, e 'l brando
strinse
incontro a Turno. Investí 'l dardo a punto
là 've 'l braccial su
l'omero s'affibbia,
e tra 'l suo groppo e l'orlo de lo scudo
come
strisciando, di sí vasto corpo
lievemente afferrò la pelle a pena.
Turno, poi che 'l nodoso e ben ferrato
suo frassino brandito e bilanciato
ebbe piú volte: «Or prova tu - gli disse -
se 'l mio va dritto, e se
colpisce e fóra
piú del tuo ferro». E trasse. Andò ronzando
per l'aura,
e con la punta a punto in mezzo
si piantò de lo scudo. E tante piastre
di metallo e d'acciaio, e tante cuoia
ond'era cinto, e la corazza e 'l
petto
passogli insieme. Il giovine ferito
tosto fuor si cavò di corpo il
tèlo;
ma non gli valse, ché con esso il sangue
e la vita n'uscio. Cadde
boccone
in su la piaga, e tal diè d'armi un crollo,
che, ancor morendo,
la nimica terra
trepida ne divenne e sanguinosa.
Turno sopra il
cadavere fermossi
alteramente e disse: «Arcadi, udite,
e per me
riportate al vostro Evandro,
che qual di rivedere ha meritato
il suo
Pallante, tal glie ne rimando;
e gli fo grazia che d'esequie ancora
e di
sepolcro e di qual altro fregio
che conforto gli sia, l'orni e l'onori;
ch'assai ben caro infino a qui gli costa
l'amicizia d'Enea». Cosí
dicendo,
col manco piè calcò l'estinto corpo;
e d'oro un cinto ne rapí
di pondo,
d'artificio e di pregio, ove per mano
era del buon Eurizio
istorïata
la fiera notte e i sanguinosi letti
di quell'empie fanciulle,
in grembo a cui
fûr già tanti in un tempo e frati e sposi,
sotto fé
d'Imeneo, giovani ancisi.
Di questa spoglia altero e baldanzoso
vassene or Turno. O cieche umane menti,
come siete de' fati e del futuro
poco avvedute! E come oltra ogni modo
ne' felici successi insuperbite!
Tempo a Turno verrà ch'ogni gran cosa
ricompreria di non aver pur tocco
Pallante; e le sue spoglie e 'l dí che l'ebbe
in odio gli cadranno. Il
morto corpo,
nel suo scudo composto, i suoi compagni
levâr dal campo, e
con solenne pompa
e con molti lamenti, e molto pianto
lo riportaro al
padre. Oh, qual, Pallante,
tornasti al padre tuo gloria e dolore!
Ch'una
stessa giornata, ch'a la guerra
ti diede, a lui ti tolse. Oh pur gran monti
lasciasti pria di tuoi nemici estinti!
Corse la fama, anzi il verace
avviso
a l'orecchie d'Enea d'un danno tale
e d'un tanto periglio, che
già vòlto
era il suo campo in fuga. Incontinente
si fa col ferro una
spianata intorno;
poscia s'apre una via, di te cercando,
Turno, e 'l tuo
rintuzzar cresciuto orgoglio
per la vittoria di Pallante occiso.
Pallante, Evandro e l'accoglienze loro
e le lor mense ove con tanto
amore
forestier fu raccolto, e la contratta
già tra loro amistà davanti
agli occhi
si vedea sempre. E per onore a l'ombra
de l'amico, e per
vittima al grand'Orco,
molti giovini avea già destinati
vivi sacrificar
sopra il suo rogo;
e di già ne facea quattro d'Ufente
addur legati, e
quattro di Sulmona.
E tra via combattendo, incontr'a Mago
tirò
d'un'asta, a cui sotto chinossi
l'astuto a tempo sí che sopra al capo
gli trapassò divincolando il colpo;
e ratto risorgendo umilemente
gli abbracciò le ginocchia, e cosí disse:
«Per tuo padre e tuo figlio,
Enea, ti prego,
a mio padre, a mio figlio mi conserva.
Di gran legnaggio
io sono: gran tesori
tengo d'argento sotterrati e d'oro
in massa e 'n
conio. La vittoria vostra
solo in me non consiste. Una sol'alma
in cosí
grave e grande affar che monta?»
Rispose Enea: «Le tue conserve d'oro
e
d'argento conserva a' figli tuoi.
Questi mercati ha Turno primamente
tolti fra noi, poi c'ha Pallante occiso:
ed al mio padre ed al mio
figlio in grado
fia la tua morte. Ciò dicendo, a l'elmo
la man gli
stese: e poiché gli ebbe il collo
chinato al colpo, insino a l'else il ferro
ne la gola gl'immerse. Indi non lunge
Emònide incontrando, un sacerdote
di Febo e di Dïana, il fronte adorno
di sacra benda, e tutto rilucente
di vesti e d'armi, addosso gli si scaglia.
Fugge Emònide, e cade. Enea
gli è sopra,
lo sacrifica a l'ombra e d'ombra il cuopre.
Poscia de
l'armi, che 'l meschino a pompa
portò piú ch'a difesa, il buon Seresto
lo spoglia, e per trofeo le appende in campo
a te, gran Marte. Ecco di
nuovo intanto
Cècolo, di Vulcan l'ardente figlio,
e 'l marso Ombron ne
la battaglia entrando,
e rimettendo le lor genti insieme,
spingonsi
avanti. Enea da l'altra parte
infurïava. Ad Ànsure avventossi,
e 'l
manco braccio con la spada in terra
gittogli e de lo scudo il cerchio
intero.
Gran cose avea costui cianciate in prima
e concepute; e
d'adempirle ancora
s'era promesso. Avea forse anco in cielo
riposti i
suoi pensieri, e s'augurava
lunga vita e felice. E pur qui cadde.
Poscia Tàrquito ardente, e d'armi cinto
fulgenti e ricche, incontro gli si
fece.
Era costui di Fauno montanaro
e de la ninfa Drïope creato,
giovine fiero. Enea parossi avanti
a la sua furia, e pinse l'asta in
guisa
che lo scudo impedigli e la corazza.
Allora indarno il misero a
pregarlo
si diede. E mentre a dir molto s'affanna
per lo suo scampo, ei
con un colpo a terra
gittogli il capo; e travolgendo il tronco
tiepido
ancor, sopra gli stette e disse:
«Qui con la tua bravura te ne stai,
tremendo e formidabile guerriero:
né di terra tua madre ti ricuopra,
né di tomba t'onori. Ai lupi, ai corvi
ti lascio, o che la piena in
alcun fosso
ti tragga, o che nel fiume, o che nel mare
ai famelici pesci
esca ti mandi».
Indi muove in un tempo incontro a Lica.
E segue Anteo,
che ne le prime schiere
era di Turno. Assaglie il forte Numa,
fere il
biondo Camerte. Era Camerte
figlio a Volscente, generoso germe
del
magnanimo padre, e de' piú ricchi
d'Ausonia tutta: in quel tempo reggea
la taciturna Amicla. In quella guisa
che si dice Egeon con cento braccia
e cento mani, da cinquanta bocche
fiamme spirando e da cinquanta petti,
esser già stato col gran Giove a fronte
quando contra i suoi folgori e i
suoi tuoni
con altrettante spade ed altrettanti
scudi tonava e folgorava
anch'egli;
in quella stessa Enea per tutto 'l campo,
poi ch'una volta il
suo ferro fu caldo,
contra tutti vincendo infurïossi.
Ecco Nifeo su
quattro corridori
si vede avanti; e contra gli si spinge
sí ruïnoso, e
tal fa lor fremendo
téma e spavento, che i destrier rivolti
lui dal
carro traboccano, e disciolti
sen vanno e vòti imperversando al mare.
Lúcago intanto e Lígeri, due frati
con due giunti cavalli ambi in un
tempo
gli si fan sopra. Lígeri a le briglie
sedea per guida, Lúcago
rotava
la spada a cerco. Enea, non sofferendo
la tracotanza, a la già
mossa biga
piantossi avanti; e Lígeri gli disse:
«Enea, tu non sei già
con Dïomede,
né con Achille questa volta a fronte;
né son questi i
cavalli e 'l carro loro:
di Lazio è questo e non de' Frigi il campo:
qui
finir ti convien la guerra e i giorni».
Queste vane minacce e questo vento
soffiava il folle. Enea d'altro risposta
non gli diè che de l'asta. E
mentre avanti
spinge l'uno i destrieri, e l'altro al colpo
si sta
chinato e col piè manco in atto
di ferir lui, la sua lancia a lo scudo
entrò sotto di Lúcago, e nel manco
lato ne l'anguinaia il colse a punto,
e giú del carro moribondo il trasse.
Indi ancor egli motteggiollo e
disse:
«A te né paventosi né restii
son già, Lúcago, stati i tuoi
cavalli.
Tu da te stesso un sí bel salto hai preso
fuor del tuo carro».
E, ciò detto, ai destrieri
diè di piglio. Il suo frate uscito intanto
dal carro stesso, umíle e disarmato
stendea le palme in tal guisa
pregando:
«Deh, per lo tuo valore e per coloro
che ti fêr tale, abbi di
me, signore,
pietà, che supplicando in don ti chieggio
questa misera
vita». E seguitando
la sua preghiera, a lui rispose Enea:
«Tu non hai
già cosí dianzi abbaiato.
Muori; e morendo il tuo frate accompagna».
E
con queste parole il ferro spinse,
e gli aprí 'l petto, e l'alma ne
disciolse.
Mentre cosí per la campagna Enea
strage facendo, e di
torrente in guisa
e di tempesta infurïando scorre,
Ascanio e la troiana
gioventute,
indarno entro a le mura assedïata,
saltano in campo. Ed a
Giunone intanto
cosí Giove favella: «O mia diletta
sorella e sposa, ecco
testé si vede
com'ha la tua credenza e 'l tuo pensiero
verace incontro,
e come Citerea
sostenta i Teucri suoi. Vedi com'essi
non son né valorosi
né guerrieri,
e i cor non hanno ai lor perigli eguali».
A cui Giunon
tutta rimessa: «Ah, - disse -
caro consorte, a che mi strazi e pugni,
quando è pur troppo il mio dolor pungente
e pur troppo tem'io le tue
punture?
Ma se qual era e qual esser potrebbe,
fosse or teco il poter de
l'amor mio,
teco che tanto puoi, da te negato
non mi fôra, signor,
ch'oggi il mio Turno
fosse da la battaglia e da la morte
per me
sottratto e conservato al vecchio
Dauno suo padre. Or pèra, e col suo
sangue,
che pure è pio, la cupidigia estingua
de' suoi nemici. E pur
anch'egli è nato
dal nostro sangue; e pur Pilunno è quarto
padre di lui:
da lui pur largamente
gli altar molte fïate e i templi tuoi
son de' suoi
molti doni ornati e carchi».
Cui del ciel brevemente il gran motore
cosí rispose: «Se indugiar la morte,
ch'è già presente, e prolungare i
giorni
al già caduco giovine t'aggrada
per alcun tempo, e tu con questo
inteso
l'accetti, va tu stessa, e da la pugna
sottrallo e dal destino. A
tuo contento
fin qui mi lece. Ma se in ciò presumi
anco piú di sua vita,
o de la guerra,
che del tutto si mute o si distorni,
invan lo speri». A
cui Giuno piangendo
soggiunse: «E che saria, se quel ch'in voce
ti gravi
a darmi, almen nel tuo secreto
mi concedessi? e questa vita a Turno
si
stabilisse? già ch'indegna e cruda
morte gli s'avvicina, o ch'io del vero
mi gabbo. Tu che puoi, signor, rivolgi
la mia paura e i tuoi pensieri in
meglio».
Poscia che cosí disse, incontinente
dal ciel discese, e con
un nembo avanti
e nubi intorno, occulta infra i due campi
sopra terra
calossi. Ivi di nebbia,
di colori e di vento una figura
formò (cosa
mirabile a vedere!)
in sembianza d'Enea; d'Enea lo scudo,
la corazza, il
cimiero e l'armi tutte
gli finse intorno, e gli diè 'l suono e 'l moto
propri di lui, ma vani, e senza forze
e senza mente; in quella stessa
guisa
che si dice di notte ir vagabonde
l'ombre de' morti, e che i
sopiti sensi
son da' sogni delusi e da fantasme.
Questa mentita imago
anzi a le schiere
lieta insultando, a Turno s'appresenta,
lo provoca e
lo sfida. E Turno incontra
le si spinge e l'affronta; e pria da lunge
il
suo dardo le avventa, al cui stridore
volg'ella il tergo e fugge. Ed ei
sospinto
da la vana credenza e da la folle
sua speme insuperbito, la
persegue
con la spada impugnata «E dove, e dove, -
dicendo, - Enea, ten
fuggi? ove abbandoni
la tua sposa novella? Io di mia mano
de la terra
fatale or or t'investo,
che tanto per lo mar cercando andavi».
E
gridando l'incalza, e non s'avvede
che quel che segue e di ferir agogna,
non è che nebbia che dal vento è spinta.
Era per sorte in su la riva
un sasso
di molo in guisa; ed un navile a canto
gli era legato, che la
scala e 'l ponte
avea su 'l lito, onde ne fu pur dianzi
Osinio, il re di
Chiusi, in terra esposto.
In questo legno, di fuggir mostrando,
ricovrossi d'Enea la finta imago,
e vi s'ascose. A cui dietro correndo
Turno senza dimora, infurïato
il ponte ascese. Era a la prora a pena
che Giunon ruppe il fune, e diede al legno
per lo travolto mare impeto e
fuga.
Intanto Enea, di Turno ricercando,
a battaglia il chiamava. Ed
or di questo
ed or di quello e di molti anco insieme
facea strage e
scompiglio; e la sua larva,
poiché di piú celarsi uopo non ebbe,
fuor de
la nave uscendo alto levossi,
e con l'atra sua nube unissi e sparve.
Turno, cosí schernito, e già nel mezzo
del mar sospinto, indietro rimirando
come del fatto ignaro, e del suo scampo
sconoscente e superbo, al ciel
gridando
alzò le palme, e disse: «Ah, dunque io sono
d'un tanto scorno,
onnipotente padre,
da te degno tenuto? a tanta pena
m'hai riservato? ove
son io rapito?
onde mi parto? chi cosí mi caccia?
chi mi rimena? e fia
ch'un'altra volta
io ritorni a Laurento? e ch'io riveggia
l'oste piú con
quest'occhi? e che diranno
i miei seguaci, e quei che m'han per capo
di
questa guerra, che da me son tutti
ahi vitupèro!) abbandonati a morte?
E
già rotti li veggio, e già gli sento
gridar cadendo. O me lasso! che faccio?
Qual è del mar la piú profonda terra
che mi s'apra e m'ingoi? A voi
piuttosto,
vènti, incresca di me. Voi questo legno
fiaccate in qualche
scoglio, in qualche rupe,
ch'io stesso lo vi chieggio; o ne le sirti
mi
seppellite, ove mai piú non giunga
Rutulo che mi veggia, o mi rinfacci
questa vergogna e quest'infamia, ond'io
sono a me consapevole e nimico».
Cosí dicendo, un tanto disonore
in sé sdegnando, e di se stesso fuori,
strani, diversi e torbidi pensieri
si volgea per la mente, o con la
spada
passarsi il petto, o traboccarsi in mezzo,
sí com'era, del mare, e
far, notando,
pruova o di ricondursi ond'era tolto,
o d'affogarsi. E
l'una e l'altra via
tentò tre volte; e tre volte la dea,
di lui mossa a
pietà, ne lo distolse.
Dal turbine e dal mar cacciato intanto
si scórse
il legno, che del padre Dauno
a l'antica magion per forza il trasse.
Mezenzio in questo mentre che da l'ira
era spinto di Giove, ardente e fiero
entrò ne la battaglia; e i Teucri assalse
che già 'l campo tenean
superbi e lieti.
Da l'altro canto le tirrene schiere
mossero incontro a
lui. Contra lui solo
s'unîr tutti de' Toschi e gli odi e l'armi;
ed
egli, a tutti opposto, alpestro scoglio
sembrava, che nel mar si sporga, e i
flutti,
e i vènti minacciar si senta intorno,
e non punto si crolli.
Ognun ch'avanti
o l'ardir gli mandava o la fortuna,
a' piè si distendea.
Nel primo incontro
Ebro di Dolicào, Làtago e Palmo
tolse di mezzo. Ebro
passò fuor fuori
con un colpo di lancia: il volto e 'l teschio,
un gran
macigno a Làtago avventando,
infranse tutto; ambi i garretti a Palmo
ch'avanti gli fuggia, tronchi di netto,
lasciò che rampicando a morir
lunge
a suo bell'agio andasse; ma de l'armi
spogliollo in prima, e la
corazza in collo
e l'elmo in testa al suo Lauso ne pose.
Occise dopo
questi il frigio Evante:
poscia Mimante ch'era pari a Pari
di
nascimento, e d'amor seco unito.
D'Àmico nacque, e ne la stessa notte
Teàna la sua madre in luce il diede,
che diè Paride al mondo Ecuba
pregna
di fatal fiamma. E pur l'un d'essi occiso
fu ne la patria, e
l'altro sconosciuto
qui cadde. Era a veder Mezenzio in campo
qual
orrido, sannuto, irto cignale
in mezzo a' cani allor che da' pineti
di
Vèsolo, o da' boschi o da' pantani
di Laurento è cacciato, ove molt'anni
si sia difeso; ch'a le reti aggiunto
si ferma, arruffa gli omeri e
fremisce
co' denti in guisa che non è chi presso
osi affrontarlo, ma co'
dardi solo,
e con le grida a man salva d'intorno
gli fan tempesta. Cosí
contra a lui
non s'arrischiando le nemiche squadre
stringere i ferri, le
minacce e l'armi
gli avventavan da lunge; ed ei fremendo
stava intrepido
e saldo, e con lo scudo
sbattea de l'aste il tempestoso nembo.
Di
Còrito venuto a questa guerra
era un Greco bandito, Acron chiamato,
novello sposo che, non giunto ancora
con la sua donna, a le sue nozze il
folle
avea l'armi anteposte. E in quella mischia
d'ostro e d'òr
riguardevole e di penne,
sponsali arnesi e doni, ovunque andava,
per le
schiere facea strage e baruffa.
Mezenzio il vide; e qual digiuno e fiero
leon da fame stimolato, errando
si sta talor sotto la mandra, e rugge:
se poi fugace damma, o di ramose
corna gli si discopre un cervo avanti,
s'allegra, apre le canne, arruffa il dorso,
si scaglia, ancide e sbrana,
e 'l ceffo e l'ugne
d'atro sangue s'intride; in tal sembiante
per mezzo
de lo stuol Mezenzio altero
s'avventa. Acron per terra al primo incontro
ne va rovescio; e l'armi e 'l petto infranto,
sangue versando, e
calcitrando, spira.
Morto Acrone, ecco Orode, che davanti
gli si
tolle. Ei lo segue; e non degnando
ferirlo in fuga, o che fuggendo occulto
gli fosse il feritor, lo giunge e 'l passa,
l'incontra, lo provòca, a
corpo a corpo
con lui s'azzuffa, che di forze e d'armi
piú valea che di
furto. Alfin l'atterra
e l'asta e 'l piè sopra gl'imprime e dice:
«Ecco,
Orode è caduto: una gran parte
giace de la battaglia». A questa voce
lieti alzaro i compagni al ciel le grida;
ed ei mentre spirava: «Oh, -
disse a lui, -
qual che tu sii, non fia senza vendetta
la morte mia: né
lungamente altero
n'andrai: ché dietro a me nel campo stesso
cader
convienti». A cui Mezenzio un riso
tratto con ira: «Or sii tu morto intanto,
-
rispose, - e quel che può Giove disponga
poscia di me». Cosí dicendo
il tèlo
gli divelse dal corpo, ed ei le luci
chiuse al gran buio ed al
perpetuo sonno.
Cèdico occise Alcato, Socratóre
occise Idaspe; a due
la vita tolse
Rapo, a Partenio ed al gagliardo Orsone;
Messapo anch'egli
a due la morte diede:
a Clònio da cavallo, ad Ericate,
ch'era pedone, a
piede. Agi di Licia
movendo incontro a lui, fu da Valero
valoroso, e de'
suoi degno campione,
a terra steso; Atron da Salio anciso;
e Salio da
Nealce, che di dardo
era gran feritore e grande arciero.
D'ambe le
parti erano Morte e Marte
del pari; e parimente i vincitori
e i vinti
ora cadendo, ora incalzando,
seguian la zuffa; né viltà, né fuga
né di
qua né di là vedeasi ancora.
L'ira, la pertinacia e le fatiche
erano e
quinci e quindi ardenti e vane.
E di questi e di quelli avean gli dèi
che dal ciel gli vedean, pietà e cordoglio.
Stava di qua Ciprigna e di
là Giuno
a rimirarli; e pallida fra mezzo
di molte mila infurïando
andava
la nequitosa Erinni. Una grand'asta
prese Mezenzio un'altra volta
in mano
e turbato squassandola, del campo
piantossi in mezzo, ad Orïon
simíle
quando co' piè calca di Nereo i flutti,
e sega l'onde, con le
spalle sopra
a l'onde tutte; o qual da' monti a l'aura
si spicca annoso
cerro, e 'l capo asconde
infra le nubi. In tal sembianza armato
stava
Mezenzio. Enea tosto che 'l vede
ratto incontro gli muove. Ed egli immoto
di coraggio e di corpo ad aspettarlo
sta qual pilastro in sé fondato e
saldo.
Poscia ch'a tiro d'asta avvicinato
gli fu d'avanti: «O mia
destra, o mio dardo,
disse, - che dii mi siete, il vostro nume
a questo
colpo imploro: ed a te, Lauso,
già di questo ladron le spoglie e l'armi
per mio trofeo consacro». E, cosí detto,
trasse. Stridendo andò per
l'aura il tèlo:
ma giunto, e da lo scudo in altra parte
sbattuto, di
lontan percosse Antòre
fra le costole e 'l fianco, Antor d'Alcide
onorato compagno. Era venuto
d'Argo ad Evandro; e qui cadde il meschino
d'altrui ferita. Nel cader, le luci
al ciel rivolse e, d'Argo il dolce
nome
sospirando, le chiuse. Enea con l'asta
ben tosto a lui rispose. E
lo suo scudo
percosse anch'egli, e l'interzate piastre
di ferro e le tre
cuoia e le tre falde
di tela, ond'era cinto, infino al vivo
gli passò de
la coscia. Ivi fermossi,
ché piú forza non ebbe. Ma ben tosto
ricovrò
con la spada, e fiero e lieto,
visto già del nemico il sangue in terra
e
'l terror ne la fronte, a lui si strinse.
Lauso, che in tanto rischio il
caro padre
si vide avanti, amor, téma e dolore
se ne sentí, ne sospirò,
ne pianse.
E qui, giovine illustre, il caso indegno
de la tua morte e 'l
tuo zelo e 'l tuo fato
non tacerò; se pur tanta pietate
fia chi creda
de' posteri, e d'un figlio
d'un empio padre. Il padre a sí gran colpo
si
trasse indietro; ché di già ferito,
benché non gravemente, e da l'intrico
de l'asta imbarazzato, era a la pugna
fatto inutile e tardo. Or mentre
cede,
mentre che de lo scudo il dardo ostile
di sferrar s'argomenta, il
buon garzone
succede ne la pugna, e del già mosso
braccio e del brando
che stridente e grave
calava per ferirlo, il mortal colpo
ricevé con lo
scudo e lo sostenne.
E perch'agio a ritrarsi il padre avesse
riparato
dal figlio, i suoi compagni
secondâr con le grida; e con un nembo
d'armi, che gli avventâr tutti in un tempo,
lo ributtaro. Enea via piú
feroce
infurïando, sotto al gran pavese
si tenea ricoverto. E qual,
cadendo
grandine a nembi, il vïator talora,
ch'in sicuro a l'albergo è
già ridotto,
ogni agricola vede, ogni aratore
fuggir da la campagna; o
qual d'un greppo,
d'una ripa, o d'un antro il zappatore,
piovendo, si fa
schermo, e 'l sole aspetta
per compir l'opra; in quella stessa guisa,
tempestato da l'armi, Enea la nube
sostenea de la pugna; e Lauso intanto
minacciando garria: «Dove ne vai,
meschinello, a la morte? A che pur osi
piú che non puoi? La tua pietà t'inganna,
e sei giovane e soro». Ei non
per questo,
folle, meno insultava; onde piú crebbe
l'ira del teucro
duce. E già la Parca,
vòta la rócca e non pien anco il fuso,
il suo
nitido filo avea reciso.
Trasse Enea de la spada, e ne lo scudo,
che
liev'era e non pari a tanta forza,
lo colpí, lo passò, passogli insieme
la veste che di seta e d'òr contesta
gli avea la stessa madre; e lui per
mezzo
trafisse, e moribondo a terra il trasse.
Ma poscia che di sangue
e di pallore
lo vide asperso e della morte in preda,
ne gl'increbbe e ne
pianse; e di paterna
pietà quasi un'imago avanti agli occhi
veder gli
parve, e 'ntenerito il core,
stese la destra e sollevollo e disse:
«Miserabil fanciullo! e quale aíta,
quale il pietoso Enea può farti
onore
degno de le tue lodi e del presagio
che n'hai dato di te? L'armi,
che tanto
ti son piaciute, a te lascio, e 'l tuo corpo
a la cura de'
tuoi, se di ciò cura
ha pur l'empio tuo padre, acciò di tomba
e
d'esequie t'onori. E tu, meschino,
poi che dal grand'Enea morte ricevi,
di morir ti consola». Indi assecura,
sollecita, riprende, e de l'indugio
garrisce i suoi compagni; e di sua mano
l'alza, il sostiene, il terge e
de la gora
del suo sangue lo tragge, ove rovescio
giace languido il
volto e lordo il crine,
che di rose eran prima e d'ostro e d'oro.
Stava del Tebro in su la riva intanto
lo sfortunato padre, e la ferita
già lavata ne l'onde, afflitto e stanco
s'era con la persona appo d'un
tronco
per posarsi appoggiato; e l'elmo a canto
da' rami gli pendea.
L'armi piú gravi
su 'l verde prato avean posa con lui.
Stavagli intorno
de' piú scelti un cerchio
e de' piú fidi. Ed egli anelo ed egro,
chino
il collo al troncone e 'l mento al petto,
molto di Lauso interrogava, e
molti
gli mandava or con preci or con precetti,
ch'al mesto padre omai
si ritraesse.
Ma già vinto, già morto e già disteso
sopra al suo scudo,
a braccia riportato
da' suoi con molto pianto era il meschino.
Udí
Mezenzio il pianto, e di lontano
(come del mal sovente è l'uom presago)
morto il figlio conobbe. Onde di polve
sparso il canuto crine, ambe le
mani
al ciel alzando, al suo corpo accostossi:
«Ah! mio figlio, -
dicendo - ah! come tanto
fui di vivere ingordo, che soffrissi
te, di me
nato, andar per me di morte
a sí gran rischio, a tal nimica destra
succedendo in mia vece? Adunque io salvo
son per le tue ferite? Adunque
io vivo
per la tua morte? Oh miserabil vita!
Oh, sconsolato esiglio! Or
questo è 'l colpo
ch'al cor m'è giunto. Ed io, mio figlio, io sono
c'ho
macchiato il tuo nome, c'ho sommerso
la tua fortuna e 'l mio stato felice
co' demeriti miei. Dal mio furore
son dal seggio deposto. Io son che
debbo
ogni grave supplizio ed ogni morte
a la mia patria, al grand'odio
de' miei.
E pur son vivo, e gli uomini non fuggo?
E non fuggo la luce?
Ah! fuggirolla
pur una volta». E, cosí detto, alzossi
su la ferita
coscia. E, benché tardo
per la piaga ne fosse e per l'angoscia,
non per
questo avvilito, un suo cavallo,
ch'era quanto diletto e quanta speme
avea ne l'armi, e quel che in ogni guerra
salvo mai sempre e vincitor lo
rese,
addur si fece. E poi che addolorato
sel vide avanti, in tal guisa
gli disse:
«Rebo, noi siam fin qui vissuti assai,
se pur assai di vita
ha mortal cosa.
Oggi è quel dí che o vincitori il capo
riporterem d'Enea
con quelle spoglie
che son de l'armi del mio figlio infette,
e che tu
del mio duolo e de la morte
di lui vendicator meco sarai;
o che meco, se
vano è 'l poter nostro,
finirai parimente i giorni tuoi;
ché la tua fé,
cred'io, la tua fortezza
sdegnoso ti farà d'esser soggetto
a' miei
nemici, e di servire altrui».
Cosí dicendo, il consueto dorso
per se
medesmo il buon Rebo gli offerse,
ed ei, l'elmo ripreso, il cui cimiero
era pur di cavallo un'irta coda,
suvvi, come poté, comodamente
vi
s'adagiò. Poscia d'acuti strali
ambe carche le mani, infra le schiere
lanciossi. Amor, vergogna, insania e lutto
e dolore e furore e coscïenza
del suo stesso valore, accolti in uno,
gli arsero il core e gli
avvamparo il volto.
Qui tre volte a gran voce Enea sfidando
chiamò;
che tosto udillo, e baldanzoso:
«Cosí piaccia al gran padre, - gli rispose -
cosí t'inspiri Apollo. Or vien pur via»
soggiunge; e ratto incontro gli
si mosse.
Ed egli: «Ah dispietato! a che minacci,
già che morto è 'l mio
figlio? In ciò potevi
darmi tu morte. Or né la morte io temo,
né gli
tuoi dèi. Non piú spaventi. Io vengo
di morir desïoso: e questi doni
ti
porto in prima». E 'l primo dardo trasse,
poi l'altro e l'altro appresso, e
via traendo
gli discorrea d'intorno. Ai colpi tutti
resse il dorato
scudo. E già tre volte
l'un girato il cavallo, e l'altro il bosco
avea
de' dardi nel suo scudo infissi,
quando il figlio d'Anchise, impazïente
di tanto indugio e di sferrar tant'aste,
visto 'l suo disvantaggio, a
molte cose
andò pensando. Alfin di guardia uscito
addosso gli si spinse,
e trasse il tèlo
sí che del corridore il teschio infisse
in mezzo de la
fronte. Inalberossi
a quel colpo il feroce, e calci a l'aura
traendo,
scalpitando, e 'l collo e 'l tèlo
scotendo, s'intricò: cadde con l'asta,
con l'armi, col campione, a capo chino,
tutti in un mucchio. Andâr le
grida al cielo
de' Latini e de' Teucri. E tosto Enea
col brando ignudo
gli fu sopra e disse:
«Or dov'è quel sí fiero e sí tremendo
Mezenzio?
Ov'è la sua tanta bravura?»
E 'l Tosco a lui, poiché l'afflitte luci
al
ciel rivolse, e seco si ristrinse:
«Crudele, a che m'insulti? A me di biasmo
non è ch'io muoia, né per vincer, teco
venni a battaglia. Il mio Lauso
morendo
fe' con te patto che morissi anch'io.
Solo ti prego (se di
grazia alcuna
son degni i vinti) che 'l mio corpo lasci
coprir di terra.
Io so gli odi immortali
che mi portano i miei. Dal furor loro
ti
supplico a sottrarmi, e col mio figlio
consentir ch'io mi giaccia». E ciò
dicendo
la gola per se stesso al ferro offerse;
e con un fiume che di
sangue sparse
sopra l'armi, versò l'anima e 'l
fiato.
Libro
XI
Passò
la notte intanto, e già dal mare
sorgea l'Aurora. Enea, quantunque il tempo,
l'officio e la pietà piú lo stringesse
a seppellire i suoi, quantunque
offeso
da tante morti il cor funesto avesse;
tosto che 'l sole apparve,
il vóto sciolse
de la vittoria. E sovra un picciol colle
tronca de' rami
una gran quercia eresse;
de l'armi la rinvolse, e de le spoglie
l'adornò
di Mezenzio, e per trofeo
a te, gran Marte, dedicolla. In cima
l'elmo vi
pose, e 'n su l'elmo il cimiero,
ancor di polve e d'atro sangue asperso.
L'aste d'intorno attraversate e rotte
stavan quai secchi rami; e 'l
tronco in mezzo
sostenea la corazza che smagliata
e da dodici colpi era
trafitta.
Dal manco lato gli pendea lo scudo:
al destr'omero il brando
era attaccato,
che 'l fodro avea d'avorio e l'else d'oro.
Indi i suoi
duci e le sue genti accolte,
che liete gli gridâr vittoria intorno,
in
cotal guisa a confortar si diede:
«Compagni, il piú s'è fatto. A quel che
resta
nulla temete. Ecco Mezenzio è morto
per le mie mani, e queste che
vedete,
l'opime spoglie e le primizie sono
del superbo tiranno. Ora a le
mura
ce n'andrem di Latino. Ognuno a l'armi
s'accinga: ognun s'affidi, e
si prometta
guerra e vittoria. In punto vi mettete,
ché quando dagli
augúri ne s'accenne
di muover campo, e che mestier ne sia
d'inalberar
l'insegne, indugio alcuno
non c'impedisca, o 'l dubbio o la paura
non ci
ritardi. In questo mezzo a' morti
diam sepoltura, e quel che lor dovuto
è sol dopo la morte, eterno onore.
Itene adunque, e quell'anime chiare
che n'han col proprio sangue e con la vita
questa patria acquistata e
questo impero,
d'ultimi doni ornate. E primamente
al mesto Evandro il
figlio si rimandi,
che, di virtú maturo e d'anni acerbo,
cosí n'ha morte
indegnamente estinto».
Ciò detto, lagrimando il passo volse
vèr la
magione, u' di Pallante il corpo
dal vecchierello Acete era guardato.
Era costui già del parrasio Evandro
donzello d'armi; e poscia per
compagno
fu (ma non già con sí lieta fortuna)
dato al suo caro alunno.
Avea con lui
d'Arcadi suoi vassalli e di Troiani
una gran turba.
Scapigliate e meste
le donne d'Ilio, sí com'era usanza,
gli piangevano
intorno; e non fu prima
Enea comparso che le strida e i pianti
si
rinnovaro. Il batter de le mani,
il suon de' petti, e de l'albergo i mugghi
n'andâr fino a le stelle. Ei poi che vide
il suo corpo disteso, e 'l
bianco volto,
e l'aperta ferita che nel petto
di man di Turno avea larga
e profonda,
lagrimando proruppe: «O miserando
fanciullo, e che mi val
s'amica e destra
mi si mostra fortuna? E che m'ha dato,
se te m'ha
tolto? Or che, vincendo, ho fatto?
Che, regnando, farò, se tu non godi
de la vittoria mia, né del mio regno?
Ah! non fec'io queste promesse
allora
al buon Evandro, ch'a l'acquisto venni
di questo impero. E ben
temette il saggio,
e ben ne ricordò che duro intoppo,
e d'aspra gente,
avremmo. E forse ancora
il meschino or fa vóti e preci e doni
per la
nostra salute, e vanamente
vittoria s'impromette. E noi con vana
pompa
gli riportiam questo infelice
giovine di già morto, e di già nulla
piú
tenuto a' celesti. Ahi, sconsolato
padre! vedrai tu dunque una sí cruda
morte del figlio tuo? Questo ritorno,
questo trionfo ohimè! d'ambi
aspettavi?
E da me questa fede? Oh pur, Evandro,
no 'l vedrai già di
vergognose piaghe
ferito il tergo; e non gli arai tu stesso
(se con
infamia a te vivo tornasse)
a desïar la morte. Ahi, quanto manca
al
sussidio d'Italia, e quanto perdi,
mio figlio Iulo!» E, posto al pianto
fine,
ordine diè che 'l miserabil corpo
via si togliesse; e del suo
campo tutto
scelse di mille una pregiata schiera
che scorta gli facesse
e pompa intorno,
e d'Evandro a le lagrime assistesse,
e le sue gli
mostrasse, a tanto lutto
assai debil conforto, e pur dovuto
al suo
misero padre. Altri al suo corpo,
altri a la bara intenti, avean di quercia,
d'àrbuto e di tali altri agresti rami
fatto un ferètro di virgulti
intesto
e di frondi coperto, ove altamente
del giovinetto il delicato
busto
composto si giacea qual di vïola,
o di giacinto un languidetto
fiore
còlto per man di vergine, e serbato
tra le sue stesse foglie,
allor che scemo
non è del tutto il suo natio colore
né la sua forma; e
pur da la sua madre
punto di cibo o di vigor non ave.
Enea due
prezïose vesti intanto,
l'una d'òr fino e l'altra di scarlatto,
addur si
fece, ambe ornamenti e doni
de la sidonia Dido, e da lei stessa
con
dolce studio e con mirabil arte
ricamate e distinte. E l'una indosso
gli
pose, e l'altra in capo, ultimo onore
con che dolente la dorata chioma
allor velogli, ch'era additta al foco.
De le prede oltre a ciò di
Laürento
gli fa gran parte. Fagli in ordinanza
spiegar l'armi, i cavalli
e l'altre spoglie
tolte a' nimici. Gli fa gir legati
con le man dietro i
destinati a morte
per ordinanza del funereo rogo.
Portar gli fa davanti
a' duci loro
l'armi ai tronchi sospese, e i nomi scritti
degli occisi e
de' vinti. Il vecchio Acete
che, sí com'era afflitto e d'anni grave,
gli
era appresso condotto, or con le pugna
si battea 'l petto, ed or con l'ugna
il volto
si lacerava, e tra la polve e 'l fango
si volgea tutto. Ivano i
carri aspersi
del sangue de' Latini, iva lugúbre,
e d'ornamenti ignudo,
Eto, il piú fido
suo caval da battaglia, che gemendo
in guisa umana e
lagrimando andava.
Seguian le meste squadre i Teucri, i Toschi
e gli
Arcadi, con l'armi e con l'insegne
rivolte a terra. Or poi ch'oltrepassata
con quest'ordine fu la pompa tutta,
Enea fermossi, e verso il morto
amico
ad alta voce sospirando disse:
«Noi quinci ad altre lagrime
chiamati
dal medesimo fato, altre battaglie
imprenderemo. E tu, magno
Pallante,
vattene in pace, e con eterna gloria
godi eterno riposo». Indi
partendo
vèr l'alte mura, al campo si ritrasse.
Eran nel campo già co'
rami avanti
di pacifera oliva ambasciatori
de la città latina a lui
venuti,
che tregua a' vivi e sepoltura a' morti,
pregando, gli mostrâr
che piú co' vinti
né co' morti è contrasto, e che Latino
gli era
d'ospizio amico, e che chiamato
l'avea genero in prima. Il buon Troiano
a le giuste preghiere, ai lor quesiti,
che di grazia eran degni,
incontinente
grazïoso mostrossi; e da vantaggio
cosí lor disse: «E qual
indegna sorte
contra me, miei Latini, in tanta guerra
cosí v'intrica?
Che pur vostro amico
son qui venuto: né venuto ancora
vi sarei, se da'
fati e dagli dèi
mandato io non vi fossi. E non pur pace,
siccome voi
chiedete, io vi concedo
per color che son morti, ma co' vivi
ve l'offro,
e la vi chieggo. E la mia guerra
non è con voi; ma 'l vostro re s'è tolto
da l'amicizia mia: s'è confidato
piú ne l'armi di Turno, e Turno ancora
meglio e piú giustamente in ciò farebbe,
s'a questa guerra sol con suo
periglio
ponesse fine. E poiché si dispose
di cacciarmi d'Italia, il suo
dovere
fôra stato che meco, e con quest'armi
difinita l'avesse. E saria
visso
cui la sua propria destra, e dio concesso
piú vita avesse; e i
vostri cittadini
non sarian morti. Or poiché morti sono,
io me ne dolgo,
e voi gli seppellite».
Restaro al dir d'Enea stupidi e cheti
i latini
oratori, e l'un con l'altro
si guardarono in volto. Indi il piú vecchio,
Drance nomato, a cui Turno fu sempre
per sua natura e per sua colpa in
ira,
rotto il silenzio, in tal guisa rispose:
«O di fama e piú d'arme
eccelso e grande
troiano eroe, qual mai fia nostra lode
che 'l tuo gran
merto agguagli? e di che prima
ti loderemo? ch'io non veggio quale
in te
maggior si mostri, o la giustizia,
o la gloria de l'armi. A questa tanta
grazia che tu ne fai, grati saremo:
rapporto ne faremo; e s'al consiglio
nostro è fortuna amica, amico ancora
ti fia Latino. E cerchisi
d'altronde
Turno altra lega. A noi co' sassi in collo
gioverà di
trovarne a fondar vosco
questa vostra fatal novella Troia».
Poi che
Drance ebbe detto, ai detti suoi
tutti gli altri fremendo acconsentiro,
e per dodici dí commercio e pace
fur tra l'un oste e l'altro. E senza
offesa
entrambi si mischiaro, e per gli monti
e per le selve a lor
diletto andaro.
Allor sonare accette e strider carri
per tutto udissi.
In ogni parte a terra
ne gîro i cerri e gli orni e gli alti pini
e gli
odorati cedri al funebre uso
svèlti, squarciati e tronchi. E già la Fama,
che di Pallante a Pallantèo volata
dicea pria le sue prove, e vincitore
l'avea gridato, or d'ogni parte grida
che morto si riporta. In ciò
commossa
la città tutta in vedovile aspetto
di funeste facelle e d'atri
panni
si vide piena; e vèr le porte ognuno
gli usciro incontro. Si vedea
di lumi
e di genti una fila che le strade
e i campi in lunga pompa
attraversava.
I Frigi e gli altri col suo corpo intanto
piangendo ne
venian da l'altra parte,
e con pianto incontrârsi. Indi rivolti
tutti
vèr la città, non pria fûr giunti,
che di pianti di donne e d'ululati
risonar d'ogn'intorno il cielo udissi.
Né forza, né consiglio, né decoro
fu ch'Evandro tenesse. Uscí nel mezzo
di tutta gente; e la funerea bara
fermando, addosso al figlio in abbandono
si gittò, l'abbracciò, stretto
lo tenne
lunga fïata, e da l'angoscia oppresso
pria lagrimando, e
sospirando, tacque.
Poscia, la strada al gran dolore aperta,
cosí
proruppe: «O mio Pallante, e queste
fûr le promesse tue, quando partendo
il tuo padre lasciasti? In questa guisa
d'esser guardingo e cauto mi
dicesti
ne' perigli di Marte? Ah! ben sapeva,
ben sapev'io quanto ne
l'armi prime
fosse, in cor generoso, ardente e dolce
il desio de la
gloria e de l'onore.
Primizie infauste, infausti fondamenti
de la tua
gioventú! vane preghiere,
vóti miei non accetti e non intesi
da nïun
dio! Santissima consorte,
che morendo fuggisti un dolor tale,
quanto sei
tu di tua morte felice!
Quanto infelice e misero son io,
che vecchio e
padre al mio diletto figlio
sopravvivendo, i miei fati e i miei giorni
prolungo a mio tormento! Ah! foss'io stesso
uscito co' Troiani a questa
guerra!
ch'io sarei morto! e questa pompa avrebbe
me cosí riportato, e
non Pallante.
Né per questo di voi, né de la lega,
né de l'ospizio
vostro io mi rammarco,
Troiani amici. Era a la mia vecchiezza
questa
sorte dovuta. E se dovea
cader mio figlio, perché tanta strage
io
vedessi de' Volsci, e perché Lazio
fosse a' Teucri soggetto, in pace io
soffro
che sia caduto. E piú compíto onore
non aresti da me, Pallante
mio,
di questo che 'l pietoso e magno Enea
e i suoi magni Troiani e i
toschi duci
e tutte insieme le toscane genti
t'han procurato. Con sí
gran trofei
del tuo valor sí chiara mostra han fatto,
e de' vinti da te.
Né fôra meno
tra questi il tuo gran tronco, s'a te fosse,
Turno, stato
d'età pari il mio figlio,
e par de la persona e de le forze
che ne dan
gli anni. Ma che piú trattengo
quest'armi a' Teucri? Andate, e da mia parte
riferite ad Enea che, quel ch'io vivo
dopo Pallante, è sol perché
l'invitta
sua destra, come vede, al figlio mio
ed a me deve Turno. E
questo solo
gli manca per colmar la sua fortuna
e 'l suo gran merto; ché
per mio contento
no 'l curo; e contentezza altra non deggio
sperare io
piú che di portare io stesso
questa novella di Pallante a l'ombra».
Avea l'Aurora col suo lume intanto
il giorno e l'opre e le fatiche insieme
ricondotte a' mortali. Il padre Enea
e 'l buon Tarconte, ambi, in su 'l
curvo lito
i cadaveri addotti, a' suoi ciascuno
com'era l'uso, un'alta
pira eresse,
la compose e l'incese. E mentre il foco
di fumo e di
caligine coverto
tenea l'aëre intorno, in ordinanza
tre volte, armati, a
piè la circondaro,
e tre volte a cavallo, in mesta guisa
ululando,
piangendo, e l'armi e 'l suolo
di lagrime spargendo. Infino al cielo
penetrâr de le genti e de le tube
i dolorosi accenti. Altri gridando
le pire intorno, elmi, corazze e dardi
e ben guernite spade e freni e
ruote
avventaron nel foco, e de' nemici
armi d'ogni maniera, arnesi e
spoglie;
altri i lor propri doni, e degli occisi
medesmi vi gittâr
l'aste infelici,
e gl'infelici scudi, ond'essi invano
s'eran difesi. A
le cataste intorno
molti gran buoi, molti setosi porci,
molte fûr
pecorelle occise ed arse.
A sí mesto spettacolo in sul lito
stavan altri
piangendo, altri osservando
ciascuno i suoi piú cari, infin che 'l foco
gli consumasse. E questi l'ossa, e quelli
le ceneri accogliendo, il
giorno tutto
in sí pietoso officio trapassaro:
né se ne tolser finché,
spenti i fochi,
non s'acceser le stelle. In altra parte
i miseri Latini
ai corpi loro
fêr cataste infinite. Altri sotterra
ne seppelliro; altri
a le ville intorno,
ed altri a la città ne trasportaro.
E quei che senza
numero confusi
giacean nel campo, senza onore a mucchi
furon combusti:
onde i villaggi insieme
e le campagne di funesti incendi
lucean per
tutto. E tre luci e tre notti
durâr gli afflitti amici e i dolorosi
parenti a ricercar le tiepid'ossa,
e ne l'urne riporle e ne' sepolcri.
Ma la confusïone e 'l pianto e 'l duolo
era ne la città per la piú
parte,
e ne la reggia al re Latino avanti.
Qui le madri, le nuore, le
sorelle
e i miseri pupilli, che de' padri,
de' figli, de' mariti e de'
fratelli
erano in questa guerra orbi rimasi,
la guerra abbominavano e le
nozze
detestavan di Turno. «Ei da se stesso, -
dicendo, - ei che
d'Italia al regno aspira,
e le grandezze e i primi onori agogna,
con
l'armi e col suo sangue le s'acquisti,
e non col nostro». In ciò Drance
aggravando
vie piú le cose, come a Turno infesto,
attestando dicea che
sol con Turno
volea briga il Troiano, e che sol esso
era a pugna con lui
cerco e chiamato.
Altri d'altro parere, altre ragioni
dicean per Turno:
e 'l gran nome d'Amata
e 'l suo favore e di lui stesso il merto
con la
fama de' suoi tanti trofei
sostenean la sua causa. Ed ecco, intanto
che
cosí si tumultua e si travaglia,
mesti sopravvenir gl'imbasciadori
ch'in
Arpi a Dïomede avean mandati;
e riportar, che le fatiche e i passi
avean
perduti: che né dono alcuno,
né promesse, né preci, né ragioni
furon
bastanti ad impetrar soccorso
né da lui né da' suoi: ch'era d'altronde
di mestiero a' Latini avere altr'armi,
o trattar co' nemici accordo e
pace.
Gran cordoglio sentinne, e gran rammarco
ne fece il re Latino. E
ben conobbe
che manifestamente Enea da' fati
era portato; e via piú
manifesta
si vedea degli dèi l'ira davanti
in tanta che de' suoi negli
occhi avea
strage recente. Il gran consiglio adunque,
e de' suoi primi,
ne la regia corte
chiamar si fece. In un momento piene
ne fûr le strade;
e di già tutti accolti
ne la gran sala, il re, di grado e d'anni
il
primo, a tutti in mezzo, in non sereno
sembiante, comandò che primamente
i legati che d'Arpi eran tornati,
fossero uditi; ed a lor vòlto disse:
«Esponete per ordine il seguíto
de la vostra ambasciata, e la risposta
che ritratta n'avete». A tal precetto
tacquero tutti; e Vènolo sorgendo,
cosí pria incominciò: «Noi dopo molti
superati pericoli e fatiche,
egregi cittadini, al campo argivo
ne la Puglia arrivammo; e Dïomede
vedemmo alfine; e quell'invitta destra
toccammo, ond'è 'l grand'Ilio
arso e distrutto.
In Iapigia il trovammo a le radici
del gran monte
Gargàno, ove fondava,
già vincitore, Argíripa, una terra
che dal patrio
Argirippo ha nominata.
Intromessi che fummo, il presentammo;
gli
esponemmo la patria, il nome e 'l fatto
de la nostra imbasciata, e la
cagione,
onde a lui venivamo. Il tutto udito,
cosí benignamente ne
rispose:
"O fortunate genti, o di Saturno
felice regno, o degli
antichi Ausoni
famosa terra! E quale iniqua sorte
da la vostra quïete or
vi sottragge?
Qual consiglio, qual forza vi costringe
di nemicarvi e
guerreggiar con gente
che non v'è nota? Noi quanti già fummo
col ferro a
vïolar di Troia i campi
(non parlo degli strazi e de le stragi
di quei
che vi rimasero, ché pieni
ne sono i fossi e i fiumi); ma quanti anco
n'uscimmo con la vita, in ogni parte
siam poi giti del mondo tapinando,
con nefandi supplíci, e con atroci
morti pagando il fio, come d'un grave
e scellerato eccesso. E non ch'altrui,
Prïamo stesso a pietà mosso
avrebbe
il fiero, che di noi s'è fatto, scempio.
Di Palla il sa la
sfortunata stella;
sallo il vendicator Cafàreo monte
e gli euboïci
scogli: il san di Proteo
le longinque colonne, insino a dove,
dopo
quella milizia, andò ramingo
l'un de' figli d'Atreo. D'Etna i Ciclopi
ne
vide Ulisse. Il suo regno a' suoi servi
ne lasciò Pirro. Idomeneo cacciato
ne fu dal patrio seggio. Esso re stesso,
condottier degli Argivi, il
piede a pena
nel suo regno ripose, che del regno,
del letto e de la vita
anco privato
fu da la scellerata sua consorte.
Né gli giovò che doma
l'Asia e spento
l'uno adultero avesse; ché de l'altro
scherno e preda
rimase. A me l'invidia
ha degli dèi di piú veder disdetto
la mia bella
città di Calidóna,
e la mia cara e desïata donna.
Né di ciò sazi,
orribili spaventi
mi dànno ancora. E pur dianzi in augelli
conversi i
miei compagni (o miseranda
lor pena!) van per l'aura e per gli scogli
di
lacrimosi accenti il cielo empiendo.
Questi sono i profitti e le speranze
ch'io fin qui ne ritraggo, da che, folle!
stringer contro a' celesti il
ferro osai,
e che di Citerea la destra offesi.
Or ch'io di nuovo una tal
pugna imprenda
testé con voi? No, no, ch'io co' Troiani,
dopo Troia
espugnata, altra cagione
non ho di guerra; e de' passati mali
volentier
mi dimentico, e dolore
ancor ne sento. E, quanto a' doni, andate,
riportateli vosco, e 'l magno Enea
ne presentate. E solo a me credete
del valor suo, che fui con esso a fronte
con l'armi in mano; e so di
scudo e d'asta
qual mi rese buon conto, e quanto vaglia.
Se due tali
altri avea la terra idèa,
d'Ida fôra piuttosto ita la gente
ai danni de
la Grecia; e 'l troian fato
piangerebb'ella. Enea sol con Ettorre
fu la
cagion che tanto s'indugiasse
la ruina di Troia, e che diece anni
durammo a conquistarla. Ambedue questi
eran di cor, di forze e d'arme
uguali,
ma ben fu di pietate Enea maggiore.
Io vi consiglio che,
comunque sia,
lega seco, amicizia e pace aggiate,
e l'incontro fuggiate
e l'armi sue".
Questa è la sua risposta; e quinci avete,
ottimo re, qual
sia di questa guerra
il suo parere e 'l nostro». A pena uditi
furo i
legati, che bisbiglio e fremito
infra i turbati Ausoni udissi, in guisa
che di rapido fiume un chiuso gorgo
mormora allor che fra gli opposti
sassi
s'apre la strada, e gorgogliando cade,
e frange e rugghia, e le
vicine ripe
ne risuonan d'intorno. Or poiché un poco
restò 'l tumulto, e
gli animi acquetârsi,
gli dèi prima invocando, un'altra volta
il re da
l'alto seggio a dir riprese:
«Latini miei, lo mio parere e 'l meglio
sarebbe stato, che d'un tanto affare
si fosse prima consultato, e fermo
il nostro avviso; e non chiamar consiglio,
quando il nimico in su le
porte avemo.
Una importuna e perigliosa guerra
s'è, cittadini, impresa,
e per nimica
tolta una gente, che dal ciel discesa,
da' celesti e da'
fati è qui mandata;
feroce, insuperabile, indefessa,
ne l'armi invitta,
che né vinta ancora
cessa dal ferro. Se speranza alcuna
negli esterni
soccorsi e ne l'aíta
aveste degli Etòli, ora del tutto
la deponete: e
sia speme a se stesso
ciascun per sé. Ma noi per noi, che speme
e che
possanza avemo? Ecco davanti
agli occhi vostri, e fra le vostre mani
vedete la strettezza e la ruina
in che noi siamo. Né però ne 'ncolpo
alcun di voi. Tutto 'l valor s'è mostro
che mostrar si potea: con tutto
'l corpo,
e con quanto ha di forza il nostro regno
s'è combattuto. Or
quale in tanto dubbio
sia la mia mente, udite. È nel mio stato
vicino al
Tebro un territorio antico,
che in vèr l'occaso per lunghezza attinge
fin dove de' Sicani era il confine.
Dagli Rutuli è cólto e dagli
Aurunci,
che i duri colli e i piú deserti paschi
ne tengon da l'un
canto: a questo aggiungo
quella piaggia di pini e quella costa
de la
montagna; e tutto è mio disegno
che si ceda a' Troiani e ch'amicizia,
accordo e patti e lega e leggi eguali
abbiam con essi; e qui, s'a qui
fermarsi
sono o da' fati o dal desire indotti,
ferminsi; e i loro
alberghi e le lor mura
fondino a lor diletto. E s'altra parte
cercano e
d'altre genti (se pur ponno
tôrsi da noi) quando di venti navi,
o di piú
sovvenir ne gli bisogni,
su la stessa marina apparecchiata
è la materia.
Essi de' legni il modo
e 'l numero diranno: e noi le selve,
la
maestranza, i ferramenti e tutto
che fia lor di mestiero appresteremo.
Con questa offerta io manderei de' primi
de la nostra città cento
oratori
co' rami de la pace, col mandato
di contrattarla, co' presenti
appresso
d'avorio e d'oro e col seggio e col manto
del nostro regno.
Consultate or voi,
ed a l'afflitte e mal condotte cose
d'aíta provvedete
e di soccorso».
Surse allor Drance, quei che già s'è detto
avversario
di Turno. Era costui
del regno de' Latini un de' piú ricchi
e de' piú
reputati cittadini:
di fazïon, di sèguito e di lingua
possente assai; ne
le consulte avuto
di qualche stima; nel mestier de l'armi
codardo, anzi
che no. La sua chiarezza
e 'l suo fasto venia da la sua madre
ch'era
d'alto legnaggio. Il padre a pena
era noto a le genti. Or questo, infesto
a la gloria di Turno, asperso il core
d'amarezza e d'invidia, in questa
guisa
il suo fatto aggravando, e l'ire altrui
irritando, parlò: «Chiaro,
evidente
e necessario, ottimo re, n'è tanto
quel che tu ne consigli, che
bisogno
d'altro non ha che di comune assenso.
Ognun vede, ognun sa quel
che conviene
in sí dura fortuna: e nullo ardisce
pur d'aprir bocca.
Libertate almeno
di parlar ne si dia. Scemi una volta
tanta sua
tracotanza e tanto orgoglio
chi co' suoi male avventurosi auspíci,
co'
sinistri suoi modi (io pur dirollo,
benché d'armi e di morte mi minacci)
n'ha qui condotti, e per cui tanti duci,
tanta gente è perita, e tutta
in pianto
questa cittade e questo regno è vòlto;
mentre ne la sua furia,
o ne la fuga
confidando piuttosto, il troian campo
ha d'assalire osato,
e fin nel cielo
posto ha con l'armi sue téma e scompiglio.
Solo un dono,
signor, fra tanti doni
che si mandano a' Teucri, un sol n'aggiungi;
né
consentir che vïolenza altrui
tel proibisca. Da', buon padre, ancora
questa tua figlia a genero sí degno
e con sí degno maritaggio eterna
fa questa pace. E se 'l terrore è tanto
che s'ha di lui, da lui stesso
impetriamo
grazia e licenza che la patria sua,
che 'l suo re prevaler si
possa almeno
del suo sangue a suo modo. E tu cagione,
tu di tanta ruina
autore e capo,
a che pur tante volte, a tanti strazi,
a tanti rischi, a
manifesta morte
questi tuoi meschinelli cittadini
esponi indarno? e qual
è ne la guerra
piú salute e speranza? A te noi tutti
pace, Turno,
chiedemo, e de la pace
quel ch'è sol fermo e 'nviolabil pegno;
ed io
prima di tutti, io cui tu fingi
che nimico ti sia (né tal mi curo
che tu
mi tenga) a supplicar ti vegno
umilemente. Abbi pietà de' tuoi;
pon giú
la stizza; e poi che sei cacciato,
vattene. Assai di strage, assai di morti
s'è visto: assai ne son le genti afflitte;
vedovi i tetti e desolati i
campi;
ma se l'onor ti muove, e se concepi
di te tanto in te stesso, e
tanto agogni
o la donna o la dote, a che non osi
contro a chi te ne
priva? A Turno adunque
regno col nostro sangue e regia moglie
procureremo: e noi vili alme, e turba
non sepolta e non pianta, a' cani
in preda
giaceremo in su' campi? Or tu, tu stesso,
se tanto hai
d'ardimento e di valore
dal paterno legnaggio, a lui rispondi,
a lui ti
volgi, che ti sfida e chiama».
Turno, ch'impetuoso e vïolento
era da
sé, questo parlare udito,
alto un gemito trasse, e d'ira acceso
cosí
proruppe: «Usanza tua fu sempre,
Drance, allor che di mani è piú bisogno,
oprar la lingua; essere in corte il primo,
l'ultimo in campo. Ma non piú
parole
in questo loco, ché già pieno troppo
ne l'hai; pur troppo grandi
e troppo gonfie
l'avventi, e senza rischio or ch'i nemici
son lunge, e
buone fosse e buone mura
ci son di mezzo, e non c'inonda il sangue.
Apri
qui bocca al solito, e rintuona
con la facondia tua. Tu, che se' Drance,
me, che son Turno, imbelle e vile appella;
tu la cui dianzi sanguinosa
destra
pieni i campi di morti, e pieni i colli
ha di trofei. Ma che non
pruovi ancora
questa tua gran virtú? Forse, ch'avemo
a cercar de'
nemici? Ecco d'intorno
ci sono, e 'n su le porte. Andrem lor contra?
Che
badi? Ov'è la tua tanta prodezza?
sempre è nel vento, sempre è ne la fuga
de la lingua e de' piè? tu mi rinfacci
ch'io sia cacciato? tu,
vituperoso,
di dirlo osasti? e chi meritamente
sarà che 'l dica? Oh! non
s'è visto il Tebro
fatto gonfio da me del frigio sangue?
non s'è vista
la casa e 'l seme tutto
spento d'Evandro, e gli Arcadi spogliati
d'armi
e di vita? Io non fui già da Pandaro
cacciato, né da Bizia, né da mille
che in un dí vincitore a morte io diedi,
circondato da loro e cinto e
chiuso
da le lor mura. Nulla è ne la guerra
piú salute o speranza: al
teucro duce,
a te, folle, al tuo capo, a le tue cose
fa' questo
annunzio. E non tutto in soqquadro
por con tanta paura, e tanta stima
che fai de la prodezza e de le forze
d'una gente che già due volte è
vinta;
e non tanto avvilir da l'altro canto
l'armi del re Latino. Ai
Mirmidóni
son ora, al gran Dïomede, al grande Achille
i Teucri
formidabili e tremendi;
e dal mar se ne torna per paura
l'Àufido
indietro. E forse che non finge
temer di me, perché il mio fallo aggravi?
Malvagia astuzia! Ma non piú per nulla
vo' che ne tema. Un'anima sí vile
non ti torrà la mia destra già mai.
Stiesi pur teco, e nel tuo petto
alloggi,
di lei ben degno albergo. Or a te vegno,
gran padre, e 'l tuo
parer discorro, e dico:
Se tu piú non t'affidi, e piú non credi
ne
l'armi tue; s'abbandonati affatto
siam d'ogni parte; se una volta rotti,
siam per sempre perduti; e se fortuna,
varïando le veci, unqua non
cangia,
signor, pace imploriamo; e l'armi in terra
gittando, a giunte
mani accordo e vènia
impetriam dai nemici. Ancorché, quando
oh! del
nostro valor punto in noi fosse!
sopra tutti felice, riposato,
e
glorïoso spirito sarebbe
chi, per ciò non veder, morto si fosse!
Ma se
le nostre forze ancor son verdi,
la nostra gioventú florida, intatta,
disposta e pronta a l'armi; e per sussidio
i popoli d'Italia e le
cittadi
son con noi tutte; e s'a' nemici ancora
sanguinosa, dannosa e
poco lieta
è questa gloria; ed han de' morti anch'essi
la parte loro; e
la tempesta è pari
d'ambe le parti; a che nel primo intoppo
con tanto
scorno, a noi stessi mancando,
gittarne a terra? a che tremare avanti
che la tromba si senta? A la giornata
il tempo stesso, il varïar de'
casi,
l'industria, le vicende, il moto e 'l giuoco
potria de la fortuna
in molte guise,
come suol l'altre cose, ancor le nostre,
cangiando,
risarcire, e porre in saldo.
Non avrem Dïomede in nostro aiuto;
avrem
Messapo; avremo il fortunato
Tolunnio; avrem tant'altri incliti duci
di
tant'altre città. Né di men gloria,
né di minor virtú saranno i nostri
di Laurento e di Lazio. Avrem Camilla,
la gran volsca virago, che
n'addusse
di cavalieri e di caterve armate
sí bella gente. E se me solo
appella
il nemico a battaglia, e se v'aggrada
che sol io gli risponda ed
io sol osto
al ben comune, io solamente assumo
sopra me questa impresa.
E già non credo
che le mie man sí la vittoria abborra,
che per tanta
ch'io n'aggia, e speme e gioia,
accettar non la deggia. Androgli incontro
con l'animo, se fosse anco maggiore
del magno Achille, e come Achille,
anch'egli
l'armi di Mongibello indosso avesse.
Io Turno, io che non
punto a qual si fosse
mai degli antichi di valor non cedo,
questa mia
vita stessa a voi, Latini,
ed a Latin mio suocero consacro
solennemente.
Enea me solo invita;
l'accetto, il bramo e 'l prego, anzi che Drance,
s'ira è questa di dio, con la sua morte
la purghi, o che la gloria me ne
tolga,
s'è pur gloria o vertute». In cotal guisa
consultando i Latini
avean tra loro
dispareri e tenzoni. Usciti a campo
erano i Teucri
intanto. Ed ecco un messo
venir volando, che la reggia tutta
e tutta la
città pose in tumulto,
annunzïando che dal tosco fiume
già mosso de'
Troiani e de' Tirreni
se ne venia l'esercito in battaglia
in vèr
Laurento; e che di genti e d'armi
si vedean piene le campagne e i colli.
Gli animi incontinente si turbaro;
sgomentossene il volgo: ai valorosi
s'acceser l'ire. Trepidando ognuno
discorrea per le strade; arme fremea
la gioventú; dolenti e lagrimosi
i padri discordando, e chi per Turno
sentendo e chi per Drance, avean tra loro
vari bisbigli. E tutto il
corpo insieme
facea de la città tale un trambusto,
e tal ne l'aura
unitamente un suono,
qual è se spaventata esce d'un bosco
torma di rochi
augelli, o qual talora
da le pescose rive di Padusa
van per gli stagni
schiamazzando a schiere
turbati i cigni. In tale occasïone
gridava
Turno: «Or questo è, padri, il tempo
di seder a consiglio: or consigliate
agiatamente: aggiate sopra tutto
cura a la pace, or ch'i nemici armati
ne son già sopra». E, cosí detto a pena,
saltò fuor de la reggia; e
vòlto a torno:
«Arma, - disse, - tu, Vòluso, i tuoi Volsci,
e tu,
Messapo, i rutuli cavalli.
Tu, Catillo, e tu Cora, uscite a campo:
va tu
con la tua gente a la muraglia
incontinente; e tu dispensa i tuoi
fra le
porte e le torri. Ite voi meco,
che rimanete; e ciascuno armi i suoi».
Per tutta la città si va scorrendo
a le mura. A l'insegne, ai capitani
ognun s'adduce. I padri irresoluti
se n'escon dal consiglio. Il re
turbato
si ritira, e si pente che non aggia
per sé, senza consulta, il
frigio duce
per amico e per genero accettato.
Dansi tutti a munire, a
cavar fosse,
tutti a somministrar chi sassi e travi,
e chi dardi e chi
strali. E già la roca
tromba ne va per la città squillando
de la
battaglia il sanguinoso accento.
Le matrone, i fanciulli, i vecchi, ognuno
d'ogni età, d'ogni sesso e d'ogni grado
a l'ultimo periglio, al gran
bisogno
corrono a la muraglia. E d'altra parte
da gran corteo di donne
accompagnata
con doni e preci di Minerva al tempio
va la regina, ed ha
Lavinia seco,
la vergine sua figlia, onde venuta
era tanta ruina: e di
ciò mesta,
porta i begli occhi lagrimosi e chini.
Seguon le madri e
d'odorati incensi
vaporando il delúbro, in flebil voce
pregano in su la
soglia: «Armipotente
Tritonia, tu che puoi, la possa e l'armi
frangi al
frigio ladrone, e di tua mano
anciso in su la porta me lo stendi».
Esso re Turno da la furia spinto
ricorre a l'armi; e di squamoso acciaro
e d'òr già tutto orribile e splendente,
cinto di brando, e sol del capo
ignudo
lieto mostrossi, e di speranza altiero
di vedere il nemico. E 'n
quella guisa
da la ròcca scendea che da' presepi
sciolto destriero esce
ruzzando in campo,
o ch'amor di giumente, o che vaghezza
di verde prato,
o pur desio lo tragga
del noto fiume; che sbuffando freme,
e ringhia e
drizza il collo e squassa il crine.
A l'uscir de la porta ecco davanti
gli si fa co' suoi volsci cavalieri
la vergine Camilla: e sí com'era
non men gentil che valorosa e bella,
tosto che l'incontrò con tutti i
suoi
dismontò da cavallo, e vèr lui disse:
«Turno, se degnamente uom
forte ardisce,
io mi rincoro, e ti prometto io sola
di gire ai cavalier
toscani incontro.
Lascia me col mio stuolo assalir prima
la troiana
oste, e che primiera io tragga
di questa pugna e de' suoi rischi un saggio;
e tu qui co' pedoni a piè rimanti
a guardia de la terra». A tal proposta
Turno ne la terribile virago
gli occhi fissando: «O de l'Italia, - disse
-
ornamento e sostegno, e di che lode,
e di che premio al tuo gran merto
uguale
ristorar ti poss'io? Ma (poiché cosa
non è che la pareggi) abbi,
famosa
guerriera, in grado ch'io con te comparta
questa fatica. Enea,
come dal grido
avemo e da le spie fin qui ritratto,
spinte ha le schiere
de' cavalli avanti
per batter la campagna: ed egli altronde
presa la via
del monte, per alpestro
sentiero a la città di sopra al giogo
vien con
l'altre sue genti. Il mio disegno
è fargli agguato, e collocarmi appresso
là, 've sopra la foce il doppio bosco
del curvo monte ambe le strade
accoglie.
Tu, raünati i tuoi con gli altri tutti
nostri cavalli, i suoi
nel piano assagli
a spiegate bandiere. Il fier Messapo
sarà con te:
saranvi de' Latini,
vi saran di Corace e di Catillo
le squadre tutte; e
tu con essi il carco
prendi di comandarle». Indi esortando
parimente
Messapo e gli altri duci
a la lor fazïone, egli a la sua
tostamente si
volse. È tra due branche
del monte una vallea che d'ambi i lati
ha folte
selve, e luoghi occulti e chiusi,
a l'insidie de l'armi accomodati.
Ha
ne l'imo una sèmita per mezzo
angusta, malagevole e scontorta
che
d'ogn'intorno è da le ripe offesa.
In cima, in su l'uscita, è tra le selve
ascosa una pianura, con ridotti
acconci a ritirarsi, ed opportuni
a
spingersi o dal destro o dal sinistro
lato, che si rincontri o che s'aspetti
nemica gente, o pur che di gran sassi
si tempesti di sopra. A questo
loco,
di cui ben era pratico, in agguato
Turno si pose, e i suoi nimici
attese.
Dïana intanto timorosa e mesta
favellando con Opi, una del
coro
de le sue Ninfe, in tal guisa le disse:
«Vedi a che perigliosa e
mortal guerra
a morir se ne va la mia Camilla,
ne le nostr'armi
ammaestrata invano.
E pur m'è cara, e sovr'ogni altra io l'amo.
Né
questo è nuovo, o repentino amore.
Fin da le fasce è mia. Mètabo, il padre
di lei, fu per invidia e per soverchia
potenza da Priverno, antica
terra,
da' suoi stessi cacciato; e da l'insulto,
che gli fece il suo
popolo, fuggendo,
nel suo misero esiglio ebbe in campagna
questa sola
bambina che, mutato
di Casmilla sua madre il nome in parte,
fu Camilla
nomata. Andava il padre
con essa in braccio per gli monti errando
e per
le selve, e de' nemici Volsci
sempre d'intorno avea l'insidie e l'armi.
Ecco un giorno assalito con la caccia
dietro, fuggendo, a l'Amasèno
arriva.
Per pioggia questo fiume era cresciuto,
e rapido spumando,
infino al sommo
se ne gia de le ripe ondoso e gonfio;
tal che, per téma
de l'amato peso
non s'arrischiando di passarlo a nuoto,
fermossi; e
poiché a tutto ebbe pensato,
con un súbito avviso entro una scorza
di
salvatico súvero rinchiuse
la pargoletta figlia. E poscia in mezzo
d'un
suo nodoso, inarsicciato e sodo
tèlo, ch'avea per avventura in mano,
legolla acconciamente; e l'asta e lei
con la sua destra poderosa in alto
librando, a l'aura si rivolse, e disse:
"Alma latonia virgo,
abitatrice
de le selve e de' monti, io padre stesso
questa mia
sfortunata figlioletta
per ministra ti dedico e per serva.
Ecco ch'a te
devota, a l'armi tue
accomandata, dal nimico in prima
sol per te la
sottraggo. In te sperando
a l'aura la commetto; e tu per tua
prendila,
te ne prego, e tua sia sempre".
Ciò detto, il braccio in dietro ritraendo,
oltre il fiume lanciolla; e 'l fiume e 'l vento
e 'l dardo ne fêr suono
e fischio e rombo.
Mètabo, da la turba sopraggiunto
de' suoi nemici, a
nuoto alfin gettossi
e salvo a l'altra riva si condusse.
Ivi d'un verde
cespo, ove piantato
avea Trivia il suo dono, il dardo e lei
divelse, e
via fuggissi; e piú mai poscia
non fu da tetti o da cittadi accolto;
ché
per natia fierezza a legge altrui
non si fôra unqua additto. Il tempo tutto
de la sua vita, di pastore in guisa,
menò per monti solitari ed ermi;
e per grotte e per dumi e per orrende
selve e tane di fere ebbe ricetto
con la fanciulla, a cui fu cibo un tempo
ferino latte, e balia una
d'armento
ancor non doma e pavida giumenta.
Ne le tenere labbra il padre
stesso
de la fera premea l'orride mamme;
né pria tenne de' piè salde le
piante,
che d'arco, di faretra e di nodosi
dardi le mani e gli omeri
gravolle.
Non d'òr le chiome, o di monile il collo,
né men di lunga, o
di fregiata gonna
la ricoverse; ma di tigre un cuoio
le facea veste
intorno, e cuffia in capo.
Il fanciullesco suo primo diletto
e 'l primo
studio fu lanciar di palo,
e trar d'arco e di fromba; e 'n fin d'allora
facea strage di gru, d'oche e di cigni.
Molte la desiâr tirrene madri
per nuora indarno. Ed ella di me sola
contenta, intemerata e pura e
casta,
la sua verginità, l'amor de l'armi
sol ebbe in cale. Or mio fôra
disio
che di questa milizia e de la pugna,
che presa ha co' Troiani e
co' Tirreni,
fosse digiuna; per sí cara io l'aggio,
e tale or mi saria
grata compagna.
Ma poi che acerbo fato la persegue,
scendi, ninfa, dal
cielo, e nel paese
va de' Latini. Ivi al conflitto assisti,
che per
Lazio e per lei mal s'apparecchia.
Prendi quest'arco e prendi questa mia
stessa faretra, e di qui traggi il tèlo
per vendicarmi di qualunque
ardito
sarà di vïolar quest'a me sacra
e devota virago, Italo, o Teucro
che sia. Poscia io verrò di nube involta
a provveder che 'l miserabil
corpo
non sia d'armi spogliato, e che raccolto
sia ne la patria, e
seppellito e pianto».
Cosí dicendo, entro un sonoro nembo,
da' mortali
occhi non veduta, a terra
lievemente calossi. I teucri intanto
e i
toschi duci le lor genti avanti
spingendo, a la città s'avvicinaro.
Piena d'armi, d'insegne, di cavalli
e di schierati fanti e di squadroni
si vedea la campagna. Eran per tutto
gualdane, giramenti, scorribande
di cavalieri: in secche selve i colli
parean conversi: ardea la terra e
'l cielo
di ferrigni splendori, e d'ogni parte
s'udian fremer cavalli e
squillar trombe.
Incontro a lor da l'altra parte usciro
il fier
Messapo, i cavalier latini,
Corace col suo frate, e di Camilla
la
bellicosa banda. Era il concorso
tuttavia de le genti, e de' cavalli
il
fremito maggiore. E già la massa
ristretta, e già vicine ambe le parti
a
tiro d'asta, a fronte si fermaro
l'una de l'altra; e con le lance in resta,
con saette e con dardi incominciaro
primamente da lunge a salutarsi.
Poi di subite grida udito un tuono
al ciel levossi; e due contrari nembi
da la terra sorgendo, armi fioccaro
di neve in guisa, e coprîr d'ombra
il sole.
Alfin da ciascun lato i destrier punti
andâr tutti con tutti a
rincontrarsi.
Era Tirreno al fiero Aconte opposto
ne la battaglia; e
questi primamente
s'urtaro, e per la furia e per la forza
de l'urto ambe
le lance, ambi i cavalli,
ed ambi i corpi infranti, stramazzati,
l'un da
l'altro disgiunti, quai percossi
da fulmine o da macchine avventati,
caddero a terra. E pria ne l'aura Aconte
lasciò la vita. Conturbate e
sparse
le schiere de' Latini, incontinente
con le targhe rivolte a tutta
briglia
vèr le mura spronando in fuga andaro.
Gli seguiro i Troiani; e
primo Asila
gli assalse e gli cacciò fin su le porte.
Qui fermi e
rincorati alzan le grida,
volgon le teste, e si rifan lor sopra,
ch'eran
lor contra. Cosí quando questi,
e quando quelli or cacciano, or cacciati
tornano: in quella guisa ch'a vicenda
il mare or d'alto a riva i flutti
increspa,
e ne l'ultima arena ondeggia e spuma;
or da la riva indietro
se ne torna,
e le stess'onde, e la commossa ghiara
sorbendo e
voltolando, si ritragge.
Due volte i Toschi i Rutuli incalzaro
fino a le
mura; e i Rutuli due volte
risospinsero i Toschi. Al terzo assalto
mischiârsi ambe le schiere, e l'un con l'altro
vennero a zuffa. Allor le
grida e i mugghi
si sentîr de' cadenti: allor si vide
il pian tutto di
sangue, e tutto d'armi
e d'uomini coverto e di cavalli
feriti e morti.
Orsíloco a rincontro
di Rèmolo trovossi; e non osando
di star seco a le
mani, al suo cavallo
trasse del dardo, e 'n su l'orecchio il colse.
Del
colpo impazïente e per sé fiero
si scosse, s'avventò, col petto in alto
e con le zampe il corridor levossi,
e 'n su l'arena il cavalier distese.
Catillo Iola e 'l grande Erminio occise;
Erminio, che di corpo e d'armi
e d'animo
era de' piú robusti, de' piú chiari
e de' piú riguardevoli
guerrieri
de' Toschi tutti. Avea la chioma stessa
per sua celata; avea
gli omeri ignudi
di ferro al ferro esposti, e di ferite
ampio bersaglio.
In su l'aperte spalle
Catillo il colse; e tremolando il tèlo
passogli il
petto, e raddoppiogli il duolo.
Per tutto si fa sangue; in ogni parte
si
tragge, si ferisce, si stramazza;
e chi cede e chi segue. In varie guise
ne van tutti a morir morte onorata.
In mezzo a tanta occisïone, ignuda
da l'un de' lati infurïando esulta
la vergine Camilla; ed or di dardo
fulminando, or di lancia, or di secure
non mai stanca percuote. E qual
Dïana
di sonora faretra e d'arco aurato
gli omeri onusta, ancor che si
ritragga,
saettando, ferite e morti avventa.
D'intorno ha per compagne e
per guerriere
d'archi, di mazze e di bipenni armate,
Tulla, Tarpèa,
Larina ed altre illustri
italiche donzelle, a suo decoro
scelte da lei
per sue degne ministre
ne la pace e ne l'armi. In tal sembianza
Termodoonte il bellicoso stuolo
de l'Amazzoni sue vide in battaglia
attorneggiare Ippolita, o col carro
gir di Pentesilèa le schiere aprendo
con feminei ululati. Or chi fu prima,
chi poi, cruda virago, e quali e
quanti
quei ch'abbattesti, e che di vita spenti
mandasti a l'Orco?
Eumenio primamente
di Clizio il figlio, da costei trafitto
fu d'un colpo
di lancia in mezzo al petto.
Cadde il meschino, e fe' di sangue un rivo,
sopra cui voltolandosi, e mordendo
il sanguigno terren, di vita uscio.
Indi va sopra a Liri e sopra a Pègaso
quasi in un tempo, a l'un mentre,
inciampando
il suo destriero, il fren raccoglie; a l'altro
mentre a lui,
che trabocca, il braccio stende
per sostenerlo: onde in un gruppo entrambi
precipitaro. A cui d'Ippòta il figlio
Amastro aggiunse, e via seguendo,
Arpàlico
e Tèreo e Cromi e Demofonte occise.
Quanti dardi lanciò, tanti
Troiani
gittò per terra. Orníto, un cacciatore,
gli gia davanti, e
stranamente armato
cavalcava di Puglia un gran destriero:
per sua
corazza avea d'ispido toro
un duro tergo; per celata un teschio
di lupo,
che dal capo insino al mento
sbarrava le mascelle, e digrignando
mostrava i denti. In man portava, ad uso
di contadini, un nodoroso palo
di grave ronca armato. Egli nel mezzo
degli altri suoi con le due teste
andava
sovrano a tutti, e le ferine orecchie
ergea di cresta e di
pennacchi in vece.
Camilla il giunse, lo fermò, l'occise
senza
contrasto, già che vòlta in fuga
era la schiera sua. Sovra al suo corpo
disse rimproverando: «E che pensasti,
Tosco insolente? di venire a
caccia
in qualche selva, e seguir damme imbelli?
Venuto sei là 've una
dama armata
col ferro amaramente vi rintuzza
la superbia e la lingua. Oh
pur non poco
ti fia di vanto, referendo a l'ombre
de' tuoi: per man fui
di Camilla occiso».
Indi Orsíloco assalse, e Bute appresso,
due corpi
de' maggiori e de' piú forti
del troian oste. A Bute un colpo trasse
che
'l giunse ove tra l'elmo e la corazza
si scopre il collo, onde lo scudo
appeso
sta da sinistra. Orsíloco, fuggendo
e gridando, gabbò; ch'al giro
interno
s'attenne e strinse; e là 've era seguita,
seguitò lui. Gli fu
sopra in un tempo
a colpi di secure, e l'armi e l'ossa
gli pestò sí che
per suo scampo a' prieghi
si volse. Alfine un tal sopra la testa
ne gli
piantò, che le cervella infrante
gli schizzâr da la fronte e da le tempie.
D'Àüno montanar de l'Appennino
il bellicoso figlio a l'improvviso
fu da lei còlto: un Ligure scaltrito,
che per ordire inganni (in fin che
'l fato
gliel concedé) non degli estremi avuto
era tra' suoi. Costui nel
primo incontro
sbigottito fermossi. E poiché vide
non poter con la fuga
a lei sottrarsi,
che gli era sopra, a la malizia usata
ricorrendo: «Oh!
gran prova, - a dir comincia -
sarà la tua, se ben femina sei,
di sfidar
me, quando a un caval t'affidi
sí fugace e sí forte. Or al vantaggio
rinunzia de la fuga e meco a piede
prendi zuffa del pari; e poi vedrassi
a cui questa ventosa tua bravura
onore acquisti». A cotal dir Camilla
di furia, di dolor, di sdegno ardendo
ratto dismonta; e 'l corridor
deposto
in man de la compagna, a piè si pianta;
stringe la spada,
imbracciasi lo scudo,
e con pari armi intrepida l'attende.
Il giovine,
che vinto si credette
aver con quello avviso, incontinente
la groppa le
mostrò del suo cavallo,
e via spronando a tutta briglia il pinse.
«Ligure vano, vano orgoglio in prima
ti mosse: or vana astuzia e vana
fuga
sarà la tua; ché l'arte del fallace
tuo padre, e di tua patria, a
far non basta
che vivo da le man mi ti ritolga».
Disse la virgo, e qual
da cocca strale
dietro gli si spiccò: ratto l'aggiunse,
passollo,
attraversollo, al fren di piglio
diedegli; lo ferí, l'ancise alfine.
Cosí d'un alto sasso agevolmente
sparvier grifagno al timido colombo
s'avventa, e lo ghermisce; onde in un tempo
sangue e piuma dal ciel
neviga e piove.
In questa, de' mortali e de' celesti
l'eterno
regnator, che pur talvolta
alcun de' raggi suoi vèr noi rivolge,
non con
lieve disdegno o picciol'ira
mosse Tarconte a sovvenir le schiere
de'
suoi ch'erano in volta. Egli per mezzo
va de l'occisïoni e de le mischie,
or il destrier contra i nemici urtando,
or le sue squadre inanimando,
insieme
le ristringe, le instiga, le garrisce,
e per nome ciascun
chiamando: «Ah, - disse, -
Tirreni, e che timore, e che spavento
è 'l
vostro? che viltà, che codardia
v'ha presi? e quando mai fia che vi punga
o dolore, o vergogna? Adunque in fuga
gite per una femina? Una femina
vi disperde e v'ancide? A che di ferro
invan cosí le destre e i petti
armate?
De
le donne temete? Or
via, campioni
da letti e da bottiglie, a nozze, a pasti,
a sacrifizi,
allor che ne le sacre
foreste è da l'aruspice intonato
che la vittima e
grassa, itene tutti
seco a goder del saginato bue
a piena pancia, ché
null'altro amore,
null'altro studio è 'l vostro». E, ciò dicendo,
ne va
come devoto a morte anch'egli.
Con Vènolo s'affronta; e sí com'era
turbato, l'aggavigna, e fuor lo tragge
del suo cavallo. Alto levossi un
grido
tal, che tutti a veder le ciglia alzaro
i Latini e i Tirreni. Iva
Tarconte
per la campagna con la preda in grembo
del nimico e de l'armi;
e 'n mezzo al corso
svelge da l'asta sua medesma il ferro,
e cerca ov'è
di piastra il corpo ignudo
per darli morte. E mentre ne la gola
tenta
ferirlo, ei con le braccia in alto
si scherma, regge il colpo, e da la forza
quanto può con la forza si districa.
Come ne l'aria insieme
avviticchiati
si son visti talor l'aquila e 'l serpe
pugnar volando, e
l'una aver con l'ugne
e col becco ghermito e morso l'altro:
e l'altro
co' suoi giri e co' suoi nodi
farle vincigli a' piè, volumi a l'ali;
e
questo con la testa alto fischiando,
e quella schiamazzando e dibattendo,
ambedue voltolarsi, ambedue stretti
far di squame e di piume un sol
viluppo;
cosí Tarconte per lo campo a volo,
vincitor de le schiere di
Tiburte,
Vènolo sen portava. E questo esempio
del suo duce seguendo, e
del successo
assecurata, la meonia torma
tutta contr'a Latini impeto
fece.
Tra questi Arunte, un che di già dovuto
era al suo fato, con un
dardo in mano
Camilla astutamente insidïando,
si diede a seguitarla, a
circuïrla,
a cercar destra e comoda fortuna
di darle morte. Ovunque ella
o per mezzo
fendea le schiere, o vincitrice indietro
si ritraea, l'era
vicino Arunte;
e tutti i moti suoi, tutte le vie
osservando, attendea
che netto il colpo
gli rïuscisse; e da fellone intanto
avea l'asta a
ferir librata e pronta.
Giva per avventura a lei davanti
Cloro, un
giovine idèo che sacerdote
era già di Cibele. I Frigi tutti
non avean
chi di lui fosse ne l'armi
piú riccamente adorno. Un suo corsiero
per lo
campo spingea, di spuma asperso,
cinto di barde e d'acciarine lame
come
di scaglie e di leggiadre piume
leggiadramente inteste. Un arco d'oro
gli pendea da le spalle, una faretra
a la cretese. In testa, in gambe,
in dosso
d'armi e d'arnesi in barbara sembianza,
di peregrina porpora e
di seta,
di bisso, di teletta e d'ostro e d'oro
tutto coverto, tutto
ricamato,
tutto trinciato; e saettando andava.
Costui veduto, ogni
altra impresa indietro
lasciando, a lui si volse o per vaghezza
di
consecrar le sue bell'armi al tempio,
o pur che di sí vago ostile arnese
di gir pomposa cacciatrice amasse.
Basta che per le schiere incauta,
ardente,
e, come donna, vogliolosa e folle
de l'amor de la preda e de le
spoglie,
contro a lui se ne giva; allor ch'Arunte,
dopo molto
appostarla, alfin le trasse
in tal guisa pregando: «O di Soratte
sommo
custode, Apollo, a cui devoti
noi fummo in prima, a cui di sacri pini
nutriamo il foco, e per cui nudi e scalzi
tra le fiamme saltando e per
le brage
securamente e senza offesa andiamo,
dammi, ché tutto puoi,
padre benigno,
che questa infamia per mia man si tolga
da l'armi nostre.
Io di costei non bramo
armi, spoglie o trofeo. Gli altri miei fatti
mi
sian di lode, e pur che questo mostro
caggia spento da me, ne la mia patria
senza piú gloria andrò di questa guerra
pago e contento». Udí Febo del
vóto
parte, e parte per l'aura ne disperse.
Udí che morta da quel colpo
fosse
la vergine Camilla; e non udio
di lui, ch'ei vivo in patria ne
tornasse;
ché ciò per l'aura ne portaro i vènti.
Tosto che da le man
l'asta ronzando
gli uscio, fûr gli occhi e gli animi e le grida
de'
Volsci tutti a la regina intenti.
Ed ella né del tèlo, né de l'aura
moto
o fischio sentí; né vide il colpo,
mentre giú discendea, finché non giunse.
Giunsele a punto ove divelta e nuda
era la poppa; e del virgineo sangue,
non già di latte, sitibonda scese
sí che 'l petto l'aprí. Le sue
compagne
le fûr trepide intorno; e già che morta
cadea, la sostentaro.
Arunte in fuga
ratto si volge, di paura insieme
turbato e di letizia;
ché ne l'asta
piú non confida, e piú di star non osa
incontro a lei.
Qual affamato lupo
ch'ucciso de l'armento un gran giovenco,
o lo stesso
pastore, in sé confuso
di tanta audacia, anzi che da' villaggi
gli si
levin le grida, infra le gambe
si rimette la coda, e ratto a' monti
fuggendo, si rinselva; in cotal guisa
Arunte, dopo 'l tratto, impaürito,
solo a salvarsi inteso, in mezzo a l'armi
si mischiò tra le schiere.
Ella, morendo,
di sua man fuor del petto il crudo ferro
tentò svelgersi
indarno; ché la punta
s'era altamente ne le coste infissa:
onde
languendo abbandonossi, e fredda
giacque supina; e gli occhi, che pur dianzi
scintillavano ardor, grazia e fierezza,
si fêr torbidi e gravi. Il
volto, in prima
di rose e d'ostro, di pallor di morte
tutto si tinse. In
tal guisa spirando,
Acca a sé chiama, una tra l'altre sue
la piú fida di
tutte e la piú cara;
e dice: «Acca, sorella, i giorni miei
son qui
finiti: questa acerba piaga
m'adduce a morte, e già nero mi sembra
tutto
che veggio. Or vola, e da mia parte
di' per ultimo a Turno che succeda
a
questa pugna e la città soccorra;
e tu rimanti in pace». A pena detto
ebbe cosí, che abbandonando il freno
e l'arme e sé medesma, a capo chino
traboccò da cavallo. Allora il freddo
l'occupò de la morte a poco a poco
le membra tutte. E, dechinato il collo
sopra un verde cespuglio, alfin
di vita
sdegnosamente sospirando uscio.
Camilla estinta, per lo campo un
grido
levossi che n'andò fino a le stelle,
e surse al cader suo zuffa
maggiore;
ché i Teucri e i Toschi gli Arcadi in un tempo
pinsero avanti.
Opi, ministra intanto
di Trivia, che nel monte era discesa
vicino a la
battaglia, indi il conflitto
stava mirando intrepida e sicura,
e visto
di lontan tra molte genti
nascer nuovo tumulto e nuove grida,
poscia in
mezzo di lor caduta e morta
la vergine Camilla: «Ah, - sospirando
disse,
- virgo infelice! troppo, troppo
crudel supplizio hai de l'ardir sofferto,
se d'irritar l'armi troiane osasti.
E di che pro t'è stato a viver nosco
solinga vita, armar de l'armi nostre,
gradire i boschi e venerar Dïana?
Ma te non lascerà la tua regina
giacer disonorata in questa fine
de
la tua vita; e la tua morte oscura
non sarà tra le genti; e non dirassi
che non è chi di te vendetta faccia;
ché chïunque di ferro avrà ferito
il corpo tuo, sarà meritatamente
di ferro anciso». Era a Dercenno,
antico
re de' Laurenti, un gran sepolcro eretto,
cui sopra era di terra
un monte imposto
e d'elci annosi e folti un bosco opaco.
Qui la veloce
dea dal ciel calossi
al primo volo; e di qui visto Arunte
splender ne
l'armi, e gir di sua follia
superbo e gonfio: «Ove ne vai? - diss'ella, -
qui convien che ti fermi, e qui morendo
de la morta Camilla il premio
avrai
degno di te, se di perir sei degno
de l'armi di Dïana». E, ciò
dicendo,
la buona arciera del turcasso aurato
trasse un acuto strale, e
l'arco tese,
e tirò sí ch'ambe le corna estreme
vennero al mezzo, ed
ambe parimente
le mani, una tirata e l'altra spinta,
quella toccò la
poppa e questa il ferro.
L'arco, l'aura, lo stral sonare udio,
e ferir e
morir sentissi Arunte
tutto in un tempo. I suoi quasi in oblio
cosí come
spirava, in mezzo al campo
lo lasciâr fra la polve in abbandono;
ed Opi
al ciel tornando a volo alzossi.
Caduta lei, la schiera di Camilla
primieramente in fuga si rivolse.
Indi turbârsi i Rutuli, e diêr volta.
Diè volta il fiero Atina; e i duci tutti,
e tutte fûr le insegne
abbandonate.
Cerca ognun di salvarsi, e vèr le mura
ne vanno a tutta
briglia, e piú nel campo
alcun non è che di far testa ardisca
contra la
strage e contra la ruina
che fanno i Teucri. Se ne van con gli archi
scarichi in su le terga e spenzoloni;
e piú che di galoppo in vèr
Laurento
battono il campo, e fan nubi di polve.
Le madri da' balconi e
da' torrazzi
percossi i petti, alzano al ciel le grida
con femineo
ululato. E quei che primi
giunti trovâr le porte ancor non chiuse,
mischiati co' nemici, ove piú salvi
si credean ne l'entrata e fra le
mura
de la stessa lor patria, anzi agli alberghi
lor propri e da' nemici
e da la morte
fûr sopraggiunti. In cotal guisa in prima
stette la porta
agli avversari aperta;
poi chiusa escluse i suoi, che fuori in preda
restando de' nemici, ai lor piú cari,
che morir gli vedean, perché
s'aprisse
supplicavano indarno. E qui tra quelli
che n'erano a difesa, e
quei ch'a forza,
anzi a furia, a ruina incontro a loro
s'avventavan ne
l'armi, orrenda strage
si fece e miseranda. E degli esclusi
altri in
cospetto degli stessi padri,
e de le madri che dogliose grida
ne facean
da le torri e da le mura,
da l'impeto cacciati o da la calca
precipitâr
ne' fossi, e giú da' ponti
cadder sospinti; ed altri ne la fuga
da'
sfrenati cavalli e da la cieca
lor furia trasportati, a dar di cozzo
gîr
ne le chiuse porte. In su' ripari
ancor le donne (che le donne ancora
il
vero della patria amore infiamma),
come giunte a l'estremo, allor che morta
vider Camilla, il femminil timore
volgono in sicurezza, e sassi e dardi
lanciando, e con aguzzi, inarsicciati
pali il ferro imitando, osano
anch'elle
per la difesa delle patrie mura
gir le prime a morir morte
onorata.
A Turno intanto ne le selve arriva
Acca, la già spedita
messaggiera,
con l'amara novella; un gran tumulto
portando, che
l'esercito è sconfitto,
morta Camilla, annichilati i Volsci,
e i Teucri
d'ogni cosa impadroniti
stanno in campagna col favor che porta
seco de
la vittoria il corso e 'l nome;
assalgon la città. D'ira, di sdegno
e di
furore il giovine infiammato
(ché tale era il voler empio di Giove)
da
l'insidie si toglie, esce de' boschi
ov'era ascoso, e giú scende da' colli.
Smarriti non gli avea di vista a pena,
a pena era nel piano, allor
ch'Enea
prese del monte; e là 'v'era l'agguato,
trovando aperto,
senz'offesa anch'egli
superò 'l giogo, e de la selva uscio.
Cosí con
passi frettolosi entrambi
con tutte le lor genti, e l'un da l'altro
poco
lontani a la città sen vanno.
E 'nsiememente da l'un canto Enea
vide di
polverio fumare i campi,
e di Laurento sventolar l'insegne;
Turno da
l'altro Enea scoperse, udendo
l'annitrir de' cavalli e 'l calpestio
crescer di mano in mano. Eran vicini
sí, che venuto a zuffa ed a
battaglia
si fôra anco quel dí: se non che Febo,
fatto vermiglio, i suoi
stanchi destrieri
stava già per tuffar ne l'onde ibère;
onde avanti a le
mura ambi accampati
di trincee si muniro e di
ripari.
Libro
XII
Turno,
poscia che vede afflitti e domi
già due volte i Latini, e non pur scemi
di forze, ma di speme e di baldanza,
da lui farsi rubelli, e che a lui
solo
ognun rivolto in tanto affare attende
le pruove, le promesse e i
vanti suoi,
furïoso, implacabile, inquïeto
arde, s'inanimisce, e si
rinfranca
prima in se stesso. Qual massíla fera
ch'allor d'insanguinar
gli artigli e il ceffo
disponsi, allor s'adira, allor si scaglia
vèr chi
la caccia, che da lui si sente
gravemente ferita; e già godendo
de la
vendetta, sanguinosa e fiera
con le iube s'arruffa, e con le rampe
frange l'infisso tèlo e graffia e rugge:
cosí la vïolenza era di Turno
accesa, impetüosa e furibonda;
e cosí conturbato appresentossi
al re
davanti, e disse: «Indugio, o scusa
piú non fa Turno: e piú non ponno i
Teucri
da quel ch'è patteggiato, e stabilito,
se non se per viltà,
ritrarsi omai.
Eccomi in campo: ecco parato e pronto
sono al duello. Or
fa', padre, che 'l patto
sia fermo e rato e sacro; e i sacrifici
e 'l
giuramento appresta. Oggi, signore,
sii certo ch'io con le mie mani a morte
questo de l'Asia fuggitivo adduco,
e 'l difetto di tutti io solo ammendo
(stiansi pure a vedere i tuoi Latini);
o ch'ei vincendo fia padrone a
voi,
e marito a Lavinia». A cui Latino
col cor sedato in tal guisa
rispose:
«Giovine valoroso, al tuo valore,
a la ferocia tua che tanto
eccede
ne l'armi, io deferisco. E tu dovrai
appagarti di me, s'io,
d'ogni cosa
temendo, con ragione e con maturo
consiglio in tutti i casi
inveglio e curo
che 'l mio stato si salvi e la tua vita.
A te del
vecchio Dauno erede e figlio,
seggio e regno non manca, oltre a le terre
di cui tu fatto hai da te stesso acquisto
per forza d'armi. Oro, favori
e gradi
da Latino avrai sempre; e maritaggi
e donne d'alto affar son per
lo Lazio,
e per le terre di Laurento assai.
Ma soffri ch'io ti parli, e
senti, e nota
poscia quel ch'io dirò: che dirò vero,
ben che noia ti
sia. Fatal divieto
mi proibiva, e gli uomini e gli dèi
m'avean
vaticinando in molte guise
denunzïato, che mia figlia a nullo
io
maritassi di color che chiesta
me l'avean prima. E pur dall'amor vinto
che ti port'io, dal parentado astretto
c'ho con la casa tua, mosso dal
pianto
e da le preci de la donna mia,
dandola a te mi sono al fato
opposto:
ho rotto fede al genero; ho con lui
presa non giusta e non
sicura guerra.
Da indi in qua tu stesso, tu che primo
soffri tante
fatiche e tanti affanni,
hai veduto in che rischi, in che travagli
siam
noi caduti; ché due volte rotti
in due sí gran battaglie, in questo cerchio
ne siam rinchiusi a sostentare a pena
la speranza d'Italia. Il Tebro è
caldo
del nostro sangue. I campi son già bianchi
de le nostr'ossa. Ed
io, folle, a che torno
tante fïate al precipizio mio?
Chi cosí da me
stesso mi sottragge?
Se, Turno estinto, io nel mio regno deggio
i
Troiani accettar, ché non gli accetto
or ch'egli è vivo e salvo? e ché non
pongo
fine a la guerra, a la ruina espressa
del mio regno e de' miei?
Che ne diranno
i Rutuli parenti? che diranne
Italia tutta, quando a
morte io lasci
(voglia Dio che non sia) gir un che tanto
ama la
parentela e 'l sangue mio?
Rimira de la guerra come vana
sia la fortuna.
Abbi pietà del vecchio
Dauno tuo padre, che da te lontano
in Ardea se ne
sta mesto e dolente».
Turno a questo parlar nulla si mosse
de la ferocia
sua: crebbe piú tosto
il suo furore; e lo rimedio stesso
gli aggravò 'l
male. Ei, come pria poteo
formar parola, in tal guisa rispose:
«Nulla
per conto mio di me ti caglia,
signor benigno: anzi, ti prego, in grado
prendi ch'io per la lode e per l'onore
patteggi con la morte. Ed
anch'io, padre,
ho le mie mani; ed anco il ferro mio
ha taglio e punta,
e fa ferita e sangue.
Non sempre avrà, cred'io, la madre a canto
che di
nube lo cuopra e lo trafugga
come vil femminella, e di vane ombre
seco
s'involva». E, ciò detto, si tacque.
Ma la regina, de l'audace impresa
del genero dolente e spaventata,
piangendo, e per angoscia a morte
giunta,
lo tenea, lo pregava, e gli dicea:
«Turno, per queste lagrime,
per quanto
t'è, se pur t'è, de l'infelice Amata
l'onor, l'amore e la
salute in pregio
(già che tu sola speme, e sol riposo
sei de la mia
vecchiezza: a te s'appoggia,
in te si fonda di Latino il regno,
e la sua
dignitade, e la sua casa
che ruina minaccia) in don ti chieggio,
astienti di venir co' Teucri a l'arme;
ché qualunque ne segua avverso
caso
sopra me cade; ch'io teco di vita
escirò pria che mai suocera o
serva
io mi veggia d'Enea». Queste parole
de la madre sentí Lavinia
virgo,
di rugiadose lagrime e d'un foco
di vergineo rossor le guance
aspersa,
qual fôra se di purpura macchiato
fosse un candido avorio, o
che di rose
si spargessero i gigli. In lei mirando
il giovine, d'amor
non men che d'ira
acceso, a la regina brevemente
cosí rispose: «Ah,
madre mia, ti prego,
in cosí perigliosa e dura impresa
non mi far col
tuo pianto e col tuo duolo
sinistro annunzio. Ché s'a Turno è dato
che
muoia, in suo poter piú non è posto
che di morire indugi». Indi a l'araldo
rivolto: «Va, - gli disse, - e da mia parte
quest'ingrata e spiacevole
ambasciata
porta al frigio tiranno, che dimane
tosto che fia la
rubiconda Aurora
a l'orïente apparsa, i Teucri suoi
contr'a Rutuli addur
piú non s'affanni.
Stiensi l'armi de' Rutuli e de' Teucri
per mio conto
in riposo. Ché tra noi
col nostro sangue a diffinir la guerra,
e di
Lavinia le bramate nozze
in su quel campo a procurar ci avemo».
Detto
cosí, vèr la magion s'invia
rapidamente; addur si fece avanti
i suoi
cavalli, e le fattezze e 'l fremito
notando, se ne gode, e ne concepe
speme e vittoria: ché di razza usciti
eran già d'Orizía, da cui Pilunno
ebbe giumente e corridori in dono,
che di candor la neve, e di prestezza
superavano il vento. Avean d'intorno
i valletti e gli aurighi che
palpando,
forbendo e vezzeggiando, in varie guise
gli facean lieti,
baldanzosi e fieri.
Fatte poscia venir l'armi, si veste
la sua corazza
d'oricalco e d'oro
e dentro vi s'adatta e vi si vibra
con la persona.
Imbracciasi lo scudo,
pruovasi l'elmo; e la vermiglia cresta
squassando,
il brando impugna, il fido brando
da lo stesso Vulcano al padre Dauno
temprato in Mongibello a tutte pruove.
Alfine un'asta poderosa e grave,
ch'appo un'alta colonna era appoggiata
in mezzo de la casa, in man si
pianta,
spoglio d'Àttore aurunco. E poiché l'ebbe
brandita e scossa:
«Asta, - gridando disse, -
ch'a le mie fazïoni unqua non fosti
chiamata
indarno, ora al maggior bisogno
da te soccorso imploro. Il grande Attòre
armasti in prima, or sei di Turno in mano.
Dammi che 'l corpo atterri, e
la corazza
dischiodi, e 'l petto laceri e trapassi
di questo frigio
effeminato eunuco;
dammi che 'l profumato, inanellato,
col ferro
attorcigliato zazzerino
gli scompigli una volta, e ne la polve
lo
travolga e nel sangue». In cotal guisa
dicendo, infurïava, ardea nel volto,
scintillava negli occhi, orribilmente
fremea, qual mugghia il toro allor
che irato
si prepara a battaglia, e l'ira in cima
si reca de le corna,
indi l'arruota
a qualche tronco, e 'l tronco e l'aura in prima
ferendo,
alto co' piè sparge l'arena
e del futuro assalto i colpi impara.
Da
l'altro canto Enea, non men feroce
ne l'armi di sua madre, al fiero Marte
s'inanima e s'accinge, e del partito
che gli era per compor la guerra
offerto,
si rallegra, l'accetta; e i suoi compagni
e 'l suo figlio
assicura, or di se stesso
la franchezza mostrando, or le venture
de'
fati rammentando e le promesse.
Indi con la risposta al re Latino
manda chi la disfida e 'l patto accetti,
e del patto i capitoli e le
leggi
stabilisca e confermi. Era de' monti
in su la cima a pena il sole
apparso
de l'altro giorno, allor ch'i suoi destrieri
sorgon da l'onde, e
con le nari in alto
fiamme anelando, il mondo empion di luce:
quando nel
campo i Rutuli discesi
e i Teucri insieme, sotto l'alte mura,
fabbricâr
lo steccato, a cui nel mezzo
i fochi e l'are di gramigna asperse
furo
agli dèi d'ambe le parti eretti
comunemente; e d'ambi i sacerdoti
di
bianco lino involti, e di verbena
cinti le tempie, andaro altri con l'acqua,
altri con le facelle intorno accese.
Poscia ecco degli Ausoni da l'un
canto
a piene porte l'ordinate schiere
uscir da la città di picche
armate;
da l'altro de' Troiani e de' Tirreni
gir l'esercito tutto in
varie guise
d'abiti e d'armi; e questi incontro a quelli
non altramente
ch'a battaglia instrutti.
Fra mezzo a tante mila i condottieri
ciascun
da la sua parte si vedea
gir d'oro e d'ostro alteramente adorni.
E 'l
gran Memmo con questi e 'l forte Asila,
e Messapo con quelli, de' cavalli
il domatore e di Nettuno il figlio.
Poscia che, dato il segno, ebbe
ciascuno
chi di qua chi di là preso il suo loco,
piantâr le lance,
dechinâr gli scudi.
Le donne, i vecchi, i putti e 'l volgo inerme,
di
veder desïosi, altri in su' tetti,
altri in su' rivellini e 'n su le torri
stavan mirando. E non dal campo lunge
sedea Giuno in un colle, Albano or
detto,
ch'allor né d'Alba il nome avea, né 'l pregio
né i sacrifici. In
questo monte assisa
vedea de' Laürenti e de' Troiani
l'accolte genti, e
di Latino il seggio.
Ivi la dea di Turno a la sirocchia,
che dea de'
laghi era e de' fiumi anch'ella,
disse cosí: «Ninfa, de' fiumi onore,
sovr'ogni ninfa a me gioconda e cara,
tu sai come te sola ho preferita,
e come volontier del cielo a parte
meco t'ho posta. Ascolta i tuoi
dolori,
perché di me dolerti unqua non possa.
Finché di Lazio la fortuna
e 'l fato
me l'han concesso, io prontamente e Turno
e la tua terra e i
tuoi sempre ho difeso.
Or veggio questo giovine a duello
con disegual
destino esser chiamato:
veggio il dí della Parca e la nemica
forza che
gli è vicina. Io questo accordo,
questa pugna veder con gli occhi miei
per me non posso. Tu, se cosa ardisci
in pro del tuo germano, ora è
mestiero
che tu l'adopri; e puoi farlo, e convienti.
Fallo: e chi sa che
'l misero non cangi
ancor fortuna?» A pena avea ciò detto
che Iuturna
gemendo e lagrimando
tre volte e quattro il petto si percosse.
A cui
Giuno soggiunse: «E' non è tempo
da stare in pianti. Affretta; e da la morte
scampa, se scampar puossi, il tuo fratello,
o turbando l'accordo, o
suscitando
nuova cagion di mischia e di tumulto.
Io son che l'impongo, e
te n'affido».
Con questo la lasciò sospesa e mesta,
e d'amara puntura il
cor trafitta.
Ecco vengono al campo i regi intanto;
Latino il primo,
alto in un carro assiso,
che da quattro suoi nitidi corsieri,
di gran
macchina in guisa, era tirato,
e, di dodici raggi il fronte adorno,
del
Sole, avo di lui, sembianza avea.
Turno traean due candidi destrieri,
con due suoi dardi in mano agili e forti.
Enea, de la romana stirpe
autore,
con l'armi sue celesti e con lo scudo
che dianzi da le stelle
era venuto,
uscio da l'altro canto, e seco a pari
Ascanio il figlio suo,
de la gran Roma
la seconda speranza. A mano a mano
il sacerdote in pura
veste involto
anzi agli accesi altari il nuovo parto
d'una setosa porca,
ed una agnella
ancor non tosa al sacrificio addusse;
e vòlti a
l'orïente, in atto umíle
s'inchinâr tutti; e vino e farro e sale
sparser
d'ambe le parti; ambe col ferro,
sí com'era uso, a le devote belve
segnâr le tempie. Allor il padre Enea
strinse la spada, e, gli occhi al
ciel rivolti,
cosí disse pregando: «Io questo sole
per testimone invoco
e questa terra,
per cui tanti ho fin qui sofferti affanni;
invoco te,
celeste, onnipotente,
eterno padre, e te, saturnia Giuno,
già vèr me piú
benigna, e ben ti prego
che mi sii tale, e te gran Marte invoco,
ch'a
l'armi imperi; e voi fonti e voi fiumi,
e voi tutti del mar, tutti del cielo
numi possenti; e vi prometto e giuro
che se Turno per sorte è vincitore
di questa pugna, il successor del vinto
gli cederà: ch'a la città
d'Evandro
si ritrarrà; che mai poscia ribelle
non gli sarà: che guerra o
lite o sturbo
alcun altro piú mai non gli farà.
Ma se piú tosto, come io
prego, e come
spero che mi succeda, al nostro Marte
la dovuta vittoria
non si froda;
io non vo' già che gl'Itali soggetti
siano a' miei Teucri,
né d'Italia io solo
tener l'impero; io vo' ch'ambi del pari
questi
popoli invitti aggian tra loro
governo e leggi eguali, e pace eterna.
A
me basta ch'io dia ricetto e culto
a' miei numi, a' miei Teucri, e sia
Latino
suocero mio, del suo regno e de l'armi
signor, rettore e donno.
Io poscia altrove
altre mura ergerommi, e de' miei stessi
fien le
fatiche, e di Lavinia il nome».
Cosí pria disse Enea; cosí Latino
seguitò poi con gli occhi e con la destra
al ciel rivolto: «Ed io giuro,
- dicendo, -
le stesse deità, la terra, il mare,
le stelle, di Latona
ambo i gemelli,
di Giano ambe le fronti, il chiuso centro,
e la gran
possa degl'inferni dii.
Odami di là su l'eterno padre,
che fulminando
stabilisce e ferma
le promesse e gli accordi. I numi tutti
chiamo per
testimoni: e tocco l'ara,
e tocco il foco, e questa pace approvo
dal
canto mio. Né mai, che che si sia
di questa pugna, né per forza alcuna,
né per tempo sarà ch'ella si rompa
di voler mio; non se la terra in
acqua
si dileguasse, non se 'l ciel cadesse
ne l'imo abisso: cosí come
ancora
questo mio scettro (ché lo scettro in mano
avea per sorte) piú né
fronda mai
né virgulto farà poiché reciso
dal vivo tronco, o da radice
svèlto
mancò di madre, e già d'arbore ch'era,
sfrondato, diramato e
secco legno
di già venuto, e d'oricalco adorno
e per man de l'artefice
ridotto
in questa forma, e per quest'uso in mano
dei re latini è posto».
In cotal guisa
fermati i patti e l'ostie in mezzo addotte,
tra i piú
famosi, anzi a l'accese fiamme
le svenâr, le smembrâr, le svisceraro.
E
sí com'eran palpitanti e vive,
le fibre ne spiâr, le diêro al foco,
n'empiêr le squadre e ne colmâr gli altari.
Di già disvantaggioso e
diseguale
questo duello a' Rutuli sembrava;
e già vari bisbigli, e vari
moti
n'eran tra loro; e com' piú sanamente
si rimirava, piú di forze
impàri
si vedea Turno; ed egli stesso indizio
ne diè, che lento e tacito
e sospeso
entrò nel campo. E come ancor di pelo
avea le guance
lievemente asperse,
orando anzi a l'altar pallido il volto
mostrossi, e
chino il fronte, e grave il ciglio.
Tale una languidezza rimirando,
e
tal del volgo un sussurrare udendo
Iuturna, sua sorella, infra le schiere
gittossi, e di Camerte il volto prese.
D'alto legnaggio, di valor
paterno,
e di propria virtute era Camerte
famoso in fra la gente. E tal
sembrando,
già degli animi accorta, iva Iuturna
rumor diversi e tai voci
spargendo:
«Ahi! che vergogna, che follia, che fallo,
Rutuli, è 'l
nostro, che per tanti e tali
sola un'alma s'arrischi? Or siam noi forse
di numero a' nemici inferïori,
o d'ardire, o di forze? Ecco qui tutti
accolti i Teucri e gli Arcadi e gli Etruschi
che sono anco per fato a
Turno infensi.
A due di noi contra un di loro a mischia
che si venisse,
di soverchio ancora
fôrano i nostri. Ei che per noi combatte,
ne sarà
fra gli dèi, cui s'è devoto,
in ciel riposto, e qui tra noi famoso
viverà sempre. Ma di noi che fia,
ch'or ce ne stiam sí neghittosi a
bada?
La patria perderemo? e da stranieri,
e da superbi in servitude
addotti,
preda e scherno d'altrui sempre saremo?
Da questo dir la
gioventú commossa
via piú s'accende, e 'l mormorio serpendo
piú cresce
per le squadre. Onde i Latini
e gli stessi Laurenti, che pur dianzi
di
pace eran sí vaghi e di quïete,
pensier cangiando e voglie, or l'arme tutti
gridano, tutti pregan che l'accordo
sia per non fatto; e tutti han de
l'iniqua
sorte di Turno ira, pietate e sdegno.
In questa, ecco apparir
ne l'aria un mostro
per opra di Iuturna, onde turbati
e dal primo
proposito distolti
fûr da vantaggio de' Latini i cuori.
Videsi per lo
lito e per lo cielo
di roggio asperso un di palustri augelli
impaürito e
strepitoso stuolo.
Dietro un'aquila avea, ch'a mano a mano
giuntolo de
lo stagno in su la riva,
un cigno ne ghermí ch'era di tutti
il maggiore
e 'l piú bello. A cotal vista
gli occhi e gli animi alzâr l'itale squadre;
e gli augei, che pur dianzi erano in fuga
(mirabile a vedere!), in un
momento
stridendo si rivolsero, e ristretti
in densa nube, ond'era il
ciel velato,
la nimica assaliro. E sí d'intorno
la cinser, l'aggirâr,
l'attraversaro,
ch'a cielo aperto, u' dianzi erano in fuga,
le fêr
gabbia, ritegno e forza, al fine
che, gravata dal peso e stretta e vinta,
de la lena mancasse e de la preda.
Il cigno dibattendosi, da l'ugne
sovra l'onde gli cadde; ed ella scarca,
da la turba fuggendo, al cielo
alzossi.
I Rutuli a tal vista con le grida
salutâr pria l'augurio:
indi a la pugna
si prepararo. E fu Tolunnio il primo,
ch'augure,
incontro al patto, anzi le schiere
si spinse armato, e disse: «Or questo è,
questo
ch'io desïava; e questo è quel ch'io cerco
ho ne' miei vóti.
Accetto e riconosco
il favor degli dèi. Me, me seguite,
Rutuli miei. Con
me l'armi prendete
contro al malvagio, che di strana parte
venuto con la
guerra a spaventarci,
ha voi per vili augelli, e i vostri lidi
cosí
scorre e depreda. Ma ritolto
questo cigno gli fia; di nuovo al mare
in
fuga se n'andrà. Voi combattendo
in guisa de la pria fugace torma,
ristringetevi insieme, e riponete
il vostro re, che v'è rapito, in
salvo».
Detto cosí, spinse il destriero, e trasse
contr'a' nimici.
Andò stridendo e dritto
l'aura secando il fulminato dardo:
e 'nsieme
udissi col suo rombo un grido
che insino al ciel, de' Rutuli, sentissi.
Insieme scompigliossi il campo tutto,
turbârsi i petti, ed infiammârsi i
cuori.
L'asta volando giunse ove a rincontro
nove fratelli eran per
sorte accolti,
che tutti d'una sola etrusca moglie
da l'arcadio Gilippo
eran creati.
Un di lor ne colpí là 've nel mezzo
il cinto s'attraversa,
e con la fibbia
s'afferra al fianco. Ivi tra costa e costa,
penetrando
altamente, lo trafisse,
e morto in su l'arena lo distese.
Questi, il piú
riguardevole ne l'armi
era degli altri, e 'l piú bello e 'l piú forte,
e
gli altri come tutti eran feroci,
dal dolore infiammati incontinente
chi
la spada impugnò, chi prese il dardo;
e contra il feritor tutti in un tempo
come ciechi, avventârsi. Incontro a loro
si mosser de' Laurenti e de'
Latini
le genti a schiere, e d'altro lato a schiere
spinsero i Teucri e
gli Arcadi e gli Etruschi.
Cosí d'arme e di sangue uguale ardore
surse
d'ambe le parti; e l'are e 'l foco
ch'eran di mezzo, e l'ostie e le patene
n'andâr sossopra; e tal di ferri e d'aste
denso levossi e procelloso un
nembo,
che 'l sol se n'oscurò, sangue ne piovve.
Grida e fugge Latino, e
i numi offesi
se ne riporta, e detestando abborre
il vïolato accordo.
Armasi intanto
il campo tutto; e chi frena i destrieri,
chi 'l carro
appresta; e già con l'aste basse,
e con le spade ad investir si vanno.
Messapo desïoso che l'accordo
si disturbasse, incontro al tosco Auleste
che, come re, di regal fregi adorno
e d'ostro, al sacrificio era
assistente,
spinse il cavallo e spaventollo in guisa,
che mentre si
ritragge infra gli altari
ch'avea da tergo, urtando, si travolse.
Messapo con la lancia incontinente
gli si fe' sopra, e sí com'era in
atto
di supplicarlo, il petto gli trafisse,
«Cosí ben va, - dicendo, -
or a' gran numi
porco piú grato e miglior ostia cadi».
Cadde il
meschino, e fu, spirante e caldo,
sovraggiunto dagl'Itali e spogliato.
Diè Corinèo per un gran tizzo a l'ara
di piglio; e sí com'era ardente e
grave,
ad Ebuso ch'incontro gli venia,
nel volto il fulminò. Schizzonne
insieme
il foco e 'l sangue; e di baleno in guisa
un lampo ne la barba
gli rifulse
che diè d'arsiccio odore, indi gli corse
sopra senza
ritegno; e qual trovollo
da la percossa abbarbagliato e fermo,
l'afferrò
per la chioma, a terra il trasse,
col ginocchio lo strinse, e col trafiere
gli passò 'l fianco. Podalirio ad Also
pastor, che fra le schiere
infurïava,
s'affilò dietro; e già col brando ignudo
gli soprastava,
allor ch'Also rivolto
la gravosa bipenne ond'era armato
gli piantò nella
fronte e 'nsino al mento
il teschio gli spartí, l'armi gli sparse
tutte
di sangue: ond'ei cadde, e le luci
chiuse al gran buio ed al perpetuo sonno.
Enea senz'elmo in testa, infra le genti
la disarmata destra alto
levando,
e discorrendo, e richiamando i suoi:
«Dove, dove ne gite? Che
tumulto, -
dicea, - che furia, che discordia è questa
cosí repente? Oh
trattenete l'ire;
oh non rompete. Il patto è stabilito;
l'accordo è
fatto. Solo a me concesso
è ch'io combatta. A me sol ne lasciate
la cura
e 'l carco. Io, non temete, io solo
il patto vi ratifico e vi fermo
con
questa sola destra; e Turno a morte
di già mi si promette, e mi si deve
da questi sacrifici». In questa guisa
gridava il teucro duce; ed ecco
intanto
venir d'alto stridendo una saetta;
non si sa da qual mano, o da
qual arco
si dipartisse. O caso, o dio che fosse
che tanta lode a'
Rutuli prestasse,
l'onor se ne celò, né mai s'intese
chi del ferito Enea
vanto si desse.
Turno, poiché dal campo Enea fu tratto,
e turbar vide
i suoi, di nuova speme
s'accese, e gridò l'armi, e sopra al carro
d'un
salto si slanciò, spinse i cavalli
infra' nemici, e molti a morte dienne.
Molti ne sgominò, molti n'infranse,
e con l'aste, fuggendo, ne percosse.
Qual è de l'Ebro in su la fredda riva
il sanguinoso Marte, allor
ch'entrando
ne la battaglia, o con lo scudo intuona,
o fulmina con
l'asta, e i suoi cavalli
da la furia e da lui cacciati e spinti
ne van
co' venti a gara, urtando i vivi,
e calpestando i morti; e fan col suono
de' piè fino agli estremi suoi confini
tremar la Tracia tutta, e van con
essi
lo spavento, il timor, l'insidie e l'ire,
del bellicoso iddio
seguaci eterni;
in cosí fiera e spaventosa vista
se ne gia Turno, la
campagna aprendo,
uccidendo, insultando e di nemici
miserabil ruina e
strage e strazio
or con l'armi facendo, or co' destrieri
che sudanti,
fumanti e polverosi,
spargean di sangue e di sanguigna arena
con le
zampe e con l'ugne un nembo intorno.
Stènelo, ne l'entrar, Tàmiro e Polo
condusse a morte; i due primi da presso,
l'ultimo da lontano. E da lunge
anco
Glauco percosse e Lado; i due famosi
figli d'Imbraso, ne la Licia
nati,
da lui stesso nutriti, e parimente
a cavalcare e guerreggiare
instrutti.
Da l'altra parte Eumède il chiaro germe
de l'antico Dolone.
Il nome avea
costui de l'avo, e l'ardimento e i fatti
seguia del padre,
che de' Greci il campo
spïare osando, osò d'Achille ancora
in premio de
l'ardir chiedere il carro.
Ma d'altro che di carro premïollo
il figlio
di Tidèo; né però degno
d'un tanto guiderdone unqua si tenne.
Turno,
poscia che 'l vide (che da lunge
lo scòrse) con un dardo il giunse in prima:
indi a terra gittossi: e qual trovollo
di già caduto e moribondo, il
piede
sopr'al collo gl'impresse, e ne la strozza
lo suo stesso pugnal
cacciogli, e disse:
«Troiano, ecco l'Italia, ecco i suoi campi,
che
tanto desïasti: or gli misura
costí giacendo. E questo si guadagna
chi
contra a Turno ardisce; e 'n questa guisa
si fondan le città». Dietro a
costui
Bute, e di mano in man Darete, Cloro
e Síbari e Tersíloco e
Timete
lanciando, uccise. Ma Timete in terra
ferí, che per sinistro o
per difetto
d'un suo restio cavallo era caduto.
Qual sopra al grande
Egeo sonando scorre
il tracio Bora, che le nubi e i flutti
si sgombra
avanti; e questi ai lidi, e quelle
a l'orizzonte in fuga se ne vanno:
tal per lo campo, ovunque si rivolge,
fa Turno sgominar l'armi e le
schiere;
e tal seco ne va furia e spavento,
che financo al cimier morte
minaccia.
Fegèo, tanta fierezza e tanto orgoglio
non sofferendo, al
concitato carro
parossi avanti, e lievemente un salto
spiccando, con la
destra al fren s'appese
del sinistro corsiero. E sí com'era
da la fuga
rapito e da la forza
di tutti insieme, insiememente a tutti
(dal sentier
divertendoli e dal corso)
facea storpio e disturbo. Ed ecco al fianco
che da la destra parte era scoperto,
cotal sentissi de la lancia un
colpo
che la corazza ancor che doppia e forte,
stracciogli, e 'n fino al
vivo lo trafisse
ma di lieve puntura. Ond'ei rivolto,
e 'mbracciato lo
scudo e stretto il brando,
contra gli s'affilava, e per soccorso
gridava
intanto. Ma la ruota e l'asse
ch'erano in moto, urtandolo, a rovescio
gittârlo, e Turno immantinente addosso
sagliendogli, infra l'elmo e la
gorgiera
il collo gli recise, e dal suo busto
tronco il capo lasciogli
in su l'arena.
Mentre cosí vincendo e d'ogni parte
con tanta strage il
campo trascorrendo
se ne va Turno; Enea dal fido Acate,
da Memmo e dal
suo figlio accompagnato
(come da la saetta era ferito),
sovr'un'asta
appoggiato, a lento passo
verso gli alloggiamenti si ritragge.
Ivi
contro a lo stral, contro a se stesso
s'inaspra e frange il tèlo, di sua
mano
ripesca il ferro. e poi che indarno il tenta,
comanda che la piaga
gli s'allarghi
con altro ferro, e d'ogn'intorno s'apra,
sí che tosto dal
corpo gli si svelga,
e tosto alla battaglia se ne torni.
Comparso
intanto era a la cura Iapi
d'Iäso il figlio, sovr'ogn'altro amato
da
Febo. E Febo stesso, allor ch'acceso
era da l'amor suo, la cetra e l'arco
e 'l vaticinio, e qual de l'arti sue
piú l'aggradasse, a sua scelta gli
offerse.
Ei che del vecchio infermo e già caduco
suo padre la salute e
gli anni amava,
saper de l'erbe la possanza, e l'uso
di medicare elesse,
e senza lingua
e senza lode e del futuro ignaro
mostrarsi in pria, che
non ritorre a morte
chi li diè vita. A la sua lancia Enea
stava
appoggiato, e fieramente acceso
fremendo, avea di giovani un gran cerchio
col figlio intorno, al cui tenero pianto
punto non si movea. Sbracciato
intanto
e con la veste e la cintura avvolta,
qual de' medici è l'uso, il
vecchio Iapi
gli era d'intorno; e con diverse pruove
di man, di ferri,
di liquori e d'erbe
invan s'affaticava, invano ogn'opra,
ogn'arte, ogni
rimedio, e i preghi e i vóti
al suo maestro Apollo eran tentati.
De la
battaglia rinforzava intanto
lo scompiglio e l'orrore; e già 'l periglio
s'avvicinava; già di polve il cielo,
di cavalieri il campo era coverto;
che fin dentro a' ripari e fra le tende
ne cadevano i dardi; e già da
presso
s'udian de' combattenti e de' caduti
i lamenti e le grida. Il
caso indegno
d'Enea suo figlio, e 'l suo stesso dolore
in sé Ciprigna e
nel suo cor sentendo,
ratto v'accorse, e fin di Creta addusse
di dittamo
un cespuglio, che recente
di sua man còlto, era di verde il gambo,
di
tenero le foglie, e d'ostro i fiori
tutto consperso e rugiadoso ancora.
Quest'erba per natura ai capri è nota,
e da lor cerca allor che 'l tergo
o 'l fianco
ne van di dardo o di saetta infissi.
Con questa Citerèa per
entro un nembo
ne venne ascosa, e col salubre sugo
d'ambrosia e
d'odorata panacea
mischiolla, e poscia i tiepidi liquori
ch'eran già
presti in tal guisa ne sparse,
che nïun se n'avvide. E n'ebbe a pena
la
piaga infusa, che l'angoscia e 'l duolo
cessò repente, il sangue d'ogni
parte
de la ferita in fondo si raccolse,
e seguendo la mano, il ferro
stesso
come da sé n'uscio. Spedito e forte,
e nel pristino suo vigor
ridotto,
Enea dritto levossi. Iäpi il primo:
«A che, - disse, - badate?
e perché l'arme
tosto non gli adducete?» Indi a lui vòlto,
contro a'
nemici in tal guisa infiammollo:
«Enea, non è, non è per possa umana
o
per umano avviso o per mia cura
questo avvenuto. Un dio, certo un gran dio
a gran cose ti serba». In questo mezzo
ei, già di pugna desïoso,
entrambi
s'avea gli stinchi di dorata piastra,
il dorso di lorica, e la
sinistra
di scudo armata. E già l'asta squassando,
d'indugio impazïente,
in su la soglia
tanto sol de la tenda si ritenne,
che, sí com'era di
tutt'armi involto,
il caro Iulo caramente accolse,
e con le labbia a
pena entro l'elmetto
baciollo, e disse: «Figlio mio, da me
la sofferenza
e la virtute impara;
la fortuna dagli altri. Io, quel che posso
or con
questa mia destra ti difendo:
onor, grandezza e signoria t'acquisto
col
sangue mio. Tu poi, quando maturi
fian gli anni tuoi, fa che d'Enea tuo
padre
e d'Ettore tuo zio sí ti rammenti,
che ti sian le fatiche e i
gesti loro
a gloria ed a vertute esempi e sproni».
Detto cosí, fuor de
le porte uscendo,
brandí la lancia, e tutti in un drappello
ristrinse i
suoi. Memmo ed Antèo con esso,
e quanti altri del vallo erano in prima
lasciati a guardia, il vallo abbandonando,
dietro gli s'inviaro. Allor
di polve
levossi un nembo, e d'ogn'intorno scossa
al calpitar de' piè
tremò la terra.
Turno di sopra un argine mirando,
questa gente venir
si vide incontro.
Viderla, e ne temero e ne tremaro
gli Ausoni tutti.
Udinne il suon da lunge
Iuturna in prima, e per timore indietro
se ne
ritrasse. Enea volando, al campo
spinse lo stuol, che polveroso e scuro
tal se n'andò qual d'alto mare a terra
squarciato nembo, quando, ohimè!
che segno
e che spavento, e che ruina apporta
ai miseri coloni! e quanta
strage
agli alberi, a le biade, a la vendemmia
se ne prepara! e qual se
n'ode intanto
sonar procella, e venir vento a riva!
Cotal contro a'
nemici il teucro duce
co' suoi, come in un gruppo insieme uniti,
entrò
ne la battaglia. Al primo incontro
Osiri, Archezio, Ufente ed Epulone
ne
gir per terra. Acate e Memmo e Gia
e Timbrèo gli affrontaro, e ciascun
d'essi
atterrò 'l suo. Cadde Tolunnio appresso,
l'augure che primiero il
dardo trasse
nel turbar de l'accordo. Al suo cadere
tutto in un tempo
empiessi il ciel di grida,
la campagna di polve; e vòlti in fuga
se ne
giro i Latini. Enea sdegnando
e di seguire e d'incontrar qual fosse
pedone o cavalier, che o lunge o presso
di provocarlo e di ferirlo
osasse,
sol di Turno cercando iva per entro
quella densa caligine, e 'l
suo nome
solamente gridando, a la battaglia
lo disfidava. Impaürita e
mesta
di ciò Iuturna, la virago ardita,
tosto di Turno al carro
appropinquossi,
e giú Metisco, il suo fedele auriga,
subito trabocconne.
Ed ella in vece
e 'n sembianza di lui, lui stesso al corpo,
a l'armi, a
la favella, ad ogni moto
rassomigliando, in seggio vi si pose,
e ne
prese le redini, e lo resse.
Qual ne va negra rondine alïando
per le
case de' ricchi, allor che piume
e fuscelletti al cominciato nido
quinci
e quindi rauna, o picciol'esca
a' suoi loquaci pargoletti adduce;
che
sotto a' porticali e sopra l'acque,
e per gli atri volando e per le sale
or alto or basso si travolve e gira;
cotal Iuturna il campo
attraversando
per ogni parte si spingea col carro
e co' destrieri infra
i nemici a volo,
sovente a loco a loco il suo fratello
vincitor
dimostrando, e non soffrendo
che punto dimorasse, o ch'a rincontro,
o
pur vicino al gran Teucro ne gisse.
Enea da l'altro canto incontro a lui
volgendo, e rivolgendo, e fra le schiere
cosí com'eran dissipate e
sparse
indarno ricercandolo, il chiamava
ad alta voce. E mai gli occhi
non torse
ov'ei si fusse, e dietro non gli mosse,
ch'ella co' suoi
corsieri in piú diversa
e piú lontana parte non fuggisse.
Or che farà,
ch'ogni pensiero, ogni opra,
ogni disegno gli rïesce invano?
e i pensier
son diversi? Ecco Messapo,
che per lo campo discorrendo intanto
d'improvviso l'incontra. E sí com'era
d'una coppia di dardi a la
leggiera
ne la sinistra armato, un ne gli trasse
dritto sí che feria; se
non ch'Enea
gli fece schermo, e rannicchiato e stretto
chinossi
alquanto. E pur ne l'elmo il colse
e 'l cimier ne divelse. Irato surse;
e poiché da' nemici attorneggiato
si vide, e che i cavalli eran di Turno
di già spariti, a Giove, ai sacri altari
del vïolato accordo e de
l'insidie
molto si protestò: poscia tra loro
gittossi impetuoso, e
strazio e strage
prosperamente, ovunque si rivolse,
ne fece a tutto
corso; e senza freno
si diede a l'ira ed a la furia in preda.
Or qual
nume sarà ch'a dir m'aíti
le tante occisïoni e sí diverse
che di duci e
di schiere e di falangi
fecer quel giorno, Enea da l'una parte,
Turno da
l'altra? Ah, Giove, sí crudele,
sí sanguinosa guerra infra due genti
che
saran poscia eternamente in pace?
Enea Sucrone, un de' piú forti Ausoni
occise in prima, e primamente i Teucri
fermò, ch'eran da lui rivolti in
fuga.
L'incontrò, lo ferí, senza dimora
morto a terra il gittò; ch'in un
de' fianchi
con la spada lo colse, e ne le coste
e ne la vita stessa ne
gl'immerse.
Turno a piè dismontato, Àmico in terra,
che da cavallo era
caduto, infisse:
e seco il frate suo Dïoro estinse.
L'un di lancia ferí,
l'altro di brando;
e d'ambi i capi dai lor tronchi avulsi,
sí com'eran
di polvere e di sangue
stillanti e lordi, per le chiome appesi
anzi al
carro si pose. E via seguendo
quegli Talone e Tànai e Cetègo
tre feroci
Latini ad un assalto
si stese avanti, e 'l mesto Onite appresso
figlio
di Peridía, gloria di Tebe.
E tre dal canto suo questi n'ancise
ch'eran
fratelli de la Licia usciti
e de' campi d'Apollo; a cui per quarto
Menete aggiunse. Ah, come il fato indarno
si fugge! Infin d'Arcadia fu
costui
qui condotto a morire. E 'n su la riva
era nato di Lerna, ove
pescando,
da l'armi, da le corti e da' palagi
si tenea lunge; e solo il
suo tugurio
avea per reggia, e per signore il padre,
povero agricoltor
de' campi altrui.
Come due fochi in due diverse parti
d'un secco bosco
accesi, ardon sonando
le querce e i lauri; o due rapidi e gonfi
torrenti
che nel mar dagli alti monti
precipitando, se ne va ciascuno
il suo
cammino aprendo, e ciò che truova
si caccia avanti e rumoreggia e spuma;
cosí per la campagna, ambi fremendo,
le schiere sgominando, e questi e
quelli
atterrando ne gian, da l'una parte
Enea, Turno da l'altra. Or sí
che d'ira,
or sí che di furor si bolle e scoppia,
e con tutte le forze a
ferir vassi;
ché l'esser vinto, e non la morte è morte.
E qui Murrano
(un che superbo e gonfio,
del nome e de l'origine vantando
se ne gia
degli antichi avi e bisavi
latini regi) fu d'un balzo a terra
da la
furia d'Enea spinto e travolto;
sí che di lui, del carro e de le ruote
fatto un viluppo, i suoi stessi cavalli,
il signore oblïando,
incrudelîrsi,
e sotto al giogo e sotto ai calci accolto
l'infranser, lo
pigiâr, lo strascinaro
e l'ancisero alfine. Ilo, che fiero
e minaccioso
avanti gli si fece,
seguí Turno a ferir di dardo, in guisa
che de
l'elmetto la dorata piastra
e le tempie e 'l cerèbro gli trafisse.
Né
tu, Crèteo, di man di Turno uscisti,
perché de' piú robusti e de' piú forti
fosti de' Greci. Né di man d'Enea
scampâr Cupento i suoi numi invocati:
ché nel petto ferillo, e non gli valse
lo scudo che di bronzo era
coverto.
E tu che contra a tante argive schiere
e contra al domator di
Troia Achille,
Eölo, non cadesti, in questi campi
fosti, qual gran
colosso, a terra steso.
Ma che? Quest'era il fin de' giorni tuoi:
qui
cader t'era dato. Appo Lirnesso
altamente nascesti: appo Laurento
umil
sepolcro avesti. Eran già tutti
quinci i Latini e quindi i Teucri a fronte,
e tra lor mescolati Asila e Memmo,
e Seresto e Messapo, e le falangi
degli Arcadi e de' Toschi, ognun per sé,
e tutti insieme con estrema
possa,
con estremo valor senza riposo
facean mortale e sanguinosa
mischia.
Qui nel pensiero al travagliato figlio
pose Ciprigna di
voltar le schiere
subitamente a le nimiche mura,
e con quel nuovo,
inopinato avviso
assalir, disturbare, e l'oste insieme
e la città por
de' Latini in forse.
E sí come, di Turno investigando,
volgea le luci in
questa parte e 'n quella,
vide Laurento che non tocco ancora
stava da
tanta guerra immune e scevro.
E da l'occasïon subitamente
preso
consiglio, a sé Memmo, Seresto
e Sergesto chiamando, indi vicino
sovr'un
colle si trasse, ove de' Teucri
a mano a man si raunâr le schiere.
E sí
come raccolti, armati e stretti
s'eran già fermi, in mezzo alto levossi
e cosí disse: «Udite, e senza indugio
fate quel ch'io dirò. Giove è con
noi.
E perché sí repente io mi risolva
a questa impresa, non però di voi
alcun sia che men pronto vi si mostri.
Oggi o che re Latino al nostro
impero
converra ch'obbedisca e freno accetti;
o che questa città, seme e
cagione
di questa guerra, e questo regno tutto
a foco, a ferro ed a
ruina andranne.
E che deggio aspettar? Che non piú Turno
fugga, si come
fa, la pugna mia?
E che vinto una volta, si contenti
di combattere
un'altra? Il capo e 'l fine,
cittadin miei, di questa guerra è questo.
Via, col foco a le mura, e con le fiamme
ne vendichiam del vïolato
accordo».
Avea ciò detto, quando ognuno a gara
e tutti insieme
inanimati e stretti
di conio in guisa, qual intera massa,
appressâr la
città. Vi furon preste
le scale e 'l foco. Altri assalîr le porte,
e
questi e quelli occisero e cacciaro,
come pria s'abbattero. Altri lanciando
oppugnâr la muraglia; onde levossi
di terra un nembo che fece ombra al
sole.
Enea sotto le mura attorneggiato
da' primi suoi, la destra alto
e la voce
levando, or con Latino or con gli dèi
si protestava, che due
volte a l'armi
era forzato e che due volte il patto
gli si turbava. I
cittadini intanto
facean tumulto. E chi volea che dentro
si chiamassero
i Teucri e che le porte
fossero aperte, il re fin su le mura
a ciò
traendo;, e chi l'armi gridando
s'apprestava a difesa. Era a vederli
qual è di pecchie entro una cava rupe
accolto sciame allor che dal
pastore
d'amaro fumo è la caverna offesa;
che trepide, confuse e d'ira
accese,
per l'incerate fabbriche travolte,
discorrendo e ronzando se ne
vanno:
al cui stridor l'affumigata grotta
mormora, e tetro odore a
l'aura esala.
In questo tempo un infortunio orrendo,
timor, confusïone
e duolo accrebbe
agli afflitti Latini, e pose in pianto
il popol tutto:
e fu che la reina,
visto da lunge incontro a la cittade
venire i Teucri,
e già le faci e l'armi
volar per entro, e piú nulla sentendo
o vedendo
de' Rutuli o di Turno,
onde aíta o speranza le venisse,
si credé la
meschina che già l'oste
fosse sconfitto, e, 'l genero caduto,
ogni cosa
in ruina. E presa e vinta
da súbito dolore, alto gridando:
«Ah! ch'io la
colpa, - disse - io la cagione,
io l'origine son di tanto male».
E dopo
molto affliggersi e dolersi,
già furïosa e di morir disposta,
il petto
aprissi, e la purpurea veste
si squarciò, si percosse, e dell'infame
nodo il collo s'avvinse, e strangolossi.
Udito il caso, la diletta
figlia
i biondi crini e le rosate guance
prima si lacerò, poscia la
turba
v'accorse de le donne, e di tumulto,
di pianti, di stridori e
d'ululati
la reggia tutta e la cittade empiessi.
Ognun si sgomentò.
Latino, afflitto
de la morte d'Amata e del periglio
del regno tutto,
lanïossi il manto,
bruttossi il bianco e venerabil crine
d'immonda
polve; amaramente pianse
che per suocero dianzi e per amico
non si
confederò col frigio duce.
Turno, che in questo mezzo combattendo
rimaso era del campo in su l'estremo
incontro a pochi, e quelli anco
dispersi,
già scemo di vigore, e trasportato
da' suoi cavalli, che
ritrosi e stanchi
ognor piú se n'andavano lontani,
in sé confuso e
dubbio se ne stava.
Quando ecco di Laurento ode le grida
con un terror
che, non compreso ancora,
gli avea da quella parte il vento addotto.
Porse l'orecchie, e 'l mormorio sentendo
de la città, che tuttavia piú
chiaro
di tumulto sembrava e di travaglio:
«Oh, - disse, - che sent'io?
che novitate
e che rumore e che trambusto è questo
che di dentro mi
fère?». E, quasi uscito
di sé, mirando ed ascoltando stette.
Cui la
sorella (come già conversa
era in Metisco, e come i suoi cavalli
stava
reggendo) si rivolse, e disse:
«Di qua, Turno, di qua. Quinci la strada
ne s'apre a la vittoria. Altri a difesa
saran de la città. Se d'altra
parte
Enea de' tuoi fa strage, e tu da questa
distruggi i suoi, che mon
men gloria aremo,
e piú sangue faremo». E Turno a lei:
«O mia sorella!
(che mia suora certo
sei tu) ben ti conobbi infin da l'ora
che turbasti
l'accordo, e che poi meco
ne la battaglia entrasti. Or, benché dea,
indarno mi t'ascondi. E chi dal cielo
cosí qua giú ti manda a soffrir
meco
tante fatiche? A veder forse a morte
gir tuo fratello? E che,
misero! deggio
far altro mai? qual mi si mostra altronde
o salute o
speranza? Io stesso ho visto
con gli occhi miei, lo mio nome chiamando,
cadere il gran Murrano. E chi mi resta
di lui piú fido e piú caro
compagno?
E 'l magnanimo Ufente anco è perito,
credo, per non veder le
mie vergogne:
e 'l corpo e le armi sue, lasso! in potere
son de' nemici.
E soffrirò (ché questo
sol ci mancava) di vedermi avanti
aprir le mura,
e ruinare i tetti
de la nostra città? Né fia che Drance
menta de la mia
fuga? E fia che Turno
volga le spalle, e quella terra il vegga?
Sí gran
male è morire? inferni dii,
accoglietemi voi, poiché i superni
mi sono
infesti. A voi di questa colpa
scenderò spirto intemerato e santo,
e non
sarò de' miei grand'avi indegno».
Ciò disse a pena; ed ecco a tutta
briglia
venir per mezzo a le nemiche schiere
un cavalier che Sage era
nomato.
Di spuma e di sudore il suo cavallo,
e di sangue era sparso. In
volto infissa
portava una saetta, e con gran furia
Turno chiamando e
ricercando andava.
Poscia che 'l vide: «In te, - disse, - è riposta
ogni speranza: abbi pietà de' tuoi.
Enea va come un folgore atterrando
tutto ciò che davanti gli si para;
e le mura e le torri e 'l regno tutto
di ruinar minaccia; e già le faci
volano ai tetti. A te gli occhi
rivolti
son de' Latini. E già Latino stesso
vacilla, e fra due stassi a
qual di voi
s'attenga, e di cui suocero s'appelli.
La regina che solo
era sostegno
de la tua parte, di sua propria mano,
per timore e per odio
de la vita,
s'è strangolata. Solamente Atina
e Messapo a difesa de le
porte
fan testa; ma gli vanno i Teucri a schiere
con tant'aste a
rincontro e tante spade
serrati insieme, quante a pena in campo
non son
le biade. E tu per questa vòta
e deserta campagna il carro indarno
spingendo e volteggiando te ne stai?»
Turno da tante orribili novelle
sopraggiunto in un tempo e spaventato,
si smagò, s'ammutí, col viso a
terra
chinossi. Amor, vergogna, insania e lutto
e dolore e furore e
coscïenza
del suo stesso valore accolti in uno,
gli arsero il core e gli
avvamparo il volto.
Ma poscia che gli fu la nebbia e l'ombra
de la
mente sparita, e che la luce
gli si scoprí de la ragione in parte:
cosí
com'era ancor turbato e fero,
di sopra al carro a la città rivolse
l'ardente vista. Ed ecco in su le mura
vede che una gran fiamma al cielo
ondeggia,
gli assiti, i ponti e le bertesche ardendo
d'una torre ch'a
guardia era da lui
de la muraglia in su le ruote eretta.
E disse: «Già,
sorella, già son vinto
dal mio destino. A che piú m'attraversi?
Via,
dove la fortuna e dio ne chiama!
Fermo son di venir col Teucro a l'armi,
e soffrir de la pugna e de la morte
ogni acerbezza, anzi che tu mi vegga
de la gloria de' miei, sorella, indegno.
Or al fato mi lascia e sostien
ch'io
disfoghi infurïando il mio furore».
Cosí dicendo, fuor del carro
a terra
gittossi incontinente, e la sirocchia
lasciando afflitta, via
per mezzo a l'armi
e per mezzo a' nemici a correr diessi.
Qual di cima
d'un monte in precipizio
rotolando si volge un sasso alpestro,
che dal
vento o dagli anni o da la pioggia
divelto, per le piagge a scosse, a balzi
vada senza ritegno, e de le selve
e degli armenti e de' pastori insieme
meni guasto, ruina e strage avanti;
tal per l'opposte e sbaragliate
schiere
se ne gia Turno. E giunto ove in cospetto
de la città di molto
sangue il campo
era già sparso, e pien di dardi il cielo,
alzò la mano,
e con gran voce disse:
«State, Rutuli, a dietro; e voi, Latini,
toglietevi da l'armi. Ogni fortuna,
qual ch'ella sia di questa pugna, è
mia.
A me la colpa, a me si dee la pena
del vïolato accordo: a me per
tutti
pugnar debitamente si conviene».
A questo dir di mezzo ognun si
tolse,
ognun si ritirò. Di Turno il nome
Enea sentendo, il cominciato
assalto
dismise e da le mura e da le torri
e da tutte l'imprese si
ritrasse.
Per letizia esultò, terribilmente
fremé, si rassettò, si vibrò
tutto
nell'armi, e 'n sé medesmo si raccolse;
quanto il grand'Ato, o 'l
grand'Erice a l'aura
non sorge a pena, o 'l gran padre Appennino,
allor
che d'elci la fronzuta chioma
per vento gli si crolla, e che di neve
gioioso alteramente s'incappella.
I Rutuli, i Latini, i Teucri, e tutti
o ch'a la guardia o ch'a l'offesa in prima
fosser de la muraglia, ognuno
a gara
l'armi deposte, a rimirar si diêro.
Latino esso re stesso
spettatore
ne fu con meraviglia, ch'anzi a lui
altri due re sí grandi, e
di due parti
del mondo sí diverse e sí remote,
fosser de l'armi al
paragon venuti.
Eglino, poiché largo e sgombro il campo
ebber davanti,
non si fur da lunge
veduti a pena, che correndo entrambi
mosser l'un
contra l'altro. I dardi in prima
s'avventâr di lontano, indi s'urtaro;
e
'l tonar degli scudi e 'l suon degli elmi
fe' la terra tremare, e l'aura ai
colpi
fischiò de' brandi. La fortuna insieme
si mischiò col valore. In
cotal guisa
sopra al gran Sila o del Taburno in cima,
d'amore accesi,
con le fronti avverse
van due tori animosi a riscontrarsi;
che pavidi in
disparte se ne stanno
i lor maestri, s'ammutisce e guarda
la torma
tutta, e le giovenche intanto
stan dubbie a cui di lor marito e donno
sia de l'armento a divenir concesso:
ed essi urtando, con le corna
intanto
si dan ferite, che le spalle e i fianchi
ne grondan sangue, e ne
rimugghia il bosco;
tal del troiano e dell'ausonio duce
era la pugna e
tal de le percosse
e degli scudi il suono. A questo assalto
il gran
Giove nel ciel librate e pari
tenne le sue bilance, e d'ambi il fato,
contrapesando, attese a qual di loro
desse la sua fatica e 'l suo valore
de la vittoria o de la morte il crollo.
Qui Turno a tempo, che sicuro
e destro
gli parve, alto levossi, e con la spada
di tutta forza a
l'avversario trasse,
e ne l'elmo il ferí. Gridaro i Teucri,
trepidaro i
Latini, e sgomentârsi
tutte d'ambi gli eserciti le schiere.
Ma la
perfida spada in mezzo al colpo
si ruppe, e 'n sul fervore abbandonollo,
sí che la fuga in sua vece gli valse:
ch'a fuggir diessi, tosto che la
destra
disarmata si vide, e che da l'else
l'arme conobbe che la sua non
era.
È fama che da l'impeto accecato,
allor che prima a la battaglia
uscendo
giunse Turno i cavalli e 'l carro ascese,
per la confusïone e
per la fretta
lasciato il patrio brando, a quel di piglio
diè per
disavventura, che davanti
gli s'abbatté del suo Metisco in prima.
E
questo, fin che dissipati e rotti
n'andaro i Teucri, assai fedele e saldo
lungamente gli resse. Ma venuto
con l'armi di Vulcano a paragone
(come quel che di mano era costrutto
di mortal fabbro) mal temprato e
frale,
qual di ghiaccio, si franse e ne la sabbia
ne rifulsero i pezzi.
E cosí Turno
fuggendo, or quinci or quindi per lo campo,
qual
forsennato, indarno s'aggirava,
d'ogni parte rinchiuso; che da l'una
lo
serravano i Frigi e la palude,
e 'l fosso e la muraglia era da l'altra,
e non men ch'ei fuggisse, il teucro duce
(come che da la piaga ancor
tardato
fosse de la saetta, e le ginocchia
si sentisse ancor fiacche) il
seguitava.
L'ardente voglia, e la speranza eguale
a la téma di lui, sí
lo spingea,
che già già gli era sopra, e già 'l feria.
Cosí cervo fugace
o da le ripe
chiuso d'un alto fiume, o circondato
da le vermiglie
abbominate penne,
se da veltro è cacciato o da molosso
che correndo e
latrando lo persegua,
di qua di lui, di là del precipizio
temendo e
degli strali e degli agguati,
fugge, rifugge, si travolge e torna
per
mille vie; né dal feroce alano
è però meno atteso e men seguíto,
che mai
non l'abbandona; e già gli è presso
a bocca aperta, e già par che
l'aggiunga,
e 'l prenda e 'l tenga, e come se 'l tenesse,
schiattisce, e
'l vento morde, e i denti inciocca.
Allor le grida alzârsi, a cui le rupi
de' monti e i laghi intorno rispondendo,
l'aria e 'l ciel tutto di
tumulto empiero.
Mentre cosí fuggia Turno, gridando
e rampognando i
suoi, del proprio nome
ciascun chiamava, e 'l suo brando chiedea.
Enea
da l'altra parte, minacciando
a tutti unitamente ed a qualunque
di
sovvenirlo e d'appressarlo osasse,
che faria delle genti occisïone
senza
pietà, ch'a sacco, a ferro, a foco
metteria la cittade e 'l regno tutto,
sí com'era ferito, il seguitava.
Cinque volte girando il campo tutto,
e cinque rigirando, e molte e molte
di qua di là correndo, imperversaro;
ché non per gioco, non per lieve acquisto
d'onor, ma per l'imperio, per
lo sangue,
per la vita di Turno era il contrasto.
Per sorte in questo
loco anticamente
era a Fauno sacrato un oleastro
d'amare foglie,
venerabil legno
a' naviganti che dal mare usciti
a salvamento, al
tronco, ai rami suoi
lasciavano i lor vóti e le lor vesti
a questo dio
de' Laürenti appese.
Non ebbero i Troiani a questo sacro
piú ch'agli
altri profani arbori o sterpi
alcun riguardo; onde con gli altri tutti
lo distirpâr, perché netto e spedito
restasse il campo al marzïale
incontro.
De l'oleastro in loco era caduta
l'asta d'Enea: qui l'impeto
la trasse;
qui si tenea tra le sue barbe infissa.
E qui per ricovrarla
il teucro duce
chinossi, e per far pruova se con essa
lanciando lo
fermasse almen da lunge,
poi ch'appressar correndo nol potea.
Allor
per téma in sé Turno confuso:
«Abbi, Fauno, di me cura e pietate, -
disse, pregando, - e tu, benigna terra,
sii del suo ferro a mio scampo
tenace,
se i vostri sacrifici e i vostri onori
io mai sempre curai, che
pur da' Frigi
son cosí vilipesi e profanati».
Ciò disse, e non fu 'l
detto e 'l vóto in vano:
ch'Enea molta fatica e molto indugio
mise
intorno al suo tèlo, né con forza,
né con industria alcuna ebbe possanza
mai di sferrarlo. Or mentre vi s'affanna
e vi studia e vi suda, ecco
Iuturna
un'altra volta ne lo stesso auriga
mutata gli si mostra, e la
sua spada
al fratello appresenta. E d'altra parte
Venere, disdegnando
che la ninfa
cotanto osasse, incontinente anch'ella
accorse al figlio, e
l'asta gli divelse.
Cosí d'arme, di speme e d'ardimento
ambidue
rinforzati, e l'un del brando,
l'altro de l'asta altero, un'altra volta
a vittoria anelando s'azzuffaro.
Stava Giuno a mirar questa battaglia
sovr'un nembo dorato, allor che Giove
cosí le disse: «E che faremo
alfine,
donna? E che far ci resta? Io so che sai,
e tu l'affermi, che
da' fati Enea
si deve al cielo, e che tra noi s'aspetta.
Ch'agogni piú?
Che macchini, e che speri?
A che tra queste nubi or ti ravvolgi?
Convenevol ti sembra e degna cosa
che mortal ferro a vïolar presuma
un che fia Divo? E ti par degno e giusto
ch'a Turno in man la spada si
riponga
quando egli stesso la si tolse e ruppe?
E l'avria senza te
Iuturna osato,
non che potuto, a crescer forza ai vinti?
Togliti giú da
questa impresa omai,
togliti; e me, che te ne prego, ascolta:
né soffrir
che 'l dolor, ch'entro ti rode,
cangiando il dolce tuo sereno aspetto,
sí ti conturbi, e sí spesso cagione
mi sia d'amaritudine e di noia.
Quest'è l'ultima fine. Assai per mare,
assai per terra hai tu fin qui
potuto
a vessare i Troiani, a muover guerra
cosí nefanda, a scompigliar
la casa
del re Latino, e 'ntorbidar le nozze,
sí come hai fatto. Or piú
tentar non lece;
ed io tel vieto». E qui Giove si tacque.
Abbassò 'l
volto, ed umilmente a lui
cosí Giuno rispose: «Io, perché noto
m'è,
signor mio, questo tuo gran volere,
ancor contra mia voglia abbandonata
ho l'aíta di Turno, e qui da terra
mi son levata. Che se ciò non fosse,
me cosí solitaria non vedresti,
com'or mi vedi, in queste nubi ascosa,
e disposta a soffrir tutto ch'io soffro
degno e non degno; ma di fiamme
cinta
mi rimescolerei per la battaglia
a danno de' Troiani. Io, solo in
questo,
tel confesso, a Iuturna ho persüaso
ch'al suo misero frate in sí
grand'uopo
non manchi di soccorso, e ch'ogni cosa
tenti per la salute e
per lo scampo
de la sua vita. E non però le dissi
giammai che l'arco e
le saette oprasse
incontr'Enea. Tel giuro per la fonte
di Stige, quel
ch'a noi celesti numi
solo è nume implacabile e tremendo.
Ora per
obbedirti e perché stanca
di questa guerra e fastidita io sono,
cedo e
piú non contendo. E sol di questo
desio che mi compiaccia (e questo al fato
non è soggetto), che per mio contento,
per onor de' Latini, per
grandezza
e maestà de' tuoi, quando la pace,
l'accordo e 'l maritaggio
fia conchiuso
(che sia felicemente), il nome antico
di Lazio e de le sue
native genti,
l'abito e la favella non si mute:
né mai Teucri si
chiamino e Troiani.
Sempre Lazio sia Lazio, e sempre Albani
sian d'Alba
i regi, e la romana stirpe
d'italica virtú possente e chiara.
Poiché
Troia perí, lascia che pèra
anco il suo nome». A ciò Giove sorrise,
e
cosí le rispose: «Ah! sei pur nata
ancor tu di Saturno, e mia sorella,
e
consenti che l'ira e l'acerbezza
cosí ti vinca? Or, come follemente
la
concepisti, il cor te ne disgombra
omai del tutto. E tutto io ti concedo
che tu domandi, e vinto mi ti rendo.
La favella, il costume e 'l nome
loro
ritengansi gli Ausoni, e solo i corpi
abbian con essi i Teucri
uniti e misti.
D'ambedue questi popoli i costumi,
i riti, i sacrifici in
uno accolti,
una gente farò ch'ad una voce
Latini si diranno. E quei che
d'ambi
nasceran poi, sovr'a l'umana gente,
si vedran di possanza e di
pietade
girne a' celesti eguali; e non mai tanto
sarai tu cólta e
riverita altrove».
Di ciò Giuno appagossi, e lieta e mite
già verso i
Teucri, al ciel fece ritorno.
Giove poscia Iuturna da l'aíta
distor
pensò di suo fratello, e 'l fece
in questa guisa. Due le pèsti sono,
che
son Dire chiamate, al mondo uscite
con Megera ad un parto, a lei sorelle,
figlie a la Notte, e di Cocito alunne,
che d'aspi han parimente irte le
chiome,
e di ventose bucce i dorsi alati.
Queste di Giove al tribunale
intorno,
e de la sua gran reggia anzi la soglia
si presentano allor che
pena e pèsti
e morti a noi mortali, e guerre a' luoghi
che ne son
meritevoli apparecchia.
Una di loro a terra immantinente
spinse il padre
celeste, onde Iuturna
de la fraterna morte augurio avesse.
Mosse la
Dira, e di tempesta in guisa
ch'impetüosamente trascorresse,
volò come
saetta che da Parto,
e da Cidone avvelenata uscisse,
e, non vista,
ronzando e l'ombre aprendo,
ferita immedicabile portasse.
Giunta là 've
di Turno e de' Troiani
vide le schiere, in forma si ristrinse
subitamente di minore augello,
ed in quel si cangiò che da' sepolcri
e dagli antichi e solitari alberghi
funesto canta, e sol di notte vola.
Tal divenuta, a Turno s'appresenta,
gli ulula, gli svolazza, gli
s'aggira
molte volte d'intorno; e fin con l'ali
lo scudo gli percuote, e
gli fa vento.
Stupí, si raggricciò, muto divenne
Turno per la paura. E
la sorella,
tosto che lo stridor sentinne e l'ali,
le chiome si
stracciò, graffiossi il volto,
e con le pugna il petto si percosse:
«Or
che - dicendo - omai, Turno, piú puote
per te la tua germana? E che piú
resta
a far per lo tuo scampo, o per l'indugio
de la tua morte? E come a
cotal mostro
oppor mi posso io piú? Già già mi tolgo
di qui lontano. A
che piú spaventarmi?
Assai di téma, sventurato augello,
nel tuo venir mi
désti. E ben conosco
a i segni del tuo canto e del tuo volo
quel che
m'apporti. E non punto m'inganna
il severo precetto del Tonante.
E
perché vita mi concesse eterna?
Perché 'l morir mi tolse? Acciò morendo
non finisse il mio duolo? Acciò compagna
gir non potessi al misero
fratello?
Immortal io? Che valmi? E che mi puote
ne l'immortalità parer
soave
senza il mio Turno? Or qual mi s'apre terra
che seco mi riceva e
mi rinchiugga
tra l'ombre inferne; e non piú ninfa e dea
ma sia mortale
e morta?» E cosí detto,
grama e dolente, di ceruleo ammanto
il capo si
coverse. Indi correndo
nel suo fiume gittossi, ove s'immerse
infino al
fondo, e ne mandò gemendo
in vece di sospir gorgogli a l'aura.
Intanto
il suo gran tèlo Enea vibrando
col nimico s'azzuffa, e fieramente
lo
rampogna, e gli dice: «Or qual piú, Turno,
farai tu mora, o sotterfugio, o
schermo?
Con l'armi, con le man, Turno, e da presso,
non co' piè si
combatte e di lontano.
Ma fuggi pur, dileguati, trasmutati,
unisci le
tue forze e 'l tuo valore,
vola per l'aria, appiattati sotterra,
quanto
puoi t'argomenta e quanto sai,
che pur giunto vi sei». Turno, squassando
il capo: «Ah! - gli rispose - che per fiero
che mi ti mostri, io de la
tua fierezza,
orgoglioso campion, punto non temo,
né di te: degli dèi
temo, e di Giove,
che nimici mi sono e meco irati».
Nulla piú disse;
ma rivolto, appresso
si vide un sasso, un sasso antico e grande
ch'ivi a
sorte per limite era posto
a spartir campi e tôr lite a' vicini.
Era sí
smisurato e di tal peso,
che dodici di quei ch'oggi produce
il secol
nostro, e de' piú forti ancora,
non l'avrebbon di terra alzato a pena.
Turno diegli di piglio, e con esso alto
correndo se ne gia verso il
nimico,
senza veder né come indi il togliesse,
né come lo levasse, né se
gisse,
né se corresse. Disnervate e fiacche
gli vacillâr le gambe, e
freddo e stretto
gli si fe' 'l sangue. Il sasso andò per l'aura
sí che
'l colpo non giunse, e non percosse.
Come di notte, allor che 'l sonno
chiude
i languid'occhi a l'affannata gente,
ne sembra alcuna volta
essere al corso
ardenti in prima, e poi freddi in su 'l mezzo,
manchiam
di lena sí ch'i piè, la lingua,
la voce, ogni potenza ne si toglie
quasi
in un tempo: cosí Turno invano
tutte del suo valor le forze oprava
da la
Dira impedito. Allora in dubbio
fu di se stesso, e molti per la mente
gli andaro e vari e torbidi pensieri.
Torse gli occhi a' suoi Rutuli, e
le mura
mirò de la città: poscia sospeso
fermossi, e pauroso; sopra il
tèlo
vistosi del gran Teucro, orror ne prese,
non piú sapendo o dove per
suo scampo
si ricovrasse, o quel che per suo schermo,
o per l'offesa del
nimico oprasse.
Mentre cosí confuso e forsennato
si sta, la fatal asta
Enea vibrando,
apposta ove colpisca, e con la forza
del corpo tutto gli
l'avventa e fère.
Macchina con tant'impeto non pinse
mai sasso, e mai
non fu squarciata nube
che sí tonasse. Andò di turbo in guisa
stridendo,
e con la morte in su la punta
furïosa passò di sette doppi
lo rinforzato
scudo; e la corazza
aprendo, ne la coscia gli s'infisse.
Diè del
ginocchio a questo colpo in terra
Turno ferito. I Rutuli gridaro:
e tal
surse fra lor tumulto e pianto,
che 'l monte tutto e le foreste intorno
ne rintonaro. Allor gli occhi e la destra
alzando in atto umilmente
rimesso,
e supplicante: «Io - disse - ho meritato
questa fortuna; e tu
segui la tua;
ché né vita, né vènia ti dimando.
Ma se pietà de' padri il
cor ti tange
(ché ancor tu padre avesti, e padre sei),
del mio vecchio
parente or ti sovvenga.
E se morto mi vuoi, morto ch'io sia,
rendi il
mio corpo a' miei. Tu vincitore,
ed io son vinto. E già gli Ausoni tutti
mi ti veggiono a' piè, che supplicando
mercé ti chieggio. E già Lavinia
è tua;
a che piú contra un morto odio e tenzone?»
Enea ferocemente
altero e torvo
stette ne l'arme, e vòlti gli occhi a torno,
frenò la
destra; e con l'indugio ognora
piú mite, al suo pregar si raddolciva;
quando di cima all'omero il fermaglio
del cinto infortunato di Pallante
negli occhi gli rifulse. E ben conobbe
a le note sue bolle esser quel
desso,
di che Turno quel dí l'avea spogliato,
che gli diè morte; e che
per vanto poscia
come nimica e glorïosa spoglia
lo portò sempre al petto
attraversato.
Tosto che 'l vide, amara rimembranza
gli fu di quel ch'ei
n'ebbe affanno e doglia;
e d'ira e di furore il petto acceso,
e
terribile il volto: «Ah! - disse - adunque
tu de le spoglie d'un mio tanto
amico
adorno, oggi di man presumi uscirmi,
sí che non muoia? Muori; e
questo colpo
ti dà Pallante, e da Pallante il prendi.
A lui, per mia
vendetta e per sua vittima,
te, la tua pena, e 'l tuo sangue consacro».
E, ciò dicendo, il petto gli trafisse.
Allor da mortal gelo il corpo
appreso
abbandonossi; e l'anima di vita
sdegnosamente sospirando
uscio.
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