Eneide
Tradotto da Annibal Caro
Libro I
Quell'io
che già tra selve e tra pastori
di Titiro sonai l'umil sampogna,
e che,
de' boschi uscendo. a mano a mano
fei pingui e cólti i campi, e pieni i vóti
d'ogn'ingordo colono, opra che forse
agli agricoli è grata; ora di
Marte
L'armi
canto e 'l valor del grand'eroe
che pria da Troia, per destino, a i liti
d'Italia e di Lavinio errando venne;
e quanto errò, quanto sofferse, in
quanti
e di terra e di mar perigli incorse,
come il traea l'insuperabil
forza
del cielo, e di Giunon l'ira tenace;
e con che dura e sanguinosa
guerra
fondò la sua cittade, e gli suoi dèi
ripose in Lazio: onde
cotanto crebbe
il nome de' Latini, il regno d'Alba,
e le mura e
l'imperio alto di Roma.
Musa, tu che di ciò sai le cagioni,
tu le mi
detta. Qual dolor, qual onta
fece la dea ch'è pur donna e regina
de gli
altri dèi, sí nequitosa ed empia
contra un sí pio? Qual suo nume l'espose
per tanti casi a tanti affanni? Ahi! tanto
possono ancor là su l'ire e
gli sdegni?
Grande, antica, possente e bellicosa
colonia de' Fenici
era Cartago,
posta da lunge incontr'Italia e 'ncontra
a la foce del
Tebro: a Giunon cara
sí, che le fûr men care ed Argo e Samo.
Qui pose
l'armi sue, qui pose il carro,
qui di porre avea già disegno e cura
(se
tale era il suo fato) il maggior seggio,
e lo scettro anco universal del
mondo.
Ma già contezza avea ch'era di Troia
per uscire una gente, onde
vedrebbe
le sue torri superbe a terra sparse,
e de la sua ruina alzarsi
in tanto,
tanto avanzar d'orgoglio e di potenza,
che ancor de l'universo
imperio avrebbe:
tal de le Parche la volubil rota
girar saldo decreto.
Ella, che téma
avea di ciò, non posto anco in oblio
come, a difesa de'
suoi cari Argivi,
fosse a Troia acerbissima guerriera,
ripetendone i
semi e le cagioni,
se ne sentia nel cor profondamente
or di Pari il
giudicio, or l'arroganza
d'Antígone, il concúbito d'Elettra,
lo scorno
d'Ebe, alfin di Ganimede
e la rapina e i non dovuti onori.
Da tante,
oltre al timor, faville accesa,
quei pochi afflitti e miseri Troiani
ch'avanzaro agl'incendi, a le ruine,
al mare, ai Greci, al dispietato
Achille,
tenea lunge dal Lazio; onde gran tempo,
combattuti da' vènti e
dal destino,
per tutti i mari andâr raminghi e sparsi:
di sí gravoso
affar, di sí gran mole
fu dar principio a la romana gente.
Eran di
poco, e del cospetto a pena
de la Sicilia navigando usciti,
e già, preso
de l'alto, a piene vele
se ne gian baldanzosi, e con le prore
e co' remi
facean l'onde spumose,
quando, punta Giunon d'amara doglia:
«Dunque, -
disse - ch'io ceda? e che di Troia
venga a signoreggiar Italia un re,
ch'io nol distorni? Oh, mi son contra i fati!
Mi sieno: osò pur Pallade,
e poteo
ardere e soffocar già degli Argivi
tanti navili, e tanti corpi
ancidere
per lieve colpa e folle amor d'un solo,
Aiace d'Oïlèo. Contra
costui
ella stessa vibrò di Giove il tèlo
giú dalle nubi; ella commosse
i vènti
e turbò 'l mare, e i suoi legni disperse:
e quando ei già dal
fulminato petto
sangue e fiamme anelava, a tale un turbo
in preda il
diè, che per acuti scogli
miserabil ne fe' rapina e scempio.
Tanto può
Palla? Ed io, io de gli dèi
regina, io sposa del gran Giove e suora,
son
di quest'una gente omai tant'anni
nimica in vano? E chi piú de' mortali
sarà che mi sacrifichi, e m'adori?»
Ciò fra suo cor la dea fremendo
ancora,
giunse in Eòlia, di procelle e d'àustri
e de le furie lor patria
feconda.
Eolo è suo re, ch'ivi in un antro immenso
le sonore tempeste e
i tempestosi
vènti, sí com'è d'uopo, affrena e regge.
Eglino impetuosi e
ribellanti
tal fra lor fanno e per quei chiostri un fremito,
che ne
trema la terra e n'urla il monte.
Ed ei lor sopra, realmente adorno
di
corona e di scettro, in alto assiso,
l'ira e gl'impeti lor mitiga e molce.
Se ciò non fosse, il mar, la terra e 'l cielo
lacerati da lor, confusi e
sparsi
con essi andrian per lo gran vano a volo;
ma la possa maggior del
padre eterno
provvide a tanto mal serragli e tenebre
d'abissi e di
caverne; e moli e monti
lor sopra impose; ed a re tale il freno
ne diè,
ch'ei ne potesse or questi or quelli
con certa legge o rattenere o spingere.
A cui davanti l'orgogliosa Giuno
allor umíle e supplichevol disse:
«Eölo, poi che 'l gran padre del cielo
a tanto ministerio ti prepose
di correggere i vènti e turbar l'onde,
gente inimica a me, mal grado
mio,
naviga il mar Tirreno; e giunta a vista
è già d'Italia, al cui
reame aspira;
e d'Ilio le reliquie, anzi Ilio tutto
seco v'adduce e i
suoi vinti Penati.
Sciogli, spingi i tuoi vènti, gonfia l'onde,
aggiragli, confondigli, sommergigli,
o dispergigli almeno. Appo me sono
sette e sette leggiadre ninfe e belle;
e di tutte piú bella e piú
leggiadra
è Deiopèa. Costei vogl'io, per merto
di ciò, che sia tua
sposa; e che tu seco
di nodo indissolubile congiunto,
viva lieto mai
sempre, e ne divenga
padre di bella e di te degna prole».
Eolo a
rincontro: «A te, regina, - disse -
conviensi che tu scopra i tuoi desiri,
ed a me ch'io gli adempia. Io ciò che sono
son qui per te. Tu mi fai
Giove amico,
tu mi dài questo scettro e questo regno;
se re può dirsi un
che comandi a' vènti.
Io, tua mercé, su co' celesti a mensa
nel ciel
m'assido; e co' mortali in terra
son di nembi possente e di tempeste».
Cosí dicendo, al cavernoso monte
con lo scettro d'un urto il fianco aperse,
onde repente a stuolo i vènti usciro.
Avean già co' lor turbini ripieni
di polve e di tumulto i colli e i campi,
quando quasi in un gruppo ed
Euro e Noto
s'avventaron nel mare, e fin da l'imo
lo turbâr sí, che ne
fêr valli e monti;
monti, ch'al ciel, quasi di neve aspersi,
sorti l'un
dopo l'altro, a mille a mille
volgendo, se ne gian caduchi e mobili
con
suono e con ruina i liti a frangere.
Il grido, lo stridore, il cigolare
de' legni, de le sarte e de le genti,
i nugoli che 'l cielo e 'l dí
velavano,
la buia notte, ond'era il mar coverto,
i tuoni, i lampi
spaventosi e spessi,
tutto ciò che s'udia, ciò che vedevasi
rappresentava orror, perigli e morte.
Smarrissi Enea di tanto, e tale un
gelo
sentissi, che tremante al ciel si volse
con le man giunte, e
sospirando disse:
«O mille volte fortunati e mille
color che sotto
Troia e nel cospetto
de' padri e de la patria ebbero in sorte
di morir
combattendo! O di Tidèo
fortissimo figliuol, ch'io non potessi
cader per
le tue mani, e lasciar ivi
questa vita affannosa, ove lasciolla
vinto
per man del bellicoso Achille,
Ettor famoso e Sarpedonte altero?
E se
d'acqua perire era il mio fato,
perché non dove Xanto o Simoenta
volgon
tant'armi e tanti corpi nobili?»
Cosí dicea; quand'ecco d'Aquilone
una
buffa a rincontro, che stridendo
squarciò la vela, e 'l mar spinse a le
stelle,
Fiaccârsi i remi; e là 've era la prua,
girossi il fianco; e
d'acqua un monte intanto
venne come dal cielo a cader giú.
Pendono or
questi or quelli a l'onde in cima;
or a questi or a quei s'apre la terra
fra due liquidi monti, ove l'arena,
non men ch'ai liti, si raggira e
ferve.
Tre ne furon dal Noto a l'Are spinte;
- Are chiaman gli Ausoni
un sasso alpestro
da l'altezza de l'onde allor celato,
che sorgea primo
in alto mare altissimo -
e tre ne fûr dal pelago a le Sirti,
(miserabile
aspetto) ne le secche
tratte da l'Euro, e ne l'arene immerse.
Una, che
'l carco avea del fido Oronte
con le genti di Licia, avanti agli occhi
di lui perí. Venne da Bora un'onda,
anzi un mar, che da poppa in guisa
urtolla,
che 'l temon fuori e 'l temonier ne spinse;
e lei girò sí che
'l suo giro stesso
le si fe' sotto e vortice e vorago,
da cui rapita,
vacillante e china,
quasi stanco palèo, tre volte volta,
calossi
gorgogliando, e s'affondò.
Già per l'ondoso mar disperse e rare
le
navi e i naviganti si vedevano;
già per tutto di Troia, a l'onde in preda,
arme, tavole, arnesi a nuoto andavano;
già quel ch'era piú valido e piú
forte
legno d'Ilïonèo, già quel d'Acate
e quel d'Abante e quel del
vecchio Alete,
ed alfin tutti sconquassati, a l'onde
micidïali aveano i
fianchi aperti;
quando, a tanto rumor, da l'antro uscito
il gran
Nettuno, e visto del suo regno
rimescolarsi i piú riposti fondi:
«Oh -
disse irato - ond'è questa importuna
tempesta?» E grazïoso il capo fuori
trasse de l'onde; e rimirando intorno,
per lo mar tutto dissipati e
laceri
vide i legni d'Enea; vide lo strazio
de' suoi ch'a la tempesta, a
la ruina
e del mare e del cielo erano esposti.
E ben conobbe in ciò,
come suo frate,
che ne fôra cagion l'ira e la froda
de l'empia Giuno.
Euro a sé chiama e Zefiro,
e 'n tal guisa acremente li rampogna:
«Tanta ancor tracotanza in voi s'alletta,
razza perversa? Voi, voi, senza
me,
nel regno mio la terra e 'l ciel confondere,
e far nel mare un sí
gran moto osate?
Io vi farò... Ma di mestiero è prima
abbonazzar
quest'onde. Altra fiata
in altra guisa il fio mi pagherete
del fallir
vostro. Via tosto di qua,
spirti malvagi; e da mia parte dite
al vostro
re che questo regno e questo
tridente è mio, e che a me solo è dato.
Per
lui sono i suoi sassi e le sue grotte,
case degne di voi; quella è sua
reggia;
quivi solo si vanti; e per regnare,
de la prigion de' suoi vènti
non esca».
Cosí dicendo, in quanto a pena il disse,
la tempesta cessò,
s'acquetò 'l mare,
si dileguâr le nubi, apparve il sole.
Cimòtoe e
Triton, l'una con l'onde,
l'altro col dorso, le tre navi indietro
ritirâr da lo scoglio in cui percossero.
Le tre che ne l'arena eran
sepolte,
egli stesso, le vaste sirti aprendo,
sollevò col tridente ed a
sé trassele.
Poscia sovra al suo carro d'ogn'intorno
scorrendo
lievemente, ovunque apparve,
agguagliò 'l mare, e lo ripose in calma.
Come addivien sovente in un gran popolo,
allor che per discordia si
tumultua,
e imperversando va la plebe ignobile,
quando l'aste e le faci
e i sassi volano
e l'impeto e 'l furor l'arme ministrano,
se grave
personaggio e di gran merito
esce lor contro, rispettosi e timidi,
fatto
silenzio, attentamente ascoltano,
ed al detto di lui tutti s'acquetano;
cosí d'ogni ruina e d'ogni strepito
fu 'l mar disgombro, allor che umíle
e placido
a ciel aperto il gran rettor del pelago
co' suoi lievi
destrier volando scórselo.
Stanchi i Troiani, ai liti ch'eran prossimi
drizzaro il corso, e 'n Libia si trovarono.
È di là lungo a la riviera
un seno,
anzi un porto; ché porto un'isoletta
lo fa, che in su la bocca
al mare opponsi.
Questa si sporge co' suoi fianchi in guisa
ch'ogni
vento, ogni flutto, d'ogni lato
che vi percuota, ritrovando intoppo,
o
si frange, o si sparte, o si riversa.
Quinci e quindi alti scogli e rupi
altissime,
sotto cui stagna spazïoso un golfo
securo e queto: e v'ha
d'alberi sopra
tale una scena, che la luce e 'l sole
vi raggia, e non
penètra: un'ombra opaca,
anzi un orror di selve annose e folte.
D'incontro è di gran massi e di pendenti
scogli un antro muscoso, in cui
dolci acque
fan dolce suono; e v'ha sedili e sponde
di vivo sasso:
albergo veramente
di ninfe, ove a fermar le stanche navi
né d'àncora v'è
d'uopo, né di sarte.
Qui sol con sette, che raccolse a pena
di tanti
legni, Enea ricoverossi.
Qui stanchi tutti e maceri, e del mare
ancor
paurosi, i liti a pena attinsero,
che a terra avidamente si gittarono.
Acate fece in pria selce e focíle
scintillar foco, e dièlli esca e
fomento.
Altri poscia d'intorno ad altri fuochi
(come quei che di vitto
avean disagio,
e le biade trovâr corrotte e molli)
si diêr con vari
studi e vari ordigni
a rasciugarle, a macinarle, a cuocerle.
Intanto
Enea sovr'un de' scogli asceso,
quanto si discopria con l'occhio intorno,
stava mirando s'alcun legno fosse
per alcun luogo apparso, o quel
d'Antèo,
o quel di Capi, o pur quel di Caíco
che in poppa avea la piú
sublime insegna.
Nïun ne vide: ma ben vide errando
gir per la spiaggia
tre gran cervi, e dietro
d'altri minori innumerabil torma,
che in
sembianza d'armenti empian le valli.
Fermossi: e pronto a cotal uso avendo
l'arco e 'l turcasso (ché quest'armi appresso
gli portava mai sempre il
fido Acate),
diè lor di piglio: e saettando prima
i primi tre, che piú
vide altamente
erger le teste e inalberar le corna,
contra 'l volgo si
volse; e 'l lito e 'l bosco,
ovunque gli scorgea, folgorò tutto.
Ne
cacciò, ne ferí, strage ne fece
a suo diletto; né si vide prima
sazio
che, come sette eran le navi,
sette non ne vedesse a terra stesi.
In
questa guisa ritornando al porto,
gli spartí parimente a' suoi compagni;
e con essi del vin, che 'l buon Aceste
a l'uscir di Sicilia in don gli
diede,
molt'urne dispensò per ricrearli;
poscia a conforto lor cosí lor
disse:
«Compagni, rimembrando i nostri affanni,
voi n'avete infiniti
omai sofferti
vie piú gravi di questi. E questi fine,
(quando che sia)
la dio mercede, avranno.
Voi la rabbia di Scilla, voi gli scogli
di
tutti i mari omai, voi de' Ciclopi
varcaste i sassi; ed or qui salvi siete.
Riprendete l'ardir, sgombrate i petti
di téma e di tristizia. E' verrà
tempo
un dí che tante e cosí rie venture,
non ch'altro, vi saran dolce
ricordo.
Per vari casi e per acerbi e duri
perigli è d'uopo far d'Italia
acquisto.
Ivi riposo, ivi letizia piena
vi promettono i fati, e nuova
Troia
e nuovi regni al fine. Itene intanto:
soffrite, mantenetevi,
serbatevi
a questo, che dal ciel si serba a voi,
sí glorioso e sí felice
stato».
Cosí dicendo a' suoi, pieno in se stesso
d'alti e gravi
pensier, tenea velato
con la fronte serena il cuor doglioso.
Fecer
tutti coraggio; e di cibo avidi
già rivolti a la preda, altri le tèrgora
le svelgon da le coste, altri sbranandola
mentre è tiepida ancor, mentre
che palpita,
lunghi schidioni e gran caldaie apprestano,
e l'acqua
intorno e 'l fuoco vi ministrano.
Poscia d'un prato e seggio e mensa
fattisi,
taciti prima sopra l'erba agiandosi,
d'opima carne e di vin
vecchio empiendosi,
quanto puon lietamente si ricreano.
Poiché fûr
sazi, a ragionar si diêro,
con voce or di timore or di cordoglio,
de'
perduti compagni, in dubbio ancora
se fosser vivi, e se pur giunti al fine
piú de' richiami lor nulla curassero.
Enea vie piú di tutti e di pietate
e di dolor compunto, il caso acerbo
or d'Àmico, or d'Oronte, e Lico e
Gía
ne' sospir richiamava e 'l buon Cloanto.
Erano al fine omai;
quando il gran Giove
da l'alta spera sua mirando in giuso
la terra e 'l
mar di questo basso globo,
mentre di lito in lito, e d'uno in altro
scerne i popoli tutti, al cielo in cima
fermossi, e ne la Libia il
guardo affisse.
Venere, allor ch'a le terrene cose
lo vide intento,
dolcemente afflitta
il volto, e molle i begli occhi lucenti,
gli si fece
davanti, e cosí disse:
« Padre, che de' mortali e de' celesti
siedi
eterno monarca, e folgorando
empi di téma e di spavento il mondo,
e
quale ha contra te fallo sí grave
commesso Enea mio figlio, o i suoi
Troiani,
che, dopo tanti affanni e tante stragi,
c'han di lor fatto il
ferro, il fuoco e il mare,
non trovin pace, né pietà, né loco
pur che
gli accetti? In cotal guisa omai
del mondo son, non che d'Italia, esclusi.
Io mi credea, signor (quel che promesso
n'era da te), che tornasse anco
un giorno,
quando che fosse, il generoso germe
di Dardano a produr quei
glorïosi
eroi, quei duci invitti, quei Romani
de l'universo domatori e
donni:
e tu ne 'l promettesti. Or come, padre,
il ciel cangia destino, e
tu consiglio?
Questa sola credenza era cagione
di consolarmi in parte de
l'eccidio
de la mia Troia, ch'io soffrissi in pace
tante ruine sue, fato
con fato
ricompensando. Or la fortuna stessa
e vie piú fera la persegue
e dura.
E quanto durerà, signore, ancora?
Tal non fu già d'Antènore
l'esilio;
ch'ei non piú tosto de l'achive schiere
per mezzo uscio, che
con felice corso
penetrò d'Adria il seno; entrò securo
nel regno de'
Liburni; andò fin sopra
al fonte di Timavo; e là 've il fiume
fremendo
il monte intuona, e là 've aprendo
fa nove bocche un mare, e, mar già fatto,
inonda i campi e rumoreggia e frange,
Padoa fondò, pose de' Teucri il
seggio,
e diè lor nome e le lor armi affisse.
Ivi ridotto il suo regno,
e composto
quïetamente, or lo si gode in pace.
E noi, noi del tuo
sangue, e che da te
avemo anco del cielo arra e possesso,
ad una sola
indegnamente in ira,
perdute, ohimè! le proprie navi, fuori
siamo
d'Italia e di speranza ancora
di non mai piú vederla. Or questo è 'l pregio
che si deve a pietade? E questo è il regno
che da te, padre mio, ne si
promette?»
Sorrise Giove, e con quel dolce aspetto
con che 'l ciel
rasserena e le tempeste,
rimirolla, basciolla, e cosí disse:
«Non
temer, Citerèa, ché saldi e certi
stanno i fati de' tuoi. S'adempieranno
le mie promesse; sorgeran le torri
de la novella Troia; vedrai le mura
di Lavinio; porrai qui fra le stelle
il magnanimo Enea. Ché né 'l
destino
in ciò si cangerà, né 'l mio consiglio.
Ma per trarti d'affanni,
io te 'l dirò
piú chiaramente; e scoprirotti intanto
de' fati i piú
reconditi secreti.
Figlia, il tuo figlio Enea tosto in Italia
sarà; farà
gran guerra, vincerà:
domerà fere genti: imporrà leggi:
darà costumi, e
fonderà città:
e di già, vinti i Rutuli, tre verni
e tre stati regnar
Lazio vedrallo.
Ascanio giovinetto, or detto Iulo,
ed Ilo prima infin
ch'Ilio non cadde,
succederagli; e trenta giri interi
del maggior lume,
il sommo imperio avrà.
Trasferirallo in Alba: Alba la lunga
sarà la
reggia sua possente e chiara.
Qui regneranno poi sotto la gente
d'Ettorre un dopo l'altro un corso d'anni
tre volte cento; finch'Ilia
regina
d'un parto produrrà gemella prole.
Indi capo ne fia Romolo
invitto.
Questi, in vece di manto, adorno il tergo
de la sua marzïal
nudrice lupa,
di Marte fonderà la gran cittade:
e dal nome di lui Roma
diralla.
A Roma non pongo io termine o fine:
ché fia del mondo
imperatrice eterna.
E l'aspra Giuno, ch'or la terra e 'l mare
e 'l ciel
per téma intorbida e scompiglia,
con piú sano consiglio al mio conforme,
procurerà che la romana gente
in arme e 'n toga a l'universo imperi.
E cosí stabilisco: e cosí tempo
ancor sarà ch'Argo, Micene e Ftia
e
i Greci tutti tributari e servi
de la casa di Assàraco saranno.
Di
questa gente, e de la Iulia stirpe,
che da quel primo Iulo il nome ha preso,
Cesare nascerà, di cui l'impero
e la gloria fia tal, che per confine
l'uno avrà l'Oceàno, e l'altra il cielo.
Questi, già vinto il tutto, poi
che onusto
de le spoglie sarà de l'Orïente,
anch'egli avrà da te qui
seggio eterno,
e là giú fra' mortali incensi e vóti.
L'aspro secolo
allor, l'armi deposte,
si farà mite. Allor la santa Vesta
e la candida
Fede e 'l buon Quirino
col frate Remo il mondo in cura avranno.
Allor
con salde e ben ferrate sbarre
de la guerra saran le porte chiuse:
e
dentro in fra la ruggine sepolto
con cento nodi incatenato e stretto
gran tempo si starà l'empio Furore;
e rabbioso fremendo orribilmente,
con fuoco a gli occhi, e bava e sangue a i denti
morderà l'armi e le
catene indarno».
Cosí detto, spedí tosto da l'alto
di Maia il figlio a
far sí ch'a' Troiani
fosse Cartago e il suo paese amico,
perché del fato
la regina ignara,
non fosse lor, per ferità de' suoi
o per sua téma,
inospitale e cruda.
Vassene il messaggier per l'aria a volo
velocemente,
e ne la Libia giunto,
quel ch'imposto gli fu ratto eseguisce.
E già, la
dio mercé, lasciano i Peni
la lor fierezza; e la regina in prima
s'imbeve d'un affetto e d'una mente
verso i Troiani affabile e benigna.
La notte intanto, del pietoso Enea
molti furo i sospir, molti i
pensieri.
Conchiuse alfin ch'a l'apparir del giorno
spïar dovesse, e
riportarne avviso
a suoi compagni, in qual paese il vento
gli avesse
spinti; e s'uomini o pur fere
(perché incolto il vedea) quivi abitassero.
Cosí tra selve ombrose e cave rupi
fatti i legni appiattar, sol con
Acate,
e con due dardi in mano in via si pose.
In mezzo de la selva
una donzella,
ch'era sua madre, sí com'era avanti
che madre fosse
incontro gli si fece.
Donzella a l'armi, a l'abito, al sembiante
parea
di Sparta, o quale in Tracia Arpàlice
leggiera e sciolta, il dorso
affaticando
di fugace destrier, l'Ebro varcava.
Al collo avea di
cacciatrice un arco
abile e lesto, i crini a l'aura sparsi,
nudo il
ginocchio; e con bel nodo stretto
tenea raccolto della gonna il seno.
Ella fu prima a dire: «Avreste voi,
giovani, de le mie sorelle alcuna
vista errar quinci, o ch'aggia l'arco al fianco,
o che gli omeri vesta
d'una pelle
di cervier maculato, o che gridando
d'un zannuto cignal
segua la traccia?»
Cosí Venere disse. Ed, a rincontro,
di Venere il
figliuol cosí rispose:
«Nïuna ho de le tue veduta, o 'ntesa,
vergine... qual ti dico, e di che nome
chiamar ti deggio? Ché terreno
aspetto
non è già 'l tuo, né di mortale il suono.
Dea sei tu veramente,
o suora a Febo,
o figlia a Giove, o de le ninfe alcuna:
e chïunque tu
sii, propizia e pia
vèr noi ti mostra, e i nostri affanni ascolta.
Dinne
sotto qual cielo, in qual contrada
siamo or del mondo: ché raminghi andiamo;
e qui dal vento e da fortuna spinti
nulla o de gli abitanti o de' paesi
notizia abbiamo. A te, s'a ciò m'aíti,
di nostra man cadrà piú d'una
vittima».
Venere allor soggiunse: «Io non m'arrogo
celeste onore. In
Tiro usan le vergini
di portar arco, e di calzar coturni;
e di Tiro e
d'Agènore le genti
traggon principio, che qui seggio han posto:
ma 'l
paese è di Libia, ed avvi in guerra
gente feroce. Or n'è capo e regina
Dido che, da l'insidie del fratello
fuggendo, è qui venuta. A dirne il
tutto
lunga fôra novella e lungo intrico.
Ma toccandone i capi, avea
costei
Sichèo per suo consorte, uno il piú ricco
di terra e d'oro, che
in Fenicia fosse,
da la meschina unicamente amato,
anzi il suo primo
amore. Il padre intatta
nel primo fior di lei seco legolla.
Ma del regno
di Tiro avea lo scettro
Pigmalïon suo frate, un signor empio,
un tiranno
crudele e scellerato
piú ch'altri mai. Venne un furor fra loro
tal, che
Sichèo da questo avaro e crudo,
per sete d'oro, ove men guardia pose,
fu
tra gli altari ucciso; e non gli valse
che la germana sua tanto l'amasse.
Ciò fe' celatamente: e per celarlo
vie piú, con finzïoni e con menzogne
deluse un tempo ancor l'afflitta amante.
Ma nel fin, di Sichèo la stessa
imago,
fuor d'un sepolcro uscendo, sanguinosa,
pallida, macilenta e
spaventevole,
le apparve in sogno, e presentolle, avanti
gli empi altari
ove cadde, il crudo ferro
che lo trafisse, e del suo frate tutte
l'occulte scelleraggini le aperse.
Poscia: "Fuggi di qua, fuggi" le
disse
"tostamente, e lontano". E per sussidio
de la sua fuga, le
scoperse un loco
sotterra, ov'era inestimabil somma
d'oro e d'argento,
di molt'anni ascoso.
Quinci Dido commossa, ordine occulto
di fuggir
tenne, e d'adunar compagni;
ché molti n'adunò, parte per odio,
parte per
téma di sí rio tiranno.
Le navi che trovâr nel lito preste,
caricâr
d'oro, e fêr vela in un súbito.
Cosí 'l vento portossene la speme
de
l'avaro ladrone. E fu di donna
questo sí degno e memorabil fatto.
Giunsero in questi luoghi, ov'or vedrai
sorger la gran cittade e l'alta
ròcca
de la nuova Cartago, che dal fatto
Birsa nomossi, per l'astuta
merce
che, per fondarla, fêr di tanto sito
quanto cerchiar di bue
potesse un tergo.
Ma voi chi siete? onde venite? e dove
drizzate il
corso vostro?» A tai richieste
pensando Enea, dal piú profondo petto
trasse la voce sospirosa, e disse:
«O dea, se da principio i nostri
affanni
io contar ti volessi, e tu con agio
udissi una da me sí lunga
istoria,
non finirei che fine avrebbe il giorno.
Noi siam Troiani (se di
Troia antica
il nome ti pervenne unqua a gli orecchi),
e la tempesta che
per tanti mari
già cotant'anni ne travolve e gira,
n'ha qui, come tu
vedi, al fin gittati.
Io sono Enea, quel pio che da' nemici
scampati ho
meco i miei patrii Penati,
fino a le stelle ormai noto per fama.
Italia
vo cercando, che per patria
Giove m'assegna, autor del sangue mio.
Con
diece e diece ben guarnite navi
uscii di Frigia, il mio destin seguendo
e lo splendor de la materna stella.
Or sette me ne son restate appena,
scommesse, aperte e disarmate tutte.
Ed io mendíco, ignoto e peregrino,
de l'Asia in bando, da l'Europa escluso,
e 'n fin dal mar gittato or ne
la Libia
vo per deserti inospiti e selvaggi.
E qual m'è piú del mondo or
luogo aperto?»
Venere intenerissi; e nel suo figlio
tant'amara
doglienza non soffrendo,
cosí 'l duol con la voce gl'interruppe:
«Chïunque sei, tu non sei già, cred'io,
al cielo in ira; poi ch'a sí
grand'uopo
ti diè ricovro a sí benigno ospizio.
Segui pur francamente: e
quinci in corte
va' di questa magnanima regina;
ch'io già t'annunzio le
tue navi, e i tuoi
da miglior vènti in miglior parte addotti
salvi e
securi omai, se i miei parenti
non m'ingannâr quando gli augúri appresi.
Mira là sovra a quel tranquillo stagno
dodici allegri cigni, che pur
dianzi
confusi e dissipati a cielo aperto
erano in preda al fero augel
di Giove,
com'or sottratti dal suo crudo artiglio
rimessi in lunga ed
ozïosa riga
si rivolgono a terra, e già la radono.
E sí com'essi con
gioiose ruote
trattando l'aria, col cantar, col plauso
mostrato han
d'allegria segno e di scampo;
cosí, placato il mare, a piene vele,
e le
tue navi e gli tuoi naviganti
o preso han porto, o tosto a prender l'hanno:
vattene or lieto ove 'l sentier ti mena».
Ciò detto, nel partir, la
neve e l'oro
e le rose del collo e de le chiome,
come l'aura movea,
divina luce
e divino spirâr d'ambrosia odore:
e la veste, che dianzi era
succinta,
con tanta maestà le si distese
infino a' piè, ch'a l'andar
anco, e dea
veracemente e Venere mostrossi.
Poscia che la conobbe, e
la sua fuga
o fermare, o seguir piú non poteo,
con un rammarco tal
dietro le tenne:
«Ahi! madre, ancora tu vèr me crudele,
a che tuo
figlio con mentite larve
tante volte deludi? A che m'è tolto
di
congiunger la mia con la tua destra?
Quando fia mai ch'io possa a viso
aperto
vederti, udirti, ragionarti, e vera
riconoscerti madre?» Egli in
tal guisa
si querelava; e verso la cittade
se ne giano invisibili
ambidue:
ché la dea, sospettando non tra via
fossero distornati o
trattenuti,
di folta nebbia intorno gli coverse.
Ella in alto levossi, e
Cipri e Pafo
lieta rivide, ov'entro al suo gran tempio
da cento altari
ha cento volte il giorno
d'incensi e di ghirlande odori e fumi.
Ed essi
intanto in vèr le mura a vista
giunser de la città, ch'al colle incontro
fe' lor superba e specïosa mostra.
Maravigliasi Enea che sí gran
macchina
già sorga, ove pur dianzi non vedevasi
fors'altro che foreste,
o che tuguri.
Mira il travaglio, mira la frequenzia
e le porte e le vie
piene di strepito.
Vede con quanto ardor le turbe tirie
altri a le mura,
altri a la ròcca intendono
e i gravi legni e i gran sassi che volgono
questi, che i siti ai propri alberghi insolcano;
e quei, che del senato
e de gli offici
piantan le curie e i fòri e le basiliche.
Scorge là
presso al mar che 'l porto cavano,
qua, sotto al colle, che un teatro
fondano,
per le cui scene i gran marmi che tagliano,
e le colonne, che
tant'alto s'ergono,
le rupi e i monti, a cui son figli, adeguano.
Con
tal sogliono industria a primavera
le sollecite pecchie al sole esposte
per fiorite campagne esercitarsi,
quando le nuove lor cresciute genti
mandano in campo a côr manna e rugiada,
di celeste liquor le celle
empiendo;
o quando incontro a scaricare i pesi
van de l'altre compagne;
o quando a stuolo
scacciano i fuchi, ingorde bestie e pigre,
che, solo
intente a logorar l'altrui,
de le conserve lor si fan presepi,
allor che
l'opra ferve, allor che 'l mèle
sparge di timo d'ogn'intorno odore.
«O
fortunati voi, di cui già sorge
il desïato seggio!», Enea dicendo,
a
parte a parte lo contempla e loda.
Arriva intanto a la muraglia, e chiuso
ne la sua nube, maraviglia a dirlo!
tra gente e gente va, che non è
visto.
Era nel mezzo a la cittade un bosco
di sacro rezzo e grato, ove
sospinti
da la tempesta capitaro i Peni
primieramente; e nel fondar
trovaro
quel che pria da Giunon fu lor predetto
di barbaro destrier
teschio fatale,
la cui sembianza imagine e presagio
fu poi che quella
gente e quella terra
saria per molte età ferace e fera.
Qui fabbricava
la sidonia Dido
un gran tempio a Giunone, il cui gran nume
e i doni e la
materia e l'artificio
lo facean prezïoso e venerando.
Mura di marmo
avea; colonne e fregi
di mischi, e gradi e travi e soglie e porte
di
risonante e solido metallo.
Qui si ristette Enea: qui vide cosa
che téma
gli scemò, speme gli accrebbe,
e di pace affidollo e di salute;
ché
mentre, in aspettando la regina
ch'ivi s'attende, la città vagheggia,
mentre nel tempio l'apparato e l'opre
e 'l valor degli artefici
contempla,
a gli occhi una parete gli s'offerse,
in cui tutta per ordine
dipinta
era di Troia la famosa guerra.
E, conosciuti a le fattezze conte
prima il troiano re, poscia l'argivo
e 'l fero d'ambidue nimico Achille,
fermossi, e lagrimando: «Oh, - disse - Acate,
mira fin dove è la notizia
aggiunta
de le nostre ruine! Or quale ha 'l mondo
loco che pien non sia
de' nostri affanni?
Ecco Priamo, ecco Troia; e qui si pregia
ancor
virtú; ché ferità non regna
là 've umana miseria si compiagne.
Or ti
conforta, ché tal fama ancora
di pro ti fia cagione e di salvezza».
Cosí dicendo, e la già nota istoria
mirando, or con sospiri, ed or con lutto
va di vana pittura il cor pascendo.
E come quei ch'a Troia il tutto
vide,
i siti rammentandosi e le zuffe,
col sembiante riscontra il vivo e
'l vero.
Quinci vede fuggir le greche schiere,
quindi le frigie: a
quelle Ettorre infesto,
a queste Achille, a cui parea d'intorno
che solo
il suon del carro e solo il moto
del cimiero avventasse orrore e morte.
Né senza lagrimar Reso conobbe
ai destrier bianchi, ai bianchi
padiglioni,
fatti di sangue in mille parti rossi:
che sotto v'era
Dïomede, anch'egli
insanguinato; e si facea d'intorno
alta strage di
gente che nel sonno,
prima che da lui morta, era sepolta.
Vedea quindi i
cavalli al campo addotti,
che non potêr (fato a' Troiani avverso!)
di
Troia erba gustare, o ber del Xanto.
Scorge d'un'altra parte in fuga vòlto
Troïlo, già senz'armi e senza vita:
giovinetto infelice, che di tanto
diseguale ad Achille, ebbe ardimento
di stargli a fronte. Egli in su 'l
vòto carro
giacea rovescio, e strascinato e lacero
da' suoi cavalli,
avea la destra ancora
a le redini involta, e 'l collo e i crini
traea
per terra; e l'asta, onde trafitto
portava il petto, con la punta in giuso
scrivea note di sangue in su la polve.
Ecco intanto venir di Palla al
tempio
in lunga schiera ed ordinata pompa
le donne d'Ilio a far del
peplo offerta.
Battonsi i petti, e scapigliate e scalze
paion pregar
divotamente afflitte
perdóno e pace; ed ella irata e fera,
vòlte le luci
a terra e 'l tergo a loro,
mostra fastidio di mirarle e sdegno.
Vede il
misero Ettòr che già tre volte
tratto era d'Ilio a la muraglia intorno.
Vede il padre piú misero, ch'in forza
del dispietato e suo nimico
Achille,
oro in premio gli dà del suo cadavero;
spettacolo crudel che
gli trafigge
profondamente e piú d'ogn'altro il core,
ove il carro, gli
arnesi e 'l corpo stesso
vede d'un tanto amico, ed un re tale,
che solo
e disarmato e supplichevole
stassi a l'ucciditor del figlio avanti.
Vi
riconobbe ancor se stesso, ov'era
a dura mischia incontro a' greci eroi.
Riconobbe lo stuol che d'Orïente
addusse de l'Aurora il negro figlio:
e lui raffigurò, che di Vulcano
avea lo sbergo e l'armatura in dosso.
Scorge d'altronde di lunati scudi
guidar Pentesilèa l'armate schiere
de l'Amazzoni sue: guerriera ardita,
che succinta, e ristretta in fregio
d'oro
l'adusta mamma, ardente e furïosa
tra mille e mille, ancor che
donna e vergine,
di qual sia cavalier non teme intoppo.
Stava da tante
meraviglie ad una
sola vista ristretto, attento e fiso
Enea pien di
vaghezza e di stupore:
quand'ecco la regina accompagnata
da real corte,
con real contegno
entro al tempio bellissima comparve.
Qual su le ripe
de l'Eurota suole,
o ne' gioghi di Cinto, allor Dïana
ch'a l'Orèadi sue
la caccia indíce,
a mille che le fan cerchio d'intorno,
divisar vari
offici, e faretrata
da la faretra in su gir sovra l'altre
neglettamente
altera, onde a Latona
s'intenerisce per dolcezza il core;
tale era Dido,
e tal per mezzo a' suoi
se ne gia lieta, e dava ordine e forma
al nuovo
regno, a i magisteri, a l'opre.
Giunta al cospetto de la diva, in mezzo
de la maggior tribuna, in alto assisa,
cinta d'armati, in maestà si
pose:
e mentre con dolcezza editti e leggi
porge a la gente, e con egual
compenso
l'opre distribuisce e le fatiche;
rivolgendosi Enea, nel tempio
stesso
vede da gran concorso attorneggiati
entrar Sergesto, Anteo,
Cloanto e gli altri
Troiani, che da sé disgiunti e sparsi
avea dianzi
del mar l'aspra tempesta.
Stupor, timor, letizia, tenerezza
e disio
d'abbracciarli e di mostrarsi
assaliro in un tempo Acate e lui.
Ma,
dubii del successo, entro la nube
dissimulando se ne stêro, e cheti,
per
ritrar che seguisse e che seguito
fosse già de le navi e de' compagni,
di cui questi eran primi e li piú scelti
di ciascun legno. E già pieno
era il tempio
di tumulto e di vóti ch'altamente
si sentian vènia
risonare e pace.
Poiché furo entromessi, e ch'udïenza
fur lor
concessa, il saggio Ilïoneo
prese umilmente in cotal guisa a dire:
«Sacra regina, a cui dal cielo è dato
fondar nuova cittade, e con giustizia
por freno a gente indomita e superba,
noi miseri Troiani, a tutti i
vènti,
a tutti i mari omai ludibrio e scherno,
caduti dopo l'onde in
preda al foco
che da' tuoi si minaccia ai nostri legni,
preghiamti a
proveder che nel tuo regno
non si commetta un sí nefando eccesso.
Fa
cosa di te degna, abbi di noi
pietà, che pii, che giusti, ch'innocenti
siamo, non predatori, non corsari
de le vostre marine o de l'altrui:
tanto i vinti d'ardire, e gl'infelici
d'orgoglio e di superbia, ohimè!
non hanno.
Una parte d'Europa è, che da' Greci
si disse Esperia,
antica, bellicosa
e fertil terra, dagli Enotrei cólta.
Prima Enotria
nomossi, or, come è fama,
preso d'Italo il nome, Italia è detta.
Qui 'l
nostro corso era diritto, quando
Orïon tempestoso i vènti e 'l mare
sí
repente commosse, e mar sí fero,
vènti sí pertinaci, e nembi e turbi
cosí rabbiosi, che sommersi in parte
e dispersi n'ha tutti: altri a le
secche,
altri a gli scogli, ed altri altrove ha spinti:
e noi pochi, di
tanti, ha qui condotti.
Ma qual sí cruda gente, qual sí fera
e barbara
città quest'uso approva,
che ne sia proibita anco l'arena?
Che guerra ne
si muova, e ne si vieti
di star ne l'orlo de la terra a pena?
Ah! se de
l'armi e de le genti umane
nulla vi cale, a dio mirate almeno,
che dal
ciel vede e riconosce i meriti
e i demeriti altrui. Capo e re nostro
era
pur dianzi Enea, di cui piú giusto,
piú pio, piú pro' ne l'armi, piú sagace
guerrier non fu già mai. Se questi è vivo,
se spira, se il destin non ce
l'invidia,
quanto ne speriam noi, tanto potresti
tu non pentirti a
provocarlo in prima
a cortesia. Ne la Sicilia ancora
avem terre, avem
armi, avemo Aceste
che n'è signore, ed è de' nostri anch'egli.
Quel che
vi domandiamo è spiaggia, è selva,
è vitto da munir, da risarcire
i vòti
e stanchi e sconquassati legni,
per poter lieti (ritrovando il duce
e
gli altri nostri, o se pur mai n'è dato
veder l'Italia) ne l'Italia addurne;
ma se nostra salute in tutto è spenta,
se te, nostro signor, nostro buon
padre,
di Libia ha 'l mare, e piú speranza alcuna
non ci riman del
giovinetto Iulo,
almen tornar ne la Sicania, ond'ora
siam qui venuti e
dove il buon Aceste
n'è parato mai sempre ospite e rege».
Al dir
d'Ilïoneo fremendo tutti
assentirono i Teucri, e la regina
con gli occhi
bassi e con benigna voce
brevemente rispose: «O miei Troiani,
toglietevi
dal cuore ogni timore,
ogni sospetto. Gli accidenti atroci,
la novità di
questo regno a forza
mi fan sí rigorosa, e sí guardinga
de' miei
confini. E chi di Troia il nome,
chi de' Troiani i valorosi gesti,
e
l'incendio non sa di tanta guerra?
Non han però sí rozzo core i Peni:
non sí lunge da lor si gira il sole,
che né pietà né fama unqua
v'arrive.
Voi di qui sempre, o de la grand'Esperia
e di Saturno che
cerchiate i campi,
o che vogliate pur d'Aceste e d'Èrice
tornare ai
liti, in ogni caso liberi
ve n'andrete e sicuri. Ed io d'aíta
scarsa non
vi sarò, né di sussidio:
e se qui dimorar meco voleste,
questa è vostra
città. Tirate al lito
vostri navili: ché da' Teucri a' Tiri
nulla scelta
farò, nullo divario.
Cosí qui fosse il vostro re con voi!
cosí ci
capitasse! Ma cercando
io manderò di lui fino a l'estremo
de' miei
confini la riviera tutta,
se per sorte gittato in queste spiagge
per
selve errando o per cittadi andasse».
Rincorossi a tal dire il padre Enea
e 'l forte Acate; e di squarciare il velo
stavan già disïosi. Acate il
primo
mosse dicendo: «Omai, signor, che pensi?
Tutto è sicuro, e tutti a
salvamento
i nostri legni e i nostri amici avemo.
Sol un ne manca; e
questo a noi davanti
il mar sorbissi. Ogni altra cosa al detto
di tua
madre risponde». A pena Acate
ciò disse, che la nugola s'aperse,
assottigliossi e col ciel puro unissi.
Rimase in chiaro Enea, tale ancor
egli
di chiarezza e d'aspetto e di statura,
che come un dio mostrossi: e
ben a dea
era figliuol, che di bellezza è madre.
Ei degli occhi spirava
e de le chiome
quei chiari, lieti e giovenili onori
ch'ella stessa di
lui madre gl'infuse.
Tale aggiunge l'artefice vaghezza
a l'avorio, a
l'argento, al pario marmo,
se di fin oro li circonda e fregia.
Cotal,
comparso d'improvviso a tutti,
si fece avanti a la regina, e disse:
«Quegli che voi cercate, Enea troiano,
son qui, dal mar ritolto. A te
ricorro,
vera regina, a te sola pietosa
de le nostre ineffabili fatiche.
Tu noi, rimasi al ferro, al fuoco, a l'onde
d'ogni strazio bersaglio,
d'ogni cosa
bisognosi e mendíci, nel tuo regno
e nel tuo albergo
umanamente accogli.
A renderti di ciò merito eguale
bastante non son io,
né fôran quanti
de la gente di Dardano discesi
vanno per l'universo oggi
dispersi.
Ma gli dèi (s'alcun dio de' buoni ha cura,
se nel mondo è
giustizia, se si truova
chi d'altamente adoperar s'appaghe)
te ne dian
guiderdone. Età felice!
Avventurosi genitori e grandi
che ti diedero al
mondo! Infin che i fiumi
si rivolgono al mare, infin ch'a' monti
si
giran l'ombre, infin c'ha stelle il cielo,
i tuoi pregi, il tuo nome e le
tue lodi
mi saran sempre, ovunque io sia, davanti».
Ciò detto,
lietamente a' suoi rivolto,
al caro Ilïonèo la destra porse,
la sinistra
a Sergesto, e poscia al forte
Cloanto, al forte Gía: l'un dopo l'altro
tutti gli salutò. Stupí Didone
nel primo aspetto d'un sí nuovo caso,
e d'un uom tale; indi riprese a dire:
«Qual forza o qual destino a
tanti rischi
t'hanno in sí strani, in sí feri paesi
esposto, o de la dea
famoso figlio?
E sei tu quell'Enea che in su la riva
di Simoenta il gran
dardanio Anchise
di Venere produsse? Io mi ricordo
quel che n'intesi già
da Teucro, quando,
fuor di sua patria, il suo padre fuggendo,
nuovi
regni cercava. Egli a Sidone
venne in quel tempo a dar sussidio a Belo.
Belo mio padre allor facea l'impresa
e 'l conquisto di Cipro. Infin
d'allora
io del caso di Troia e del tuo nome
e de l'oste de' Greci ebbi
notizia.
Ed ei ch'era sí rio nimico vostro,
celebrava il valor di voi
Troiani,
e trar volea da Troia il suo legnaggio.
Voi da me dunque amico
e fido ospizio,
giovini, arete. E me fortuna ancora,
a la vostra simíle,
ha similmente
per molti affanni a questi luoghi addotta:
sí che natura e
sofferenza e pruova
de' miei stessi travagli ancor me fanno
pietosa e
sovvenevole a gli altrui».
Ciò detto, Enea cortesemente adduce
ne la
sua reggia. In ogni tempio indíce
feste e preci solenni. Ordina appresso
che si mandino al mar venti gran tori,
cento gran porci, cento grassi
agnelli,
con cento madri, e ciò ch'a' suoi compagni
per vitto e per
letizia è di mestiero.
Dentro al real palagio, realmente,
de' piú
gentili e sontuosi arnesi
il convito e le stanze orna e prepara;
cuopre
d'ostro le mura; empie le mense
d'argento e d'oro, ove per lunga serie
son de' padri e degli avi i fatti egregi.
Enea, cui la paterna
tenerezza
quetar non lascia, a le sue navi innanzi
ratto spedisce Acate,
che di tutto
Ascanio avvisi, ed a sé tosto il meni;
ché in Ascanio mai
sempre intento e fiso
sta del suo caro padre ogni pensiero.
Gli comanda,
oltre a ciò, ch'a la regina
porti alcune a donar spoglie superbe
che si
salvâr da la ruina appena
e dal foco di Troia: un ricco manto
ricamato a
figure, e di fin'oro
tutto contesto: un prezïoso velo,
cui di pallido
acanto un ampio fregio
trapunto era d'intorno: ambi ornamenti
d'Elena
argiva, e di sua madre Leda
mirabil dono. In questo avea le bionde
sue
chiome avvolte il dí che di Micene
a nuove nozze, e non concesse, uscio;
e porti anco lo scettro, onde superba
Ilïone di Prïamo sen giva
primogenita figlia, e 'l suo monile
di gran lucide perle; e quella
stessa,
onde 'l fronte cingea, doppia corona,
di gemme orïentali ornata
e d'oro.
Tutto ciò procurando il fido Acate
in vèr le navi accelerava il
piede.
Venere in tanto con nuov'arte e nuovi
consigli s'argomenta a
far che in vece
e 'n sembianza d'Ascanio il suo Cupído
se ne vada in
Cartago; e con quei doni,
con le dolcezze sue, con la sua face
alletti,
incenda, amor desti e furore
nel petto a la regina, onde sospetto
piú
non aggia o 'l suo regno, o 'la perfidia
de la sua gente, o di Giunon
l'insidie,
che da pensare e da vegghiar le danno
tutte le notti. E fatto
a sé venire
l'alato dio, cosi seco ragiona:
«Figlio, mia forza e mia
maggior possanza:
figlio, che del gran padre anco non temi
l'orribil
tèlo, onde percosso giacque
chi ne diè fin nel ciel briga e spavento,
a
te ricorro e dal tuo nume aíta
chieggio a l'altro mio figlio Enea tuo frate.
Come Giuno il persegua, e come l'aggia
per tutti i mari omai spinto e
travolto,
tu 'l sai che del mio duol ti sei doluto
piú volte meco. Or la
sidonia Dido
l'ave in sua forza, e con benigni e dolci
modi fin qui
l'accoglie e lo trattiene.
Ma là dov'è, lassa! che val, comunque
sia
caramente accolto? in casa a Giuno
da le carezze ancor chi m'assicura?
Ch'ella piú neghittosa o meno atroce,
in un caso non fia di tanto
affare.
E però con astuzia e con inganno
cerco di prevenirla, e del tuo
foco
ardere il cuor de la regina in guisa,
ch'altro nume nol mute, e
meco l'ami
d'immenso affetto. Or come agevolmente
ciò porre in atto e
conseguir si possa,
ascolta. Enea manda testé chiamando
il suo regio
fanciullo, amor supremo
del caro padre, e mio sommo diletto,
perché de'
Tiri a la città sen vada
con doni a la regina, che di Troia
a l'incendio
avanzarono ed al mare.
Questo vinto dal sonno, o sopra l'alta
Citèra, o
dentro al sacro bosco Idalio
terrò celato sí ch'ei non s'accorga,
ed
accorto di ciò non faccia altrui
con alcun suo rintoppo. E tu che puoi,
fanciullo, il noto fanciullesco aspetto
mentire acconciamente, in lui ti
cangia
sola una notte, e gli suoi gesti imita.
E quando Dido al suo real
convito
riceveratti, e, come a mensa fassi,
sarà, bevendo e ragionando,
allegra;
quando, come farà, cortese in grembo
terratti, abbracceratti, e
dolci baci
porgeratti sovente, a poco a poco
il tuo foco le spira e 'l
tuo veleno».
Al voler della sua diletta madre
pronto mostrossi e
baldanzoso Amore,
e gittò l'ali; ed in un tempo l'abito
e 'l sembiante e
l'andar prese di Iulo.
Ciprigna intanto al giovinetto Ascanio
tale un
profondo e dolce sonno infuse,
e 'n guisa l'adattò, che agiatamente
in
grembo lo si tolse; e ne la cima
de la selvosa Idalia, entro un cespuglio
di lieti fiori e d'odorata persa,
a la dolce aura, a la fresc'ombra il
pose.
Cupído co' suoi doni allegramente,
per far quanto gli avea la
madre imposto,
con la guida si pon d'Acate in via.
Giunse che giunta era
Didone appunto
ne la gran sala, che di fini arazzi,
di fior, di frondi e
di festoni intorno
era tutta vestita, ornata e sparsa.
E già sopra la
sua dorata sponda
con real maestà s'era nel mezzo
a tutti gli altri
alteramente assisa.
Appresso Enea, poscia di mano in mano
sopra drappi
di porpora e di seta
si stendea la troiana gioventute.
Già con l'acqua e
con Cerere a le mense
gli aurati vasi e i nitidi canestri
e i
bianchissimi lini eran comparsi.
Stavano dentro, a le vivande intorno,
intorno a' fuochi, a dar ordine a' cibi,
cinquanta ancelle, ed altre
cento fuori
con altrettanti di una stessa etade
tra scudieri e pincerni;
e gli atrii tutti
si rïempiêr di Tiri, a cui le mense
di tappeti dipinti
eran distese.
A l'apparir del giovinetto Iulo
corser tutti a mirare il
manto e 'l velo
e gli altri ch'adducea leggiadri arnesi,
a sentir quelle
sue finte parole,
a contemplar quel grazïoso aspetto,
ch'ardore e deità
raggiava intorno.
Ma sopra tutti l'infelice Dido
non potea né la vista,
né 'l pensiero
saziar, mirando or gli suoi doni, or lui;
e com' piú gli
rimira, e piú s'accende.
Poiché lunga fïata umile e dolce
del non suo
genitor pendé dal collo,
e finse di figliuol verace affetto,
si volse a
la regina. Ella con gli occhi,
col pensier tutto lo contempla e mira:
lo
palpa, e 'l bacia, e 'n grembo lo si reca.
Misera! che non sa quanto gran
dio
s'annidi in seno. Ei de la madre intanto
rimembrando il precetto, a
poco a poco
de la mente Sichèo comincia a trarle,
con vivo amore e con
visibil fiamma
rompendole del core il duro smalto,
e 'ntroducendo il suo
già spento affetto.
Cessati i primi cibi, e da' ministri
già le mense
rimosse, ecco di nuovo
comparir nuove tazze e vino e fiori,
per
lietamente incoronarsi e bere.
Quinci un rumoreggiare, un riso, un giubilo
che d'allegrezza empian le sale e gli atrii.
E i torchi e le lumiere che
pendevano
da i palchi d'oro, poiché notte fecesi,
vinceano 'l giorno e
'l sol, non che le tenebre.
Qui fattosi Didone un vaso porgere
d'oro
grave e di gemme, ov'era solito
ne' conviti e ne' dí solenni e celebri
ber Belo, e gli altri che da Belo uscirono,
di fiori ornollo, e di vin
vecchio empiendolo,
orò, cosí dicendo: «Eterno Giove,
che, Albergator
nomato, hai de gli alberghi
e de le cortesie cura e diletto,
priegoti
ch'a' Fenici ed a' Troiani
fausto sia questo giorno, e memorando
sempre
a' posteri loro. E te, Lièo,
largitor di letizia, e te, celeste
e bionda
Giuno, a questa prece invoco.
Voi co' vostri favori, e Tiri e Peni,
prestate a' prieghi miei divoto assenso».
Ciò detto, riversollo, e
lievemente
del sacrato liquor la mensa asperse,
poscia ella in prima con
le prime labbia
tanto sol ne sorbí quanto n'attinse.
Indi con dolce
oltraggio e con rampogne
a Bizia il diè, che valorosamente
a piena bocca
infino a l'aureo fondo
vi si tuffò col volto, e vi s'immerse.
Ciò seguîr
gli altri eroi. Comparve intanto
co' capei lunghi e con la cetra d'oro
il biondo Iopa: e, qual Febo novello,
cantò del ciel le meraviglie e i
moti
che dal gran vecchio Atlante Alcide apprese.
Cantò le vie che
drittamente torte
rendon vaga la luna e buio il sole;
come prima si fêr
gli uomini e i bruti;
com'or si fan le piogge e i venti e i folgori:
cantò l'Iade e l'Orse e 'l Carro e 'l Corno,
e perché tanto a l'Oceàno
il verno
vadan veloci i dí, tarde le notti.
Un novo plauso
incominciaro i Tiri:
seguiro i Teucri: e l'infelice Dido,
che già fea
dolce con Enea dimora,
quanto bevesse amor non s'accorgendo,
a lungo
ragionar seco si pose
or di Priamo, or d'Ettorre, or con qual'armi
venisse a Troia de l'Aurora il figlio,
or qual fosse Diomede, or quanto
Achille.
«Anzi, se non t'è grave, - al fin gli disse -
incomincia a
contar fin da principio
e l'insidie de' Greci e la ruina
e l'incendio di
Troia, e 'l corso intero
de gli errori vostri: già che 'l settim'anno
e
per terra e per mar raminghi andate».
Libro
II
Stavan
taciti, attenti e disïosi
d'udir già tutti, quando il padre Enea
in sé
raccolto, a cosí dir da l'alta
sua sponda incominciò: «Dogliosa istoria
e d'amara e d'orribil rimembranza,
regina eccelsa, a raccontar m'inviti:
come la già possente e glorïosa
mia patria, or di pietà degna e di
pianto,
fosse per man de' Greci arsa e distrutta.
E qual ne vid'io far
ruina e scempio:
ch'io stesso il vidi, ed io gran parte fui
del suo caso
infelice. E chi sarebbe,
ancor che Greco e Mirmidóne e Dòlopo,
che a
ragionar di ciò non lagrimasse?
E già la notte inchina, e già le stelle
sonno, dal ciel caggendo,
a gli occhi infondono:
ma se tanto d'udire
i nostri guai,
se brevemente di saver t'aggrada
l'ultimo eccidio,
ond'ella arse e cadeo,
benché lutto e dolor mi rinnovelle,
e sol de la
memoria mi sgomente,
io lo pur conterò. Sbattuti e stanchi
di
guerreggiar tant'anni, e risospinti
ancor da' fati, i greci condottieri
a l'insidie si diêro; e da Minerva
divinamente instrutti, un gran
cavallo
di ben contesti e ben confitti abeti
in sembianza d'un monte
edificaro.
Poscia, finto che ciò fosse per vóto
del lor ritorno, di
tornar sembiante
fecero tal, che se ne sparse il grido.
Dentro al suo
cieco ventre e ne le grotte,
che molte erano e grandi, in sí gran mole,
rinchiuser di nascosto arme e guerrieri
a ciò per sorte e per valore
eletti.
Giace di Troia un'isola in cospetto
(Tènedo è detta) assai
famosa e ricca,
mentre ch'Ilio fioriva. Ora un ridotto
è sol di
naviganti e di navili,
infido seno, e mal sicura spiaggia.
Qui, poiché
di Sigèo sciolse e spario,
la greca armata si rattenne, e dietro
appiattossi al suo lito ermo e deserto:
e noi credemmo che veracemente
fosse partita, e che a spiegate vele
gisse a Micene. Onde la Teucria
tutta,
già cotant'anni lagrimosa e mesta,
volta ne fu subitamente in
gioia.
S'aprîr le porte, uscîr d'Ilio e d'intorno
le genti tutte,
disïose e liete
di veder vòti i campi e sgombri i liti,
ch'eran coverti
pria di navi e d'armi.
"Qui s'accampava Achille, e qui de' Dòlopi
eran
le tende, ivi solean le zuffe
farsi de' cavalieri e là de' fanti"
dicean
parte vagando; e parte accolti
facean mirando al gran destriero intorno
meraviglie e discorsi: e chi per sacro,
e chi per esecrando il vóto e 'l
dono
avean di Palla. Il primo fu Timete
a dir ch'entro le mura, e ne la
ròcca
quindi si conducesse, o froda, o fato
che ciò fosse de' miseri
Troiani.
Ma Capi e gli altri, il cui piú sano avviso
o per insidïose, o
per sospette,
quantunque sacre, avea le greche offerte,
voleano o che
del mar fosse nel fondo
precipitato, o che di fiamme ardenti
si
circondasse, o che forato e lacero
gli fosse il petto e sviscerato il
fianco.
Stava tra questi due contrari in forse
in due parti diviso il
volgo incerto;
quando con gran caterva e con gran furia
da la ròcca
discese, e di lontano
gridò Laocoonte: "O ciechi, o folli,
o sfortunati!
agli nemici, a' Greci
date credenza? a lor credete voi
che sian partiti?
e sarà mai che doni
siano i lor doni, e non piú tosto inganni?
Cosí v'è
noto Ulisse? O in questo legno
sono i Greci rinchiusi, o questa è macchina
contra alle nostre mura, o spia per entro
ai nostri alberghi, o scala o
torre o ponte
per di sopra assalirne. E che che sia,
certo o vi cova o
vi si ordisce inganno,
ché de' Pelasgi e de' nemici è 'l dono".
Ciò
detto, con gran forza una grand'asta
avventogli, e colpillo, ove tremante
stette altamente infra due coste infissa:
e 'l destrier, come fosse e
vivo e fiero,
fieramente da spron punto cotale,
si storcé, si crollò,
tonogli il ventre,
e rintonâr le sue cave caverne.
E se 'l fato non era
a Troia avverso,
se le menti eran sane, avea quel colpo
già commossi
infiniti a lacerarlo,
e del tutto a scovrir l'agguato argolico:
ond'oggi
e tu, grand'Ilio, e tu, diletta
Troia, staresti. Ma si vide intanto
de'
pastor paesani una masnada
venir gridando al re, ch'ivi era giunto,
e
trargli avanti un giovine prigione
ch'avea dietro le mani al tergo avvinte.
Questi era greco; e da' suoi Greci avea
di salvare il destrier, d'aprir
lor Troia
assunto impresa; e per condurla, a tempo
ascosto, a tempo a
quei pastori offerto
s'era per se medesmo, in sé disposto
e fermo di due
cose una a finire,
o quest'opra, o la vita. A ciò concorso,
per desio di
vedere, il popol tutto
dal caval si distolse, e diessi a gara
a
schernire il prigione. Or ascoltate
le malizie de' Greci; e da quest'uno
conosceteli tutti. Egli nel mezzo
cosí com'era a le nemiche schiere,
turbato, inerme e di catene avvinto,
fermossi: e poi che rimirolle
intorno,
con voce di pietà proruppe, e disse:
"Or quale o terra, o
mare, o loco altrove
sarà, misero me! che mi raccolga,
o che m'affidi
omai? poiché tra' Greci
non ho dov'io ricovri, e da' Troiani
non deggio
altro aspettar che strazio e morte?"
Ne commosse a pietà, n'acquetò l'ira
sí doglioso rammarco: e con dolcezza
e con promesse il confortammo a
dire
chi, di che loco e di che sangue fosse,
e che portasse, e qual
fidanza avesse
a darnesi prigione. Egli, in tal guisa
assecurato, al re
si volse e disse:
"Signor, segua che vuole, in tuo cospetto
io dirò
tutto; e dirò vero. E prima
d'esser greco io non niego; ché fortuna
può
ben far che Sinon sia gramo e misero,
ma non già mai che sia bugiardo e
vano.
Non so se, ragionandosi, a gli orecchi
ti venne mai di Palamède
il nome,
che nomato e pregiato e glorïoso,
e da Belo altamente era
disceso;
se ben con falso e scelerato indizio
di tradigion, per detestar
la guerra,
ei fu da' Greci indegnamente occiso:
com'or, che ne son
privi, i Greci stessi
lo piangon tutti! A questo Palamede,
a cui per
parentela era congiunto,
il pover padre mio ne' miei prim'anni
pria per
valletto nel mestier de l'armi
poi per compagno a questa guerra diemmi.
Infin ch'ei visse, e fu 'l suo stato in fiore,
fioriro anco i miei
giorni; e l'opre e 'l nome
e 'l grado mio ne fûr talvolta in pregio.
Estinto lui (che per invidia avvenne,
com'ognun sa, del traditore
Ulisse),
amaramente il piansi. E 'l caso indegno
d'un tanto amico, e la
mia vita oscura
tra me sdegnando, come soro e folle
ch'io fui, nol
tacqui. Anzi, se mai la sorte
mel consentisse, o se mai fossi in Argo
vincitor ritornato, alta vendetta
ne gli promisi, e con minacce e motti
acerbi acerbamente il provocai.
Questo fu del mio mal prima radice;
e quinci de' suoi falli e del mio duolo
consapevole Ulisse, a
spaventarmi,
a travagliarmi, a seminar susurri
si diè nel volgo, e
procurarmi inciampi
ond'io cadessi. E non cessò, ch'ordimmi
per mezzo di
Calcante... Ma dov'entro,
lasso! senza profitto a fastidirvi
con noiose
novelle? A voi sol basta
di saver ch'io son greco, già che i Greci
tutti
egualmente per nimici avete.
Or datemi, signor, supplizio e morte
qual a
voi piace, ché piacere e gioia
n'aranno i regi ancor d'Itaca e d'Argo".
E qui si tacque. Allor brama ne venne,
non che disio, di piú sapere
avanti;
non ben sapendo ancor, miseri noi!
quanta scelleratezza e quanta
astuzia
fosse ne' Greci. Egli, a seguir costretto,
mostrossi in prima
paventoso, e poscia
di nuovo assicurossi, e finse, e disse:
"Hanno
molte fïate i Greci, afflitti
già da la guerra, e dal disagio astretti,
disïato e tentato anco piú volte
di qui ritrarsi, e lasciar Troia in
pace.
Cosí fatto l'avessero! Ma sempre
or il verno, or i vènti, or le
procelle
gli han distornati. E pur dianzi che l'opra
del caval che
vedete era fornita,
di nuovo in sul partire, e 'n sul far vela,
di
tempeste, di turbini e di nembi
risonò 'l cielo, e conturbossi il mare.
Onde, sospesi, Eurípilo mandammo
a spïar sopra a ciò quel che da Febo
ne s'avvertisse. Riportonne un empio
e spaventoso oracolo; e fu questo:
-<I> Col sangue e con la morte d'una vergine
placaste i vènti per
condurvi in Ilio;
col sangue e con la morte ora d'un giovine
convien
placarli per ridurvi in Grecia.</I> -
A cosí fiera voce sbigottissi,
impallidissi, e tremò 'l volgo tutto,
ciascun per sé temendo; e nessun
certo
qual di loro accennasse Apollo e 'l fato.
Qui fece Ulisse in
mezzo al greco stuolo
con gran tumulto appresentar Calcante:
e del
volere in ciò de' santi numi
interrogollo. Ed ei rispose in guisa
che la
sua fellonia, benché da tutti
fusse prevista, fu però da molti
simulata
e taciuta, e da molti anco
a me predetta: pur ei tacque ancora
per dieci
giomi; e scaltramente al niego
si mise di voler che per suo detto
fosse
alcun destinato o spinto a morte.
Ma poi, come da gridi astretto e vinto,
di conserto con lui ruppe il silenzio,
sí ch'io fui dichiarato al fin
per vittima;
consentîr tutti, perché tutti ancora
finian con la mia
morte il lor periglio.
Era già da vicino il giorno orribile,
in che
doveano al sacrificio offrirmi:
e già 'l farro e già 'l sale e già le bende
erano a le mie tempie intorno avvolte,
quando, rotto (io nol niego) ogni
ritegno,
da la morte mi tolsi: e fin ch'a' vènti
desser le vele (ch'eran
presti a darle)
di buia notte in un pantan m'ascosi,
ove nel fango infra
le scarde e i giunchi
stava qual mi vedete. Ora son qui
privo d'ogni
conforto e d'ogni speme
di mai piú riveder la patria antica,
i dolci
figli e 'l desïato padre,
che saran, lasso me! per la mia fuga,
benché
innocenti, ancor forse in mia vece
incarcerati, e tormentati, e morti.
Or io, signor, per quelli eterni dèi
che scorgon di là su se 'l vero io
parlo,
per quella pura e 'ntemerata fede
(se tra' mortali in alcun loco
è tale)
ond'io già tutto a rivelar ti vegno,
priegoti che pietà di me ti
prenda,
e de' miei tanti e sí gravosi affanni
ch'indegnamente io
soffro". A cotal pianto
commossi, e da noi fatti anco pietosi,
vita e
vènia gli diamo. E di sua bocca
comanda il re che si disferri e sciolga;
poi dolcemente in tal guisa gli parla:
"Qual tu ti sia, de' tuoi perduti
Greci
ti dimentica omai; ché per innanzi
sarai de' nostri. Or mi
rispondi il vero
di quel ch'io ti domando. A che fine hanno
qui sí
grande edificio i Greci eretto?
Per consiglio di cui? Con qual avviso
l'han fabbricato? È vóto? è magia? è macchina?
Che trama è questa?" Avea
'l re detto a pena,
quand'ei, d'inganni e d'arte greca instrutto,
le già
disciolte mani al cielo alzando,
disse: "Voi fochi eterni e 'nvïolabili,
voi fasce ond'io portai le tempie avvinte,
voi sacri altari, e voi
cultri nefandi,
cui fuggendo anco adoro, a quel ch'io dico
per testimoni
invoco. A me lece ora
ch'io mi disciolga, e mi dissacri in tutto
da
l'obbligo de' Greci. E mi lece anco
che non gli ami, e che gli odii, e che
divolghi
quel che da lor si cela, già ch'astretto
piú non son de la
patria a legge alcuna.
Tu, se vero io ti dico, e se gran merto
di ciò ti
rendo, e te, Troia, conservo,
conserva a me la già promessa fede.
Nel
cominciar di questa guerra i Greci
riposero ogni speme, ogni fidanza
ne
l'aiuto di Palla; e ben riposte
fûr sempre, infin che l'empio Dïomede,
e
l'inventor d'ogni mal'opra Ulisse,
il sacro tempio suo non vïolaro:
come
fêr quando, ne la ròcca ascesi,
n'uccisero i custodi, e n'involaro
il
Palladio fatale, osando impuri
por le man sanguinose al sacrosanto
suo
simulacro; e macular le intatte
e 'ntemerate sue verginee bende.
Da indi
in qua d'ardir sempre e di forze
scemâr, non che di speme; e Palla infesta
ne fu lor sempre; e ne diè chiari segni
e portentosi, allor ch'al campo
addotta
fu la sua statua, che, posata a pena,
torvamente mirogli, e
lampi e fiamme
vibrò per gli occhi, e per le membra tutte
versò salso
sudore. Indi tre volte,
meraviglia a contarlo! alto da terra
surse, e
'mbracciò lo scudo, e brandí l'asta.
Allor gridando indovinò Calcante
che fuggir si dovesse, e tosto a' vènti
spiegar le vele: ché di Troia in
vano
era l'assedio, se con altri augúri
d'Argo non si tornava un'altra
volta,
e de la dea non si placava il nume,
ch'or, per ciò fare, han seco
in Grecia addotto.
Onde giunti a Micene, incontinente
si daranno a
dispor l'armi e le genti
e gli dèi che gli aíti, e gli accompagni.
Poi,
ripassando il mar, con maggior forza
di nuovo assaliranvi e d'improvviso:
cosí Calcante interpreta, e predice.
Or questa mole, che tant'alto
sorge,
qui per consiglio di Calcante è posta
in vece del Palladio, e per
ammenda
del nume offeso, a bello studio intesta
di legni cosí gravi e
cosí grandi,
ed a sí smisurata altezza eretta,
a fin che per le porte
entro a le mura
quinci addur non si possa, ove per segno
e per memoria
poi del nume antico
riverita da voi, sacrata e cólta
sia ricovro e
tutela al popol vostro.
Ché allor che questo dono a Palla offerto
per
vostra man sia vïolato e guasto,
ruina estrema (la qual sopra lui
caggia
piú tosto) a voi vuol che ne venga,
ed al gran vostro impero: ed, a
rincontro,
quando da voi sia dentro al vostro cerchio
condotto e
custodito, allor che l'Asia
congiurerà con le sue forze tutte
a
l'esterminio d'Argo, e che tal fato
sopra a' nostri nepoti in cielo è
fisso".
Con tal arte Sinon, con tali insidie
fe' sí che gli credemmo;
e quelli stessi
cui non potêr né 'l figlio di Tideo,
né di Larissa il
bellicoso alunno,
né diece anni domar, né mille navi,
furon da
lagrimette e da menzogne
sforzati e vinti. In questa a gl'infelici
un
altro sopravvenne assai maggiore
e piú fiero accidente; onde a ciascuno
d'improvviso spavento il cor turbossi.
Era Laocoonte a sorte eletto
sacerdote a Nettuno; e quel dí stesso
gli facea d'un gran toro ostia
solenne:
quand'ecco che da Tènedo (m'agghiado
a raccontarlo) due
serpenti immani
venir si veggon parimente al lito,
ondeggiando coi dorsi
onde maggiori
de le marine allor tranquille e quete.
Dal mezzo in su
fendean coi petti il mare,
e s'ergean con le teste orribilmente,
cinte
di creste sanguinose ed irte.
Il resto con gran giri e con grand'archi
traean divincolando, e con le code
l'acque sferzando sí che lungo tratto
si facean suono e spuma e nebbia intorno.
Giunti a la riva, con fieri
occhi accesi
di vivo foco e d'atro sangue aspersi,
vibrâr le lingue, e
gittâr fischi orribili.
Noi, di paura sbigottiti e smorti,
chi qua, chi
là ci dispergemmo; e gli angui
s'affilâr drittamente a Laocoonte,
e pria
di due suoi pargoletti figli
le tenerelle membra ambo avvinchiando,
sen
fêro crudo e miserabil pasto.
Poscia a lui, ch'a' fanciulli era con l'arme
giunto in aiuto, s'avventaro, e stretto
l'avvinser sí che le scagliose
terga
con due spire nel petto e due nel collo
gli racchiusero il fiato;
e le bocche alte,
entro al suo capo fieramente infisse,
gli addentarono
il teschio. Egli, com'era
d'atro sangue, di bava e di veleno
le bende e
'l volto asperso, i tristi nodi
disgroppar con le man tentava indarno,
e
d'orribili strida il ciel feriva;
qual mugghia il toro allor che dagli
altari
sorge ferito, se del maglio appieno
non cade il colpo, ed ei lo
sbatte e fugge.
I fieri draghi alfin dai corpi esangui
disviluppati, in
vèr la ròcca insieme
strisciando e zufolando, al sommo ascesero:
e nel
tempio di Palla, entro al suo scudo
rinvolti, a' piè di lei si raggrupparo.
Rinnovossi di ciò nel volgo orrore
e tremore e spavento; e mormorossi
che degnamente avea Laocoonte
di sua temerità pagato il fio,
e del
furor che contra al sacro legno
gli armò l'impura e scelerata mano:
e
gridâr tutti che di Palla al tempio
si conducesse, e con preghiere e vóti
de la dea si facesse il nume amico.
A ciò seguire immantinente accinti,
ruiniamo la porta, apriam le mura,
adattiamo al cavallo ordigni e travi,
e ruote e curri a' piedi, e funi al collo.
Cosí mossa e tirata
agevolmente
la macchina fatale il muro ascende,
d'armi pregna e
d'armati, a cui d'intorno
di verginelle e di fanciulli un coro,
sacre
lodi cantando, con diletto
porgean mano a la fune. Ella, per mezzo
tratta de la città, mentre si scuote,
mentre che ne l'andar cigola e
freme,
sembra che la minacci. O patria, o Ilio,
santo de' numi albergo!
inclita in arme
dardania terra! Noi la pur vedemmo
con tanti occhi a
l'entrar, che quattro volte
fermossi, e quattro volte anco n'udimmo
il
suon de l'armi: e pur, da furia spinti,
ciechi e sordi che fummo, i nostri
danni
ci procurammo: ché 'l dí stesso addotto
e posto in cima a la
sacrata ròcca
fu quel mostro infelice. Allor Cassandra
la bocca aperse,
e quale esser solea
verace sempre e non creduta mai,
l'estremo fine
indarno ci predisse:
e noi di sacra e di festiva fronde
velammo i templi
il dí, miseri noi,
che de' lieti dí nostri ultimo fue.
Scende da
l'Oceàn la notte intanto,
e col suo fosco velo involve e copre
la terra
e 'l cielo e de' Pelasgi insieme
l'ordite insidie. I Teucri a i loro
alberghi,
a i lor riposi addormentati e queti
giacean securamente; e già
da Tènedo
a l'usata riviera in ordinanza
vèr noi se ne venia l'argiva
armata,
col favor de la notte occulta e cheta;
quando da la sua poppa il
regio legno
ne diè cenno col foco. Allor Sinone,
che per nostra ruina
era da noi
e dal fato maligno a ciò serbato,
accostossi al cavallo, e 'l
chiuso ventre
chetamente gli aperse, e fuor ne trasse
l'occulto agguato.
Usciro a l'aura in prima
i primi capi baldanzosi e lieti,
tutti per una
fune a terra scesi.
E fûr Tisandro e Stènelo ed Ulisse,
Atamante e
Toante e Macaóne
e Pirro e Menelao con lo scaltrito
fabbricator di
questo inganno, Epèo.
Assalîr la città che già ne l'ozio
e nel sonno e
nel vino era sepolta;
ancisero le guardie; aprîr le porte;
miser le
schiere congiurate insieme;
e diêr forma a l'assalto. Era ne l'ora
che
nel primo riposo hanno i mortali
quel ch'è dal cielo a i loro affanni infuso
opportuno e dolcissimo ristoro:
quand'ecco in sogno (quasi avanti gli
occhi
mi fosse veramente) Ettòr m'apparve
dolente, lagrimoso, e quale il
vidi
già strascinato, sanguinoso e lordo
il corpo tutto, e i piè forato
e gonfio.
Lasso me! quale e quanto era mutato
da quell'Ettòr che ritornò
vestito
de le spoglie d'Achille, e rilucente
del foco ond'arse il gran
navile argolico!
Squallida avea la barba, orrido il crine
e rappreso di
sangue; il petto lacero
di quante unqua ferite al patrio muro
ebbe
d'intorno. E mi parea che 'l primo
foss'io che lagrimando gli dicessi:
"O splendor di Dardania, o de' Troiani
securissima speme, e quale
indugio
t'ha fin qui trattenuto? Ond'or ne vieni
tanto da noi bramato?
Ahi, dopo quanta
strage de' tuoi, dopo quanti travagli
de la nostra
città già stanchi e domi
ti riveggiamo! E qual fero accidente
fa sí
deforme il tuo volto sereno?
E che piaghe son queste?". Egli a ciò nulla
rispose, come a vani miei quesiti:
ma dal profondo petto alti sospiri
traendo: "Oh! fuggi, Enea, fuggi, - mi disse -
togliti a queste fiamme.
Ecco che dentro
sono i nostri nemici. Ecco già ch'Ilio
arde tutto e
ruina. Infino ad ora
e per Priamo e per Troia assai s'è fatto.
Se
difendere omai piú si potesse,
fôra per questa man difesa ancora:
ma
dovendo cader, le sue reliquie
sacre e gli santi suoi numi Penati
a te
solo accomanda; e tu li prendi
per compagni a' tuoi fati; e, come è d'uopo,
cerca loro altre terre, ergi altre mura;
ché dopo lungo e travaglioso
esilio
l'ergerai piú di Troia altere e grandi".
Detto ciò, da le chiuse
arche riposte
trasse, e mi consegnò le sacre bende
e l'effigie di Vesta
e 'l foco eterno.
Spargonsi intanto per diverse parti
de la presa
città le grida e 'l pianto
e 'l tumulto de l'armi; e rinforzando
via piú
di mano in man, tanto s'avanza
che a l'antica magion del padre Anchise
(come che fosse assai remota, e chiusa
d'alberi intorno) il gran rumore
aggiunge.
Allor dal sonno mi riscuoto, e salgo
subitamente d'un terrazzo
in cima,
e porgo per udir gli orecchi attenti.
Cosí rozzo pastor, se
da gran suono
è da lunge percosso, in alto ascende,
e mirando si sta
confuso e stupido
o foco che al soffiar d'un torbid'Austro
stridendo
arda le biade e le campagne;
o tempestoso e rapido torrente
che dal
monte precipiti, e le selve
ne meni e i cólti e le ricolte e i campi.
Allor tardi credemmo; allor le insidie
ne fûr conte de' Greci. E già 'l
palagio
era di Deïfòbo arso e distrutto;
già 'l suo vicino Ucalegón
ardea,
e l'incendio di Troia in ogni lato
rilucea di Sigèo ne la marina;
e s'udian gridar genti e sonar tube.
Io m'armo, e, forsennato, anco ne
l'armi
non veggio ove m'adopri. Al fin risolvo,
raunati i compagni,
avventurarmi,
menar le mani, e ne la ròcca addurmi;
mi fan l'impeto e
l'ira ad ogni rischio
precipitoso; e solo a mente vienmi
che un bel
morir tutta la vita onora.
Eravam mossi; quando ecco tra via
ne si fa
Panto d'improvviso avanti,
Panto figlio d'Otrèo, che de la ròcca
era
custode, e sacerdote a Febo.
Questi, scampato da' nemici a pena,
inverso
il lito attonito fuggendo,
i sacri arredi e i santi simulacri
de gli dèi
vinti, e 'l suo picciol nipote
si traea seco."O Panto, o Panto, - io dissi -
a che siam giunti? Ove ricorso abbiamo,
se la ròcca è già presa?". Ei
sospirando
e piangendo rispose: " È giunto, Enea,
l'ultimo giorno e 'l
tempo inevitabile
de la nostra ruina. Ilio fu già;
e noi Troiani fummo:
or è di Troia
ogni gloria caduta. Il fero Giove
tutto in Argo ha
rivolto; e tutti in preda
siam de' Greci e del foco. Il gran cavallo,
ch'era a Palla devoto, altero in mezzo
stassi de la cittade, e d'ogni
lato
arme versa ed armati. Il buon Sinone
gode de la sua frode, e
d'ogn'intorno
scorrendo si rimescola, e s'aggira
gran maestro d'incendi
e di ruine.
A porte spalancate entran le schiere
senza ritegno ed a
migliaia, quante
né d'Argo usciron mai né di Micene.
Gli altri che prima
entraro, han già le strade
assedïate: e stan con l'armi infeste,
parate
a far di noi strage e macello.
Soli son fino a qui sorti in difesa
i
corpi de le guardie: e questi al buio
fanno con lievi e repentini assalti
tale una cieca resistenza a pena".
Dal parlar di costui, dal nume
avverso
spinto, mi caccio tra le fiamme e l'armi,
ove mi chiama il mio
cieco furore,
e de le genti il fremito e le strida
che feriscono il
cielo. E per compagni
primieramente al lume de la luna
mi si scopron
Rifèo, Ifito il vecchio
ed Ipane e Dimante: indi comparve
il giovine
Corèbo. Era costui
figlio a Migdóne, insanamente acceso
de l'amor di
Cassandra; e, come fosse
già suo consorte, pochi giorni avanti
in
soccorso del suocero e de' Frigi
s'era a Troia condotto. Infortunato!
che non avea la sua sposa indovina
ben anco intesa. A questi insieme
accolti,
per accendergli piú mi volgo e dico:
"Giovini forti e
valorosi, in vano
omai fia la fortezza e 'l valor vostro;
poiché perduti
siamo e che Troia arde,
e gli dèi tutti, a cui tutela e cura
si reggea
questo impero, in abbandono
lasciano i nostri templi e i nostri altari.
Ma se voi cosí fermi e cosí certi
siete pur, com'io veggio, a
seguitarmi,
ancor che a morte io vada, in mezzo a l'armi
avventiamci, e
moriamo. Un sol rimedio
a chi speme non have è disperarsi".
Cosí
l'ardir di quegli animi accesi
furor divenne. Usciam di lupi in guisa
che rapaci, famelici e rabbiosi,
col ventre vòto e con le canne asciutte
sentan de' lupicini urlar per fame
pieno un digiun covile. Andiam per
mezzo
de' nemici e de l'armi a morte esposti,
senza riservo, e via
dritti fendiamo
la città tutta, a la buia ombra occulti,
che l'altezza
facea de gli edifici.
Or chi può dir la strage e la ruina
di quella
notte? E qual è pianto eguale
a tante occisïoni, a tanto eccidio?
Troia
ruina, la superba, antica
e glorïosa Troia, che tant'anni
portò scettro
e corona. Era, dovunque
s'andava, di cadaveri, di sangue,
d'ogni
calamità pieno ogni loco,
le vie, le case, i templi. E non pur soli
caddero i Teucri, ché l'antico ardire
destossi, e surse alcuna volta
ancora
negli lor petti. I vincitori e i vinti
giacean confusamente, e
d'ogni lato
s'udian pianti e lamenti; e questi e quelli
eran da la paura
e da la morte
in mille guise aggiunti. Andrògeo il primo
de' Greci fu
ch'avanti ne s'offerse,
condottier di gran gente. Egli, avvisando
parte
sollecitar de la sua schiera:
"Affrettatevi, - disse - a che badate?
che
'ndugio è 'l vostro? Altri espugnata ed arsa
e depredata han di già Troia, e
voi
testé venite?" Avea ciò detto a pena,
che 'l segno e la risposta
indarno attesa,
tra nemici si vide; e come attonito
restando, con la
voce il piè ritrasse.
Come repente il vïator s'arretra,
se d'improvviso
fra le spine un angue
avvien che prema, ed ei premuto e punto
d'ira
gonfio e di tosco gli s'avventi;
cosí dal nostro subitano incontro
sovraggiunto in un tempo e spaventato,
Andrògeo per fuggir ratto si
volse.
Ma noi che, impauriti e sconcertati,
a la sprovvista gli
assalimmo in lochi
a lor non consueti, in breve spazio
li circondammo, e
gli uccidemmo alfine:
tanto nel primo assalto amica e presta
ne fu la
sorte. E qui fatto Corèbo
d'un tal successo e di coraggio altero:
"Compagni, - disse - poi che la fortuna
con questo sí felice agli altri
incontri
ne porge aíta, a nostro scampo usiamla.
Mutiam gli scudi,
accomodiamci gli elmi
e l'insegne de' Greci. O biasmo o lode
che ciò ne
sia, chi co' nemici il cerca?
L'arme ne daranno essi". E, cosí detto,
la
celata e 'l cimier d'Andrògeo stesso
e la sua scimitarra e la sua targa
per lui si prese, armi onorate e conte,
Cosí fece Rifèo, cosí Dimante,
e cosí tutti: ché per sé ciascuno
di nuove spoglie allegramente armossi.
Ci mettemmo tra lor, che i nostri dii
non eran nosco; e ne l'oscura
notte
con ogni occasïone in ogni loco
ci azzuffammo con essi; e di lor
molti
mandammo a l'Orco, e ritirar molt'altri
ne facemmo a le navi: e
fûr di quelli
che per viltà nel cavernoso e cieco
ventre si racquattâr
del gran cavallo.
Ma che? Contra 'l voler de' regi eterni
indarno osa la
gente. Ecco dal tempio
trar veggiam di Minerva, con le chiome
sparse, e
con gli occhi indarno al ciel rivolti,
la vergine Cassandra. Io dico gli
occhi,
perché le regie sue tenere mani
eran da' lacci indegnamente
avvinte.
A sí fero spettacolo Corèbo
infurïato, e di morir disposto,
anzi che di soffrirlo, a quella schiera
scagliossi in mezzo; e noi
ristretti insieme
tutti il seguimmo. Or qui fessi di noi
una strage
crudele e miserabile
e da' nostri medesmi, che la cima
tenean del
tempio, e dardi e sassi e travi
ne versarono addosso, imaginando
da
l'armi, da' cimieri e da l'insegne
di ferir Greci: e i Greci d'ogni intorno,
tratti dal gran rumore e da lo sdegno
de la ritolta vergine, s'uniro
ai nostri danni. Il bellicoso Aiace,
i fieri Atridi, i Dòlopi e gli
Argivi,
tutti ne furon sopra in quella guisa
ch'opposti un contra
l'altro Affrico e Bora
e Garbino e Volturno accolte in mezzo
han le
selve stridenti o 'l mare ondoso,
quando col suo tridente in fin dal fondo
il gran Nereo il conturba. E tornâr anco
incontro a noi quei che da noi
pur dianzi
sen gîr rotti e dispersi; e questi in prima
scoprîr le nostre
insidie, e fêr palesi
le cangiate armi e gli mentiti scudi,
e 'l parlar
che dal greco era diverso.
Cosí ne fu subitamente addosso
un diluvio di
gente. E qui per mano
di Penelèo, davanti al sacro altare
de l'armigera
Dea cadde Corèbo:
cadde Rifèo, ch'era ne' Teucri un lume
di bontà, di
giustizia e d'equitate
(cosí a Dio piacque); ed Ipane e Dimante
caddero
anch'essi; e questi, ohimè! trafitti
per le man pur de' nostri. E tu,
pietoso
Panto, cadesti; e la tua gran pietate,
e l'ínfola santissima
d'Apollo
in ciò nulla ti valse. O fiamme estreme,
o ceneri de' miei!
fatemi fede
voi che nel vostro occaso io rischio alcuno
non rifiutai né
d'arme, né di foco,
né di qual fosse incontro, né di quanti
ne facessero
i Greci: e se 'l fato era
ch'io dovessi cader, caduto fôra:
tal ne feci
opra. Ne spiccammo al fine
da quel mortale assalto. Ifito e Pelia
ne
venner meco: Ifito afflitto e grave
già d'anni; e Pelia indebolito e tardo
d'un colpo, che di mano ebbe d'Ulisse.
Quinci divelti, al gran palagio
andammo
da le grida chiamati. Ivi era un fremito,
un tumulto, un
combatter cosí fiero,
come guerra non fosse in altro loco,
e quivi sol
si combattesse, e quivi
ognun morisse, e nessun altro altrove:
tal v'era
Marte indomito, e de' Greci
tanto concorso. Avean la porta cinta
di
schiere e di testuggini e di travi,
e d'ambi i lati a la parete in alto
appoggiate le scale; onde saliti
e spinti un dopo l'altro, con gli scudi
si ricoprian di sopra, e con le destre
rampicando salian di grado in
grado.
A rincontro i Troiani, altri di sopra
muri e tetti versando e
torri intere,
i travi e i palchi d'oro e i fregi tutti
de la reggia e
de' regi avean per armi;
fermi a far sí (poich'eran giunti al fine)
ch'ogni cosa con lor finisse insieme;
ed altri unitamente entro a la
porta
stavan coi ferri bassi, in folta schiera
a guardia de l'entrata. E
qui di novo
a sovvenir la corte, a far difesa
per entro, a dare a' vinti
animo e forza
mi posi in core: e 'n cotal guisa il fei.
Era un andito
occulto ed una porta
secretamente accomodata a l'uso
de le stanze reali,
onde solea
Andromaca infelice al suo buon tempo
gir a' suoceri suoi
soletta, e seco
per domestica gioia al suo grand'avo
il pargoletto
Astïanatte addurre.
Quinci entromesso, me ne salsi in cima
a l'alto
corridore, onde i meschini
facean di sopra a le nemiche schiere
tempesta
in vano. Era dal tetto a l'aura
spiccata, e sopra la parete a filo
un'altissima torre, onde il paese
di Troia, il mar, le navi e 'l campo
tutto
si scopria de' nemici. A questa intorno
co' ferri ci mettemmo e
co' puntelli;
e da radice ov'era al palco aggiunta,
e da' suoi tavolati
e da' suoi travi
recisa in parte la tagliammo in tutto,
e la spingemmo.
Alta ruina e suono
fece cadendo; e di piú greche squadre
fu strage e
morte e sepoltura insieme.
Gli altri vi salîr sopra; e d'ogni parte
senz'intermissïon d'ogni arme un nembo
volava intanto. In su la prima
entrata
stava Pirro orgoglioso; e d'armi cinto
sí luminose, e da'
riflessi accese
di tanti incendi, che di foco e d'ira
parean lunge
avventar raggi e scintille.
Tale un colúbro mal pasciuto e gonfio,
di
tana uscito, ove la fredda bruma
lo tenne ascoso, a l'aura si dimostra,
quando, deposto il suo ruvido spoglio,
ringiovenito, alteramente al sole
lubrico si travolve, e con tre lingue
vibra mille suoi lucidi colori.
Seco il gran Perifante e 'l grand'auriga
d'Achille, Automedonte, e lo
stuol tutto
era de' Sciri: e di già sotto entrati,
fiamme a' tetti
avventando, ogni difesa
ne facean vana. E qui co' primi, avanti
Pirro
con una in man grave bipenne
le sbarre, i legni, i marmi, ogni ritegno
de la ferrata porta abbatte e frange,
e per disgangherarla ogni arte
adopra.
Tanto al fin ne recide che nel mezzo
v'apre un'ampia finestra.
Appaion dentro
gli atrii superbi, i lunghi colonnati,
e di Priamo e
degli altri antichi regi
i reconditi alberghi. Appaion l'armi
che
davanti eran pronte a la difesa.
S'ode piú dentro un gemito, un tumulto,
un compianto di donne, un ululato,
e di confusïone e di miseria
tale
un suon che feria l'aura e le stelle.
Le misere matrone spaventate,
chi
qua, chi là per le gran sale errando,
battonsi i petti; e con dirotti pianti
dànno infino a le porte amplessi e baci.
Pirro intanto non cessa, e
furïoso,
in sembianza del padre, ogni riparo,
ogni intoppo sprezzando,
entro si caccia.
Già l'arïete a fieri colpi e spessi
aperta,
fracassata, e d'ambi i lati
da' cardini divelta avea la porta;
quand'egli a forza urtò, ruppe e conquise
i primi armati; e quinci in un
momento
di Greci s'allagò la reggia tutta.
Qual è se, rotti gli argini,
spumoso
esce e rapido un fiume, allor che gonfio
e torbo e ruinoso i
campi inonda,
seco i sassi traendo e i boschi interi,
e gli armenti e le
stalle e ciò che avanti
gli s'attraversa; in cotal guisa io stesso
vidi
Pirro menar ruina e strage;
e vidi ne l'entrata ambi gli Atridi;
vidi
Ecúba infelice, ed a lei cento
nuore d'intorno; e Prïamo vid'anco
ch'estinguea col suo sangue, ohimè! quei fochi
che da lui stesso eran
sacrati e cólti.
Cinquanta maritali appartamenti
eran ne' suo
serraglio: quale, e quanta
speranza de' figlioli e de' nipoti!
Quanti
fregi, quant'oro, quante spoglie,
e quant'altre ricchezze! e tutte insieme
periro incontinente: e dove il foco
non era, erano i Greci. Or, per
contarvi
qual di Prïamo fosse il fato estremo,
egli, poscia che presa,
arsa e disfatta
vide la sua cittade, e i Greci in mezzo
ai suoi piú cari
e piú riposti alberghi;
ancor che vèglio e debole e tremante,
l'armi,
che di gran tempo avea dismesse,
addur si fece; e d'esse inutilmente
gravò gli omeri e 'l fianco; e come a morte
devoto, ove piú folti e piú
feroci
vide i nemici, incontr' a lor si mosse.
Era nel mezzo del
palazzo a l'aura
scoperto un grand'altare, a cui vicino
sorgea di molti
e di molt'anni un lauro
che co' rami a l'altar facea tribuna,
e con
l'ombra a' Penati opaco velo.
Qui, come d'atra e torbida tempesta
spaventate colombe, a l'ara intorno
avea le care figlie Ecuba accolte;
ove agl'irati dèi pace ed aíta
chiedendo, agli lor santi simulacri
stavano con le braccia indarno appese.
Qui, poiché la dolente apparir
vide
il vecchio re giovenilmente armato:
"O, - disse - infelicissimo
consorte,
qual dira mente, o qual follia ti spinge
a vestir di
quest'armi? Ove t'avventi,
misero? Tal soccorso a tal difesa
non è
d'uopo a tal tempo: non, s'appresso
ti fosse anco Ettor mio. Con noi piú
tosto
rimanti qui; ché questo santo altare
salverà tutti; o morren tutti
insieme".
Ciò detto, a sé lo trasse; e nel suo seggio
in maestate il
pose. Ecco davanti
a Pirro intanto il giovine Polite,
un de' figli del
re, scampo cercando
dal suo furore, e già da lui ferito,
per portici e
per logge armi e nemici
attraversando, in vèr l'altar sen fugge:
e Pirro
ha dietro che lo segue e 'ncalza
sí che già già con l'asta e con la mano
or lo prende, or lo fère. Alfin qui giunto,
fatto di mano in man di
forza esausto
e di sangue e di vita, avanti agli occhi
d'ambi i parenti
suoi cadde, e spirò.
Qui, perché si vedesse a morte esposto,
Prïamo
non di sé punto oblïossi,
né la voce frenò, né frenò l'ira:
anzi
esclamando: "O scelerato, - disse -
o temerario! Abbiati in odio il cielo,
se nel cielo è pietate; o se i celesti
han di ciò cura, di lassú ti
caggia
la vendetta che merta opra sí ria.
Empio, ch'anzi a' miei numi,
anzi al cospetto
mio proprio fai governo e scempio tale
d'un tal mio
figlio, e di sí fera vista
le mie luci contamini e funesti.
Cotal meco
non fu, benché nimico,
Achille, a cui tu menti esser figliolo,
quando, a
lui ricorrendo, umanamente
m'accolse, e riverí le mie preghiere;
gradí
la fede mia; d'Ettor mio figlio
mi rendé 'l corpo esangue: e me securo
nel mio regno ripose". In questa, acceso,
il debil vecchio alzò l'asta,
e lanciolla
sí che senza colpir languida e stanca
ferí lo scudo, e lo
percosse a pena,
che dal sonante acciaro incontinente
risospinta e
sbattuta a terra cadde.
A cui Pirro soggiunse: "Or va' tu dunque
messaggiero a mio padre, e da te stesso,
le mie colpe accusando e i miei
difetti,
fa' conto a lui come da lui traligno:
e muori intanto". Ciò
dicendo, irato
afferrollo, e, per mezzo il molto sangue
del suo figlio,
tremante e barcolloni,
a l'altar lo condusse. Ivi nel ciuffo
con la
sinistra il prese, e con la destra
strinse il lucido ferro, e fieramente
nel fianco infino agli elsi gliel'immerse.
Questo fin ebbe, e qui
fortuna addusse
Prïamo, un re sí grande, un sí superbo
dominator di
genti e di paesi,
un de l'Asia monarca, a veder Troia
ruinata e
combusta; a giacer quasi
nel lito un tronco desolato, un capo
senza il
suo busto, e senza nome un corpo.
Allor pria mi sentii dentro e d'intorno
tale un orror, che stupido rimasi.
E, di Prïamo pensando al caso atroce,
mi si rappresentò l'imago avanti
del padre mio, ch'era a lui d'anni
eguale.
Mi sovvenne l'amata mia Creúsa,
il mio picciolo Iulo, e la mia
casa
tutta a la vïolenza, a la rapina,
ad ogni ingiuria esposta. Allora
in dietro
mi volsi per veder che gente meco
fosse de' miei seguaci; e
nullo intorno
piú non mi vidi: ché tra stanchi e morti
e feriti e
storpiati, altri dal ferro,
altri da le ruine, altri dal foco,
m'avean
già tutti abbandonato. In somma
mi trovai solo. Onde, smarrito errando,
e d'ogn'intorno rimirando, al lume
del grand'incendio, ecco mi s'offre a
gli occhi
di Tindaro la figlia, che nel tempio
se ne stava di Vesta, in
un reposto
e secreto ridotto ascosa e cheta:
Elena, dico, origine e
cagione
di tanti mali, e che fu d'Ilio e d'Argo
furia comune. Onde
comunemente
e de' Greci temendo e de' Troiani
e de l'abbandonato suo
marito,
s'era in quel loco, e 'n se stessa ristretta,
confusa, vilipesa
ed abborrita
fin dagli stessi altari. Arsi di sdegno,
membrando che per
lei Troia cadea;
e 'l suo castigo e la vendetta insieme
de la mia patria
rivolgendo: "Adunque -
dicea meco - impunita e trïonfante
ritornerà la
scelerata in Argo?
E regina vedrà Sparta e Micene?
Goderà del marito,
de' parenti,
de' figli suoi? Farà pompe e grandezze,
e d'Ilio avrà per
serve e per ministri
l'altere donne e i gran donzelli intorno?
E qui
Priamo sarà di ferro anciso,
e Troia incensa, e la dardania terra
di
tanto sangue tante volte aspersa?
Non fia cosí; che se ben pregio e lode
non s'acquista a punire o vincer donna,
io lodato e pregiato assai
terrommi,
se si dirà ch'aggia d'un mostro tale
purgato il mondo.
Appagherommi almeno
di sfogar l'ira mia: vendicherommi
de la mia patria;
e col fiato e col sangue
di lei placherò l'ombre, e farò sazie
le ceneri
de' miei". Ciò vaneggiando,
infurïava; quand'ecco una luce
m'aprio la
notte, e mi scoverse avanti
l'alma mia genitrice in un sembiante,
non
come l'altre volte in altre forme
mentito o dubbio, ma verace e chiaro,
e di madre e di dea, qual, credo, e quanta
su tra gli altri Celesti in
ciel si mostra.
Cotal la vidi, e tale anco per mano
mi prese; e con
pietà le sante luci
e le labbia rosate aperse, e disse:
"Figlio, a che
tanto affanno? a che tant'ira?
Ché non t'acqueti omai? Questa è la cura
che tu prendi di noi? Ché non piú tosto
rimiri ov'abbandoni il vecchio
Anchise
e la cara Creúsa e 'l caro Iulo,
cui sono i Greci intorno? E se
non fosse
che in guardia io gli aggio, in preda al ferro, al foco
fôran
già tutti. Ah! figlio, non il volto
de l'odïata Argiva, non di Pari
la
biasmata rapina, ma del cielo
e de' celesti il voler empio atterra
la
troiana potenza. Alza su gli occhi,
ch'io ne trarrò l'umida nube, e 'l velo
che la vista mortal t'appanna e grava:
poscia credi a tua madre, e senza
indugio
tutto fa' che da lei ti si comanda:
vedi là quella mole, ove
quei sassi
son da' sassi disgiunti, e dove il fumo
con la polve
ondeggiando al ciel si volve,
come fiero Nettuno infin da l'imo
le mura
e i fondamenti e 'l terren tutto
col gran tridente suo sveglie e conquassa.
Vedi qui su la porta come Giuno
infurïata a tutti gli altri avanti
si sta cinta di ferro, e da le navi
le schiere d'Argo a' nostri danni
invita:
vedi poi colà su Pallade in cima
a l'alta rocca, entro a quel
nembo armata,
con che lucenti e spaventosi lampi
il gran Górgone suo
discopre e vibra.
Che piú? mira nel ciel, che Giove stesso
somministra a
gli Argivi animo e forza,
e incontro a le vostre armi a l'arme incita
gli eterni dèi. Cedi lor, figlio, e fuggi,
poi che indarno t'affanni. Io
sarò teco
ovunque andrai, sí che securamente
ti porrò dentro a' tuoi
paterni alberghi".
Cosí disse; e per entro a le folt'ombre
de la notte
s'ascose. Allor vid'io
gl'invisibili aspetti, e i fieri volti
de' numi a
Troia infesti, e Troia tutta
in un sol foco immersa, e fin dal fondo
sottosopra rivolta. In quella guisa
che d'alto monte in precipizio cade
un orno antico, i cui rami pur dianzi
facean contrasto a' vènti e scorno
al sole,
quando con molte accette al suo gran tronco
stanno i robusti
agricoltori intorno
per atterrarlo, e gli dan colpi a gara,
da cui vinto
e dal peso, a poco a poco
crollando e balenando, il capo inchina,
e
stride e geme e dal suo giogo al fine
e con parte del giogo si diveglie,
o si scoscende; e ciò che intoppa urtando,
di suono e di ruina empie le
valli.
Allor discesi; e la materna scorta
seguendo, da' nemici e da le
fiamme
mi rendei salvo: ché dovunque il passo
volgea, cessava il foco, e
fuggian l'armi.
Poi ch'io fui giunto a la magione antica
del padre
mio, di lui prima mi calse
e del suo scampo, e per condurlo a' monti
m'apparecchiava, quand'ei disse:"O figlio,
io decrepito, io misero, che
avanzi
ai dí de la mia patria? Io posso, io deggio
sopravvivere a Troia?
E fia ch'io soffra
sí vile esiglio? Voi, che ne' vostri anni
siete di
sangue e di vigore intieri,
voi vi salvate. A me, s'io pur dovea
restare
in vita, avrebbe il ciel serbato
questo mio nido. Assai, figlio, e pur
troppo
son vissuto fin qui; poi ch'altra volta
vidi Troia cadere, e non
cadd'io.
Fatemi or di pietà gli ultimi offici;
iteratemi il vale, e per
defunto
cosí composto il mio corpo lasciate,
ch'io troverò chi mi dia
morte; e i Greci
medesmi o per pietate, o per vaghezza
de le mie
spoglie, mi trarran di vita
e di miseria: e se d'esequie io manco,
se
manco di sepolcro, il danno è lieve.
Da l'ora in qua son io visso a la terra
disutil peso, ed al gran Giove in ira,
che dal vento percosso e da le
fiamme
fui dal folgore suo". Ciò memorando
stava il misero padre a morte
additto;
e d'intorno gli er'io, Creúsa, Iulo,
la casa tutta con
preghiere e pianti
stringendolo a salvarsi, a non trar seco
ogni cosa in
ruina, a non offrirsi
da se stesso a la morte. Ei fermo e saldo
né di
proponimento, né di loco
punto si cangia; ond'io pur: "L'armi!" grido,
di morir desïoso. E qual v'era altro
rimedio o di consiglio, o di
fortuna?
"Ah! che di questa soglia io tragga il piede,
padre mio, per
lasciarti? Ah! che tu possa
creder tanto di me? Da la tua bocca
tanto di
sceleranza e di viltate
è d'un tuo figlio uscito? Or s'è destino
che di
sí gran città nulla rimanga,
se piace a te, se nel tuo core è fermo
che
né di te, né de gli tuoi si scemi
la ruina di Troia; e cosí vada,
e cosí
fia: ch'io veggio a mano a mano
qui del sangue del re tutto cosperso,
e
bramoso del nostro, apparir Pirro,
ch'i padri occide anzi a gli altari, e i
figli
anzi agli occhi de' padri. Ah! madre mia,
per questo fine qui
salvo e difeso
m'hai da l'armi e dal foco, acciò ch'io veggia
con gli
occhi miei ne la mia casa stessa
i miei nimici e 'l mio padre e 'l mio
figlio
e la mia donna crudelmente occisi
l'un nel sangue de l'altro?
Mano a l'arme!
Chi mi dà l'armi? Ecco che 'l giorno estremo
a morte ne
chiama. Or mi lasciate
ch'io torni infra i nimici, e che di nuovo
mi
razzuffi con essi: ché non tutti
abbiam senza vendetta oggi a perire".
E già di ferro cinto, a la sinistra
m'adattavo lo scudo, e fuori uscia,
quand'ecco in su la soglia attraversata
Creúsa avanti a' piè mi si
distende,
e me li abbraccia; e 'l fanciulletto Iulo
m'appresenta, e mi
dice: "Ah! mio consorte,
dove ne lasci? S'a morir ne vai,
ché non teco
n'adduci? E se ne l'armi
e nell'esperïenza hai speme alcuna,
ché non
difendi la tua casa in prima?
ove Ascanio abbandoni? ove tuo padre?
ove
Creúsa tua, che tua s'è detta
per alcun tempo?". E ciò gridando empiea
di pianto e di stridor la magion tutta:
quand'ecco innanzi a gli occhi,
e fra le mani
de gli stessi parenti, un repentino
e mirabile a dir
portento apparve;
ché sopra il capo del fanciullo Iulo
chiaro un lume si
vide, e via piú chiara
una fiamma che tremola e sospesa
le sue tempie
rosate e i biondi crini
sen gia come leccando, e senza offesa
lievemente
pascendo. Orrore e téma
ne presi in prima. Indi a quel santo foco
d'intorno, altri con acqua, altri con altro,
ognun facea per ammorzarlo
ogn'opra.
Ma 'l padre Anchise a cotal vista allegro,
le man, gli occhi e
la voce al ciel rivolto,
orò dicendo: "Eterno onnipotente
signor, se
umana prece unqua ti mosse,
vèr noi rimira, e ne fia questo assai.
Ma se
di merto alcuno in tuo cospetto
è la nostra pietà, padre benigno,
danne
anco aíta; e con felice segno
questo annunzio ratifica e conferma".
Avea di ciò pregato il vecchio appena,
che tonò da sinistra e dal convesso
del ciel cadde una stella, che per mezzo
fendé l'ombrosa notte, e lunga
striscia
di face e di splendor dietro si trasse.
Noi la vedemmo
chiaramente sopra
da' nostri tetti ire a celarsi in Ida,
sí che lasciò,
quanto il suo corso tenne,
di chiara luce un solco; e lunge intorno
fumò
la terra di sulfureo odore.
Allor vinto si diede il padre mio;
e tosto
a l'aura uscendo, al santo segno
de la stella inchinossi, e con gli dèi
parlò devotamente: "O de la patria
sacri numi Penati, a voi mi rendo.
Voi questa casa, voi questo nipote
mi conservate. Questo augurio è
vostro,
e nel poter di voi Troia rimansi".
Poscia, rivolto a noi: " Fa',
figliuol mio,
ormai - disse - di me che piú t'aggrada;
ch'al tuo voler
son pronto, e d'uscir teco
piú non recuso". Avea già 'l foco appresa
la
città tutta, e già le fiamme e i vampi
ne ferian da vicino, allor che 'l
vecchio
cosí dicea: "Caro mio padre, adunque, -
soggiuns'io - com'è
d'uopo, in su le spalle
a me ti reca, e mi t'adatta al collo
acconciamente: ch'io robusto e forte
sono a tal peso: e sia poscia che
vuole:
ch'un sol periglio, una salute sola
fia d'ambedue. Seguami Iulo
al pari;
Creúsa dopo: e voi, miei servi, udite
quel ch'io diviso. È de
la porta fuori
un colle, ov'ha di Cerere un antico
e deserto delúbro, a
cui vicino
sorge un cipresso, già molt'anni e molti
in onor de la dea
serbato e cólto.
Qui per diverse vie tutti in un loco
vi ridurrete; e tu
con le tue mani
sosterrai, padre mio, de' santi arredi
e de' patrii
Penati il sacro incarco,
che a me, sí lordo e sí recente uscito
da tanta
uccisïon, toccar non lece
pria che di vivo fiume onda mi lave".
Ciò
detto, con la veste e con la pelle
d'un villoso leon m'adeguo il tergo;
e 'l caro peso a gli omeri m'impongo.
Indi a la destra il fanciulletto
Iulo
mi s'aggavigna e non con moto eguale
ei segue i passi miei, Creúsa
l'orme.
Andiam per luoghi solitari e bui:
e me, cui dianzi intrepido e
sicuro
vider de l'arme i nembi e de gli armati
le folte schiere, or ogni
suono, ogni aura
empie di téma: sí geloso fammi
e la soma e 'l compagno.
Era vicino
a l'uscir de la porta, e fuori in tutto,
com'io credea,
d'ogni sinistro incontro;
quand'ecco d'improvviso udir mi sembra
un
calpestío di gente, a cui rivolto
disse il vecchio gridando: "Oh! fuggi,
figlio,
fuggi, ché ne son presso. Io veggio, io sento
sonar gli scudi, e
lampeggiar i ferri".
Qui ridir non saprei come, né quale
avverso nume a
me stesso mi tolse:
ché mentre da la fretta e dal timore
sospinto esco
di strada, e per occulte
e non usate vie m'aggiro e celo,
restai, misero
me! senza la mia
diletta moglie, in dubbio se dal fato
mi si rapisse, o
travïata errasse,
o pur lassa a posar posta si fosse.
Basta ch'unqua di
poi non la rividi,
né per vederla io mi rivolsi mai,
né mai me ne
sovvenne, infin che giunti
di Cerere non fummo al sagro poggio.
Ivi
ridotti, ne mancò di tanti
sola Creúsa, ohimè! con quanto scorno
e con
quanto dolor del suo consorte
e del figlio e del suocero e di tutti!
Io
che non feci allora, e che non dissi?
Qual degli uomini, folle! e degli dèi
non accusai! Qual vidi in tanto eccidio,
o ch'io provassi, o che
avvenisse altrui,
caso piú miserando e piú crudele?
Qui mio figlio,
mio padre e i patrii numi
lascio in guardia a' compagni, ed io de l'armi
pur mi rivesto, e 'ndietro me ne torno,
disposto a ritentar ogni
fortuna,
a cercar Troia tutta, a por la vita
ad ogni repentaglio.
Incominciai
in prima da le mura e da la porta,
ond'era uscito; e le vie
stesse e l'orme
ripetei tutte per cui dianzi io venni,
gli occhi
portando per vederla intenti.
Silenzio, solitudine e spavento
trovai per
tutto. A casa aggiunsi in prima,
cercando se per sorte ivi smarrita
si
ricovrasse. Era già presa e piena
di nemici e di foco; e già da' tetti
uscian da' vènti e da le furie spinte
rapide fiamme e minacciose al
cielo.
Torno quinci al palagio; indi a la ròcca:
seguo a le piazze, a'
portici, a l'asilo
di Giunon, che già fatti eran conserve
de la preda di
Troia, a cui Fenice
e 'l fiero Ulisse eran custodi eletti.
Qui d'ogni
parte le troiane spoglie
fin de le sacristie, fin de gli altari
le sacre
mense, i prezïosi vasi
di solid'oro, e i paramenti e i drappi
e le
delizie e le ricchezze tutte
a gli incendi ritolte, erano addotte.
D'intorno innumerabili prigioni
stavan di funi e di catene avvinti,
e matrone e donzelle e pargoletti,
che di sordi lamenti e di muggiti
facean ne l'aria un tuono; e men fra loro
era la donna mia: né dove
fosse,
piú ripensar sapendo, osai dolente
gridar per le vie tutte; e,
benché in vano,
mille volte iterai l'amato nome.
Mentre cosí tra furïoso
e mesto
per la città m'aggiro, e senza fine
la ricerco e la chiamo, ecco
davanti
mi si fa l'infelice simulacro
di lei, maggior del solito.
Stupii,
m'aggricciai, m'ammutii. Prese ella a dirmi,
e consolarmi: "O
mio dolce consorte,
a che sí folle affanno? A gli dèi piace
che cosí
segua. A te quinci non lece
di trasportarmi. Il gran Giove mi vieta
ch'io sia teco a provar gli affanni tuoi;
ché soffrir lunghi esigli,
arar gran mari
ti converrà pria ch'al tuo seggio arrivi,
che fia poi ne
l'Esperia, ove il tirreno
Tebro con placid'onde opimi campi
di bellicosa
gente impingua e riga.
Ivi riposo e regno e regia moglie
ti si prepara.
Or de la tua diletta
Creúsa, signor mio, piú non ti doglia:
ché i Dòlopi
superbi, o i Mirmidóni
non vedranno già me, dardania prole,
e di Prïamo
figlia, e nuora a Venere,
né donna lor, né di lor donne ancella:
ché la
gran genitrice degli dèi
appo sé tiemmi. Or il mio caro Iulo,
nostro
comune amore, ama in mia vece;
e lui conserva, e te consola. Addio".
Cosí detto, disparve. Io, che dal pianto
era impedito, ed avea molto a
dirle,
me le avventai, per ritenerla, al collo;
e tre volte
abbracciandola, altrettante,
come vento stringessi o fumo o sogno,
me ne
tornai con le man vòte al petto.
E cosí scorsa e consumata indarno
tutta la notte, al poggio mi ritrassi
a' miei compagni, ove trovai con
molta
mia maraviglia d'ogni parte accolta
una gran gente, un miserabil
volgo
d'ogni età, d'ogni sesso e d'ogni grado,
a l'esiglio parati, e
'nsieme additti
a seguir me, dovunque io gli adducessi,
o per mare o per
terra. Uscia già d'Ida
la mattutina stella, e 'l dí n'apria,
quando in
dietro mi volsi, e vidi Troia
fumar già tutta; e de la ròcca in cima,
e
di sovr'ogni porta inalberate
le greche insegne; onde né via, né speme
rimanendomi piú di darle aíta,
cedei; ripresi il carco, e salsi al
monte».
Libro
III
«Poi
che fu d'Asia il glorïoso regno
e 'l suo re seco e 'l suo legnaggio tutto,
com'al cielo piacque, indegnamente estinto,
Ilio abbattuto e la nettunia
Troia
desolata e combusta; i santi augúri
spïando, a vari esigli, a
varie terre
per ricovro di noi pensando andammo:
e ne la Frigia stessa,
a piè d'Antandro,
ne' monti d'Ida, a fabbricar ne demmo
la nostra
armata, non ben certi ancóra
ove il ciel ne chiamasse, e quale altrove
ne desse altro ricetto. Ivi le genti
d'intorno accolte, al mar ne
riducemmo,
e n'imbarcammo alfine. Era de l'anno
la stagion prima, e i
primi giorni a pena,
quando, sciolte le sarte e date a' venti
le vele,
come volle il padre Anchise,
piangendo abbandonai le rive e i porti
e i
campi ove fu Troia, i miei compagni
meco traendo e 'l mio figlio e i miei
numi
a l'onde in preda, e de la patria in bando.
È de la Frigia
incontro un gran paese
da' Traci arato, al fiero Marte additto,
ampio
regno e famoso, e seggio un tempo
del feroce Licurgo. Ospiti antichi
s'eran Traci e Troiani; e fin ch'a Troia
lieta arrise fortuna, ebbero
entrambi
comuni alberghi. A questa terra in prima
drizzai 'l mio corso,
e qui primieramente
nel curvo lito con destino avverso
una città fondai,
che dal mio nome
Enèade nomossi; e mentre intorno
me ne travaglio, e i
santi sacrifici
a Venere mia madre ed agli dèi,
che sono al cominciar
propizi, indico:
mentre che 'n su la riva un bianco toro
al supremo
Tonante offro per vittima,
udite che m'avvenne. Era nel lito
un picciol
monticello, a cui sorgea
di mirti in su la cima e di corniali
una folta
selvetta. In questa entrando
per di fronde velare i sacri altari,
mentre
de' suoi piú teneri e piú verdi
arbusti or questo, or quel diramo e svelgo;
orribile a veder, stupendo a dire,
m'apparve un mostro: ché, divelto il
primo
da le prime radici, uscîr di sangue
luride gocce, e ne fu 'l suolo
asperso.
Ghiado mi strinse il core; orror mi scosse
le membra tutte; e
di paura il sangue
mi si rapprese. Io le cagioni ascose
di ciò cercando,
un altro ne divelsi;
ed altro sangue uscinne: onde confuso
vie piú
rimasi; e nel mio cor diversi
pensier volgendo, or de l'agresti ninfe,
or del scitico Marte i santi numi
adorando, porgea preghiere umíli,
che di sí fiera e portentosa vista
mi si togliesse, o si temprasse
almeno
il diro annunzio. Ritentando ancora,
vengo al terzo virgulto, e
con piú forza
mentre lo scerpo, e i piedi al suolo appunto,
e lo scuoto
e lo sbarbo (il dico, o 'l taccio?),
un sospiroso e lagrimabil suono
da
l'imo poggio odo che grida e dice:
"Ahi! perché sí mi laceri e mi scempi?
Perché di cosí pio, cosí spietato,
Enea, vèr me ti mostri? A che molesti
un ch'è morto e sepolto? A che contamini
col sangue mio le consanguinee
mani?
Ché né di patria, né di gente esterno
son io da te; né questo atro
liquore
esce da sterpi, ma da membra umane.
Ah! fuggi, Enea, da questo
empio paese:
fuggi da questo abbominevol lito:
ché Polidoro io sono, e
qui confitto
m'ha nembo micidiale, e ria semenza
di ferri e d'aste che,
dal corpo mio
umor preso e radici, han fatto selva".
A cotal suon, da
dubbia téma oppresso,
stupii, mi raggricciai, muto divenni,
di Polidoro
udendo. Un de' figliuoli
era questi del re, ch'al tracio rege
fu con
molto tesoro occultamente
accomandato allor che da' Troiani
incominciossi a diffidar de l'armi,
e temer de l'assedio. Il rio
tiranno,
tosto che a Troia la fortuna vide
volger le spalle, anch'ei si
volse, e l'armi
e la sorte seguí de' vincitori;
sí che, de l'amicizia e
de l'ospizio
e de l'umanità rotta ogni legge,
tolse al regio fanciul la
vita e l'oro.
Ahi de l'oro empia ed esecrabil fame!
E che per te non
osa, e che non tenta
quest'umana ingordigia? Or poi che 'l gelo
mi fu da
l'ossa uscito, a' primi capi
del popol nostro ed a mio padre in prima
il
prodigio refersi, e di ciascuno
il parer ne spiai. "Via, - disser tutti
concordemente - abbandoniam quest'empia
e scelerata terra; andiam
lontano
da questo infame e traditore ospizio;
rimettiamci nel mare".
Indi l'esequie
di Polidoro a celebrar ne demmo;
e, composto di terra un
alto cumulo,
gli altar vi consacrammo a i numi inferni,
che di cerulee
bende e di funesti
cipressi eran coverti. Ivi le donne
d'Ilio, com'è fra
noi rito solenne,
vestite a bruno e scapigliate e meste
ulularono
intorno; e noi di sopra
di caldo latte e di sacrato sangue
piene tazze
spargemmo, e con supremi
richiami amaramente al suo sepolcro
rivocammo
di lui l'anima errante.
Né pria ne si mostrâr l'onde sicure,
e fidi i
venti, che, del porto usciti,
incontinente ne vedemmo avanti
sparir
l'odiosa terra, e gir da noi
di mano in man fuggendo i liti e i monti.
È nel mezzo a l'Egeo, diletta a Dori
ed a Nettuno, un'isola famosa,
che
già mobile e vaga intorno a' liti
agitata da l'onde errando andava,
ma
fatta di Latona e de' suoi figli
ricetto un tempo, dal pietoso arciero
tra Gïaro e Micon fu stretta in guisa,
ch'immota, e cólta, e consacrata
a lui,
ebbe poi le tempeste e i vènti a scherno.
Qui porto placidissimo
e securo
stanchi ne ricevette, e già smontati
veneravam d'Apollo il
santo nido;
quand'ecco Anio suo rege, e rege insieme
e sacerdote, che di
sacre bende
e d'onorato alloro il crine adorno,
ne si fa 'ncontro. Era
al mio padre Anchise
già di molt'anni amico; onde ben tosto
lo
riconobbe, e con sembiante allegro
lui primamente, indi noi tutti accolti,
n'abbracciò, ne 'nvitò, seco n'addusse.
Quinci al delúbro, ch'ad
Apollo in cima
era d'un sasso anticamente estrutto,
tutti salimmo; ed io
devoto orai:
"Danne, padre Timbrèo, propria magione,
e propria terra,
ove già stanchi abbiamo
posa e ristoro, e ne da' stirpe e nido
opportuno, durabile e securo;
danne Troia novella; e de' Troiani
serba queste reliquie, che avanzate
sono a pena agli storpi, a le ruine,
al foco, a' Greci, al dispietato Achille.
Mostrane chi ne guidi, ove
s'indrizzi
il nostro corso, a qual fia 'l nostro seggio.
Coi tuoi piú
chiari e manifesti augúri,
signor, tu ne predici e tu n'ispira".
Avea
ciò detto a pena, che repente
il limitare, il tempio, e 'l monte tutto
crollossi intorno; scompigliârsi i lauri;
aprissi, e dagli interni suoi
ridotti
mugghiò la formidabile cortina.
Noi riverenti a terra ne
gittammo;
e 'l suon, ch'era confuso, a l'aura uscendo,
articolossi, e
cosí dire udissi:
"Dardanidi robusti, onde l'origine
traeste in prima,
ivi ancor lieto e fertile
di vostra antica madre il grembo aspettavi.
Di
lei dunque cercate; a lei tornatevi:
ch'ivi sovr'ogni gente, in tutti i
secoli
domineranno i glorïosi Enèadi,
e la posterità de gli lor
posteri".
Ciò disse Apollo: e del suo detto fessi
infra noi gran
letizia e gran bisbiglio,
interrogando e ricercando ognuno
qual paese,
qual madre, qual ricetto
ne s'accennasse. Allora il padre Anchise
da
lunge i tempi ripetendo e i casi
dei nostri antichi eroi: "Signori, udite -
ne disse, - ch'io darò lume e compenso
a le vostre speranze. È del gran
Giove
Creta quasi gran cuna in mezzo al mare
isola chiara, e regno ampio
e ferace,
che cento gran città nodrisce e regge.
Ivi sorge un'altr'Ida,
onde nomata
fu l'Ida nostra; ond'ha seme e radice
nostro legnaggio: onde
primieramente
Teucro, padre maggior de' maggior nostri
(se ben me ne
rammento), errando venne
a le spiagge di Reto, ov'egli elesse
di fondare
il suo regno. Ilio non era,
né di Pergamo ancor sorgean le mura
fino in
quel tempo: e sol ne l'ime valli
abitavan le genti. Indi a noi venne
la
gran Cibele madre; indi son l'armi
de' Coribanti, indi la selva idea,
e
quel fido silenzio, onde celati
son quei nostri misteri, e quei leoni
ch'al carro de la dea son posti al giogo.
Di là dunque veniamo, e là
vuol Febo
che si ritorni. Or via seguiamo il fato:
plachiamo i vènti e
ne la Creta andiamo,
che non è lunge; e se n'è Giove amico,
anzi tre dí
n'approderemo ai liti".
Ciò detto, a ciascun dio, come conviensi,
sacrificando, due gran tori occise:
e l'un diede a Nettuno e l'altro a
Febo:
una pecora negra a la Tempesta;
al Sereno una bianca. Era in quei
giorni
fama che Idomeneo, cretese eroe,
da la sua patria e da' paterni
regni
era scacciato; onde di Creta i liti
d'armi, di duce e di seguaci
suoi,
nostri nimici, in gran parte spogliati,
stavano a noi senza
contesa esposti.
Tosto d'Ortigia abbandonammo i porti;
trapassammo di
Nasso i pampinosi
colli, e Bacco onorammo: i verdi liti
di Dònisa, e
d'Olëaro varcammo:
giungemmo a Paro, e le sue bianche ripe
lasciammo
indietro: indi di mano in mano
l'altre Cícladi tutte e 'l mar che rotto
da tant' isole e chiuso ondeggia e ferve;
e seguendo, com'è de'
naviganti
marinaresca usanza, - in Creta! in Creta! -
lietamente
gridando, con un vento
che ne feria senza ritegno in poppa,
quasi a volo
andavamo; onde ben tosto
de' Cureti appressammo i liti antichi;
e gli
scoprimmo, e v'approdammo alfine.
Giunti che fummo, avidamente diemmi
a
fabricar le desïate mura,
e Pergamea da Pergamo le dissi.
Con questo
amato nome amore e speme
destai di nuova patria, e studio intenso
d'alzar le mura e di fondar gli alberghi.
Eran le navi in su la rena
addotte
per la piú parte; era la gente intenta
a l'arti, a la coltura,
ai maritaggi,
ad ogni affare; ed io lor ministrava
leggi e ragioni, e
facea templi e strade,
quando fera, improvvisa pestilenza,
ne
sopravvenne; e la stagione e l'anno
e gli uomini e gli armenti e l'aria e
l'acque
e tutto altro infettonne; onde ogni corpo
o cadeva o languiva; e
la semente
e i frutti e l'erbe e le campagne stesse
da la rabbia di
Sirio e dal veleno
de l'orribil contage arse e corrotte,
ci negavano il
vitto. Il padre mio
per consiglio ne diè che un'altra volta,
rinavigando
il navigato mare,
si tornasse in Ortigia, e che di nuovo
ricorrendo di
Febo al santo oracolo,
perdon gli si chiedesse, aíta e scampo
da sí
maligno e velenoso influsso,
ed alfin del cammino e de la stanza
chiaro
ne si traesse indrizzo e lume.
Era già notte, e già dal sonno vinta
posa e ristoro avea l'umana gente,
quando le sacre effigi de' Penati,
quelle che meco avea tratte dal foco
de la mia patria, quelle stesse in
sogno
vive mi si mostrâr veraci e chiare:
tal piena, avversa e luminosa
luna
penetrava, per entro al chiuso albergo,
di puri vetri i lucidi
spiragli;
e com'eran visibili, appressando
la sponda ov'io giacea,
soavemente
mi si fecero avanti, e 'n cotal guisa
mi confortaro: "Quel
che Apollo stesso,
se tornaste in Ortigia, a voi direbbe,
qui mandati da
lui vi diciam noi:
e noi siam quei che dopo Troia incensa
per tanti mari
a tanti affanni teco
n'uscimmo, e te seguiamo e l'armi tue.
Noi compagni
ti siamo, e noi saremo
ch'a la nova città, che tu procuri,
daremo eterno
imperio, e i tuoi nipoti
ergeremo a le stelle. Alto ricetto
tu dunque e
degno de l'altezza loro
prepara intanto; e i rischi e le fatiche
non
rifiutar di piú lontano esiglio.
Cerca loro altro seggio; ergi altre mura
vie piú chiare di queste: ché di Creta
né curiam noi, né lo ti dice
Apollo.
Una parte d'Europa è, che da' Greci
si disse Esperia, antica,
bellicosa
e fertil terra. Dagli Enotri cólta,
prima Enotria nomossi: or,
com'è fama,
preso d'Italo il nome, Italia è detta.
Questa è la terra
destinata a noi.
Quinci Dardano in prima e Iasio usciro;
e Dardano è
l'autor del sangue nostro.
Sorgi dunque e riporta al padre Anchise
quel
ch'or noi ti diciam, ché diciam vero:
e tu cerca di Còrito e d'Ausonia
l'antiche terre, ché da Giove in Creta
regnar ti s'interdice". Io di tal
vista,
e di tai voci, ch'eran voci e corpi
de' nostri dèi, non simulacri
e sogni
(ché ne vid'io le sacre bende e i volti
spiranti e vivi),
attonito e cosperso
di gelato sudore, in un momento
salto dal letto; e
con le mani al cielo
e con la voce supplicando, spargo
di doni
intemerati i santi fochi.
Riveriti i Penati, al padre Anchise
lieto men
vado, e del portento intera-
mente il successo e l'ordine gli espongo.
Incontinente riconobbe il doppio
nostro legnaggio, e i due padri e i due
tronchi
de' cui rami siam noi vette e rampolli;
e d'erro uscito: "Ora io
m'avveggio, - disse -
figlio, che segno sei de le fortune
e del fato di
Troia; e ciò rincontro
che Cassandra dicea: sola Cassandra
lo previde e
'l predisse. Ella al mio sangue
augurò questo regno; e questa Italia
e
questa Esperia avea sovente in bocca.
Ma chi mai ne l'Esperia avria creduto
che regnassero i Teucri? E chi credea
in quel tempo a Cassandra? Ora,
mio figlio,
cediamo a Febo; e ciò che 'l dio del vero
ne dà per meglio,
per miglior s'elegga".
Ciò disse, e i detti suoi tosto eseguimmo;
ed
ancor questa terra abbandonammo,
se non se pochi. N'andavamo a vela
con
second'aura; e già d'alto mirando,
non piú terra apparia, ma cielo ed acqua
vedevam solamente, quando oscuro
e denso e procelloso un nembo sopra
mi stette al capo, onde tempesta e notte
ne si fece repente e di piú
siti
rapidi uscendo imperversaro i vènti;
s'abbuiò l'aria, abbaruffossi
il mare,
e gonfiaro altamente e mugghiâr l'onde.
Il ciel fremendo, in
tuoni, in lampi, in folgori
si squarciò d'ogni parte. Il giorno notte
fessi, e la notte abisso: e l'un da l'altro
non discernendo, Palinuro
stesso
de la via diffidossi e de la vita.
Cosí tolti dal corso, e
quinci e quindi
per lo gran golfo dissipati e ciechi,
da buio e da
caligine coverti,
tre soli interi senza luce errammo,
tre notti senza
stelle. Il quarto giorno
vedemmo al fin, quasi dal mar risorta,
la terra
aprirne i monti e gittar fumo.
Caggion le vele; e i remiganti a pruova,
di bianche schiume il gran ceruleo golfo
segnando, inverso i liti i
legni affrettano.
Né prima fui di sí gran rischio uscito,
che giunto
nelle Stròfadi mi vidi.
Stròfadi grecamente nominate
son certe isole in
mezzo al grande Ionio,
da la fera Celeno e da quell'altre
rapaci e lorde
sue compagne Arpie
fin d'allora abitate, che per téma
lasciâr le prime
mense, e di Finèo
fu lor chiuso l'albergo. Altro di queste
piú sozzo
mostro, altra piú dira peste
da le tartaree grotte unqua non venne.
Sembran vergini a' volti; uccelli e cagne
a l'altre membra: hanno di
ventre un fedo
profluvio, ond'è la piuma intrisa ed irta,
le man
d'artigli armate: il collo smunto,
la faccia per la fame e per la rabbia
pallida sempre e raggrinzata e magra.
Tosto che qui sospinti in porto
entrammo,
ecco sparsi veggiam per la campagna
senza custodi andar gran
torme errando
di cornuti e villosi armenti e greggi.
Smontiamo in terra;
e per far carne, prese
l'armi, a predare andiamo, e de la preda
gli dèi
chiamiamo e Giove stesso a parte.
Fatta la strage e già parati i cibi
e distese le mense, eravam lungo
al curvo lito a ricrearne assisi,
quand'ecco che da' monti in un momento
con dire voci e spaventoso rombo
ne si fan sopra le bramose Arpie;
e con gli urti e con l'ali e con gli
ugnoni,
col tetro, osceno, abbominevol puzzo
ne sgominâr le mense, ne
rapiro,
ne infettâr tutti e i cibi e i lochi e noi.
Era presso un
ridotto, ove alta e cava
rupe d'arbori chiusa e d'ombre intorno
facea
capace ed opportuno ostello.
Ivi ne riducemmo, e ne le mense
riposti i
cibi e ne gli altari i fochi,
a convivar tornammo; ed ecco un'altra
volta d'un'altra parte per occulte
e non previste vie ne si scoverse
l'orribil torma; e con gli adunchi artigli,
co' fieri denti e con le
bocche impure
ghermîr la preda, e ne lasciâr di novo
vòte le mense e
scompigliate e sozze.
Allor: "Via, - dico a' miei - di guerra è d'uopo
contra sí dira gente". E tutti a l'arme
ed a battaglia incito. Eglino,
in guisa
ch'io li disposi, i ferri ignudi e l'aste
e gli scudi e le
frombe e i corpi stessi
infra l'erba acquattaro; il lor ritorno
stêro
aspettando. Era Miseno in alto
a la veletta asceso; e non piú tosto
scoprir le vide, e schiamazzare udille,
che col canoro suo cavo oricalco
ne diè cenno a' compagni. Uscîr d'agguato
tutti in un tempo, e nuova
zuffa e strana
tentâr contra i marini uccelli in vano:
ché le piume e le
terga ad ogni colpo
aveano impenetrabili e secure;
onde securamente al
ciel rivolte
se ne fuggiro, e ne lasciâr la preda
sgraffiata, smozzicata
e lorda tutta.
Sola Celèno a l'alta rupe in cima
disdegnosa fermossi e,
d'infortuni
trista indovina infurïossi, e disse:
"Dunque non basta
averne, ardita razza
di Laomedonte, depredati e scórsi
gli armenti e i
campi nostri, che ancor guerra,
guerra ancor ne movete? E le innocenti
Arpie scacciar del patrio regno osate?
Ma sentite, e nel cor vi riponete
quel ch'io v'annunzio. Io son Furia suprema
ch'annunzio a voi quel che
'l gran Giove a Febo,
e Febo a me predice. Il vostro corso
è per
l'Italia, e ne l'Italia arete
e porto e seggio. Ma di mura avanti
la
città che dal ciel vi si destina
non cingerete, che d'un tale oltraggio
castigo arete; e dira fame a tanto
vi condurrà, che fino anco le mense
divorerete". E, cosí detto, il volo
riprese in vèr la selva, e
dileguossi.
Sgomentaronsi i miei, cadde lor l'ira;
e prieghi, invece
d'armi, e voti oprando,
mercé chiesero e pace, o dive o dire
che si
fosser l'alate ingorde belve:
e 'l padre Anchise in su la riva sporte
al
ciel le palme, e i gran celesti numi
umilmente invocando, indisse i sacri
a lor dovuti onori: "O dii possenti,
o dii benigni, voi rendete vane
queste minacce; voi di caso tale
ne liberate; e voi giusti e voi buoni
siate pietosi a noi ch'empi non siamo".
Indi ratto comanda che dal
lito
si disciolgano i legni. Entriam nel mare,
spieghiam le vele agli
austri, e via per l'onde
spumose a tutto corso in fuga andiamo
là 've 'l
vento e 'l nocchier ne guida e spinge.
E già d'alto apparir veggiam le selve
di Zacinto; passiam Dulichio e Same;
varchiam Nèrito alpestro; e via
fuggendo,
e bestemmiando, trapassiam gli scogli
d'Itaca, imperio di
Laerte, e nido
del fraudolente Ulisse. Indi ne s'apre
il nimboso
Leucàte, e quel che tanto
a' naviganti è spaventoso, Apollo.
Ivi stanchi
approdammo; ivi gittate
l'àncore, ed accostati i legni al lito,
ne la
picciola sua cittade entrammo.
Grata vie piú quanto sperata meno
ne fu
la terra; onde purgati ergemmo
altari e vóti, ed ostie a Giove offrimmo.
E d'Azio in su la riva festeggiando,
ignudi ed unti, uscîr de' miei
compagni
i piú robusti, e, com'è patria usanza,
varie palestre a
lotteggiar si diêro:
gioiosi che per tanto mare e tante
greche terre
inimiche a salvamento
fosser tant'oltre addotti. Era de l'anno
compito
il giro, e i gelidi aquiloni
infestavano il mare; ond'io lo scudo,
che
di forbito e concavo metallo
fu già del grande Abante insegna e spoglia,
con un tal motto in su le porte appesi:
<B>A'
GRECI VINCITORI ENEA LEVOLLO,
ED A TE 'L SACRA, APOLLO.</B>
Indi
al mar giunti
ne rimbarcammo: e remigando a gara,
fummo in un tempo de'
Feaci a vista,
e gli varcammo: poi rivolti a destra,
costeggiammo
l'Epiro, e di Caonia
giungemmo al porto, ed in Butroto entrammo.
Qui
cosa udii, che meraviglia e gioia
mi porse insieme; e fu, ch'Eleno, figlio
di Prïamo re nostro, era a quel regno
di greche terre assunto, e che di
Pirro
e del suo scettro e del suo letto erede
troiano sposo a la troiana
Andromache
s'era congiunto. Arsi d'immenso amore
di visitarlo, e di
spïar da lui
come ciò fosse; e de l'armata uscendo,
scesi nel lito, e me
n'andai con pochi
a ritrovarlo. Era quel giorno a sorte
Andromache
regina in su la riva
del nuovo Simoenta a far solenne
sepolcral
sacrificio; e, come è rito
de la mia patria, avea, fra due grand'are
di
verdi cespi una gran tomba eretta,
monumento di lagrime e di duolo.
ove
con tristi doni e con lugúbri
voci del grand'Ettòr l'anima e 'l nome
chiamando, il finto suo corpo onorava.
Poiché venir mi vide, e che di
Troia
avvisò l'armi, e me conobbe, un mostro
veder le parve, e
forsennata e stupida
fermossi in prima; indi gelata e smorta
disvenne e
cadde; e dopo molto, a pena
risensando, mirommi, e cosí disse:
"Oh!
sei tu vero, o pur mi sembri Enea?
Sei corpo od ombra? Se da' morti udito
è il mio richiamo, Ettòr perché te manda?
Perch'ei teco non viene? E sei
tu certo
nunzio di lui?" Ciò detto, lagrimando,
empia di strida e di
lamenti i campi.
Io di pietà e di duol confuso, a pena
in poche voci,
e quelle anco interrotte,
snodai la lingua: "Io vivo, se pur vita
è
menar giorni sí gravosi e duri:
ma cosí spiro ancora, e veramente
son io
quel che ti sembro. O da qual grado
scaduta, e da quanto inclito marito!
Andromache d'Ettòr a Pirro, a Pirro
fosti congiunta? Or qual altra piú
lieta
t'incontra, e piú di te degna fortuna?"
Abbassò 'l volto, e con
sommessa voce
cosí rispose: "O fortunata lei
sovr'ogni donna, che regina
e vergine,
ne la sua patria a sacrificio offerta,
del nimico fu vittima
e non preda,
né del suo vincitor serva né donna:
io dopo Troia incensa,
e dopo tanti
e tanti arati mari, a servir nata,
de la stirpe d'Achille
il giogo e 'l fasto,
e 'l superbo suo figlio a soffrir ebbi.
Questi poi
con Ermïone congiunto,
e lei, che de la razza era di Leda
e del sangue
di Sparta, a me preposta,
volle ch'Eleno ed io, servi ambidue,
n'accoppiassimo insieme. Oreste intanto,
che tôr l'amata sua donna si
vide,
da l'amore infiammato e da le faci
de le furie materne, anzi agli
altari
del padre Achille, insidïosamente
tolse la vita a lui. Per la sua
morte
fu 'l suo regno diviso; e questa parte
de la Caonia ad Eleno
ricadde,
che dal nome di Càone troiano
cosí l'ha detta, come disse
ancora
Ilio da l'Ilio nostro questa ròcca
che qui su vedi; e Simoenta e
Pergamo
queste picciole mura e questo rivo.
Ma te quai vènti, o qual
nostra ventura
ha qui condotto, fuor d'ogni pensiero
di noi certo, e tuo
forse? Ascanio nostro
vive? cresce? che fa? come ha sentito
la morte di
Creúsa? E qual presagio
ne dà ch'Enea suo padre, Ettor suo zio
si
rinnovino in lui?" Cotali Andromache
spargea pianti e parole; ed ecco
intanto
il teucro eroe che de la terra uscendo,
con molti intorno a
rincontrar ne venne.
Tosto che n'adocchiò, meravigliando
ne conobbe,
n'accolse, e lietamente
seco n'addusse, de' comuni affanni
molto con me,
mentre andavamo, anch'egli
ragionando e piangendo. Entrammo al fine
ne
la picciola Troia, e con diletto
un arido ruscello, un cerchio angusto
sentii con finti e rinnovati nomi
chiamar Pergamo e Xanto; e de la Scea
porta entrando abbracciai l'amata soglia.
Cosí fecero i miei, meco
godendo
l'amica terra, come propria e vera
fosse lor patria. Il re le
sale e i portici
di mense empiendo, fe' lor cibi e vini
da' regii servi
realmente esporre
con vaselli d'argento e coppe d'oro.
Passato il
primo giorno e l'altro appresso,
soffiâr prosperi i vènti; ond'io commiato
a l'indovino re chiedendo, seco
mi ristrinsi e gli dissi: "Inclito sire,
cui non son degli dèi le menti occulte,
che Febo spiri e 'l tripode e
gli allori
del suo tempio dispensi, e de le stelle
e de' volanti ogni
secreto intendi,
danne certo, ti priego, indicio e lume
de le nostre
venture. Il nostro corso,
com'ogni augurio accenna ed ogni nume
ne
persuade, è per l'Italia; e lieto
e fortunato ancor ne si promette
infino a qui. Sola Celeno Arpia
novi e tristi infortuni, e fame ed ira
degli dèi ne minaccia. Io da te chieggio
avvertenze e ricordi, onde sia
saggio
a tai perigli, e forte a tanti affanni".
Qui pria solennemente
Eleno, occisi
i dovuti giovenchi, in atto umíle
impetrò dagli dèi favore
e pace;
poscia, raccolto in sé, le bende sciolse
del sacro capo; e me,
cosí com'era
a tanto officio attonito e sospeso,
per man prendendo, a la
febèa spelonca
m'addusse avanti, e con divina voce
intonando proruppe:
"O de la dea
pregiato figlio (quando a gran fortuna
è chiaro in prima
che 'l tuo corso è vòlto;
tal è del ciel, de' fati e di colui
che gli
regge, il voler, l'ordine e 'l moto),
io di molte e gran cose che antiveggo
del tuo peregrinaggio, acciò piú franco
navighi i nostri mari, e 'l
porto ausonio,
quando che sia, securamente attinga,
poche ne ti dirò,
ch'a te le Parche
vietan che piú ne sappi; ed a me Giuno,
ch'io piú te
ne riveli. In prima il porto,
e l'Italia che cerchi, e sí vicina
ti
sembra, è da tal via, da tanti intrichi
scevra da te, ch'anzi che tu
v'aggiunga,
ti parrà malagevole, e lontana
piú che non credi; e ti fia
d'uopo avanti
stancar piú volte i remiganti e i remi,
e 'l mar de la
Sicilia e 'l mar Tirreno,
e i laghi inferni e l'isola di Circe
cercar ti
converrà, pria che vi fondi
securo seggio. Io di ciò chiari segni
darotti, e tu ne fa nota e conserva.
Quando piú stanco e travagliato a
riva
sarai d'un fiume, u' sotto un'elce accolta
sarà candida troia, ed
arà trenta
candidi figli a le sue poppe intorno,
allor di': - Questo è
'l segno e 'l tempo e 'l loco
da fermar la mia sede, e questo è 'l fine
de' miei travagli -. Or che l'ingorda fame
addur ti deggia a trangugiar
le mense,
comunque avvenga, i fati a ciò daranno
opportuno compenso; e
questo Apollo
invocato da voi presto saravvi.
Queste terre d'Italia e
questa riva
vèr noi vòlta e vicina ai liti nostri,
è tutta da' nimici e
da' malvagi
Greci abitata e cólta: e però lunge
fuggi da loro. I Locri
di Narizia
qui si posaro; e qui ne' Salentini
i suoi Cretesi Idomeneo
condusse;
qui Filottete il melibeo campione
la piccioletta sua Petilia
eresse.
Fuggili, dico, e quando anco varcato
sarai di là ne l'alto lito,
intento
a sciôrre i vóti, di purpureo ammanto
ti vela il capo, acciò tra
i santi fochi,
mentre i tuoi numi adori, ostile aspetto
te coi tuoi
sacrifici non conturbi:
e questo rito poi sia castamente
da te servato e
da' nepoti tuoi.
Quinci partito, allor che da vicino
scorgerai la
Sicilia, e di Peloro
ti si discovrirà l'angusta foce,
tienti a sinistra,
e del sinistro mare
solca pur via quanto a di lungo intorno
gira l'isola
tutta, e da la destra
fuggi la terra e l'onde. È fama antica
che questi
or due tra lor disgiunti lochi
erano in prima un solo, che per forza
di
tempo, di tempeste e di ruine
(tanto a cangiar queste terrene cose
può
de' secoli il corso), un dismembrato
fu poi da l'altro. Il mar fra mezzo
entrando
tanto urtò, tanto róse, che l'esperio
dal sicolo terreno alfin
divise:
e i campi e le città, che in su le rive
restaro, angusto freto
or bagna e sparte.
Nel destro lato è Scilla; nel sinistro
è l'ingorda
Cariddi. Una vorago
d'un gran baratro è questa, che tre volte
i vasti
flutti rigirando assorbe,
e tre volte a vicenda li ributta
con immenso
bollor fino a le stelle.
Scilla dentro a le sue buie caverne
stassene
insidïando; e con le bocche
de' suoi mostri voraci, che distese
tien mai
sempre ed aperte, i naviganti
entro al suo speco a sé tragge e trangugia.
Dal mezzo in su la faccia, il collo e 'l petto
ha di donna e di vergine;
il restante,
d'una pistrice immane, che simíli
a' delfini ha le code, ai
lupi il ventre.
Meglio è con lungo indugio e lunga volta
girar Pachino e
la Trinacria tutta,
che, non ch'altro, veder quell'antro orrendo,
serntir quegli urli spaventosi e fieri
di quei cerulei suoi rabbiosi
cani.
Oltre a ciò, se prudenti, se fedeli
sembrar ti può che sian
d'Eleno i detti,
e se scarso non m'è del vero Apollo,
sovr'a tutto io
t'accenno, ti predico,
ti ripeto piú volte e ti rammento,
la gran
Giunone invoca: a Giunon vóti
e preghi e doni e sacrifici offrisci
devotamente; che, lei vinta alfine,
terrai d'Italia il desïato lito.
Giunto in Italia, allor che ne la spiaggia
sarai di Cuma, il sacro
averno lago
visita, e quelle selve e quella rupe,
ove la vecchia vergine
Sibilla
profetizza il futuro, e 'n su le foglie
ripone i fati: in su le
foglie, dico,
scrive ciò che prevede, e ne la grotta
distese ed
ordinate, ove sian lette,
in disparte le lascia. Elle serbando
l'ordine
e i versi, ad uopo de' mortali
parlan de l'avvenire, e quando, aprendo
talor la porta, il vento le disturba,
e van per l'antro a volo, ella non
prende
piú di ricôrle e d'accozzarle affanno;
onde molti delusi e
sconsigliati
tornan sovente, e mal di lei s'appagano.
Tu per soverchio
che ti sembri indugio,
per richiamo de' vènti o de' compagni,
non
lasciar di vederla, e d'impetrarne
grazia, che di sua bocca ti risponda,
e non con frondi. Ella daratti avviso
d'Italia, de le guerre e de le
genti
che ti fian contra; e mostreratti il modo
di fuggir, di soffrir,
d'espugnar tutte
le tue fortune, e di condurti in porto.
Questo è quel
che m'occorre, o che mi lice
ch'io ti ricordi. Or vanne, e co' tuoi gesti
te porta e i tuoi con la gran Troia al cielo".
Poscia che ciò come
profeta disse,
comandò come amico ch'a le navi
gli portassero i doni,
opre e lavori
ch'avea d'oro e d'avorio apparecchiati,
e gran masse
d'argento e gran vaselli
di dodonèo metallo: una lorica
di forbite
azzimine; e rinterzate
maglie, dentro d'acciaro e 'ntorno d'oro,
una
targa, un cimiero, una celata,
ond'era a pompa ed a difesa armato
Nëottòlemo altero. Il vecchio Anchise
ebbe anch'egli i suoi doni: ebber
poi tutti
cavalli e guide; e fu di remi e d'armi
ciascun legno
provvisto; e perché 'l vento
che secondo feria, non punto indarno
spirasse, ordine avea di sciôr le vele
già dato Anchise, a cui con molto
onore
si fece Eleno avanti, e cosí disse:
"O ben degno a cui fosse
amica e sposo
la gran madre d'Amore: o de' celesti
sovrana cura, ch'a
l'eccidio avanzi
già due volte di Troia, eccoti a vista
giunto d'Italia.
A questa il corso indrizza:
ma fa mestier di volteggiarla ancora
con
lungo giro, poiché lunge assai
è la parte di lei che Apollo accenna.
Or
lieto te ne va, padre felice
di sí pietoso figlio. Io, già che l'aura
sí
vi spira propizia, indarno a bada
piú non terrovvi". Indi la mesta
Andromache
fece con tutti, e con Ascanio al fine
la suprema partenza.
Arnesi d'oro
guarniti e ricamati, e drappi e giubbe
di moresco lavoro,
ed altri degni
di lui vestiti e fregi, e ricca e larga
copia di
biancherie donogli, e disse:
"Prendi, figlio, da me quest'opre uscite
da le mie mani, e per memoria tienle
del grande e lungo amor che sempre
avratti
Andromache d'Ettorre; ultimi doni
che ricevi da' tuoi. Tu mi
sei, figlio,
quell'unico sembiante che mi resta
d'Astïanatte mio. Cosí
la bocca,
cosí le man, cosí gli occhi movea
quel mio figlio infelice; e,
d'anni eguale
a te, del pari or saria teco in fiore".
Ed io da loro,
anzi da me partendo,
con le lagrime agli occhi al fin soggiunsi:
"Vivete
lieti voi, cui già la sorte
vostra è compita: noi di fato in fato,
di
mare in mar tapini andrem cercando
quel che voi possedete. A noi l'Italia
tanto ognor se ne va piú lunge, quanto
piú la seguiamo; e voi già la
sembianza
d'Ilio e di Troia in pace vi godete,
regno e fattura vostra.
Ah! che de l'altra
sia sempre e piú felice e meno esposta
a le forze de'
Greci. Io, s'unqua il Tebro
vedrò, se fia giammai che ne' suoi campi
sorgan le mura destinate a noi;
come la nostra Esperia e 'l vostro Epiro
si son vicini, e come ambe le terre
fien vicine e cognate, ed ambe
avranno
Dardano per autore, e per fortuna
un caso stesso; cosí d'ambedue
mi proporrò che d'animi e d'amore
siamo una Troia: e ciò perpetua cura
sia de' nostri nipoti". Entrati in mare,
ne spingemmo oltre a gli
Ceràuni monti
a Butroto vicini, onde a le spiagge
si fa d'Italia il piú
breve tragitto.
Già dechinava il sole, e crescean l'ombre
de' monti
opachi, quando a terra vòlti
col desire e co' remi in su la riva
pur
n'adducemmo, e procurammo a' corpi
cibo, riposo e sonno. Ancor la notte
non era al mezzo, che del suo stramazzo
surse il buon Palinuro; e poscia
ch'ebbe
con gli orecchi spiati il vento e 'l mare,
mirò le stelle,
contemplò l'Arturo,
l'Iadi piovose, i gemini Trïoni,
ed Orïone armato;
e, visto il cielo
sereno e 'l mar sicuro, in su la poppa
recossi, e 'l
segno dienne. Immantinente
movemmo il campo, e quasi in un baleno
giunti
e posti nel mar, vela facemmo.
Avea l'Aurora già vermiglia e rancia
scolorite le stelle, allor che lunge
scoprimmo, e non ben chiari, i
monti in prima,
poscia i liti d'Italia. - <I>Italia!</I> - Acate
gridò primieramente. - <I>Italia! Italia!</I> -
da ciascun
legno ritornando allegri
tutti la salutammo. Allora Anchise
con una
inghirlandata e piena tazza
in su la poppa alteramente assiso:
"O del
pelago - disse - e de la terra,
e de le tempeste numi possenti,
spirate
aure seconde, e vèr l'Ausonia
de' nostri legni agevolate il corso".
Rinforzaronsi i vènti; apparve il porto
piú da vicino; apparve al monte in
cima
di Pallade il delúbro. Allor le vele
calammo, e con le prore a
terra demmo.
È di vèr l'Orïente un curvo seno
in guisa d'arco, a cui
di corda in vece
sta d'un lungo macigno un dorso avanti,
ove spumoso il
mar percuote e frange.
Ne' suoi corni ha due scogli, anzi due torri,
che
con due braccia il mar dentro accogliendo,
lo fa porto e l'asconde; e sovra
al porto
lunge dal lito è 'l tempio. Ivi smontati,
quattro destrier vie
piú che neve bianchi,
che pascevano il campo, al primo incontro
per
nostro augurio avemmo. "Oh! - disse Anchise, -
guerra ne si minaccia; a
guerra additti
sono i cavalli; o pur sono anco al carro
talvolta
aggiunti, e van del pari a giogo:
guerra fia dunque in prima, e pace dopo".
Quinci devoti venerammo il nume
de l'armigera Palla, a cui gioiosi
prima il corso indrizzammo. In su la riva
altari ergemmo; e noi
d'intorno, come
Eleno ci ammoní, le teste avvolte
di frigio ammanto, a
la gran Giuno argiva
preghiere e doni e sacrifici offrimmo.
Poiché
solennemente i prieghi e i vóti
furon compiti, al mar ne radducemmo
immantinente; e rivolgendo i corni
de le velate antenne, il greco
ospizio
e 'l sospetto paese abbandonammo.
E prima il tarentino erculeo
seno
(se la sua fama è vera) a vista avemmo;
poscia a rincontro di
Lacinia il tempio,
la ròcca di Caulóne e 'l Scillacèo,
onde i navili a
sí gran rischio vanno;
indi ne la Trinacria al mar discosto
d'Etna il
monte vedemmo, e lunge udimmo
il fremito, il muggito, i tuoni orrendi
che facean ne' suoi liti e 'ntorno a' sassi
e dentro a le caverne i
flutti e i fuochi,
al ciel ruttando insieme il mare e 'l monte
fiamme,
fumo, faville, arene e schiuma.
Qui disse il vecchio Anchise:
"È forse
questa
quella Cariddi? Questi scogli certo,
e questi sassi orrendi
Eleno dianzi
ne profetava. Via, compagni, a' remi
tutti in un tempo, e
vincitori usciamo
d'un tal periglio". Palinuro il primo
rivolse la sua
vela e la sua proda
al manco lato; e ciò gli altri seguendo,
con le
sarte e co' remi in un momento
ne gittammo a sinistra; e 'l mar sorgendo
prima al ciel ne sospinse; indi calando,
ne l'abisso ne trasse. In ciò
tre volte
mugghiar sentimmo i cavernosi scogli,
e tre volte rivolti in
vèr le stelle
d'umidi sprazzi e di salata schiuma
il ciel vedemmo
rugiadoso e molle.
Eravam lassi; e 'l vento e 'l sole insieme
ne
mancâr sí, che del vïaggio incerti
disavvedutamente a le contrade
de'
Ciclopi approdammo. È per se stesso
a' vènti inaccessibile e capace
di
molti legni il porto ove giugnemmo;
ma sí d'Etna vicino, che i suoi tuoni
e le sue spaventevoli ruine
lo tempestano ognora. Esce talvolta
da
questo monte a l'aura un'atra nube
mista di nero fumo e di roventi
faville, che di cenere e di pece
fan turbi e groppi, ed ondeggiando a
scosse
vibrano ad ora ad or lucide fiamme
che van lambendo a scolorir le
stelle;
e talvolta, le sue viscere stesse
da sé divelte, immani sassi e
scogli
liquefatti e combusti al ciel vomendo
in fin dal fondo romoreggia
e bolle.
È fama, che dal fulmine percosso
e non estinto, sotto a
questa mole
giace il corpo d'Encèlado superbo;
e che quando per duolo e
per lassezza
ei si travolve, o sospirando anela,
si scuote il monte e la
Trinacria tutta;
e del ferito petto il foco uscendo
per le caverne
mormorando esala,
e tutte intorno le campagne e 'l cielo
di tuoni empie
e di pomici e di fumo.
A questi mostri tutta notte esposti,
entro una
selva stemmo, non sapendo
le cagion d'essi, e di cercarle ogn'uso
ne si
togliea, poiché 'l paese conto
non c'era: né stellato, né sereno
si
vedea 'l ciel, ma fosco e nubiloso,
e tra le nubi era la luna ascosa.
Già del giorno seguente era il mattino,
e 'l chiaro albore avea l'umido velo
tolto dal mondo, quando ecco dal bosco
ne si fa 'ncontro un non mai
visto altrove
di strana e miserabile sembianza,
scarno, smunto e
distrutto: una figura
piú di mummia che d'uomo. Avea la barba
lunga, le
chiome incolte, indosso un manto
ricucito di spini: orrido tutto,
e
squallido e difforme, con le mani
verso il lito distese, a lento passo
venia mercé chiedendo. Era costui,
come prima ne parve e poscia udimmo,
greco, e di quei che militaro a Troia.
Onde noi per Troiani e i nostri
arnesi
e le nostr'armi conoscendo, in prima
attonito fermossi; e poscia
quasi
rincomato a noi venne e con preghiere
e con pianto ne disse: "Oh!
se le stelle,
se gli dèi, se quest'aura onde spiriamo,
generosi e
magnanimi Troiani,
serbin la vita a voi, quinci mi tolga
la pietà
vostra, e vosco m'adducete,
ove che sia; ché mi fia questo assai;
poi
ch'io son greco, e di quei Greci ancora
che venner (lo confesso) a i danni
vostri.
Se 'l fallo è tale, e se 'l vostro odio è tanto
ch'io ne deggia
morir, morte mi date,
e (se cosí v'aggrada) a brano a brano
mi lanïate,
e ne fate esca a' pesci;
ché se per man d'umana gente io pèro,
perir mi
giova". E, cosí detto, a' piedi
ne si gittò. Noi l'esortammo a dire
chi
fosse e di che patria e di che sangue,
e qual era il suo caso. Il vecchio
Anchise
la sua destra gli porse, e con tal pegno
l'affidò di salute;
ond'ei securo
tosto soggiunse: "Itaca è patria mia,
Achemènide il nome.
Io fui compagno
de l'infelice Ulisse; e venni a Troia,
la povertà del
mio padre Adamasto
fuggendo (cosí povero mai sempre
foss'io stato con
lui!); qui capitai
con esso Ulisse; e qui, mentr'ei fuggia
con gli altri
suoi questo crudele ospizio,
per téma abbandonommi e per oblio
ne
l'antro del Ciclopo. È questo un antro
opaco, immenso, che macello è sempre
d'umana carne, onde ancor sempre intriso
è di sanie e di sangue: ed è 'l
Ciclopo
un mostro spaventoso, un che col capo
tocca le stelle (o Dio,
leva di terra
una tal peste!), ch'a mirarlo solo,
solo a parlarne, orror
sento ed angoscia.
Pascesi de le viscere e del sangue
de la misera
gente; ed io l'ho visto
con gli occhi miei nel suo speco rovescio
stender le branche e, due presi de' nostri,
rotargli a cerco e
sbattergli e schizzarne
infra quei tufi le midolle e gli ossi.
Vist'ho
quando le membra de' meschini
tiepide, palpitanti e vive ancora,
di
sanguinosa bava il mento asperso,
frangea co' denti a guisa di maciulla.
Ma nol soffrí senza vendetta Ulisse;
né di se stesso in sí mortal
periglio
punto oblïossi; ché non prima steso
lo vide ebbro e satollo a
capo chino
giacer ne l'antro, e sonnacchioso e gonfio
ruttar pezzi di
carne e sangue e vino,
che ne restrinse; ed invocati in prima
i santi
numi, divisò le veci
sí che parte il tenemmo in terra saldo,
parte, con
un gran palo al foco aguzzo,
sopra gli fummo; e quel ch'unico avea
di
targa e di febèa lampade in guisa
sotto la torva fronte occhio rinchiuso,
gli trivellammo, vendicando alfine,
col tôr la luce a lui, l'ombre de'
nostri.
Ma voi che fate qui? ché non fuggite,
miseri voi? Fuggite, e
senza indugio
tagliate il fune e v'allargate in mare;
che cosí smisurati
e cosí fieri,
com'è costui che Polifemo è detto,
ne son via piú di cento
in questo lito,
tutti Ciclopi, e tutti antropofàgi,
che vanno il dí per
questi monti errando.
Già visto ho la cornuta e scema luna
tornar tre
volte luminosa e tonda,
da che son qui tra selve e tra burroni
con le
fere vivendo. Entro una rupe
è 'l mio ricetto; e quindi, benché lunge
gli miri, ad or ad or d'avergl'intorno
mi sembra, e 'l suon n'abborro e
'l calpestio
de la voce e de' piè. Pascomi d'erbe,
di còccole e di more
e di corniali,
e di tali altri cibi acerbi e fieri:
vita e vitto
infelice. In questo tempo,
quanto ho scoperto intorno, unqua non vidi
ch'altro legno giammai qui capitasse,
salvo ch'i vostri. A voi dunque
del tutto
m'addico: e, che che sia, parrammi assai
fuggir questa nefanda
e dira gente.
Voi, pria che qui lasciarmi, ogni supplicio
mi date ed
ogni morte". A pena il Greco
avea ciò detto, ed ecco in su la vetta
del
monte avverso Polifemo apparve.
Sembrato mi sarebbe un altro monte
a cui
la gregge sua pascesse intorno,
se non che si movea con essa insieme,
e
torreggiando, inverso la marina
per l'usato sentier se ne calava.
Mostro
orrendo, difforme e smisurato,
che avea come una grotta oscura in fronte
in vece d'occhio, e per bastone un pino,
onde i passi fermava. Avea
d'intorno
la greggia a' piedi, e la sampogna al collo,
quella il suo
amore, e questa il suo trastullo,
ond'orbo alleggeriva il duolo in parte.
Giunto a la riva, entrò ne l'onde a guazzo:
e pria de l'occhio la
sanguigna cispa
lavossi, ad or ad or per ira i denti
digrignando e
fremendo: indi si stese
per entro 'l mare, e nel piú basso fondo
fu pria
co' piè che non fûr l'onde a l'anche.
Noi per paura, ricevuto in prima,
come ben meritò, l'ospite greco,
di fuggir n'affrettammo; e chetamente
sciolte le funi, a remigar ne demmo
piú che di furia. Udí 'l Ciclopo il
suono
e 'l trambusto de' remi; e vòlti i passi
vèr quella parte e 'l suo
gran pino a cerco,
poiché lungi sentinne, e lungamente
pensò seguirne
per l'Ionio in vano,
trasse un mugghio, che 'l mare e i liti intorno
ne
tremâr tutti; ne sentí spavento
fino a l'Italia; ne tonaron quanti
la
Sicania avea seni, Etna caverne.
L'udir gli altri Ciclopi, e da le selve
e da' monti calando, in un momento
corsero al porto, e se n'empiero i
liti.
Gli vedevam da lunge in su l'arena,
quantunque indarno, minacciosi
e torvi
stender le braccia a noi, le teste al cielo:
concilio orrendo,
ché ristretti insieme
erano quai di querce annose a Giove,
di cipressi
coniferi a Dïana
s'ergono i boschi alteramente a l'aura.
Fero timor
n'assalse; e da l'un canto
pensammo di lasciar che 'l vento stesso
ne
portasse a seconda ovunque fosse,
purché lunge da loro; ma da l'altro,
d'Eleno ce 'l vietava il detto espresso,
che per mezzo di Scilla e di
Cariddi
passar non si dovesse a sí gran rischio,
e di sí poco spazio e
quinci e quindi
scevri da morte. In questa, che già fermi
eravam di
voltar le vele a dietro,
ecco che da lo stretto di Peloro,
ne vien Bora
a grand'uopo, onde repente
a la sassosa foce di Pantagia,
al megarico
seno, ai bassi liti
ne trovammo di Tapso. In cotal guisa
riferiva
Achemenide, compagno
che s'è detto d'Ulisse, esser nomati
quei lochi,
onde pria seco era passato.
Giace de la Sicania al golfo avanti
un'isoletta che a Plemmirio ondoso
è posta incontro, e dagli antichi è
detta
per nome Ortigia. A quest'isola è fama
che per vie sotto al mare
il greco Alfeo
vien da Dòride intatto, infin d'Arcadia
per bocca
d'Aretusa a mescolarsi
con l'onde di Sicilia. E qui del loco
venerammo i
gran numi; indi varcammo
del paludoso Eloro i campi opimi.
Rademmo di
Pachino i sassi alpestri,
scoprimmo Camarina, e 'l fato udimmo,
che mal
per lei fôra il suo stagno asciutto.
La pianura passammo de' Geloi,
di
cui Gela è la terra, e Gela il fiume.
Molto da lunge il gran monte Agragante
vedemmo, e le sue torri e le sue spiagge
che di razze fur già madri
famose.
Col vento stesso indietro ne lasciammo
la palmosa Seline; e 'n
su la punta
giunti di Lilibeo, tosto girammo
le sue cieche seccagne, e
'l porto alfine
del mal veduto Drepano afferrammo.
Qui, lasso me! da
tanti affanni oppresso,
a tanti esposto, il mio diletto padre,
il mio
padre perdei. Qui stanco e mesto,
padre, m'abbandonasti; e pur tu solo
m'eri in tante gravose mie fortune
quanto avea di conforto e di
sostegno.
Ohimè! che indarno da sí gran perigli
salvo ne ti rendesti.
Ah, che fra tanti
orrendi e miserabili infortuni,
ch'Eleno ci predisse e
l'empia Arpia,
questo non era già, ch'era il maggiore!
Oh fosse questo
ancor l'ultimo affanno,
com'è l'ultimo corso! Ché partendo
da Drepano,
se ben fera tempesta
qui m'ha gittato, certo amico nume
m'ha, benigna
regina, a voi condotto».
Cosí da tutti con silenzio udito,
poich'ebbe
Enea distesamente esposto
la ruina di Troia e i rischi e i fati
e gli
error suoi, fece qui fine e tacque.
Libro
IV
Ma la
regina d'amoroso strale
già punta il core, e ne le vene accesa
d'occulto
foco, intanto arde e si sface;
e de l'amato Enea fra sé volgendo
il
legnaggio, il valore, il senno, l'opre,
e quel che piú le sta ne l'alma
impresso,
soave ragionar, dolce sembiante,
tutta notte ne pensa e mai
non dorme.
Sorgea l'Aurora, quando surse anch'ella
cui le piume parean
già stecchi e spini;
e con la sua diletta e fida suora
si ristrinse e le
disse: «Anna sorella,
che vigilie, che sogni, che spaventi
son questi
miei? che peregrino è questo
che qui novellamente è capitato?
Vedestu
mai sí grazioso aspetto?
Conoscesti unqua il piú saggio, il piú forte,
e
'l piú guerriero? Io credo (e non è vana
la mia credenza) che dal ciel
discenda
veracemente. L'alterezza è segno
d'animi generosi. E che
fortune,
e che guerre ne conta! Io, se non fusse
che fermo e stabilito
ho nel cor mio
che nodo marital piú non mi stringa,
poiché 'l primo si
ruppe, e se d'ognuno
schiva non fossi, solamente a lui
forse
m'inchinerei. Ché, a dirti 'l vero,
Anna mia, da che morte e l'empio frate
mi privâr di Sichèo, sol questi ha mosso
i miei sensi e 'l mio core, e
solo in lui
conosco i segni de l'antica fiamma.
Ma la terra m'ingoi, e
'l ciel mi fulmini,
e ne l'abisso mi trabocchi in prima
ch'io ti vïoli
mai, pudico amore.
Col mio Sichèo, con chi pria mi giungesti,
giungimi
sempre, e 'ntemerato e puro
entro al sepolcro suo seco ti serba».
E qui
piangendo e sospirando tacque.
Anna rispose: «O piú de la mia vita
stessa, amata sorella, adunque sola
vuoi tu vedova sempre e sconsolata
passar questi tuoi verdi e florid'anni?
Abbiti insino a qui fatto
rifiuto
e del getúlo Iarba e di tant'altri
possenti, generosi e ricchi
duci
peni e fenici; ch'io di ciò ti scuso,
com'allor dolorosa, e non
amante.
Ma poich'ami, ad amor sarai rubella,
e ritrosa a te stessa? Ah!
non sovvienti
qual cinga il tuo reame assedio intorno?
com'ha
gl'insuperabili Getúli
da l'una parte, i Numidi da l'altra,
fera gente e
sfrenata? indi le secche,
quinci i deserti, e piú da lunge infesti
i
feroci Barcèi? Taccio le guerre
che già sorgon di Tiro, e le minacce
del
fiero tuo fratello. Io penso certo
che la gran Giuno, e tutto 'l ciel
benigno
ne si mostrasse allor che a' nostri liti
questi legni approdaro.
O qual cittade,
qual imperio fia questo ! Quanto onore,
quanto pro,
quanta gloria a questo regno
ne verrà, quando ei teco, e l'armi sue
saran giunte a le nostre! Or via, sorella,
porgi preci a gli dèi, fa'
vezzi a lui,
assecuralo, onoralo, intrattienlo:
ché 'l crudo verno, il
tempestoso mare,
il piovoso Orïone, i vènti, il cielo,
le sconquassate
navi in ciò ne dànno
mille scuse di mora e di ritegno».
Con questo
dir, che fu qual aura al foco
ond'era il cor de la regina acceso,
l'infiammò, l'incitò, speme le diede
e vergogna le tolse. Andaro in
prima
a visitare i templi, a chieder pace
e favor de' celesti, a porger
doni,
a far d'elette pecorelle offerta
a Cerere, ad Apollo, al padre
Bacco,
e, pria che a tutti gli altri, a la gran Giuno,
cui son le nozze
e i maritaggi a cura.
La regina ella stessa ornata e bella
tien d'oro un
nappo, e fra le corna il versa
d'una candida vacca; o si ravvolge
intorno a' pingui altari, ed ogni giorno
rinnova i doni, e de le aperte
vittime
le palpitanti fibre, i vivi moti,
e le spiranti viscere
contempla,
e con lor si consiglia. O menti sciocche
de gl'indovini! E
che ponno i delúbri,
e i vóti, esterni aiuti, a mal ch'è dentro?
Nel
cor, ne le midolle e ne le vene
è la piaga e la fiamma, ond'arde e père.
Arde Dido infelice, e furïosa
per tutta la città s'aggira e smania:
qual ne' boschi di Creta incauta cerva
d'insidïoso arcier fugge lo
strale
che l'ha già colta; e seco, ovunque vada,
lo porta al fianco
infisso. Or a diporto
va con Enea per la città, mostrando
le fabbriche,
i disegni e le ricchezze
del suo novo reame; or disïosa
di scoprirgli il
suo duol, prende consiglio:
poi non osa, o s'arresta. E quando il giorno
va dechinando, a convivar ritorna,
e di nuovo a spïar de gli accidenti
e de' fati di Troia, e nuovamente
pende dal volto del facondo amante.
Tolti da mensa, allor che notte oscura
in disparte gli tragge, e che le
stelle
sonno, dal ciel caggendo, a gli occhi infondono;
dolente, in
solitudine ridotta,
ritirata da gli altri, è sol con lui
che le sta
lunge, e lui sol vede e sente.
Talvolta Ascanio, il pargoletto figlio
per sembianza del padre in grembo accolto,
tenta, se cosí può, l'ardente
amore
o spegnere, o scemare, o fargli inganno.
Le torri, i templi,
ogn'edificio intanto
cessa di sormontar; cessa da l'arme
la gioventú. Le
porte, il porto, il molo
non sorgon piú; dismesse ed interrotte
pendon
l'opere tutte e la gran macchina
che fea dianzi ira a' monti e scorno al
cielo.
Vide da l'alto la saturnia Giuno
il furor di Didone, e tal che
fama
e rispetto d'onor piú non l'affrena;
onde Venere assalse, e 'n
cotal guisa
disdegnosa le disse: «Una gran loda
certo, un gran merto, un
memorabil nome
tu col fanciullo tuo, Ciprigna, acquisti
d'aver due sí
gran dii vinta una femina!
Io so ben che guardinga e sospettosa
di me ti
rende e de la mia Cartago
il temer di tuo figlio. Ma fia mai
che questa
téma e questa gelosia
si finisca tra noi? Ché non piú tosto
con una
eterna pace e con un saldo
nodo di maritaggio unitamente
ne ristringemo?
Ecco hai già vinto; e vedi
quel che piú desïavi. Ama, arde, infuria:
con
ogni affetto è verso Enea tuo figlio
la mia Dido rivolta. Or lui si prenda;
e noi concordemente in pace abbiamo
ambedue questo popolo in tutela;
né ti sdegnar che sí nobil regina
serva a frigio marito, e ch'ei le
genti
n'aggia di Tiro e di Cartago in dote».
Venere, che ben vide ove
mirava
il colpo di Giunone; e che l'occulto
suo bersaglio era sol con
questo avviso
distor d'Italia il destinato impero
e trasportarlo in
Libia, incontro a lei
cosí scaltra rispose: «E chi sí folle
sarebbe mai
ch'un tal fesse rifiuto
di quel ch'ei piú desia, per teco averne,
teco
che tanto puoi, gara e tenzone,
quando ciò che tu di' possibil fosse?
Ma
non so che si possa, né che 'l fato,
né che Giove il permetta, che due genti
diverse, come son Tiri e Troiani,
una sola divenga. Tu consorte
gli
sei; tu ne 'l dimanda, e tu l'impetra,
ch'io, per me, me n'appago ». «Ed io,
- soggiunse
Giuno - sopra di me l'incarco assumo,
ch'ei ne 'l consenta.
Or odi brevemente
il modo che a ciò far già ne si porge.
Tosto che 'l
sol dimane uscirà fuori,
uscire ancor l'innamorata Dido
col troian duce
a caccia s'apparecchia.
Ove opportunamente a la foresta,
mentre de'
cacciatori e de' cavalli
andran le schiere in volta, io loro un nembo
spargerò sopra tempestoso e nero,
con un turbo di grandine e di pioggia,
e di sí fieri tuoni il cielo empiendo,
ch'indi percossi i lor seguaci
tutti,
andran dispersi e d'atra nube involti.
Solo con sola Dido Enea
ridotto
in un antro medesimo accôrrassi.
Io vi sarò; saravvi anco
Imeneo;
e se del tuo voler tu m'assecuri,
io farò sí ch'ivi ambidue
saranno
di nodo indissolubile congiunti».
Venere in ciò non disdicendo,
insieme
chinò la testa: e de la dolce froda
dolcemente sorrise. Uscio
del mare
l'Aurora intanto; ed ecco fuori armati
di spiedi e di zagaglie,
a suon di corni,
venirne i cacciatori, altri con reti,
altri con cani.
Ha questi un gran molosso,
quegli un veltro a guinzaglio, e lunghe file
van di segugi incatenati avanti.
Scorrono intorno i cavalier Massíli:
e i maggior Peni, e' piú chiari Fenici
stanno in sella aspettando anzi
al palagio,
mentre ad uscir fa la regina indugio;
e presto intanto
d'ostro e d'oro adorno
il suo ginnetto, e, vagamente fiero,
ringhia, e
sparge la terra, e morde il freno.
Esce a la fine accompagnata intorno
da regio stuolo, e non con regio arnese,
ma leggiadro e ristretto. È la
sua veste
di tirio drappo, e d'arabo lavoro
riccamente fregiata: è la
sua chioma
con nastri d'oro in treccia al capo avvolta,
tutta di gemme
come stelle aspersa;
e d'oro son le fibbie, onde sospeso
le sta
d'intorno de la gonna il lembo.
Da gli omeri le pende una faretra,
dal
fianco un arco. I Frigi, e 'l bello Iulo
le cavalcano avanti; e via piú
bello,
ma di beltà feroce e grazïosa,
le giva Enea con la sua schiera a
lato.
Qual se ne va da Licia e da le rive
di Xanto, ove soggiorna il
freddo inverno,
a la materna Delo il biondo Apollo,
allor che
festeggiando accolti e misti
infra gli altari i Drïopi, i Cretesi,
e i
dipinti Agatirsi in varie tresche
gli s'aggirano intorno; o quando spazia
per le piagge di Cinto, a l'aura sparsi
i bei crin d'oro, e de l'amata
fronde
le tempie avvolto, e di faretra armato;
tal fra la gente si
mostrava, e tale
era ne' gesti e nel sembiante Enea,
sovra d'ogni altro
valoroso e vago.
Poscia che furo a' monti, e nel piú folto
penetrâr de
le selve, ecco da i balzi
de l'alte rupi uscir capri e camozze;
e cervi
altronde, che, d'armenti in guisa,
quasi in un gruppo, spaventati a torme
fuggono al piano, e fan nubi di polve.
Di ciò gioioso il giovinetto Iulo
sul feroce destrier per la campagna
gridando e traversando, or questo
arriva,
or quel trapassa: e nel suo core agogna
tra le timide belve o
d'un cignale
aver rincontro, o che dal monte scenda
un velluto leone. In
questa il cielo
mormorando turbossi, e pioggia e grandine
diluvïando,
d'ogni parte in fuga
Ascanio, i Teucri, i Tiri ai piú propinqui
tetti si
ritiraro; e fiumi intanto
sceser da' monti, ed allagaro i piani.
Solo
con sola Dido Enea ridotto
in un antro medesimo s'accolse.
Diè, di quel
che seguí, la terra segno
e la pronuba Giuno. I lampi, i tuoni
fûr de le
nozze lor le faci e i canti;
testimoni assistenti e consapevoli
sol ne
fûr l'aria e l'antro; e sopra 'l monte
n'ulularon le ninfe. Il primo giorno
fu questo, e questa fu la prima origine
di tutti i mali, e de la morte
alfine
de la Regina; a cui poscia non calse
né de l'indegnità, né de
l'onore,
né de la secretezza. Ella si fece
moglie chiamar d'Enea; con
questo nome
ricoverse il suo fallo; e di ciò tosto
per le terre di Libia
andò la Fama.
È questa Fama un mal, di cui null'altro
è piú veloce; e
com' piú va, piú cresce;
e maggior forza acquista. È da principio
picciola e debil cosa, e non s'arrischia
di palesarsi; poi di mano in
mano
si discopre e s'avanza, e sopra terra
sen va movendo e sormontando
a l'aura,
tanto che 'l capo infra le nubi asconde.
Dicon che già la
nostra madre antica,
per la ruina de' Giganti irata
contr'a' celesti, al
mondo la produsse,
d'Encèlado e di Ceo minor sorella;
mostro orribile e
grande, d'ali presta
e veloce de' piè; che quante ha piume,
tanti ha
sotto occhi vigilanti, e tante
(meraviglia a ridirlo) ha lingue e bocche
per favellare, e per udire orecchi.
Vola di notte per l'oscure tenebre
de la terra e del ciel senza riposo,
stridendo sempre, e non chiude
occhi mai.
Il giorno sopra tetti, e per le torri
sen va de le città,
spïando tutto
che si vede e che s'ode: e seminando,
non men che 'l bene
e 'l vero, il male e 'l falso
di rumor empie e di spavento i popoli.
Questa, gioiosa, bisbigliando in prima,
poscia crescendo, del seguíto
caso
molte cose dicea vere e non vere.
Dicea, ch'un di troiana stirpe
uscito,
venuto era in Cartago, a cui degnata
s'era la bella Dido esser
congiunta.
Queste e cose altre assai, la sozza dea
per le bocche degli
uomini spargendo,
tosto in Getulia al gran Iarba pervenne;
e con parole
e con punture acerbe
sí de l'offeso re l'animo accese,
ch'arse d'ira e
di sdegno. Era d'Ammone,
e de la garamantide Napea,
già rapita da lui,
questo re nato,
onde a Giove suo padre entro a' suoi regni
cento gran
templi e cento pingui altari
avea sacrati, e di continui fochi
mantenendo agli dèi vigilie eterne
di vittime, di fiori e di ghirlande
gli tenea sempre riveriti e cólti.
Ei sí com'era afflitto e conturbato
da l'amara novella, anzi agli altari
e fra gli dèi, le mani al cielo
alzando,
cotali, umile insieme e disdegnoso,
porse prieghi e querele:
«Onnipotente
padre, a cui tanti opimi e sontuosi
conviti, e di Lenèo sí
larghi onori
offrisce oggi de' Mauri il gran paese,
vedi tu queste cose?
o pure invano
tonando e folgorando ci spaventi?
Una femina errante, una
che dianzi
ebbe a prezzo da me nel mio paese,
per fondar la sua terra un
picciol sito:
una ch'arena ha per arare, ha vitto,
loco e leggi da me,
me per marito
rifiuta; e di sé donno e del suo regno
ha fatto Enea.
Questo or novello Pari
mitrato il mento e profumato il crine,
va del mio
scorno e del suo furto altero:
ed io qui me ne sto vittime e doni
a te
porgendo, e son tuo figlio indarno».
Cosí Iarba dicea; né da l'altare
s'era ancor tolto, quando il padre udillo;
e gli occhi in vèr Cartagine
torcendo
vide gli amanti ch'a gioire intesi
avean posti in oblio la fama
e i regni.
Onde vòlto a Mercurio: «Va, figliuolo, -
gli disse, - chiama
i vènti, e ratto scendi
là 've sí neghittoso il troian duce
bada in
Cartago, e 'l destinato impero
non gradisce e non cura; e ciò gli annunzia
da parte mia, che Venere sua madre
non per tal lo mi diede, e ch'a tal
fine
non è stato da lei da l'armi greche
già due volte scampato. EIla
promise
ch'ei sarebbe atto a sostener gl'imperi
e le guerre d'Italia, a
trar qua suso
la progenie di Teucro, a porre il freno,
a dar le leggi al
mondo. A ciò se 'l pregio
di sí gran cose e de la gloria stessa
non
muove lui, perché non guarda al figlio?
Perché di tanta sua grandezza il
froda,
di quanta fian Lavinio ed Alba e Roma
ne' secoli a venire? E con
che speme,
con che disegno in Libia fa dimora,
e co' nemici suoi?
Navighi in somma.
Questo dilli in mio nome». Udito ch'ebbe
Mercurio, ad
eseguir tosto s'accinse
i precetti del padre; e prima a' piedi
i talari
adattossi. Ali son queste
con penne d'oro, ond'ei l'aria trattando,
sostenuto da' vènti, ovunque il corso
volga, o sopra la terra, o sopra
al mare,
va per lo ciel rapidamente a volo.
Indi prende la verga, ond'ha
possanza
fin ne l'inferno, onde richiama in vita
l'anime spente, onde le
vive adduce
ne l'imo abisso, e dà sonno e vigilia
e vita e morte; aduna
e sparge i vènti,
e trapassa le nubi. Era volando
giunto là 've
d'Atlante il capo e 'l fianco
scorgea, de le cui spalle il cielo è soma;
d'Atlante la cui testa irta di pini,
di nubi involta, a piogge, a vènti,
a nembi
è sempre esposta; il cui mento, il cui dorso,
e per nevi e per
gel canuto e gobbo,
è da fiumi rigato. In questo monte,
che fu padre di
Maia, avo di lui,
primamente fermossi. Indi calando
si gittò sovra
l'onde, e lungo al lito
di Libia se n'andò, l'aure secando
in quella
guisa che marino augello
d'un'alta ripa, a nuova pesca inteso,
terra
terra sen va tra rive e scogli
umilmente volando. A pena giunto
era in
Cartago, che davanti Enea
si vide, intento a dar siti e disegni
ai
superbi edifici. Avea dal manco
lato una storta, di dïaspro e d'oro
guarnita, e di stellate gemme adoma.
Dal tergo gli pendea di tiria
ardente
porpora un ricco manto, arnesi e doni
de la sua Dido, ch'ella
stessa intesta
avea la tela, e ricamati i fregi.
Né 'l vide pria, che
gli fu sopra, e disse:
«Tu te ne stai sí neghittosamente,
Enea, servo
d'amor, ligio di donna,
a fondar l'altrui regno; e 'l tuo non curi?
A te
mi manda il regnator celeste,
ch'io ti dica 'n sua vece: "Che pensiero,
che studio è il tuo? con che speranza indugi
in queste parti? Se 'l tuo
proprio onore,
se la propria grandezza non ti spinge;
ché non miri a'
tuoi posteri, al destino,
a la speranza del tuo figlio Iulo,
a cui si
deve il glorïoso impero
de l'Italia e di Roma?"» E piú non disse,
né piú
risposta attese; anzi dicendo,
uscio d'umana forma, e dileguossi.
Stupí, si raggricciò, tremante e fioco
divenne il troian duce, il gran
precetto,
e chi 'l portava, e chi 'l mandava udendo.
Già pensa di
ritrarsi. Ma che modo
terrà con Dido ad impetrar commiato?
Con quai
parole assalirà, con quali
disporrà mai la furïosa amante?
Pensa, volge,
rivolge: in un momento
or questo, or quel partito, or tutti insieme
va
discorrendo; ed ora ad un s'appiglia,
ed ora a l'altro. Si risolve al fine:
e fatto a sé venir Memmo, Sergesto,
e l'ardito Cloanto: «Andate, - disse
-
raunate i compagni; itene al porto,
e con bel modo chetamente l'arme
apprestate e l'armata; e non mostrate
segno di novità, né di partenza.
Intanto io troverò loco opportuno,
e tempo accomodato e destro modo
d'ottener da quest'ottima regina
che da lei con dolcezza mi diparta,
nulla sapendo ancor di mia partita,
né sperando tal fine a tanto amore».
A l'ordine d'Enea lieti i compagni
obbedîr tutti; e prestamente in
punto
fu ciò che impose. Ma Didon del tratto
tosto s'avvide: e che non
vede amore?
Ella pria se n'accorse; ch'ogni cosa
temea, benché secura. E
già la stessa
Fama importunamente le rapporta
armarsi i legni, esser i
Teucri accinti
a navigare. Onde d'amore e d'ira
accesa, infurïata, e
fuori uscita
di se medesma, imperversando scorre
per tutta la città.
Quale a i notturni
gridi di Citeron Tïade, allora
che 'l trïennal di
Bacco si rinnova,
nel suo moto maggior si scaglia e freme,
e scapigliata
e fiera attraversando,
e mugolando al monte si conduce;
tal era Dido, e
da tal furia spinta
Enea da sé con tai parole assalse:
«Ah perfido!
Celar dunque sperasti
una tal tradigione, e di nascosto
partir de la mia
terra? E del mio amore,
de la tua data fé, di quella morte
che ne farà
la sfortunata Dido,
punto non ti sovviene, e non ti cale?
Forse che non
t'arrischi in mezzo al verno
tra' piú fieri Aquiloni a l'onde esporti?
Crudele! Or che faresti, se straniere
non ti fosser le terre, ignoti i
lochi
che tu procuri? E che faresti, quando
fosse ancor Troia in piede?
A Troia andresti
di questi tempi? E me lasci, e me fuggi?
Deh! per
queste mie lagrime, per quello
che tu della tua fé pegno mi desti
(poiché a Dido infelice altro non resta
che a sé tolto non aggia), per
lo nostro
marital nodo, per l'imprese nozze,
per quanti ti fei mai, se
mai ti fei
commodo o grazia alcuna, o s'alcun dolce
avesti unqua da me;
ti priego ch'abbi
pietà del dolor mio, de la ruina
che di ciò
m'avverrebbe; e (se piú luogo
han le preci con te) che tu del tutto
lasci questo pensiero. Io per te sono
in odio a Libia tutta, a' suoi
tiranni,
a' miei Tiri, a me stessa. Or come in preda
solo a morte mi
lasci, ospite mio?
ch'ospite sol mi resta di chiamarti,
di marito che
m'eri. E perché deggio,
lassa, viver io piú? Per veder forse
che 'l mio
fratel Pigmalïon distrugga
queste mie mura, o 'l tuo rivale Iarba
in
servitú m'adduca? Almeno avanti
la tua partita avess'io fatto acquisto
d'un pargoletto Enea che per le sale
mi scherzasse d'intorno, e solo il
volto,
e non altro, di te sembianza avesse;
ch'esser non mi parrebbe
abbandonata,
né delusa del tutto». A tai parole
Enea di Giove al gran
precetto affisso
tenea il pensiero e gli occhi immoti e saldi;
e
brevemente le rispose al fine:
«Regina, e' non fia mai ch'io non mi tenga
doverti quanto forse unqua potessi
rimproverarmi. E non fia mai ch'Elisa
non mi ricordi, infin che ricordanza
avrò di me medesmo, e che 'l mio
spirto
reggerà queste membra. Ora in discarco
di me dirò sol questo, che
sperato,
né pensato ho pur mai d'allontanarmi
da te, come tu di'. Se 'l
mio destino
fosse che la mia vita e i miei pensieri
a mia voglia
reggessi, a Troia in prima
farei ritorno: raccôrrei le dolci
sue
disperse reliquie: a la mia patria
di nuovo renderei la vita e i figli,
e la reggia e le torri e me con loro.
Ma ne l'Italia il mio fato mi
chiama.
Italia Apollo in Delo, in Licia, ovunque
vado, o mando a
spïarne, mi promette.
Quest'è l'amor, quest'è la patria mia.
Se tu, che
di Fenicia sei venuta,
siedi in Cartago, e ti diletti e godi
del tuo
libico regno; qual divieto,
qual invidia è la tua, che i miei Troiani
prendano Ausonia? Non lece anco a noi
cercar de' regni esterni? E non
cuopre ombra
la terra mai, non mai sorgon le stelle,
che del mio padre
una turbata imago
non veggia in sogno, e che di ciò ricordo
non mi porga
e spavento. A tutte l'ore
del mio figlio sovviemmi e de l'ingiuria
che
riceve da me sí caro pegno,
se del regno d'Italia io lo defraudo,
che
gli son padre, quando il fato e Giove
ne 'l privilegia. E pur dianzi mi
venne
dal ciel mandato il messaggier celeste
a portarmi di ciò nuova
imbasciata
dal gran re degli dèi. Donna, io ti giuro
per la lor deità,
per la salute
d'ambedue noi, che con quest'occhi il vidi
qui dentro in
chiaro lume; e la sua voce
con quest'orecchi udii. Rimanti adunque
di
piú dolerti; e con le tue querele
né te, né me piú conturbare. Italia
non a mia voglia io seguo». E piú non disse.
Ella, mentre dicea,
crucciata e torva
lo rimirava, e volgea gli occhi intorno
senza far
motto. Alfin, da sdegno vinta
cosí proruppe: «Tu, perfido, tu
sei di
Venere nato? Tu del sangue
di Dardano? Non già; ché l'aspre rupi
ti
produsser di Caucaso, e l'Ircane
tigri ti fûr nutrici. A che tacere?
Il
simular che giova? E che di meglio
ne ritrarrei? Forse ch'a' miei lamenti
ha mai questo crudel tratto un sospiro,
o gittata una lagrima, o pur
mostro
atto o segno d'amore, o di pietade?
Di che prima mi dolgo? di che
poi?
Ah! che né Giuno omai, né Giove stesso
cura di noi: né con
giust'occhi mira
piú l'opre nostre. Ov'è qua giú piú fede?
E chi piú la
mantiene? Era costui
dianzi nel lito mio naufrago, errante,
mendíco. Io
l'ho raccolto, io gli ho ridotti
i suoi compagni, e i suoi navili insieme,
ch'eran morti e dispersi; ed io l'ho messo
(folle!) a parte con me del
regno mio,
e di me stessa. Ahi, da furor, da foco
rapir mi sento! Ora il
profeta Apollo,
or le sorti di Licia, ora un araldo,
che dal ciel gli si
manda, a gran faccende
quinci lo chiama. Un gran pensiero han certo
di
ciò gli dèi. D'un gran travaglio è questo
a lor quïete. Or va', che per
innanzi
piú non ti tegno, e piú non ti contrasto.
Va' pur, segui
l'Italia, acquista i regni
che ti dan l'onde e i venti. Ma se i numi
son
pietosi, e se ponno, io spero ancora
che da' vènti e da l'onde e da gli
scogli
n'avrai degno castigo; e che piú volte
chiamerai Dido, che
lontana ancora
co' neri fuochi suoi ti fia presente:
e tosto che di
morte il freddo gelo
l'anima dal mio corpo avrà disgiunta,
passo non
moverai che l'ombra mia
non ti sia intorno. Avrai, crudele, avrai
ricompensa a' tuoi merti, e ne l'inferno
tosto me ne verrà lieta
novella».
Qui 'l suo dire interruppe; e lui per téma
confuso e molto a
replicarle inteso
lasciando, con disdegno e con angoscia
gli si tolse
davanti. Incontanente
le fûr l'ancelle intorno; e sí com'era
egra e
dolente, entro al suo ricco albergo
le diêr sovra le piume agio e riposo.
Enea, quantunque pio, quantunque afflitto
e d'amore infiammato e di
desire
di consolar la dolorosa amante,
nel suo core ostinossi. E fermo e
saldo
d'obbedire a gli dèi fatto pensiero,
calossi al mare, e i suoi
legni rivide.
Allor furo in un tempo unti e rispinti
e posti in acqua;
e, per la fretta, i remi
diventarono i rami che dal bosco
si portavano
allor frondosi e rozzi.
Era a veder da la cittade al porto
de' Teucri,
de le ciurme, e de le robe
ch'al mar si conducean, pieno il sentiero:
qual è, quando le provvide formiche
de le lor vernaricce vettovaglie
pensose e procaccevoli, si dànno
a depredar di biade un grande acervo;
che va dal monte ai ripostigli loro
la negra torma, e per angusta e
lunga
sèmita le campagne attraversando,
altre al carreggio intese o lo
s'addossano,
o traendo o spingendo lo conducono;
altre tengon le schiere
unite, ed altre
castigan l'infingarde; e tutte insieme
fan che tutta la
via brulica e ferve.
Che cor, misera Dido, che lamenti
erano allora i
tuoi, quando da l'alto
un tal moto scorgevi, e tanti gridi
ne sentivi
dal mare? Iniquo amore,
che non puoi tu ne' petti de' mortali?
Ella di
nuovo al pianto, a le preghiere,
a sottoporsi a l'amoroso giogo
da la
tua forza è suo malgrado astretta.
Ma per fare ogni schermo, anzi che muoia,
la sorella chiamando: «Anna, - le disse -
tu vedi che s'affrettano, e
sen vanno.
Vedi già loro in su la spiaggia accolti,
le vele in alto, e
le corone in poppa.
Sorella mia, s'avessi un tal dolore
antiveder
potuto, io potrei forse
anco soffrirlo. Or questo solo affanno
prendi
per la tua misera sirocchia,
poiché te sola quel crudele ascolta,
e sol
di te si fida, e i lochi e i tempi
sai d'esser seco e di trattar con lui;
truova questo superbo mio nimico,
e supplichevolmente gli favella.
Dilli che Dido io sono, e che non fui
in Aulide co' Greci a far congiura
contra a' Troiani; e che di Troia a' danni
né i miei legni mandai, né le
mie genti.
Dilli che né le ceneri, né l'ombre
né del suo padre mai, né
d'altri suoi
non vïolai. Qual dunque o mio demerto
o sua durezza fa
ch'ei non ascolti
il mio dire, e me fugga, e sé precipiti?
Chiedili per
mercé dell'amor mio,
per salvezza di lui, per la mia vita,
ch'indugi il
suo partir tanto che 'l mare
sia piú sicuro e piú propizi i vènti.
Né
piú del maritaggio io lo richieggio,
c'ha già tradito, né vo' piú che manchi
del suo bel Lazio, o i suoi regni non curi.
Un picciol tempo, e d'ogni
obbligo sciolto
io gli dimando, e tanto o di quïete,
o d'intervallo al
mio cieco furore,
ch'in parte il duol disacerbando, impari
a men
dolermi. Questo è 'l dono estremo
che da lui per tuo mezzo agogna e brama
questa tua miserabile sorella:
e se tu lo m'impetri, altro che morte
forza non avrà mai ch'io me n'oblii».
Queste e tali altre cose ella
piangendo
dicea con Anna, ed Anna al frigio duce
disse, ridisse, e
riportò piú volte
or da l'una or da l'altro, e tutte in vano;
ché né
pianti, né preci, né querele
punto lo muovon piú. Gli ostano i fati,
e
solo in ciò gli ha dio chiuse l'orecchie;
benché dolce e trattabile e
benigno
fusse nel resto. Come annosa e valida
quercia, che sia ne l'alpi
esposta a Borea,
s'or da l'uno or da l'altro de' suoi turbini
è
combattuta, si scontorce e títuba:
stridono i rami e 'l suol di frondi
spargesi,
e 'l tronco al monte infisso immoto e solido
se ne sta sempre;
e quanto sorge a l'aura
con la sua cima, tanto in giú stendendosi
se ne
va con le barbe infino agl'inferi:
cosí, da preci e da querele assidue
battuto, duolsi il gran Troiano ed angesi,
e con la mente in sé raccolta
e rigida
gitta indarno per lei sospiri e lagrime.
La sfortunata Dido,
poiché tronca
si vide ogni speranza, spaventata
dal suo fato, e di sé
schiva e del sole,
disïò di morire; e gran portenti
di ciò presagio e
fretta anco le fêro.
Ella, mentre a gli altari incensi e doni
offria
devota (orribil cosa a dire!),
vide avanti di sé cogli occhi suoi
farsi
lurido e negro ogni liquore,
e 'l puro vin cangiarsi in tetro sangue:
e
'l vide, e 'l tacque, e 'nfino a la sorella
lo tenne ascoso. Entro al suo
regio albergo
avea di marmo un bel delúbro eretto,
e dedicato al suo
marito antico.
Questo con molto studio, e molt'onore
fu mai sempre da
lei di bianchi velli
e di festiva fronde ornato e cinto.
Quinci notturne
voci udir le parve
del suo caro Sichèo che la chiamasse;
e nel suo tetto
un solitario gufo
molte fïate con lugúbri accenti
fe' di pianto una
lunga querimonia.
Oltre a ciò da l'antiche profezie,
da pronostici
orrendi e spaventosi
de la vicina morte era ammonita.
Vedeasi Enea tutte
le notti avanti
con fera imago, che turbata e mesta
la tenea sempre. Le
parea da tutti
restare abbandonata, e per un lungo
e deserto cammino
andar solinga
de' suoi Tiri cercando. In cotal guisa
le schiere de
l'Eumènidi vedea
Pèntëo forsennato, e doppio il sole
e doppia Tebe. In
cotal guisa Oreste
per le scene imperversa, e furïoso
vede, fuggendo, la
sua madre armata
di serpenti e di faci, e 'n su le porte
le Furie
ultrici. Or poi che la meschina
fu da tanto furor, da tanto affanno
oppressa e vinta, e di morir disposta,
divisò fra se stessa il tempo e
'l modo:
ed Anna, sí com'era afflitta e mesta,
a sé chiamando, il suo
fiero consiglio
celò nel core, e nel sereno volto
spiegò gioia e
speranza: «Anna, - dicendo -
rallegrati con me, che al fin trovato
ho
com'io debba o racquistar quell'empio,
o ritôrmi da lui. Nel lito estremo
de l'Oceàn, là dove il sol si corca,
de l'Etïopia a l'ultimo confino,
e presso a dove Atlante il ciel sostiene,
giace un paese, ond'ora è qui
venuta
una sacerdotessa incantatrice,
che, massíla di gente, è stata poi
del tempio de l'Espèridi ministra,
e del drago nudrice, e de le piante
del pomo d'oro guardïana un tempo.
Questa, d'umido mèle e d'oblïosi
papaveri composto un suo miscuglio,
promette con parole e con malíe
altri sciôr da l'amore, altri legare,
com'a lei piace; distornare i
fiumi,
ritrar le stelle, e convocar per forza
le notturne fantasme.
Udrai la terra
mugghiar sotto a' tuoi piè. Vedrai da' monti
calar gli
orni e le querce. Io per gli dèi,
per te, per la tua vita a me sí cara,
ti giuro, suora mia, che mal mio grado
m'adduco a questi magici
incantesmi;
ma gran forza mi spinge. Or va, sorella;
scegli per entro a
le mie stanze un luogo
il piú remoto e solo, a l'aura esposto.
Ivi ergi
una gran pira, e vi conduci
l'armi che a la mia camera sospese
lasciò
quel disleale, e quelle spoglie,
in somma ogni suo arnese. Ché la maga
cosí m'impone, e vuol ch'ogni memoria,
ogni segno di lui si spenga e
pèra».
Cosí detto, si tacque, e di pallore
tutta si tinse. Non però
s'avvide
Anna che sotto a' nuovi sacrifici
si celasse di lei morte sí
fera:
ché sí fero concetto non le venne,
e non temé che peggio le
avvenisse
che in morte di Sichèo. Tosto fe' dunque
quel ch'imposto le
fu. Fatta la pira,
e d'ilici e di tede aride e scisse
altamente
composta, la regina
d'atre ghirlande e di funeste frondi
ornar la fece
intorno: indi le spoglie
e la spada e l'effigie de l'amante
sopra a
giacer vi pose, ben secura
di ciò che n'avverrebbe. Eran d'intorno
gli
altari eretti; era tra lor la maga
scapigliata e discinta; e con un tuono
di voce formidabile invocava
trecento deità, l'Erebo, il Cao,
Ècate
con tre forme, e con tre facce
la vergine Dïana. Avea già sparse
le
finte acque d'Averno, e i suffumigi
fatti de le nocive erbe novelle
che
per punti di luna, e con la falce
d'incantato metallo eran segate.
Si
fe' venir la malïosa carne
che de la fronte al tenero pulledro
con
l'amor de la madre si divelle.
Essa stessa regina il farro e 'l sale
con
le man pie sovr'a gli altari impone,
e d'un piè scalza, e di tutt'altro
sciolta,
solo accinta a morir, per testimoni
chiama li dèi. Protestasi a
le stelle
del suo fato consorti: e s'alcun nume
mira a gli afflitti e
sfortunati amanti,
questo prega e scongiura che ragione
e ricordo ne
tenga, e ne gli caglia.
Era la notte; e già di mezzo il corso
cadean
le stelle; onde la terra e 'l mare,
le selve, i monti e le campagne tutte,
e tutti gli animali, i bruti, i pesci,
e i volanti e i serpenti e ciò
che vive
avea da ciò che la lor vita affanna
tregua, silenzio, oblio,
sonno e riposo.
Ma non Dido infelice, a cui la notte
né gli occhi grava,
né 'l pensiero alleggia;
anzi maggior col tramontar del sole
in lei
risorge l'amorosa cura:
e non men che d'amor, d'ira avvampando,
cosí fra
sé farnetica e favella:
«E che farò cosí delusa poi?
Chi piú mi
seguirà de' primi amanti?
Proferirommi per consorte io stessa
d'un
Zingaro, d'un Moro, o d'un Aràbo,
quando n'ho vilipesi e rifiutati
tanti
e tai, tante volte? Andrò co' Teucri
in su l'armata? Mi farò soggetta,
di regina ch'io sono, e serva a loro?
Sí certo, che gran pro fin qui
riporto
de le mie loro usate cortesie;
e grado me n'avranno, e grazia
poi.
Ma ciò, dato ch'io voglia, chi permette
ch'io l'eseguisca? Chi cosí
schernita
volentier mi raccoglie? Ahi sfortunata
Dido! ch'ancor non vedi
a che sei giunta,
e le frodi non sai di questa iniqua
schiatta di
Laomedonte. E poi, che fia
per questo? Deggio sola in compagnia
di
marinari andar femina errante?
o condur meco i miei Fenici tutti
con
altra armata? e trarli un'altra volta
d'un'altra patria in mare, in preda a'
vènti
senz'alcun pro, senza cagione alcuna,
quando anco a pena di Sidon
gli trassi
per ritôrli da man d'empio tiranno?
Ah! muor piú tosto, come
degnamente
hai meritato; e pon col ferro fine
al tuo grave dolore. Ah,
mia sorella!
tu sei prima cagion di tanto male;
tu, vinta dal mio
pianto, in quest'angoscia
m'hai posta, e data ad un nemico in preda;
ché
dovea vita solitaria e fera
menar piú tosto, che commetter fallo
sí
dannoso e sí grave, e romper fede
al cener di Sichèo». Questi lamenti
uscian del petto a l'affannata Dido;
quando già di partir fermo e parato
Enea, per riposar pria che sciogliesse,
s'era a dormir sopra la poppa
agiato.
Ed ecco un'altra volta in sogno, avanti
del medesmo celeste
messaggiero
gli appar l'imago, con quel volto stesso,
con quel color,
con quella chioma d'oro
con che lo vide pria giovane e bello;
e da la
stessa voce udir gli parve:
«Tu corri, Enea, sí gran fortuna, e dormi?
Non senti qual ti spira aura seconda?
Dido cose nefande ordisce ed osa
certa già di morire, e d'ira accesa
a dire imprese è vòlta; e tu non
fuggi,
mentre fuggir ti lece? A mano a mano
di legni travagliar vedrassi
il mare,
di fochi il lito, e di furor le genti
incontra a te, se tu qui
'l giorno aspetti.
Via di qua tosto: da' le vele a' vènti.
Femina è cosa
mobil per natura,
e per disdegno impetuosa e fera».
E qui tacendo entrò
nel buio, e sparve.
Enea, preso da súbito spavento,
destossi, e fe'
destar la gente tutta:
«Via, compagni, - dicendo - a i banchi, e a i remi;
ch'or d'altro uopo ne fa che di riposo.
Fate vela, sciogliete: ché di
nuovo
precetto ne si fa dal cielo e fretta.
Ecco, qual tu ti sia, messo
celeste,
che 'l tuo detto seguiamo; e tu benigno
n'aíta e 'l cielo e 'l
mar ne rendi amico».
Ciò detto, il ferro strinse, e fulminando
del suo
legno la gómona recise.
Cosí fêr gli altri, e col medesmo ardore
tutti
insieme sciogliendo, travasando,
e spingendosi in alto, in un momento
lasciaro il lito; e 'l mar, da i legni ascoso,
si fe' per tanti remi e
tante vele
spumoso e bianco. Era vermiglio e rancio
fatto già de la
notte il bruno ammanto,
lasciando di Titon l'Aurora il letto:
quando
d'un'alta loggia la regina
tutto scoprendo, poi ch'a piene vele
vide le
frige navi irne a dilungo,
e vòti i liti, e senza ciurma il porto;
contra sé fatta ingiurïosa e fera,
il delicato petto e l'auree chiome
si percoté, si lacerò piú volte;
e 'ncontra al ciel rivolta: «Ah,
Giove!, - disse -
dunque pur se n'andrà? Dunque son io
fatta d'un
forestier ludibrio e scherno
nel regno mio? Né fia chi prenda l'armi?
Né
chi lui segua, né i suoi legni incenda?
Via tosto a le lor navi, a l'armi,
al foco;
mano a le vele, a' remi; oltre, nel mare!
Che parlo? O dove
sono? E che furore
è 'l tuo, Dido infelice? Iniquo fato,
misera, ti
persegue. Allor fu d'uopo
ciò che tu di', quando di te signore
e del tuo
regno il festi. Ecco la destra,
ecco la fede sua. Questi è quel pio
che
seco adduce i suoi patrii Penati,
e 'l vecchio padre a gli omeri s'impose.
Non potea farlo prendere e sbranarlo?
e gittarlo nel mare? ancider lui
con tutti i suoi? dilanïare il figlio,
e darlo in cibo al padre? Oh,
perigliosa
fôra stata l'impresa! E di periglio
la si fosse, e di morte;
in ogni guisa
morir dovendo, a che temere indarno?
Arsi avrei gli
steccati, incesi i legni,
occiso il padre, il figlio, il seme in tutto
di questa gente, e me spenta con loro.
Sole, a cui de' mortali ogni
opra è conta;
Ècate, che ne' trivi orribilmente
sei di notte invocata;
ultrici Furie,
spiriti inferni, e dii de l'infelice
Dido ch'a morte è
giunta, il mio non degno
caso riconoscete, e insieme udite
queste
dolenti mie parole estreme.
Se forza, se destino, se decreto
è di Giove
e del cielo, e fisso e saldo
è pur che questo iniquo in porto arrivi
e
terra acquisti; almen da fiera gente
sia combattuto, e, de' suoi fini in
bando,
da suo figlio divelto implori aiuto,
e perir veggia i suoi di
morte indegna.
Né leggi che riceva, o pace iniqua
che accetti, anco gli
giovi; né del regno,
né de la vita lungamente goda:
ma caggia anzi al
suo giorno, e ne l'arena
giaccia insepolto. Questi prieghi estremi
col
mio sangue consacro. E voi, miei Tiri,
coi discesi da voi, tenete seco
e
co' posteri suoi guerra mai sempre.
Questi doni al mio cenere mandate,
morta ch'io sia. Né mai tra queste genti
amor nasca, né pace; anzi alcun
sorga
de l'ossa mie, che di mia morte prenda
alta vendetta, e la
dardania gente
con le fiamme e col ferro assalga e spenga
ora, in futuro
e sempre; e sian le forze
a quest'animo eguali: i liti ai liti
contrari
eternamente, l'onde a l'onde,
e l'armi incontro a l'armi, e i nostri ai loro
in ogni tempo». E ciò detto, imprecando,
schiva di piú veder l'eterea
luce,
affrettò di morire. E Barce in prima
vistasi intorno, una nutrice
antica
del suo Sichèo (ché la sua propria in Tiro
era cenere già): «Cara
nutrice, -
le disse - va', mi chiama Anna mia suora,
e le di' che
solleciti, e che l'onda
del fiume e l'ostie e i suffumigi adduca,
e ciò
ch'è d'uopo, come pria le dissi,
a prepararmi: ché finire intendo
il
sacrifizio che a Plutone inferno
solennemente ho di già fare impreso,
per fine imporre a' miei gravi martiri,
e dar foco a la pira, ov'è
l'imago
di quell'empio Troiano». A tal precetto
mossa la vecchiarella, a
suo potere
lentamente affrettossi ad eseguirlo.
Dido nel suo pensiero
immane e fiero
fieramente ostinata, in atto prima
di paventosa, poi di
sangue infetta
le torve luci, di pallore il volto,
e tutta di color di
morte aspersa,
se n'entrò furïosa ove secreto
era il suo rogo a l'aura
apparecchiato.
Sopra vi salse; e la dardania spada,
ch'ebbe da lui non a
tal uso in dono,
distrinse: e rimirando i frigi arnesi
e 'l noto letto,
poich'in sé raccolta
lagrimando e pensando alquanto stette,
sopra vi
s'inchinò col ferro al petto,
e mandò fuor quest'ultime parole:
«Spoglie, mentre al ciel piacque, amate e care
a voi rendo io
quest'anima dolente.
Voi l'accogliete: e voi di questa angoscia
mi
liberate. Ecco, io son giunta al fine
de la mia vita, e di mia sorte il
corso
ho già compito. Or la mia grande imago
n'andrà sotterra: e qui di
me che lascio?
Fondata ho pur questa mia nobil terra;
viste ho pur le
mie mura; ho vendicato
il mio consorte; ho castigato il fiero
mio nimico
fratello. Ah, che felice,
felice assai morrei, se a questa spiaggia
giunte non fosser mai vele troiane!»
E qui su 'l letto abbandonossi, e
'l volto
vi tenne impresso; indi soggiunse: «Adunque
morrò senza
vendetta? Eh, che si muoia,
comunque sia. Cosí, cosí mi giova
girne tra
l'ombre inferne: e poi ch'il crudo,
mentre meco era, il mio foco non vide,
veggalo di lontano; e 'l tristo augurio
de la mia morte almen seco ne
porte».
Avea ciò detto, quando le ministre
la vider sopra al ferro il
petto infissa,
col ferro e con le man di sangue intrise
spumante e
caldo. In pianti, in ululati
di donne in un momento si converse
la
reggia tutta, e 'nsino al ciel n'andaro
voci alte e fioche, e suon di man
con elle.
N'andò per la città grido e tumulto,
come se presa da' nemici
a forza
fosse Tiro, o Cartago arsa e distrutta.
Anna, tosto ch'udillo,
il volto e 'l petto
battessi e lacerossi; e fra la gente
verso la
moribonda sua sorella,
stridendo, e 'l nome suo gridando corse:
«E per
questo, - dicea - suora, son io
da te cosí tradita? Io t'ho per questo
la pira e l'are e 'l foco apparecchiato?
Deserta me! Di che dorrommi in
prima?
Perché, morir dovendo, una tua suora
per compagna rifiuti? E
perché teco,
lassa! non m'invitasti? Ch'un dolore,
un ferro, un'ora
stessa ambe n'avrebbe
tolte d'affanno. Ohimé! con le mie mani
t'ho posto
il rogo. Ohimé! con la mia voce
ho gli dèi de la patria a ciò chiamati.
Tutto, folle! ho fatt'io, perché tu muoia,
perch'io nel tuo morir teco
non sia.
Con te, me, questo popol, questa terra
e 'l sidonio senato hai,
suora, estinto.
Or mi date che 'l corpo omai componga,
che lavi la
ferita, che raccolga
con le mie labbia il suo spirito estremo,
se piú
spirto le resta». E, ciò dicendo,
già de la pira era salita in cima.
Ivi
lei che spirava in seno accolta,
la sanguinosa piaga, lagrimando,
con le
sue vesti le rasciuga e terge.
Ella talor, le gravi luci alzando,
la
mira a pena, che di nuovo a forza
morte le chiude; e la ferita intanto
sangue e fiato spargendo anela e stride.
Tre volte sopra il cubito
risorse:
tre volte cadde, ed a la terza giacque:
e gli occhi vòlti al
ciel, quasi cercando
veder la luce, poiché vista l'ebbe,
ne sospirò. De
l'affannosa morte
fatta Giuno pietosa, Iri dal cielo
mandò, che 'l
groppo disciogliesse tosto,
che la tenea, malgrado anco di morte,
col
suo mortal sí strettamente avvinta;
ch'anzi tempo morendo, e non dal fato,
ma dal furore ancisa, non le avea
Prosèrpina divelto anco il fatale
suo dorato capello; né dannata
era ancor la sua testa a l'Orco inferno.
Ratto spiegò la rugiadosa dea
le sue penne dorate, e 'ncontra al sole
di quei tanti suoi lucidi colori
lunga striscia traendo; indi sospesa
sopra al capo le stette, e d'oro un filo
ne svelse e disse: «Io qui dal
ciel mandata
questo a Pluto consacro, e te disciolgo
da le tue membra».
Ciò dicendo, sparve.
Ed ella, in aura il suo spirto converso,
restò
senza calore e senza vita.
Libro
V
Intanto
Enea, spinto dal vento in alto,
veleggiava a dilungo; e pur con gli occhi,
da la forza d'amor rivolto indietro,
rimirava a Cartago. Ardea la pira
già d'Elisa infelice; e le sue fiamme
raggiavan di lontan gran luce
intorno.
La cagion non sapea; ma la temenza
lo rimordea del vïolato
amore,
e 'l saper quel che puote e quel che ardisce
femina furïosa; e 'l
tristo augurio
del foco, che lugúbre era e funesto,
lo tenea con lo
stuol de' Teucri tutti
disanimato e mesto. Eran di vista
già de la terra
usciti, e cielo ed acqua
apparian solamente d'ogn'intorno,
allor ch'un
denso e procelloso nembo
si fe' lor sopra; onde tempesta e notte
surse
repente, e Palinuro stesso
da l'alta poppa il ciel mirando: «Oh! - disse -
che fia con tante intorno accolte nubi?
E che pensi e che fai, padre
Nettuno?»
Indi cornanda: «Via, compagni, armiamci,
opriamo i remi,
accomodiam le vele,
tegniamo al vento avverso obliquo il seno».
E
rivolto ad Enea: «Con questo cielo,
signor, - diss'egli - ormai piú non
m'affido
prender Italia, ancor che Giove stesso
nel promettesse, ed ei
nocchier ne fosse.
Vedi il vento mutato, vedi il mare
di vèr ponente,
che s'annera e gonfia:
vedi nel ciel qual ne s'accampa stuolo
di folte
nubi. Traversia di certo
n'assalirà sí che né girle incontro,
né durar
la potremo. Or poi ch'a forza
cosí ne spinge, noi per nostro scampo
assecondiamla; ché già presso i porti
ne son de la Sicilia e 'l fido
ospizio
d'Èrice tuo fratello, s'abbastanza
de l'arte mi rammento e de le
stelle».
Rispose Enea: «Ben conosch'io che duro
è 'l contrasto de'
vènti; e 'l nostro è vano.
Volgi le vele. E qual piú grata altrove,
o
piú commoda riva, o piú sicura
aver mai ponno le mie stanche navi,
di
quella che ne serba il caro Aceste,
e l'ossa accoglie del buon padre mio?»
Cosí, vòlti a levante, e preso in poppa
il vento e 'l flutto, a tutta
vela il golfo
correndo, fûr subitamente a proda
de l'amica riviera. Avea
di cima
visto d'un monte il cacciatore Aceste
venir la frigia armata:
onde in un tempo
fu con essi a la riva; e rincontrolli
allegramente, sí
com'era incolto,
di dardi armato e d'irta pelle cinto
di libic'orso,
umano insieme e rozzo,
de la troiana Egesta e di Criniso
fiume onorato
figlio. Ei degli antichi
suoi parenti membrando, con gioioso
volto, se
ben con rustico apparecchio,
gl'invita, gli riceve e gli consola.
Era
de l'altro dí l'aurora e 'l sole
già fuor de l'onde, allor che 'l frigio
duce,
convocati i suoi tutti, alto in un greppo
posto in mezzo di lor
cosí lor disse:
«Generosi e magnanimi Troiani,
degna prole di Dardano
e del cielo,
questa è l'amica terra, ove oggi è l'anno
ch'a le sante
ossa del mio padre Anchise
demmo requie e sepolcro, e i mesti altari
gli
consecrammo. Oggi è, s'io non m'inganno,
quel sempre acerbo ed onorato
giorno,
ché onorato ed acerbo mi fia sempre
(poi che sí piacque a dio),
quantunque ovunque
questo esiglio infelice mi trasporti:
pongami ne
l'arene e ne le secche
de la Getulia; spingami agli scogli
del mar di
Grecia; ne la Grecia stessa
mi chiugga, e dentro al cerchio di Micene;
ch'io l'arò sempre per solenne, e vóti
farogli ogni anno e sacrifici e
ludi.
Or poi che da' celesti, oltre ogni avviso
nostro, tra' nostri
siamo in pruova addotti
per onorar le sue ceneri sante,
onoriamle,
adoriamle, e dal suo nume
imploriamo devoti amici i vènti,
e stabil
seggio, ove gli s'erga un tempio,
in cui sian quest'esequie e questi onori
rinnovellati eternamente ogni anno.
Due pingui buoi per ciascun nostro
legno
vi profferisce il buon troiano Aceste.
Voi d'Aceste e di Troia i
patri numi
ne convitate; ed io, quando l'Aurora
tranquillo e queto il
nono giorno adduca,
a' solenni spettacoli v'invito
di navi, di pedoni e
di cavalli,
al corso, a la palestra, al cesto, a l'arco.
Ognun vi si
prepari, ognun ne speri
degna del suo valor mercede e palma.
E voi
datevi assenso, e tutti insieme
v'inghirlandate». E, ciò dicendo, il primo
del suo mirto materno il crin si cinse.
Èlimo lo seguí, seguillo Alete,
un di verd'anni e l'altro di maturi;
poscia il fanciullo Iulo; e dietro
a loro
d'ogni età gli altri tutti. Enea disceso
dal parlamento, in mezzo
a quante intorno
avea schiere di genti, umile e mesto
al sepolcro
d'Anchise appresentossi:
e con rito solenne in terra sparte
due gran
coppe di vino e due di latte
e due di sangue, di purpurei fiori
vi
nevigò di sopra un nembo, e disse:
«A voi sant'ossa, a voi ceneri amate
e famose e felici, anima ed ombra
del padre mio, torno di nuovo indarno
per onorarvi; poi che Italia e 'l Tebro
(se pur Tebro è per noi) ne si
contende.
Or, quel ch'io posso con devoto affetto
v'adoro e 'nchino come
cosa santa».
Mentre cosí dicea, di sotto al cavo
de l'alto avello un
gran lubrico serpe
uscio placidamente; e sette volte
con sette giri al
tumulo s'avvolse.
Indi, strisciando infra gli altari e i vasi,
le
vivande lambendo, in dolce guisa,
con le cerulee sue squamose terga
sen
gio divincolando, e quasi un'Iri
a sole avverso scintillò d'intorno
mille vari color di luce e d'oro.
Stupissi Enea di cotal vista; e
l'angue
di lungo tratto infra le mense e l'are,
ond'era uscito alfin si
ricondusse.
Rinnovellò gl'incominciati onori
il frigio duce, del
serpente incerto,
se del loco era il genio, o pur del padre
sergente o
messo. E com'era uso antico,
cinque pecore elette e cinque porci,
con
cinque di morello il tergo aspersi
grassi giovenchi anzi a la tomba occise,
nuove tazze versando, e nuovamente
fin d'Acheronte richiamando il nome
e l'anima d'Anchise. Indi i compagni,
ciascun secondo la sua possa
offrendo,
lieti colmâr di doni i santi altari:
altri di lor le vittime
immolaro;
altri cibi ne fêro; e tutti insieme
sul verde prato a convivar
si diêro.
Era già 'l nono destinato giorno
sereno e lieto a l'orïente
apparso,
e già la vaga fama e 'l chiaro nome
avea d'Aceste convocati
intorno
i vicin tutti, e pieni erano i liti
di gente, cui traea parte
vaghezza
di vedere i Troiani, e parte ardire
di provarsi con loro. In
prima esposti
con pompa riguardevole e solenne
furo in mezzo del circo
armi indorate,
purpuree vesti, e tripodi e corone,
e piú guise d'arnesi
e di monete,
d'argento e d'oro, e palme ed altri premi
di vincitori.
Indi sonora tromba
d'alto diè segno ai desïati ludi,
e dal mar
cominciossi. Avean di tutta
la teucra armata quattro legni scelti
piú di
remi e di rémigi guarniti,
e di tutti piú destri. Un fu la Pistri,
e
Memmo la reggea: Memmo che poi
l'Italo fu nomato, e diede il nome
a la
stirpe de' Memmi. La Chimera
fu l'altro, a cui preposto era il gran Gía,
un gran vascello che a tre palchi avea
disposti i remi; e i remiganti
tutti
eran troiani e giovani e robusti.
Fu 'l gran Centauro il terzo; e
di quest'era
Sergesto il capo, che a la Sergia prole
diede principio.
L'ultimo, la Scilla
guidata da Cloanto, onde i Cluenti
trasser nome e
legnaggio. È lunge incontra
a la spumosa riva un basso scoglio
che da'
flutti percosso, è talor tutto
inondato e sommerso. Il verno i vènti
vi
tendon sopra un nubiloso velo
che ricuopre le stelle, e quando è il tempo
tranquillo, ha ne l'asciutto una pianura
ch'è di marini uccelli aprica
stanza.
Qui d'un elce frondoso il segno pose
il padre Enea, fin dove
il corso avanti
stender pria si dovesse, e poi dar volta.
Indi, sortiti
i luoghi, al suo ciascuno
si pose in fila. I capitani in poppa
addobbati
di bisso e d'ostro e d'oro,
risplendean di lontano; e gli altri tutti
d'una livrea di pioppo incoronati
stavano con le terga ignudi ed unti,
sí che tra l'olio e 'l sol lumiere e specchi
parean da lunge. E già ne'
banchi assisi,
tese a' remi le braccia, al suon l'orecchie,
aspettavano
il segno. I cori intanto
palpitando movea disio d'onore
e timor di
vergogna. Avea la tromba
squillato appena, che in un tempo i remi
si
tuffâr tutti, e tutti i legni insieme
si spiccâr da le mosse. I gridi al
cielo
n'andâr de' marinari. Il mar di schiuma
s'asperse intorno; e 'n
quattro solchi eguali
fu con molto stridor da' rostri aperto,
e da' remi
stracciato. Impeto pari
non fêr nel Circo mai bighe o quadrighe
da le
carceri uscendo, allor ch'a sciolte
ed ondeggianti redini gli aurighi
ai
volanti destrier sferzan le terga.
Le grida, il plauso, il fremito e le
voci,
in favore or di questi ed or di quelli,
tra i curvi liti avvolte,
e da le selve
e da' colli riprese e ripercosse,
facean l'aria intonar
fino a le stelle.
Nel primo uscire, il primo avanti a tutti
si vide
Gía, mentre la gente freme;
e dopo lui Cloanto, che de' remi
migliore
assai, per la gravezza indietro
rimanea del suo legno. Indi del pari,
o
di poco infra loro avean contesa
il Centauro e la Pistri; e quando questa,
quando quello era avanti; e quando entrambi
or le fronti avean giunte ed
or le code.
Eran del sasso già presso a la mèta
e di buon tratto
vincitore avanti
Gía se ne gía, quand'ei sen vide in alto
da la ripa piú
lunge; onde rivolto
al suo nocchiero: «E dove - disse - andrai,
Menete?
Attienti al lito e radi il sasso:
vadano gli altri in alto». Ei tuttavia
d'urtar temendo, in pelago si mise;
e Gía di nuovo: «In qua, Menete, al
sasso,
al sasso, a la sinistra, a la sinistra!»
dicea gridando; e vòlto
indietro, vide
ch'avea Cloanto addosso. Era Cloanto
già tra lo scoglio e
la Chimera entrato;
e via radendo la sinistra riva,
tenne giro sí breve
e sí propinquo,
che lui tosto e la mèta anco varcando,
si vide avanti il
mare ampio e sicuro.
Grand'ira, gran dolore e gran vergogna
ne sentí 'l
fiero giovine; e piangendo
di stizza, e non mirando il suo decoro,
né
che Menete del suo legno seco
fosse guida e salute, in mezzo il prese,
e
da la poppa in mar lunge avventollo.
Poscia, ei nocchiero e capitano insieme
diè di piglio al timone e, rincorando
i suoi compagni, al sasso lo
rivolse.
Menete, che di veste era gravato,
e via piú d'anni, infino a
l'imo fondo
ricevé 'l tuffo; e risorgendo a pena
rampicossi a lo
scoglio, e sí com'era
molle e guazzoso, de la rupe in cima
qual bagnato
mastino al sol si scosse.
Rise tutta la gente al suo cadere;
rise al
notare: e piú rise anco allora
che'a flutti vomitar gli vide il mare.
Memmo intanto e Sergesto, che del pari
erano addietro, parimente accesi,
su l'indugio di Gía preser baldanza.
Sergesto in vèr lo scoglio avea 'l
vantaggio
del primo loco; ma non tutto ancora
era il suo legno avanti,
che la Pistri
premea col rostro del Centauro il fianco.
E Memmo,
confortando i suoi compagni,
e 'n su e 'n giú per la corsia gridando:
«Via fratelli, - dicea - via degni alunni
d'Ettore invitto, via! compagni
eletti
al grand'uopo di Troia. Ora è mestiero
de' remi, de le forze e
del coraggio,
ch'a le Sirti, a Cariddi, a la Malèa
mostraste già. Non
piú vincer contendo,
che pur dovrei, se pur Memmo son io:
vinca cui ciò
da te, Nettuno, è dato.
Ma ch'ultimi arriviamo, ah! non, fratelli,
questa vergogna; e ciò vincasi almeno
che di tanto rossor tinti non
siamo».
A cotal dir tutti insorgendo, a gara
steser le braccia, ed
inarcaro i dorsi,
e fêr per avanzarsi estremo sforzo.
Tremava a i colpi
il ben ferrato legno;
fuggia di sotto il mare: ansando i rémigi
aprian
l'asciutte bocche; e spesso i fianchi
battendo, a gronde di sudor colavano.
Diè lor fortuna il desïato onore:
ché, mentre furïoso oltre si spinge
Sergesto, e con la prora arditamente
rade la ripa, ebbe il meschino
intoppo,
urtando de lo scoglio in una roccia
che nel mar si sporgea.
Scheggiossi il sasso:
fiaccârsi i remi: si scoscese il rostro;
e d'un
lato pendente e scossa tutta
tremò la nave, e scompigliossi, e stette.
I
remiganti attoniti, con gridi,
con ferrate aste, con tridenti e pali
stavan pingendo e puntellando il legno,
e ripescando i remi. Intanto
allegro,
e del successo coraggioso e baldo
Memmo ratto s'avanza, e vince
il sasso;
e via vogando ed invocando i vènti
fende a la china ed a
l'aperto il mare.
Qual d'una grotta, ov'aggia i dolci figli
e 'l caro
nido, spaventata in prima
da súbito schiamazzo esce rombando
ed
arrostando una colomba a l'aura;
che poi, giunta ne' campi, a l'aer queto
quetamente per via dritta e sicura
sen va con l'ali immobili e veloci;
cosí la Pistri pria travolta e vaga
venia da sezzo; indi affilata e
stretta
passò prima Sergesto che nel sasso,
come da vischio rattenuto
augello
e spennacchiato, i suoi spezzati remi
dibattendo, chiedea
soccorso invano;
poscia, spingendo, la Chimera aggiunse
e trapassolla:
ché la sua gran mole
e 'l perduto nocchier la fea piú tarda.
Sol
restava Cloanto: e verso lui
affilandosi, al fin quasi del corso
con
ogni sforzo il segue, e già l'incalza.
Levossi al cielo un'altra volta il
grido
del favor che facea la gente tutta,
perché i secondi divenisser
primi.
Quelli caccia lo sdegno e la vergogna
di non tener il conseguito
onore,
ché la gloria antepongono a la vita;
questi il successo inanima e
la speme
di ciò poter; poich'altrui par che possano.
S'eran già presso
e, pareggiati i rostri,
del pari i premi avrian forse ottenuti,
se non
ch'ambe le mani al cielo alzando,
cotal fece a gli dèi Cloanto un vóto:
«Santi numi del pelago ch'io corro,
se 'l corso agevolate al legno
mio,
nel medesimo lito un bianco toro
lieto consacrerovvi e de l'opime
sue viscere, e di vin limpido e puro
l'arena spargerovvi e l'onde
salse».
Furon da l'imo fondo i preghi uditi
del buon Cloanto da la
schiera tutta
de le ninfe di Nerëo e di Forco,
e da la Panopèa vergine
intatta:
e 'l gran padre Portunno di sua mano
gli spinse il legno; onde,
qual vento o strale,
lanciossi a terra, e si scagliò nel porto.
Il
padre Enea (com'è costume) avanti
convocati a sé tutti, a suon di tromba
dichiarò vincitor Cloanto il primo,
e le tempie di lauro incoronogli.
Poscia a ciascuna de le navi in dono
diè tre grassi giovenchi, e tre
grand'urne
di prezïoso vino, e di contanti
un gran talento. Ornò di
maggior doni
i primi condottieri. Al vincitore
presentò di broccato un
ricco arnese,
che d'ostro a' groppi sopra l'oro avea
doppio un lavoro di
ricamo e d'ago.
Nel mezzo entro al frondoso bosco idèo
un real
giovinetto era tessuto,
ch'anelo e fiero con un dardo in mano
seguia per
la foresta i cervi in caccia;
e poco indi lontano un'altra volta
era il
medesmo da l'uccel di Giove
rapito in alto; e i suoi vecchi custodi
e i
fidi cani lo miravan sotto,
quegli indarno le mani al cielo alzando,
e
questi il muso, ed abbaiando a l'aura.
A l'altro poi, che, per valore il
primo,
fu per sorte secondo, in premio diede
per ornamento e per difesa
in arme
una lorica che d'antica maglia
e di lucente e rinterzato
acciaro,
di massiccio oro avea le fibbie e gli orli.
Questa di Simoenta
in su la riva
sotto l'alto Ilio, e di sua propria mano
tolse al vinto
Demòleo. Era sí grave,
che da Fegèo e da Sàgari, due forti
e robusti
sergenti, ivi condotta
era stata a gran pena; e pur indosso
l'avea
Demòleo il dí che combattendo
mise in quella riviera i Teucri in volta.
I terzi doni due gran nappi fôro
di forbito metallo, e due gran coppe,
di puro argento figurate intorno
con mirabile intaglio. E già donati,
e de' lor doni altieri e festeggianti
se ne gian tutti di purpuree bende
le tempie avvinti, e di lentischio adorni;
quando ecco da lo scoglio con
grand'arte
e con molta fatica appena svelto
Sergesto, col suo legno
infranto e monco
e tarpato de' remi, in vèr la terra
se ne venia
disonorato e mesto.
Com'angue suol, ch'o sia da ruota oppresso
tra la
ripa e 'l sentiero, o sia di sasso
dal vïator percosso o di randello,
procacciando fuggir, con lunghe spire
s'arrosta indarno, e inalberato e
fiero
dal mezzo in suso arde negli occhi e fischia:
e d'altra parte
dilombato e tardo
debilmente guizzando, in se medesmo
si ripiega,
s'attorce e si raggroppa:
cosí co' remi la fiaccata nave
se ne gia
lenta, e con le vele a volo,
ch'a piene vele alfine in porto aggiunse.
Ed a Sergesto anco i suoi doni assegna
il padre Enea, di ricovrar contento
il suo buon legno e i suoi fidi compagni,
e furo i doni una Cretese
ancella,
Fòloe di nome, e di telaro e d'ago
maestra esperta e da Minerva
instrutta,
giovine e bella, e con due figli al petto.
Questo primo
spettacolo compito,
Enea per gli altri una pianura elegge
che di teatro
in guisa d'ogn'intorno
ha selve e colli, ed un gran circo avanti,
ove in
un palco alteramente estrutto
tra molti mila collocossi in mezzo.
Qui
prima al corso i corridori invita
con prezïosi premi, e i premi espone;
e de' Teucri e de' Sicoli mostrârsi
i piú famosi. Appresentossi in prima
Eurïalo con Niso. Un giovinetto
di singolar bellezza Eurïalo era;
e
Niso un di lui fido e casto amante.
dopo questi Dïòro. Era costui
del
legnaggio di Prïamo un rampollo,
giovine generoso; e Sàlio e Patro
vennero appresso: d'Acarnania l'uno,
d'Arcadia I'altro e del tegèo
paese:
e due Sicilïani, Èlimo e Pànope,
ambedue cacciatori, ambi seguaci
del vecchio Aceste; e con questi, altri assai
d'oscura nominanza. A cui
nel mezzo
stando il gran padre Enea, cosí ragiona:
«Nissun da me di
questa schiera eletta
andrà senza mie' doni, e parimente
una coppia di
dardi avrà ciascuno
di rilucente acciaro, ed una d'oro
e d'argento
commesso a l'arabesca
non piú vista bipenne. I principali
tre vincitori
i primi pregi avranno,
e fian tutti d'oliva incoronati.
E 'l primiero
de' tre d'un buon destriero
sarà provvisto ben guarnito e bello.
L'altro
avrà d'un'Amazzone un turcasso
pien di tracie saette, un arco d'osso,
ed
un bel cinto, a cui sono ambi appesi,
c'han di gemme il fermaglio e d'òr la
fibbia.
Il terzo d'un'argolica celata
se ne vada contento; e sarà
questa».
Ciò detto, e presi i luoghi, e 'l segno dato
s'avventâr da la
sbarra: e quasi un nembo
l'un da l'altro dispersi, insieme tutti
volâr,
mirando al fine. Il primo avanti
si tragge Niso, e di gran lunga avanti:
ché va di vento e di saetta in guisa.
Prossimo a lui, ma prossimo d'un
tratto
molto lontano, è Salio. A Salio, Eurïalo;
Eurïalo ha di poco
Èlimo addietro;
ad Èlimo Dïòro appresso tanto
che già sopra gli anela e
già l'incalza;
e se 'l corso durava, anco l'arebbe
o prevenuto o
pareggiato almeno.
Eran presso a la mèta, ed eran lassi,
quando ne
l'erba, pria di sangue intrisa
degli occisi giovenchi, il piè fermando
sinistramente e sdrucciolando a terra
cadde Niso infelice, e 'l volto
impresse
nel sacro loto, sí che gramo e sozzo
ne surse poi. Ma del suo
amore intanto
non obliossi: ché sorgendo, intoppo
si fece a Salio; onde
con esso avvolto
stramazzò ne l'arena: e mentre ei giacque,
Eurïalo del
danno e del favore
s'avanzò de l'amico, e de le grida,
con che gli diêr
le genti animo e forza:
ond'ei fu 'l primo, ed Èlimo il secondo;
Dïòro
il terzo. E tal fin ebbe il corso.
Ma di rumor se n'empie e di tenzone
il circo tutto; e Salio anzi il cospetto
de' giudici e de' padri or si
protesta,
or detesta, or esclama; e del tradito
suo valor si rammarca, e
ragion chiede.
In difesa d'Eurïalo a rincontro,
è il favor de la gente,
e quel decoro
suo dolce lagrimare, e quell'invitta
forza c'ha la vertú
con beltà mista.
Grida Dïòro anch'egli, e lui sovviene,
e se stesso
difende, poi ch'il terzo
essere non può quando sia Salio il primo.
Enea cosí decise: «Aggiate voi,
generosi garzoni, i pregi vostri;
e
nulla in ciò de l'ordine si muti:
ch'io supplirò con degna ammenda al caso,
ond'ha fortuna indegnamente afflitto
l'amico mio». Ciò detto, una gran
pelle
presenta a Salio d'un leon getúlo,
c'ha il tergo irto di velli e
l'unghie d'oro.
E qui Niso: «O signor, - disse, - di tanto
guiderdonate
i perditori, e tale
di chi cade pietà vi prende; ed io
di pietà non son
degno né di pregio,
io che son di fortuna a Salio eguale,
e di valore a
tutti gli altri avanti?»
E ciò dicendo, sanguinoso il volto
e livido
mostrossi e lordo tutto.
Rise il buon padre Enea, poscia un pregiato
e
degno scudo, ch'a le porte appeso
era già di Nettuno, ed ei riscosso
l'avea da' Greci, con mirabil arte
dal saggio Didimàone construtto,
venir tosto si fece, e Niso armonne.
Finiti i corsi e dispensati i
doni,
«Or - disse Enea - qual sia che vaglia ed osi
di forza e
d'ardimento, al cesto invito.
Chïunque accetta, col suo braccio in alto
si mostri accinto». E ciò dicendo, in mezzo
propon due pregi: al
vincitore un toro
di bende il tergo adorno e d'òr le corna:
un elmo ed
un cimiero ed una spada
per conforto del vinto. Incontinente
uscio
Darete poderoso in campo,
e con gran plauso si mostrò del volgo.
Era
Darete un, che, di forze estreme,
fu solo ardito a star con Pari a fronte,
e che a la tomba del famoso Ettorre
in su l'arena il gran Bute distese:
e fu Bute un atleta, anzi un colosso,
di corpo immane, che in Bebrizia
nato,
d'Àmico si vantava esser disceso.
Per tal da tutti avuto, e tal
comparso
in su la lizza, altero ed orgoglioso
squassò la testa: e, i
grandi omeri ignudo,
le muscolose braccia e 'l corpo tutto
brandí piú
volte, e menò colpi a l'aura.
Cercossi un pari a lui, né fu fra tanti
chi rispondesse, o che di cesto armato
s'appresentasse. Ond'ei lieto e
sicuro,
come d'ogni tenzon libero fosse,
al toro avvicinossi, e 'l
destro corno
con la sinistra sua gli prese, e disse:
«Signor, poiché non
è chi meco ardisca
di stare a prova, a che piú bado? e quanto
badar piú
deggio? Or di' che 'l pregio è mio
perch'io meco l'adduca». A ciò fremendo
assentirono i Teucri; e già co' gridi
de l'onor lo facean degno e del
dono;
quando verso d'Entello il vecchio Aceste,
sí com'egli era in un
cespuglio a canto,
si volse: e rampognando: «Ah, - disse - Entello,
tu
sei pur fra gli eroi de' nostri tempi
il piú noto e 'l piú forte; e come
soffri
ch'un sí gradito pregio or ti si tolga
senza contesa? Adunque è
stato invano
fin qui da noi rammemorato e cólto
Èrice, in ciò nostro
maestro e dio?
Ov'è la fama tua che ancor si spande
per la Trinacria
tutta? Ove son tante
appese a i palchi tue famose spoglie?»
Rispose
Entello: «Né disio d'onore,
né vaghezza di gloria unqua, signore,
mi
lasciâr mai, né mai viltà mi prese;
ma l'incarco de gli anni, il freddo
sangue,
e la scemata mia destrezza e forza
mi ritraggono addietro. Io
quando avessi
o men quei giorni, o non men quel vigore
onde costui di sé
tanto presume,
già per diletto mio seco a le mani
sarei venuto, e non
dal premio indotto,
ché premio non ne chero. E pur qui sono».
Disse, e
sorgendo, due gran cesti e gravi
gittò nel campo, e quelli stessi, ond'era
solito a le sue pugne Èrice armarsi.
Stupîr tutti a quell'armi che di
sette
dorsi di sette buoi, di grave piombo
e di rigido ferro eran
conserti.
Stupí Darete in prima, e ricusolle
a viso aperto: onde
d'Anchise il figlio
le prese avanti, e i lor volumi e 'l pondo
stava
mirando, quando il vecchio Entello
cosí soggiunse: «Or che diria costui
se visto avesse i cesti e l'armi stesse
d'Ercole invitto, e l'infelice
pugna,
onde in su questo lito Èrice cadde?
D'Èrice tuo fratello eran
quest'armi.
Vedi che sono ancor di sangue infette
e d'umane cervella. Il
grande Alcide
con queste Èrice assalse: e con quest'io
m'esercitai,
mentre le forze e gli anni
eran piú verdi, e non canuti i crini.
Ma
poscia che Darete or le rifiuta,
se piace a te, se mel consente Aceste
per cui son qui, di ciò, Troiano ardito,
non vo' che ti sgomenti. Io mi
rimetto,
e cedo a queste; e tu cedi a le tue:
combattiam con altr'armi e
siam del pari».
Cosí detto spogliossi; e sí com'era
de le braccia, de
gli omeri e del collo
e di tutte le membra e d'ossa immane,
quasi un
pilastro in su l'arena stette.
Allora Enea fece due cesti addurre
d'ugual peso e grandezza; ed egualmente
ne fûro armati. In prima su le
punte
de' piè l'un contra l'altro si levaro:
brandîr le braccia;
ritirârsi in dietro
con le teste alte: in guardia si posaro
or questi,
or quelli: al fine ambi ristretti
mischiâr le mani, ed a ferir si diêro.
Era giovine l'uno, agile e destro
in su le gambe: era membruto e vasto
l'altro, ma fiacco in su' ginocchi e lento,
e per lentezza (il fiato
ansio scotendo
le gravi membra e l'affannata lena)
palpitando anelava.
In molte guise
in van pria si tentaro, e molte volte
s'avvisâr,
s'accennaro e s'investiro.
A le piene percosse un suon s'udia
de' cavi
fianchi, un rintonar di petti,
un crosciar di mascelle orrendo e fiero.
Cadean le pugna a nembi, e vèr le tempie
miravan la piú parte; e s'eran
vòte,
rombi facean per l'aria e fischi e vento.
Stava Entello fondato;
e quasi immoto,
poco de la persona, assai de gli occhi
si valea per suo
schermo. A cui Darete
girava intorno, qual chi ròcca oppugna,
quantunque
indarno, che per ogni via
con ogni arte la stringe e la combatte.
Alzò
la destra Entello, ed in un colpo
tutto s'abbandonò contro Darete;
ed
ei, che lo previde, accorto e presto
con un salto schivollo: onde ne l'aura
percosse a vôto, e dal suo pondo stesso
e da l'impeto tratto, a terra
cadde.
Tal un alto, ramoso, antico pino
carco de' gravi suoi pomi si
svelle
d'un cavo greppo, e con la sua ruina
d'Ida una parte, o
d'Erimanto ingombra.
Allor gridò, gioí, temé la gente,
si com'eran de'
Siculi e de' Teucri
gli animi e i vóti a i due compagni affetti.
Le
grida al ciel ne giro. Aceste il primo
corse per sollevare il vecchio amico;
ma né dal caso ritardato Entello,
né da téma sorpreso, in un baleno
risurse e piú spedito e piú feroce;
ché l'ira, la vergogna e la memoria
del passato valor forza gli accrebbe.
Tornò sopra a Darete, e per lo
campo
tutto a forza di colpi orrendi e spessi
lo mise in volta, or con
la destra in alto,
or con la manca, senza posa mai
dargli, né spazio di
fuggirlo almeno.
Non con sí folta grandine percuote
oscuro nembo de'
villaggi i tetti,
come con infiniti colpi e fieri
sopra Darete
riversossi Entello.
Allor il padre Enea, l'un ritogliendo
da maggior
ira, e l'altro da stanchezza
e da periglio, entrò nel mezzo; e prima
fermato Entello, a consolar Darete
si rivolse dicendo: «E che follia
ti spinge a ciò? Non vedi a cui contrasti?
Non senti e le sue forze e i
numi avversi?
Cedi a dio, cedi». E, cosí detto, impose
fine a l'assalto.
I suoi fidi compagni
cosí com'era afflitto, infranto e lasso,
col capo
spenzolato, e con la bocca
che sangue insieme vomitava e denti,
lo
portaro a le navi; e fu lor dato
l'elmo, il cimiero e la promessa spada.
Rimase al vincitor la palma e 'l toro,
di che lieto e superbo: «O de la
dea -
disse - famoso figlio, e voi Troiani,
quinci vedete qual ne' miei
verd'anni
fu la mia possa, e da qual morte aggiate
liberato Darete». E,
ciò dicendo,
recossi anzi al giovenco, e 'l duro cesto
gli vibrò fra le
corna. Al fiero colpo
s'aperse il teschio, si schiacciaron l'ossa,
schizzò 'l cervello; e 'l bue tremante e chino
si scosse, barcollò,
morto cadé.
Ed ei soggiunse: «Èrice, a te quest'alma
piú degna di morire
offrisco in vece
di quella di Darete, e vincitore
qui 'l cesto appendo,
e qui l'arte ripongo».
Immantinente Enea l'altra contesa
propon de
l'arco, e i suoi premi dichiara.
Ma l'albero condur pria de la nave
fa
di Sergesto, e ne l'arena il pianta:
suvvi una fune, e ne la fune appende
una viva colomba, e per bersaglio
la pon de le saette e degli arcieri.
Fêrsi i piú chiari avanti, e i nomi loro
del fondo si cavâr d'un elmo a
sorte.
Uscio primiero Ippocoonte, il figlio
d'Irtaco generoso, a cui con
lieto
grido la gente applause. A lui secondo
fu Memmo, che pur dianzi il
pregio ottenne
del naval corso: e Memmo, sí com'era,
di verde oliva
incoronato apparve.
Apparve Eurizio il terzo; ed era questi
minor, ma
ben di te degno fratello,
Pàndaro glorïoso, che de' Teucri
rompesti i
patti, e saettasti in mezzo
a l'oste greca il gran campione argivo.
Ultimo si restò de l'elmo in fondo
il vecchio Aceste, che sí vecchio
anch'egli
ardí di porsi a giovenil contrasto.
Tesero gli archi, e
trasser le quadrella
da le faretre. A tutti gli altri avanti
d'Irtaco il
figlio a saettare accinto
col suon del nervo e del pennuto strale
l'aura
percosse e sí dritto fendella
che l'albero investí. Tremonne il legno,
spaventossi l'augello; e d'alte grida
risonò 'l campo e la riviera
tutta.
Memmo vien dopo, e pon la mira, e scocca:
e 'l misero fra' piè
colpisce appunto
in su la corda, e ne recide il nodo.
Libera la colomba
a volo alzossi,
e per lo ciel veloce a fuggir diessi.
Eurizio allor,
ch'avea già l'arco teso
e la cocca in sul nervo, al suo fratello
votossi, e trasse; e ne le nubi stesse
(sí come lieta se ne giva e
sciolta)
la ferí sí che con lo strale a terra
cadde trafitta, e lasciò
l'alma in cielo.
Sol vi restava Aceste, a cui la palma
era già tolta:
ond'ei scoccò ne l'alto
lo strale a vòto, e la destrezza e l'arte
mostrò
nel gesto e nel sonar de l'arco.
Quinci subitamente un mostro apparve
di
meraviglia e di portento orrendo;
come si vide, e come interpretato
fu
poi da formidabili indovini.
Ché la saetta in su le nubi accesa
quanto
volò, tanto di fiamma un solco
si trasse dietro, infin ch'ella nel foco,
e 'l foco in aura dileguossi e sparve.
Tal sovente dal ciel divelta cade
notturna stella, e trascorrendo lascia
dopo sé lungo e luminoso il
crine.
A questo augurio attoniti i Sicani
e i Teucri tutti, umilemente a
terra
gittârsi, ed agli dii pace chiedero.
Solo Enea per sinistro e per
infausto
non l'ebbe; e 'l vecchio Aceste, che gioioso
era di ciò,
gioiosamente accolse,
e molti doni appresentogli, e disse:
«Prendi,
padre, da me questi che scevri
dagli altri onori a te destina il cielo
con questi auspici, e questa coppa in prima,
un de' piú cari a me
paterni arredi,
e caro e prezïoso al padre mio,
e per l'intaglio, e per
la rimembranza
del buon re Cisso, che fra gli altri doni
questo in
Tracia gli diè pegno e ricordo
de l'amor suo». Cosí dicendo, il fronte
gli ornò di verde alloro, e dichiarollo
vincitor primo. Né di ciò
sentissi
il buon Eurizio offeso, ancor ch'ei solo
fosse de la colomba il
feritore.
Di lui fu poscia il guiderdon secondo.
Chi recise la corda
ottenne il terzo:
e l'ultim'ebbe chi confisse il legno.
Non era ancor
questa contesa al fine,
quando in disparte Epítide chiamando
un che di
Iulo era custode e guida:
«Va, - gli disse a l'orecchio, - e fa che Ascanio
si spinga avanti, se le schiere in punto
ha de' fanciulli, e
ch'armeggiando onori
la memaria de l'avo». Impone intanto
che la gente
s'apparti, e il circo tutto
quanto è largo si sgombri e quant'è lungo.
Già si mettono in via; già nel cospetto
vengon de' padri i pargoletti eroi
su frenati destrier lucenti e vaghi.
Solo a veder gli abbigliamenti e i
gesti,
ne sta di Troia e di Sicilia il volgo
meraviglioso, e ne gioisce
e freme.
Parte ha di lor una ghirlanda in testa,
e sotto accolto e
raccorciato il crine:
parte ha l'arco e 'l turcasso, e d'oro un fregio
che da le spalle attraversando il petto
sen va di serpe attorcigliato in
guisa.
Eran tutti in tre schiere; avean tre duci,
e ciascun duce
conducea di loro
tre volte quattro, e 'n tre luoghi spartiti,
facean
pomposa ed ordinata mostra.
L'una de le tre schiere avea per capo
Priamo
novello, di Políte il figlio,
e di cui nome avea nipote illustre,
grand'acquisto d'Italia. Il suo destriero
era nato di Tracia d'un
mantello
vario, balzàn d'un piè, stellato in fronte.
Ati fu l'altro,
onde i Latini han dato
nome a l'Attia famiglia: un fanciul caro
al
garzonetto Iulo. Iulo il terzo,
ma di bellezza e di valore il primo,
cavalcava un corsier che sorïano
era di razza, e de la bella Dido
l'avea per un ricardo e per un pegno
de l'amor suo. Gli altri fanciulli
tutti
eran d'Aceste in su' cavalli assisi.
Con gran letizia, e con
gran plauso i Teucri
gli ricevêr come che timidetti
fossero in prima, e
le sembianze in loro
avvisaro e 'l valor de' padri stessi.
Poscia che
passeggiando al circo intorno
girârsi in lenta e grazïosa mostra,
si
disposero al corso; e mentre accolti
se ne stavano a ciò schierati in fila
da l'un de' capi, Epítide da l'altro
diè lor col suon de la sua sferza
il cenno.
Corsero a tre per tre, pari e disgiunti
l'una schiera da
l'altra, e rivolgendo
tornâr di dardi e di saette armati.
Indi a
cacciarsi, a rincontrarsi, a porsi
in varie assise, ad uno ad uno, a molti,
a tutti insieme, a far volte, rivolte,
e giri e mischie in piú modi si
diêro;
or fuggendo, or seguendo; or come infesti
or come amici. In
quante guise a zuffa
si viene in campo; in quante si discorre
per le
molte intricate e cieche strade
del labirinto che si dice in Creta
esser
costrutto; in tante s'aggiraro,
si confusero insieme, e si spartiro
de'
Teucri i figli: e tali anco i delfini
per l'Iönio scherzando o per l'Egeo
fan giravolte e scorribande e tresche.
Questi tornïamenti e queste
giostre
rinnovò poscia Ascanio, allor ch'eresse
Alba la lunga;
appresongli i Latini;
gli mantenner gli Albani; e d'Alba a Roma
fur
trasportati, e vi son oggi; e come
e l'uso e Roma e i giuochi derivati
son da' Troiani, hanno or di Troia il nome.
Questi eran fino a qui del
santo vecchio
celebrati al sepolcro onori e ludi,
allor che la fortuna
ai Teucri infida
un nuovo storpio agl'infelici ordio:
ché mentre erano
in ciò parte occupati,
e tutti intesi, la saturnia Giuno
da l'antico
odio spinta, e de' lor danni
non ancor sazia, Iri coi vènti in prima
venir si fece; e poiché instrutta l'ebbe
di ciò ch'er'uopo, a la troiana
armata
le commise ch'andasse. Ella veloce
infra mille suoi lucidi colori
occulta ed invisibile calossi.
Vide sul lito una gran gente accolta
da l'un de' lati; il porto abbandonato
da l'altro, e vòti e senza
guardia i legni.
Vide poi che da gli uomini in disparte
stavan le donne
d'Ilio, il morto Anchise
piangendo anch'esse; e ne' lor pianti il mare
mirando: «Oh - dicean tutte - ancor di tanto,
e con tanti perigli e
tanti affanni
ne resta a navigarlo, e siam già vinte
da la stanchezza!»,
in ciò desio mostrando
di ricetto e di posa, e téma e tedio
di
rimbarcarsi. Ella, che a nuocer luogo
e tempo vide accomodato ed atto,
deposto de la dea l'abito e 'l volto,
tra lor si mise, e Bèröe si fece,
una vecchia d'aspetto e d'anni grave,
che del tracio Doríclo era già
moglie,
di famiglia, di nome e di figliuoli
matrona illustre; e, tal
sembrando, disse:
«O meschinelle, a cui per man de' Greci
non fu sotto
Ilio di morir concesso,
gente infelice, a che strazio, a che scempio
la
fortuna vi serba! Ecco già volge
il settim'anno, da che Troia cadde,
che
'l mar, la terra, il ciel, gli uomini, i sassi
avete incontro; e pur Lazio
seguite
che vi fugge davanti? Or che vi toglie
di qui fermarvi? Non fûr
questi liti
d'un già frate d'Enea? Non son d'Aceste,
ospite nostro? E
perché qui non s'erge
la città che dal ciel ne si destina?
O patria! o
da' nemici invan ritolti
santi numi Penati! Invano adunque
aspetterem de
la novella Troia
le desïate mura! e non fia mai
che piú Xanto veggiamo e
Simoenta?
Su, figlie; mano al foco; e queste infauste
navi ardete con
me: ch'io da Cassandra
di cosí far son ammonita in sogno.
Ella con
un'ardente face in mano
questa notte m'apparve, e m'era avviso
d'esser,
com'or son, vosco, e ch'ella vòlta
vêr noi: "Prendete, - ne dicesse - e
Troia
cercate qui; ché qui posar v'è dato".
Or questa è nostra patria, e
questo è 'l tempo
di compir l'opra che 'l prodigio accenna.
Piú non
s'indugi. Ecco Nettuno stesso
con questi quattro a lui sacrati altari
ne
dà l'occasïon, l'animo e 'l foco».
Ciò disse; ed ella in prima un tizzo
ardente
rapí da l'are; e 'l braccio alto vibrando
via piú l'accese, e
vèr le navi il trasse.
Confuse ne restaro e stupefatte
le donne
d'Ilio; e Pirgo, una di loro
ch'era d'anni maggiore, e fu di molti
figli
del gran re Prïamo nutrice:
«Donne, - disse - non è, non è costei
né
Troiana, né Bèröe, né moglie
fu di Doríclo: è dea. Notate i segni:
com'arde ne la vista, e quali spira
ne l'andar, ne la voce e nel
sembiante
celesti onori. Io pur testé mi parto
da Bèröe, che, di corpo
egra, languendo
stassi, e sdegnando che a quest'atto sola
nosco non
intervenga». E qui si tacque.
Le madri paventose e dubbie in prima
con
gli occhi biechi rimirâr le navi,
sospese le meschine infra l'amore
di
godersi la terra, e la speranza
che perdean de' reami, a cui chiamate
eran dal fato. Intanto alto in su l'ali
la dea levossi, e tra le opache
nubi
per entro al suo grand'arco ascese, e sparve.
Allor dal mostro
spaventate, e spinte
da cieca furia, s'avventâr gridando:
e di faci e di
frondi e di virgulti
spogliaro altre gli altari, altre infocaro
i legni
sí che in un momento appresi
i banchi, i remi e l'impeciate poppe
mandâr
fiamme e scintille e fumo al cielo.
Portò di questo incendio Eumelo avviso
là 've al sepolcro era la gente accolta,
e de l'incendio stesso un atro
nembo
ne diè fumando e scintillando indizio.
Ascanio il primo (sí
com'era avanti,
duce del corso) al mar si spinse in guisa
che i suoi
maestri impallidîr per téma,
e richiamando lo seguiro in vano.
Giunto
che fu: «Che furor - disse - è questo?
Dove, dove ne gite? e che tentate,
misere cittadine? Ah! che non questi
de' Greci i legni o gli steccati
sono.
Voi di voi stesse le speranze ardete.
Io sono il vostro Ascanio».
E qui l'elmetto,
onde a la giostra era comparso armato,
gittossi a' piè.
Córsevi intanto Enea:
vi corsero de' Teucri e de' Sicani
le schiere
tutte. Allor per téma sparse
le donne per lo lito e per le selve
se ne
fuggiro, ed appiattârsi ovunque
ebber di rupi o di spelonche incontro:
ché, pentite del fallo, odiâr la luce,
cangiâr pensieri, e con l'amor
de' suoi
Iri del petto disgombrârsi e Giuno.
Ma non però l'indomito
furore
cessò del foco; ché la secca stoppa,
e l'unta pece, e gli aridi
fomenti
l'avean fin dentro a le giunture appreso;
onde nel molle, ancor
vivo, esalava
un lento fumo, e penetrava i fondi
sí ch'ogni forza, ogni
argomento umano,
e 'l mare stesso, che da tante genti
sopra gli si
versava, erano in vano.
Squarciossi Enea da gli omeri la veste
ch'avea
lugúbre, e da' celesti aíta
chiedendo, al ciel volse le palme, e disse:
«Onnipotente Giove, se de' Teucri
ancor non t'è, senza riservo, in ira
la gente tutta, e se, qual sei, pietoso
miri gli umani affanni, a tanto
incendio
ritogli, padre, i male addotti legni;
ritogli a morte queste
poche afflitte
reliquie de' Troiani; o quel che resta
tu col tuo proprio
tèlo, e di tua mano
(se tale è il merto mio) folgora e spegni».
Ciò
disse a pena, che da torbidi Austri,
e da nera tempesta il cielo involto
in disusata pioggia si converse.
Tremaro i campi, si crollaro i monti
al suon de' tuoni: a cateratte aperte
traboccâr da le nubi i nembi e i
fiumi.
Cosí sotto dal mar, sovra dal cielo
le già quasi arse navi in
mezzo accolte
furon da l'acque: onde le fiamme in prima,
poscia il vapor
s'estinse, e tutte spente,
se non se quattro, si salvaro al fine.
Di
sí fero accidente Enea turbato,
molti e gravi pensier tra sé volgendo,
stava infra due, se per suo novo seggio
(posto il fato in non cale) ei
s'eleggesse
de la Sicilia i campi, o pur di lungo
cercasse Italia. In
ciò Naute, un vecchione,
ch'era (mercé di Pallade e degli anni)
di molta
esperïenza e di gran senno,
o fosse ira di dio che lo movesse,
o pur
ch'era cosí nel ciel prescritto,
in cotal guisa a suo conforto disse:
«Magnanimo signor, comunque il fato
ne tragga o ne ritragga, e che che sia,
vincasi col soffrire ogni fortuna.
Aceste è qui, ch'è del dardanio seme
e di stirpe celeste un ramo anch'egli.
Prendi lui per compagno al tuo
consiglio,
e con lui ti confedera e t'aduna,
che in grado prenderallo; e
tu de' tuoi
ciò che t'avanza per gli adusti legni,
o fastidito è di sí
lungo esiglio,
o che langua o che tema, o che sia manco
per etate o per
sesso, a lui si lasci,
ch'è pur troiano; ed ei lor patria assegni,
che
dal nome di lui si nomi Acesta».
S'accese al detto del suo vecchio amico
il troian duce; e trapassando d'uno
in un altro pensiero, era già notte,
quando l'imago del suo padre Anchise
veder gli parve, che dal ciel
discesa
in tal guisa dicesse: «O figlio, amato
vie piú de la mia vita
infin ch'io vissi,
figlio, che segno sei de le fortune,
e del fato di
Troia, io qui mandato
son dal gran Giove, che dal ciel pietoso
ti mirò
dianzi, e i tuoi legni ritolse
da l'orribile incendio. Attendi al detto
del vecchio Naute, e ne l'Italia adduci
(sí come ei fedelmente ti
consiglia)
de la tua gioventú soli i piú scelti,
i piú sani, i piú forti
e i piú famosi,
ch'ivi aspra gente e ruvida e feroce
domar convienti. Ma
convienti in prima
per via d'Averno, ne l'inferno addurti,
e meco
ritrovarti, ov'ora io sono,
figlio, non già nel Tartaro, o fra l'ombre
de le perdute genti; ma felice
tra i felici e tra' pii, per quelli ameni
elisi campi mi diporto e godo.
A questi lochi, allor che molto sangue
avrai di negre pecorelle sparso,
ti condurrà la vergine Sibilla.
Ivi
conto saratti il tuo legnaggio,
e 'l tuo seggio fatale: e qui ti lascio,
già che varcato è de la notte il mezzo,
e del nimico sol dietro anelando
i veloci destrier venir mi sento».
E ciò dicendo, allontanossi e sparve.
«Dove, padre, ne vai, dove t'ascondi? -
dicendo Enea, - chi fuggi? o
chi ti toglie
da le mie braccia?» al già sopito foco
si trasse, e lo
raccese; e incenso e farro
offrí devoto ai sacrosanti numi
de l'alma
Vesta e de' suoi patrii Lari.
Indi i compagni, e pria di tutti Aceste,
de l'imperio di Giove e de' ricordi
del caro padre incontinente avvisa,
e 'l suo parer ne porge. In un momento
si propon, si consulta, e
s'eseguisce.
Aceste non recusa; e già descritti
i nomi de le madri,
degl'infermi,
e de le genti che mestiero o cura
avean piú di riposo che
di lode,
essi pochi, ma scelti, e guerrier tutti,
rivolti a risarcir gli
adusti legni,
rinnovaron le sarte, i remi, i banchi,
e ciò che 'l foco
avea corroso ed arso.
Enea de la città le mura intanto
insolca, e i
lochi assegna; e parte Troia,
e parte Ilio ne chiama, e re n'appella
il
buon troiano Aceste. Ei lieto il carco
ne prende; indíce il fòro, elegge i
padri,
ode, giudica e manda. Allora in cima
de l'Ericinio giogo il gran
delúbro
surse a Venere idalia: e i sacerdoti
gli si addissero in prima.
Allor s'aggiunse
al tumulo d'Anchise il sacro bosco.
Avea già nove dí
fatti solenni
sarifici e conviti; e 'l mare e i vènti
eran placidi e
queti. Austro sovente
spirando, in alto i lor legni invitava,
quando un
pianto dirotto per lo lito
levossi, un condolersi, un abbracciarsi
che
tutto il dí durò, tutta la notte.
Le meschinelle donne, e quegli stessi,
cui dianzi spaventosa era la faccia
e 'l nome intollerabile del mare,
voglion di nuovo ogni marin disagio
soffrire, e de l'esiglio ogni
fatica.
Ma li racqueta e li consola Enea
con dolci modi, e lagrimando
alfine
da lor si parte, ed al suo caro Aceste
quanto può caramente gli
accomanda.
Poscia, fatta al grand'Èrice in sul lito
di tre giovenchi
offerta, e d'un'agnella
a le Tempeste, si rimbarca e scioglie.
Ed ei
stesso altamente in su la proda,
cinto il capo d'oliva, una gran tazza
in man si reca, e di lenèo liquore
e di viscere sacre il mare asperge.
Sorgea da poppa il vento, e le sals'onde
ne gian solcando i remiganti
a gara,
quando del figlio Citerea gelosa
Nettuno assalse, e seco
querelossi
in cotal guisa: «La grav'ira e l'odio
di Giuno insazïabile
m'inchina
ad ogni priego; poscia che né 'l tempo,
né la pietà, né Giove,
né 'l destino
acquetar non la ponno. E non le basta
d'aver già Troia
desolata ed arsa,
che le reliquie, il nome e l'ossa e 'l cenere
ne
perseguita ancora. Ella ne sappia,
ella ne dica la cagione. Io chiamo
te
per mio testimon de l'improvisa
micidïal tempesta che pur dianzi
per
mezzo de l'eolide procelle
mosse lor contra (tua mercede) invano.
Or ha
l'iniqua per le mani stesse
de le teucre matrone i teucri legni
dati sí
bruttamente al foco in preda,
perché i meschini, arse le navi loro,
sian
di lasciare i lor compagni astretti
per le terre straniere. Or quel che
resta,
e ch'a te chieggo, è che il tuo regno omai
sia lor sicuro, e
ch'una volta alfine
tocchin del Tebro e di Laurento i campi:
se però
quel ch'io chieggo è che dal cielo
al mio figlio si debba, e se quel seggio
ne dan le Parche e 'l Fato». A lei de l'onde
rispose il domatore: «Ogni
fidanza
prender puoi, Citerea, ne' regni miei
onde tu pria nascesti. E
non son pochi
ancor teco i miei merti; ché piú volte
ho per Enea l'ira
e il furore estinto
e del mare e del cielo. Ed anco in terra
non ebb'io
(Xanto e Simoenta il sanno)
de la salute sua cura minore,
allor
ch'Achille a le troiane schiere
sí parve amaro, e che fin sotto al muro
le cacciò d'Ilio, e tal di lor fe' strage,
che ne gîr gonfi e sanguinosi
i fiumi:
e Xanto da' cadaveri impedito
sboccò ne' campi, e deviò dal
mare.
Era quel giorno Enea d'Achille a fronte,
né dii, né forze avea
ch'a lui del pari
stessero incontro. Io fui che ne la nube
allor
l'ascosi; io che di man ne 'l trassi,
quando piú d'atterrar avea desio
quelle mura odïose e disleali,
che pur de le mie mani eran fattura.
Or ti conforta che vèr lui son io
qual fui mai sempre, e come agogni, il
porto
attingerà sicuramente; e 'l lago
vedrà d'Averno, e de' suoi tutti
un solo
gli mancherà. Sol un convien che pèra
per condur gli altri suoi
lieti e sicuri».
Poiché di Citerea la mente queta
ebbe de l'onde il
padre, i suoi cavalli
giunti insieme e frenati, a lente briglie
sovra de
l'alto suo ceruleo carro
abbandonossi, e lievemente scórse
per lo mar
tutto. S'adeguaron l'onde,
si dileguâr le nubi: ovunque apparve,
tutto
sgombrossi, del suo corso al suono,
ch'avea di torbo il ciel, di gonfio il
mare.
Cingean Nettuno allor da la man destra
torme di pistri e di
balene immani,
di Glauco il vecchio coro, e d'Ino il figlio,
e i veloci
Tritoni, e tutto insieme
lo stuol di Forco. Da sinistra intorno
gli era
Teti, Melite e Panopèa,
Spïo, Nisea, Cimòdoce e Talía.
Qui per l'amara
dipartenza afflitto,
il padre Enea rasserenossi in parte,
e ciò che a
navigar facea mestiero
gioiosamente a' suoi compagni impose.
Tirâr
l'antenne, inalberâr le vele,
sciolsero, ammaïnâr, calaro, alzaro,
fêr
le marinaresche lor bisogne
tutti in un tempo, ed in un tempo insieme
drizzâr le prore al mar, le poppe al vento.
Innanzi a tutti con piú
legni in frotta
gia Palinuro, il provvido nocchiero,
e gli altri dietro
lui di mano in mano.
Era l'umida notte a mezzo il cerchio
del ciel
salita, e già languidi e stanchi
su i duri legni i naviganti agiati
prendean quïete; quando ecco da l'alte
stelle placido e lieve il Sonno
sceso
si fece quanto avea d'aëre intorno
sereno e queto: e te, buon
Palinuro,
senza tua colpa, insidïoso assalse,
portando a gli occhi tuoi
tenebre eterne.
Ei di Forbante, marinaro esperto,
presa la forma, come
noto, appresso
in su la poppa gli si pose, e disse:
«Tu vedi, Palinuro:
il mar ne porta
con le stesse onde, e 'l vento ugual ne spira.
Temp'è
che pòsi omai: china la testa,
e fura gli occhi a la fatica un poco,
poscia ch'io son qui teco, e per te veglio».
Cui Palinuro, già gravato
il ciglio,
cosí rispose: «Ah! tu non credi adunque
ch'io conosca del mar
le perfid'onde,
e 'l falso aspetto? A tale infido mostro
ch'io fidi il
mio signore e i legni suoi?
ch'al fallace sereno, a i vènti instabili
presti fede io, che son da lor deluso
già tante volte? E, ciò dicendo,
avea
le man ferme al timon, gli occhi a le stelle.
Il Sonno allora di
letèo liquore
e di stigio veleno un ramo asperso
sovra gli scosse, e
l'una tempia e l'altra
gli spruzzò sí che gli occhi ancor rubelli
gli
strinse, gli gravò, gli chiuse al fine.
A pena avean le prime gocce infusa
la lor virtú, che 'l buon nocchier disteso
ne giacque: e 'l dio col suo
mentito corpo
sopra gli si recò, pinse e sconfisse
un gheron de la
poppa, e lui con esso
e col temon precipitò nel mare.
Né gli valse a
gridar, cadendo, aíta;
ché l'un qual pesce, e l'altro qual augello,
questi ne l'onda, e quei ne l'aura sparve.
Né l'armata ne gio però men
ratta,
né men sicura; ché Nettuno stesso,
come promesso avea, la resse e
spinse.
Era delle Sirene omai solcando
giunta agli scogli, perigliosi
un tempo
a' naviganti; onde di teschi e d'ossa
d'umana gente si vedean
da lunge
biancheggiar tutti. Or sol, di canti in vece,
se n'ode un roco
suon di sassi e d'onde.
Era, dico, qui giunta, allor ch'Enea
al vacillar
del suo legno s'accorse
che di guida era scemo e di temone:
ond'egli
stesso, infin che 'l giorno apparve,
se ne pose al governo, e 'l caso
indegno
del caro amico in tal guisa ne pianse:
«Troppo al sereno, e
troppo a la bonaccia
credesti, Palinuro. Or ne l'arena
dal mar gittato
in qualche strano lito
ignudo e sconosciuto giacerai,
né chi t'onori
avrai, né chi ti copra».
Libro
VI
Cosí
piangendo disse: e navigando
di Cuma in vèr l'euboïca riviera
si spinse
a tutto corso, onde ben tosto
vi furon sopra, e v'approdaro alfine.
Volser le prue, gittâr l'ancore; e i legni,
sí come stêro un dopo
l'altro in fila,
di lungo tratto ricovrîr la riva.
Lieta la gioventú
nel lito esperio
gittossi: ed in un tempo al vitto intesi,
chi qua, chi
là si diêro a picchiar selci,
a tagliar boschi, a cercar fiumi e fonti.
Intanto Enea verso la ròcca ascese,
ove in alto sorgea di Febo il
tempio,
e là dov'era la spelonca immane
de l'orrenda Sibilla, a cui fu
dato
dal gran delio profeta animo e mente
d'aprir l'occulte e le future
cose.
Avea di Trivia già varcato il bosco,
quando avanti di marmo
ornato e d'oro
il bel tempio si vide. È fama antica
che Dedalo, di Creta
allor fuggendo
ch'ebbe ardimento di levarsi a volo
con piú felici e con
piú destre penne
che 'l suo figlio non mosse, il freddo polo
vide piú
presso; e per sentier non dato
a l'uman seme, a questo monte alfine
del
calcidico seno il corso volse.
Qui giunto e fermo, a te, Febo, de l'ali
l'ordigno appese, e 'l tuo gran tempio eresse,
ne le cui porte era da
l'un de' lati
d'Andrògëo la morte, e quella pena
che di Cècrope i figli
a dar costrinse
sette lor corpi a l'empio mostro ogn'anno:
miserabil
tributo! e v'era l'urna,
onde a sorte eran tratti. Eravi Creta
da
l'altro lato, alto dal mar levata,
ch'avea del tauro istorïata intorno
e
di Pasífe il bestïale amore,
e la bestia di lor nata biforme,
di sí
nefando ardor memoria infame.
Eravi l'intricato laberinto:
eravi il
filo, onde gl'intrighi suoi
e le sue cieche vie Dedalo stesso,
per pietà
ch'ebbe a la regina, aperse.
E tu, se 'l pianto del tuo padre e 'l duolo
nol contendea, saresti, Icaro, a parte
di sí nobil lavoro. Ma due volte
tentò ritrarti in oro, ed altrettante
sí l'abborrí, che l'opera e lo
stile
di man gli cadde. Era con gli altri Enea
tutto a mirar sospeso,
quando Acate
tornò, ch'era precorso, e seco addusse
Deïfobe di Glauco,
una ministra
di Dïana e d'Apollo. Ella rivolta
al frigio duce: «Non è
tempo, - disse, -
ch'a ciò si badi. Or è d'offrir mestiero
sette non
domi ancor giovenchi, e sette
negre pecore elette». E ciò spedito
tosto,
come s'impose, ella nel tempio
seco i Teucri condusse. È da l'un canto
dell'euboïca rupe un antro immenso
che nel monte penètra. Avvi d'intorno
cento vie, cento porte; e cento voci
n'escono insieme, allor che la
Sibilla
le sue risposte intuona. Era a la soglia
il padre Enea, quando:
«Ora è 'l tempo - disse
la vergine. - Di', di'; chiedi tue sorti:
ecco
lo dio ch'è già comparso e spira».
Ciò dicendo, de l'antro in su la bocca
in piú volti cangiossi e in piú colori;
sconmpigliossi le chionme;
aprissi il petto;
le batté 'l fianco, e 'l cor di rabbia l'arse.
Parve
in vista maggior; maggior il tuono
fu che d'umana voce; e poiché 'l nume
piú le fu presso: «A che badi, - soggiunse -
figlio d'Anchise? Se non
di', non s'apre
questa di Febo attonita cortina».
E qui si tacque. Orror
per l'ossa e gelo
corse allor de' Troiani; e 'l teucro duce
infin de
l'imo petto orò dicendo:
«Febo, la cui pietà mai sempre a Troia
fu
propizia e benigna, onde di Pari
già reggesti la man, drizzasti il tèlo
contro al corpo d'Achille, io, dal tuo lume
scòrto fin qui, tanto di
mare ho corso,
tante terre ho girate, a tanti rischi
mi son esposto;
insino a le remote
massíle genti, insin dentro a le Sirti
son penetrato;
ed or, per tua mercede,
di questa fuggitiva Italia il lito
ecco già
tocco, e ci son giunto al fine.
Ah, che questo sia il fine, e qui rimanga
l'infortunio di Troia! È tempo omai,
dii tutti e dee, cui la dardania
gente
unqua fece onta, che perdono e pace
le concediate. E tu, vergine
santa,
del futuro presaga, or ne dimostra
il seggio e 'l regno che ne
dànno i fati
(se pur nel dànno) ove i Troiani afflitti,
ove di Troia i
travagliati numi,
e i dispersi Penati alberghi e posi;
ch'allor di saldo
marmo a Trivia, a Febo
ergerò i templi, e del suo nome i ludi
consacrerolli, e i dí fèsti e solenni;
ed ancor tu nel nostro regno
avrai
sacri luoghi reposti, ove serbati
per lumi e specchi a le future
genti
da venerandi a ciò patrizi eletti
saranno i detti e i vaticini
tuoi.
Quel che prima ti chieggio è che i tuoi carmi
s'odan per la tua
lingua, e non che in foglie
sian da te scritti, onde ludibrio poi
sian
di rapidi vènti». E piú non disse.
Ella già presa, ma non doma ancóra
dal febèo nume, per di sotto trarsi
a sí gran salma, quasi poltra e
fiera
scapestrata giumenta, per la grotta
imperversando e mugolando
andava.
Ma com' piú si scotea, piú dal gran dio
era affrenata, e le
rabbiose labbia
e l'efferato core al suo misterio
piú mansueto e piú
vinto rendea.
Eran da lor già della grotta aperte
le cento porte, allor
ch'ella gridando
cosí mandò la sua risposta a l'aura:
«Compíti son del
mar tutti i pericoli;
restan quei de la terra, che terribili
saran
veracemente e formidabili.
Verranno i Teucri al regno di Lavinio:
di ciò
t'affido. Ma ben tosto d'esservi
si pentiranno. Guerre, guerre orribili
sorger ne veggio, e pien di sangue il Tevere.
Saravvi un altro Xanto, un
altro Simoi,
altri Greci, altro Achille, che progenie
ancor egli è di
dea. Giuno implacabile
allor piú ti sarà, che supplichevole
andrai
d'Italia a quai non terre o popoli
d'aíta mendicando e di sussidii!
E
fian di tanto mal di nuovo origine
d'esterna moglie esterne sponsalizie.
Ma 'l tuo cor non paventi, anzi con l'animo
supera le fatiche e
gl'infortunii;
ché tua salute ancor da terra argolica
(quel che men
credi) avrà lume e principio».
Questi intricati e spaventosi detti
dal
piú reposto loco alto mugghiando,
la cumèa profetessa empiea lo speco
d'orribil tuoni: e come il suo furore
era da Febo raffrenato o spinto,
o dal suo raggio avea barbaglio o lume,
cosí miste le tenebre col vero
sciogliea la lingua, e disgombrava il petto.
Poiché la furia e la
rabbiosa bocca
quetossi, Enea ricominciando, disse:
«Vergine, a me nulla
si mostra omai
faccia né di fatica né d'affanno,
che mi sia nuova, o non
pensata in prima.
Tutto ho previsto, tutto ho presentito,
che da te m'è
predetto; e tutto io sono
a soffrir preparato. Or sol ti chieggio
(poscia che qui si dice esser l'intrata
de' regni inferni, e d'Acheronte
il lago)
che per te quinci nel cospetto io venga
del mio diletto padre;
e tu la porta,
tu 'l sentier me ne mostra, e tu mi guida.
Io lui dal
fuoco e da mill'armi infeste
tratto ho di mezzo a le nimiche schiere
su
queste spalle; ed ei scorta e compagno
del mio viaggio e del mio esiglio,
meco
i perigli, i disagi e le tempeste
del mar, del cielo e de l'età
soffrendo,
vèglio, debile e stanco ha me seguíto;
ed egli stesso m'ha
nel sonno imposto
che a te ne venga, e per tuo mezzo a lui
mi riconduca.
Abbi pietà, ti priego,
e del padre e del figlio; ed ambi insieme,
come
puoi (che puoi tutto), or ne congiungi:
ch'Ècate non indarno a queste selve
t'ha d'Averno preposta. Il tracio Orfeo
(sola mercé de la sonora cetra)
scender potevvi, e richiamarne in vita
l'amata donna. Ne poté Polluce
ritrarre il frate, ed a vicenda seco
vita e morte cangiando, irvi e
redirvi
tante fïate. Andovvi Tèseo; andovvi
il grande Alcide; ed ancor
io dal cielo
traggo principio, e son da Giove anch'io».
Cosí pregando
avea le braccia avvinte
al sacro altare, allor che la Sibilla
a dir
riprese: Enea, germe del cielo,
lo scender ne l'Averno è cosa agevole
ché notte e dí ne sta l'entrata aperta;
ma tornar poscia a riveder le
stelle,
qui la fatica e qui l'opra consiste.
Questo a pochi è concesso,
ed a quei pochi
ch'a Dio son cari, o per uman valore
se ne poggiano al
cielo. A questi è dato
come a' celesti. Il loco tutto in mezzo
è da
selve intricato, e da negre acque
de l'infernal Cocíto intorno è cinto.
Ma se tanto disio, se tanto amore
t'invoglia di veder due volte Stige
e due volte l'abisso, e soffrir osi
un cosí grave affanno, odi che prima
oprar convienti. È ne la selva opaca,
tra valli oscure e dense ombre
riposto
e ne l'arbore stesso un lento ramo
con foglie d'oro, il cui
tronco è sacrato
a Giuno inferna: e chi seco divelto
questo non porta,
ne' secreti regni
penetrar di Plutone unqua non pote.
Ciò la bella
Prosèrpina comanda,
che per suo dono il chiede; e svèlto l'uno,
tosto
l'altro risorge, e parimente
ha la sua verga e le sue chiome d'oro.
Entra nel bosco, e con le luci in alto
lo cerca, il trova, e di tua man
lo sterpa;
ch'agevolmente sterperassi, quando
lo ti consenta il fato. In
altra guisa
né con man, né con ferro, né con altra
umana forza mai fia
che si schianti,
o che si tronchi. Oltre di ciò, nel lito
(mentre qui
badi e la risposta attendi)
giace, lasso! d'un tuo, che tu non sai,
disanimato e non sepolto un corpo,
che tutti rende i tuoi legni funesti.
A questo procurar seggio e sepolcro
pria converratti. Or per sua purga
in prima
negre pecore adduci; e 'n cotal guisa
vedrai gli elisi campi, e
i stigi regni
cui vedere a' mortali anzi a la morte
non è concesso». E
qui la bocca chiuse.
Enea gli occhi abbassando, afflitto e mesto
de
l'antro uscio, tra se stesso volgendo
l'oscure profezie. Giva con lui
il
fido Acate, e con lui parimente
traea pensieri e passi. Erano entrambi
ragionando in pensar di qual amico,
di qual corpo insepolto ella
parlasse,
che coprir si dovesse: allor che giunti
nel secco lito in su
l'arena steso
vider Miseno indegnamente estinto;
Miseno il figlio
d'Eolo, ch'araldo
era supremo e col suo fiato solo
possente a suscitar
Marte e Bellona.
Era costui del grand'Ettòr compagno,
e de' piú
segnalati intorno a lui
combattendo, or la tromba ed or la lancia
adoperava: e poi che 'l fiero Achille
Ettore ancise, come ardito e fido,
seguí l'arme d'Enea: ché non fu punto
inferiore a lui. Stava sul mare
sonando il folle con Tritone a gara,
quando da lui, ch'astio sentinne e
sdegno
(se creder dêssi), insidïosamente
tratto giú da lo scoglio ov'era
assiso,
fu ne l'onde sommerso. Al corpo intorno
convocati già tutti,
amaro pianto
ed alte strida insieme ne gittaro;
e piú de gli altri Enea.
Poscia seguendo
quel ch'era lor da la Sibilla imposto,
gli apprestaron
l'esequie. Entrâr nel bosco,
di fere antico albergo; ed elci ed orni
e
frassini atterrando, alzâr gli altari;
poser la tomba, fabbricâr la pira,
e la spinsero al cielo. Il frigio duce
fra le sue schiere di bipenne
armato
a par degli altri, e piú di tutti ardente,
di propria mano
adoperando, a l'opra
esortava i compagni; e fra se stesso
pensoso,
inverso il bosco il guardo inteso,
cosí pregava: «Oh se quel ramo d'oro
ne si scoprisse in questa selva intanto,
come n'ha la Sibilla, ahimè,
pur troppo
di te, Miseno, annunzïato il vero!»
Ciò disse a pena, ed
ecco da traverso
due colombe venir dal ciel volando,
ch'avanti a lui sul
verde si posaro.
Conobbe il magno eroe le messaggiere
de la sua madre, e
lieto orando: «O, - disse, -
siatemi guide voi, materni augelli,
s'a ciò
sentier si truova; ite per l'aura
drizzando il nostro corso, ov'è de l'ombra
del prezïoso arbusto il bosco opaco.
E tu, madre benigna, in sí dubbioso
passo, del lume tuo ne porgi aíta».
E, ciò detto, fermossi. Elle
pascendo,
andando, saltellando, a scosse, a volo,
quanto l'occhio
scorgea, di mano in mano
giunsero ove d'Averno era la bocca:
e 'l tetro
alito suo schivando, in alto
ratte l'ali spiegaro, e dal ciel puro
al
desïato loco in giú rivolte,
si posâr sopra a la gemella pianta;
indi
tra frondi e frondi il color d'oro,
che diverso dal verde uscia raggiando,
di tremulo splendor l'aura percosse.
Come ne' boschi al brumal tempo
suole
di vischio un cesto in altrui scorza nato
spiegar verdi le frondi
e gialli i pomi,
e con le sue radici ai non suoi rami
abbarbicarsi
intorno; cosí 'l bronco
era de l'oro avviticchiato a l'elce,
ond'era
surto, e cosí lievi al vento
crepitando movea l'aurate foglie.
Tosto che
'l vide Enea, di piglio dielli,
e disïoso, ancor che duro e valido
gli
sembrasse, a la fin lo svelse; e seco
a l'indovina vergine lo trasse.
Non s'intermise di Miseno in tanto
condur l'esequie al suo cenere estremo.
E primamente la gran pira estrutta,
di pingui tede e di squarciati
roveri
v'alzâr cataste: di funeste frondi,
d'atri cipressi ornâr la
fronte e i lati,
e piantâr ne la cima armi e trofei.
Parte di loro al
foco, e parte a l'acque,
e parte intorno al freddo corpo intenti,
chi lo
spogliò, chi lo lavò, chi l'unse.
Poiché fu pianto, in una ricca bara
lo collocaro, e di purpuree vesti
de' suoi piú noti e piú graditi arnesi
gli feron fregi e mostre e monti intorno.
Altri (pietoso e tristo
ministero)
il gran feretro agli omeri addossârsi;
altri, com'è de' piú
stretti congiunti
antica usanza, vòlti i volti indietro,
tenner le faci,
e diêr foco a la pira;
e gran copia d'incenso e di liquori
e di cibi e
di vasi ancor con essi,
sí come è l'uso antico, entro gittârvi.
Poiché
cessâr le fiamme, e 'ncenerissi
il rogo e 'l corpo; le reliquie e l'ossa
furon da Corinèo tra le faville
ricerche e scelte; e di vin puro
asperse,
poi di sua mano acconciamente in una
di dorato metallo urna
reposte.
Lo stesso Corinèo tre volte intorno
con un rampollo di felice
oliva
spruzzando di chiar'onda i suoi compagni,
li purgò tutti, e 'l
vale ultimo disse.
Oltre a ciò, fece Enea per suo sepolcro
ergere
un'alta e sontuosa mole,
e l'armi e 'l remo e la sonora tuba
al monte
appese, che d'Aërio il nome
fino allor ebbe, ed or da lui nomato
Miseno
è detto, e si dirà mai sempre.
Ciò finito, a finir quel che gl'impose
la
profetessa, incontinente mosse.
Era un'atra spelonca, la cui bocca
fin
dal baratro aperta, ampia vorago
facea di rozza e di scheggiosa roccia.
Da negro lago era difesa intorno,
e da selve ricinta annose e folte.
Uscia de la sua bocca a l'aura un fiato
anzi una peste, a cui volar di
sopra
con la vita agli uccelli era interdetto;
onde da' Greci poi si
disse Averno.
Qui pria quattro giovenchi Enea condotti
di negro tergo,
la Sibilla in fronte
riversò lor di vin le tazze intere;
e da ciascun di
mezzo le due corna
di setole maggiori il ciuffo svèlto,
diè per saggio
primiero al santo foco,
Ecate ad alta voce in ciò chiamando,
de l'Erebo
e del ciel nume possente.
Parte di lor con le coltella in mano
le
vittime svenando, e parte in vasi
stava il sangue accogliendo. Egli a la
Notte,
che de le Furie è madre, ed a la Terra
ch'è sua sorella, con la
propria spada
di negro vello un'agna, ed una vacca
sterile a te,
Proserpina, percosse.
Poscia a l'imperador de' regni inferni
notturni
altari ergendo, i tauri interi
sopra a le fiamme impose, e di pingue olio
le bollenti lor viscere consperse.
Ed ecco a l'apparir del primo sole
mugghiò la terra, si crollaro i monti,
si sgominâr le selve, urlâr le
Furie
al venir de la dea». «Via, via profani, -
gridò la profetessa, -
itene lunge
dal bosco tutto; e tu meco te n'entra,
e la tua spada
impugna. Or d'uopo, Enea,
fa d'animo e di cor costante e fermo».
Ciò
disse, e da furor spinta, con lui,
ch'adeguava i suoi passi arditamente,
si mise dentro a le secrete cose.
O dii, che sopra l'alme imperio
avete,
o tacit'ombre, o Flegetonte, o Cao,
o ne la notte e nel silenzio
eterno
luoghi sepolti e bui, con pace vostra
siami di rivelar lecito a'
vivi
quel ch'ho de' morti udito. Ivan per entro
le cieche grotte, per
gli oscuri e vòti
regni di Dite; e sol d'errori e d'ombre
avean
rincontri: come chi per selve
fa notturno viaggio, allor che scema
la
nuova luna è da le nubi involta,
e la grand'ombra del terrestre globo
priva di luce e di color le cose.
Nel primo entrar del doloroso regno
stanno il Pianto, l'Angoscia, e le voraci
Cure, e i pallidi Morbi e 'l
duro Affanno
con la debil Vecchiezza. Evvi la Téma,
evvi la Fame: una
ch'è freno al bene,
l'altra stimolo al male: orrendi tutti
e spaventosi
aspetti. Avvi il Disagio,
la Povertà, la Morte, e, de la Morte
parente,
il Sonno. Avvi de' cor non sani
le non sincere Gioie. Avvi la Guerra,
de
le genti omicida, e de le Furie
i ferrati covili, il Furor folle,
l'empia Discordia, che di serpi ha 'l crine,
e di sangue mai sempre il
volto intriso.
Nel mezzo erge le braccia annose al cielo
un olmo opaco
e grande, ove si dice
che s'annidano i Sogni, e ch'ogni fronda
v'ha la
sua vana imago e 'l suo fantasma.
Molte, oltre a ciò, vi son di varie fere
mostruose apparenze. In su le porte
i biformi Centauri, e le biformi
due Scille: Brïarèo di cento doppi;
la Chimera di tre, che con tre
bocche
il fuoco avventa: il gran serpe di Lerna
con sette teste; e con
tre corpi umani
Erilo e Gerïone; e con Medusa
le Górgoni sorelle; e
l'empie Arpie,
che son vergini insieme, augelli e cagne.
Qui preso
Enea da súbita paura
strinse la spada, e la sua punta volse
incontro a
l'ombre; e se non ch'ombre e vite
vòte de' corpi e nude forme e lievi
conoscer ne le fe' la saggia guida,
avrebbe impeto fatto, e vanamente
in vane cose ardir mostro e valore.
Quinci preser la via là 've si
varca
il tartareo Acheronte. Un fiume è questo
fangoso e torbo, e fa
gorgo e vorago,
che bolle e frange, e col suo negro loto
si devolve in
Cocito. È guardiano
e passeggiero a questa riva imposto
Caron demonio
spaventoso e sozzo,
a cui lunga dal mento incolta ed irta
pende canuta
barba. Ha gli occhi accesi
come di bragia. Ha con un groppo al collo
appeso un lordo ammanto; e con un palo,
che gli fa remo, e con la vela
regge
l'affumicato legno, onde tragitta
su l'altra riva ognor la gente
morta.
Vecchio è d'aspetto e d'anni; ma di forze,
come dio, vigoroso e
verde è sempre.
A questa riva d'ogn'intorno ognora
d'ogni età, d'ogni
sesso e d'ogni grado
a schiere si traean l'anime spente,
e de' figli
anco innanzi a' padri estinti.
Non tante foglie ne l'estremo autunno
per
le selve cader, non tanti augelli
si veggon d'alto mar calarsi a terra,
quando il freddo li caccia ai liti aprichi,
quanti eran questi. I primi
avanti orando
chiedean passaggio, e con le sporte mani
mostravan il
disio de l'altra ripa:
ma 'l severo nocchiero or questi or quelli
scegliendo o rifiutando, una gran parte
lunge tenea dal porto e da
l'arena.
Enea la moltitudine, e 'l tumulto
meravigliando: «Ond'è,
vergine, - disse -
questo concorso al fiume? e qual disio
mena
quest'alme? e qual grazia o divieto
fa che queste dan volta, e quelle
approdano?»
A ciò la profetessa brevemente
cosí rispose: «Enea, stirpe
divina
veracemente (che di ciò n'accerta
il qui vederti), là Cocito
stagna;
quinci va Stige, la palude e 'l nume
per cui di spergiurar fino
a gli dèi
del cielo è formidabile e tremendo.
Questi è Caronte, il suo
tristo nocchiero:
quella turba che passa, è de' sepolti:
questa che
torna, è de' meschini estinti
che né tomba, né lacrime, né polve
ebber
morendo. A lor non è concesso
traiettar queste ripe e questo fiume,
se
pria l'ossa non han seggio e coverchio.
Erran cent'anni vagolando intorno
a questi liti, e 'l desïato stagno
visitando sovente, infin ch'al passo
non sono ammessi». Enea di ciò pensando,
mosso a pietà de la lor sorte
iniqua,
fermossi; ed ecco incontro gli si fanno
mesti, d'esequie privi e
di sepolcro,
Leucaspi, e 'l conduttor de' Lici Oronte,
ambi Troiani,
ambi dal vento insieme
coi Lici tutti, e con l'intera nave
nel mar
sommersi. Appresso Palinuro,
il gran nocchier de la troiana armata,
che
dianzi nel tornar di Libia, il cielo
e le stelle mirando, in mar fu tratto.
A costui si rivolse, e poiché l'ebbe
per entro una grand'ombra a pena
scorto,
cosí prima gli disse: «O Palinuro,
e qual fu de gli dèi ch'a noi
ti tolse,
ed a l'onde ti diede? Or lo mi conta:
ché deluso da Febo unqua
non fui,
se non se in te: Febo predisse pure
che tu nosco del mar securo
e salvo
Italia attingeresti. Ah! dunque un dio,
e dio del vero, in tal
guisa ne froda?»
Rispose Palinuro: «Inclito duce,
né l'oracol d'Apollo
ha te deluso,
né l'ira ha me di dio nel mar sommerso;
ché 'l temone,
ond'io mai non mi divelsi
per tua salute, ancor per man ritenni
allor
ch'in mare io caddi. Io giuro, Enea,
per l'onde irate, che di me non tanto,
quanto del tuo periglio ebbi timore,
che non la nave tua, del mio
governo
spogliata e del suo freno, al mar già gonfio
restasse in preda.
Austro tre notti intere
con la sua correntia per l'ampio mare
mi trasse
a forza. Il quarto giorno a pena
discoverta l'Italia, a poco a poco
m'accostava a la terra; e giunto omai
cosí com'era ancor di veste grave,
e stanco e molle, con l'adunche mani
m'aggrappava a la ripa, e salvo
fôra:
se non ch'ignara e fera gente incontro,
com'a preda marina, mi si
fece,
e col ferro m'ancise. Or lungo ai liti
vassene il corpo mio
ludibrio a' vènti,
e scherzo a' flutti. Ed io, signore invitto,
per la
superna luce, per quell'aura
onde si vive, per tuo padre Anchise,
per le
speranze del tuo figlio Iulo,
priegoti a sovvenirmi; o che di terra
mi
cuopra (come puoi) cercando il corpo
per la spiaggia di Velia, o in altra
guisa,
s'altra ne ti sovviene, o ti si mostra
da la tua diva madre; ché
non senza
nume divino un tal passaggio imprendi.
Porgimi la tua destra,
e teco trammi
oltre a quell'acque, perché morto almeno
pace truovi e
riposo». Avea ciò detto,
quando cosí la vergine rispose:
«Ah,
Palinuro, e qual dira follia
a ciò t'invoglia? Non sepolto adunque
l'acque di Stige e la severa foce
traiettar de l'Eumènidi presumi?
Tu di qui tôrti a l'altra riva intendi
senza commiato? Indarno, indarno
speri
che per nostro pregar fato si cangi.
Ma con questo t'acqueta, e ti
conforta
de l'infortunio tuo: ché quelle terre
vicine al luogo, ove il
tuo corpo giace,
da pestilenza e da prodigi astrette,
lo raccôrranno, e
con solenne rito
gli faran sacrifici, esequie e tomba;
e da te per
innanzi avrà quel loco
di Palinuro eternamente il nome».
Lieto d'un
tanto onore, e consolato
da tale annunzio, il travagliato spirto
restò
contento ed appagato in parte.
Indi il cammin seguendo, a la riviera
s'approssimaro; e il passeggier da lunge,
poiché senza far motto entro a
la selva
passar gli vide e 'ndirizzarsi al vado:
«Olà, ferma costí, -
disse gridando -
qual che tu sei, ch'al nostro fiume armato
ten vai sí
baldanzoso; e di costinci
di' chi sei, quel che cerchi, e perché vieni:
ché notte solamente e sonno ed ombre
han qui ricetto, e non le genti
vive,
cui di varcare al mio legno non lece.
E s'Ercole e Tesèo e Piritòo
già v'accettai, scorno e dolore n'ebbi;
ché l'un d'essi il tartarëo
custode
incatenovvi, e, di sotto anco al seggio
del proprio re, tremante
a l'aura il trasse;
e gli altri alfin dal maritale albergo
rapir di Dite
la regina osaro».
«Nulla di queste insidie - gli rispose
la profetessa
- a macchinar si viene.
Stanne sicuro; e quest'arme a difesa
si portan
solamente, e non ad onta.
Spaventi il can trifauce a suo diletto
le
pallid'ombre; eternamente latri
ne l'antro suo; col suo marito e zio
si
stia casta Prosèrpina mai sempre,
ché di nulla cen cale. Enea troiano
è
questi, di pietà famoso e d'armi,
che per disio del padre infino al fondo
de l'Èrebo discende; e se l'esempio
di tanta carità non ti commove,
questo almen riconosci». E, fuor del seno
d'oro il tronco traendo, altro
non disse.
Ei, rimirando il venerabil dono
de la verga fatal, già di
gran tempo
non veduto da lui, l'orgoglio e l'ira
tosto depose, e la sua
negra cimba
a lor rivolse, e ne la ripa stette.
Indi i banchi sgombrando
e 'l legno tutto,
l'anime, che già dentro erano assise,
con súbito
scompiglio uscir ne fece,
e 'l grand'Enea v'accolse. Allor ben d'altro
parve che d'ombre carco; e sí com'era
mal contesto e scommesso,
cigolando
chinossi al peso, e piú d'una fissura
a la palude aperse.
Alfin pur salvi
ne l'altra ripa, tra le canne e i giunchi,
sul palustre
suo limo ambi gli espose.
Giunti che furo, il gran Cèrbero udiro
abbaiar con tre gole, e 'l buio regno
intonar tutto; indi in un antro
immenso
sel vider pria giacer disteso avanti,
poi sorger, digrignar,
ràbido farsi,
con tre colli arruffarsi, e mille serpi
squassarsi
intorno. Allor la saggia maga,
tratta di mèle e d'incantate biade
una
tal soporifera mistura,
la gittò dentro a le bramose canne.
Egli
ingordo, famelico e rabbioso
tre bocche aprendo, per tre gole al ventre
trangugiando mandolla, e con sei lumi
chiusi dal sonno, anzi col corpo
tutto
giacque ne l'antro abbandonato e vinto.
Cèrbero addormentato,
occupa Enea
d'Èrebo il passo, e ratto s'allontana
dal fiume, cui chi
varca unqua non riede.
Sentono al primo entrar voci e vagiti
di
pargoletti infanti, che dal latte
e da le culle acerbamente svèlti,
vider ne' primi dí l'ultima sera.
Varcano appresso i condannati e morti
senza lor colpa, e non senza compenso
di giudizio e di sorti. Han quelle
genti
cosí disposti e divisati i lochi.
Sta Minos ne l'entrata, e
l'urna avanti
tien de' lor nomi, e le lor vite esamina,
e le lor colpe;
e quale è questa o quella,
tal le dà sito, e le rauna e parte.
Passan
di mano in mano a quei che feri
incontro a sé, la luce in odio avendo
e
l'alme a vile, anzi al prescritto giorno
si son da loro indegnamente ancisi.
Ma quanto ora vorrebbono i meschini
esser di sopra, e povertà, vivendo,
soffrire e de la vita ogni disagio!
Ma 'l fato il niega, e nove volte
intorno
Stige odïosa li ristringe e fascia.
Quinci non lunge si
distende un'ampia
campagna che del Pianto è nominata;
per cui fra chiusi
colli e fra solinghe
selve di mirti, occulte se ne vanno
l'alme, c'ha
feramente arse e consunte
fiamma d'amor, ch'ancor ne' morti è viva.
Qui vider Fedra e Procri ed Erifíle,
infida moglie e sfortunata madre,
di cui fu parricida il proprio figlio;
vider Laodamía, Pasífe, Evadne,
e Cènëo con esse, che di donna
in uomo, e d'uomo alfin cangiossi in
donna.
Era con queste la fenissa Dido,
che, di piaga recente il petto
aperta,
per la gran selva spazïando andava.
Tosto che le fu presso, Enea
la scòrse
per entro a l'ombre, qual chi vede o crede
veder tal volta
infra le nubi e 'l chiaro
la nova luna, allor che i primi giorni
del
giovinetto mese appena spunta;
e di dolcezza intenerito il core,
dolcemente mirolla e pianse e disse:
«Dunque, Dido infelice, e' fu pur
vera
quell'empia che di te novella udii,
che col ferro finisti i giorni
tuoi?
Ah, ch'io cagion ne fui! Ma per le stelle,
per gli superni dèi,
per quanta fede
ha qua giú, se pur v'ha, donna, ti giuro
che mal mio
grado dal tuo lito sciolsi.
Fato, fato celeste, imperio espresso
fu del
gran Giove, e quella stessa forza,
che da l'eteria luce a questi orrori
de la profonda notte or mi conduce,
che da te mi divelse; e mai creduto
ciò di me non avrei, che 'l partir mio
cagion ti fosse ond'a morir ne
gissi.
Ma ferma il passo, e le mie luci appaga
de la tua vista. Ah,
perché fuggi? e cui?
Quest'è l'ultima volta, ohimè! che 'l fato
mi dà
ch'io ti favelli, e teco sia».
Cosí dicendo e lagrimando intanto
placar tentava o raddolcir quell'alma,
ch'una sol volta disdegnosa e
torva
lo rimirò; poscia o con gli occhi in terra,
o con gli omeri vòlta,
a i detti suoi
stette qual alpe a l'aura, o scoglio a l'onde.
Alfin,
mentre dicea, come nimica
gli si tolse davanti, e ne la selva
al suo
caro Sichèo, cui fiamma uguale
e par cura accendea, si ricondusse.
Né
però men dolente, e men pietoso
restonne il teucro duce; anzi quant'oltre
poté con gli occhi, e lungo spazio poi
col pianto e coi sospiri
accompagnolla.
Poscia tornando al suo fatal vïaggio
giunse là 've
accampata era in disparte
gente di ferro e di valore armata.
Qui 'l gran
Tideo, qui 'l gran figlio di Marte
Partenopèo, qui del famoso Adrasto
la
pallid'ombra incontro gli si fece.
Quinci de' suoi piú nobili Troiani
un
gran drappello avanti gli comparve.
Pianse a veder quei glorïosi eroi,
tanto di sopra disïati e pianti,
come Glauco, Tersíloco, Medonte,
i
tre figli d'Antenore, il sacrato
a Cerere ministro Polibete,
e 'l chiaro
Idèo con l'armi anco e col carro.
Fatto gli avean costor chi da man destra,
chi da sinistra una corona intorno.
Né d'averlo veduto eran contenti,
ché ciascun desïava essergli appresso,
ragionar, passeggiar, far seco
indugio,
e spïar come e d'onde e perché venne.
Ma degli Argivi e le
falangi e i duci,
quand'egli apparve, e che tra lor ne l'ombre
i lampi
folgorâr de l'armi sue,
da gran timor furo assaliti; e parte
volser le
terga, come già fuggendo
verso le navi, e parte alzâr le voci
che per
téma sembrâr languide e fioche.
Deífobo, di Prïamo il gran figlio,
vide ancor qui, che crudelmente anciso
in disonesta e miserabil guisa
avea le man, gli orecchi, il naso e 'l volto
lacerato, incischiato e
monco tutto.
Per temenza il meschino e per vergogna
d'esser veduto, con
le tronche braccia
un sí brutto spettacolo celando,
indarno si facea
schermo e riparo;
ch'al fin lo riconobbe, e con l'usata
domestichezza
incontro gli si fece,
cosí dicendo: «Poderoso eroe,
gran germoglio di
Teucro, e chi sí crudo
fu mai, chi tanto osò, cui si permise
che facesse
di te strazio sí fiero?
La notte che seguí l'orribil caso
de la nostra
ruina, io di te seppi
ch'assaliti i nemici e di lor fatta
strage che
memorabile fia sempre,
tra le caterve de' lor corpi estinti,
stanco via
piú che vinto, alfin cadesti;
ed allor io di Reto in su la riva
a
l'ombra tua con le mie mani un vòto
sepolcro eressi, e te gridai tre volte:
e 'l nome e l'armi tue riserba ancora
il loco stesso. Io te, dolce
signore,
né veder, né coprir di patria terra
avanti il mio partir mai
non potei».
Deífobo rispose: «Ogni pietoso,
ogni onorato officio, Enea
mio caro,
ha l'amor tuo vèr me compito a pieno.
Ma l'empio fato mio,
l'empia e malvagia
argiva donna a tal m'ha qui condotto;
e tal di sé
lasciò memoria al mondo.
Ben ti ricorda (e ricordar ten dêi)
di
quell'ultima notte che sí lieta
mostrossi in pria, poi ne si volse in
pianto,
quando il fatal cavallo il salto fece
sopra le nostre mura, e 'l
ventre pieno
d'armate schiere ne votò fin dentro
a l'alta ròcca. Allor
ella di Bacco
fingendo il coro, e con le frigie donne
scorrendo in
tresca, una gran face in mano
si prese, e diè con essa il cenno a' Greci.
Io dentro alla mia camera (infelice!)
mi ritrovai sol quella notte; e
stanco
di tante che n'avea con tanti affanni
vegghiate avanti, un tal
prendea riposo
che a morte piú che a sonno era simíle.
Fece la buona
moglie ogn'arme intanto
sgombrar di casa, e la mia fida spada
mi
sottrasse dal capo. Indi la porta
aperse, e Menelao dentro v'accolse,
cosí sperando un prezïoso dono
fare al marito, e de' suoi falli antichi
riportar vènia. Che piú dico? Basta
ch'entrâr là 'v'io dormia; e con
essi era
per consultore Ulisse. O dii, se giusto
è 'l priego mio,
ricompensate voi
di quest'opere i Greci. E tu, che vivo
sei qui, dimmi a
rincontro, il caso o 'l fato
o l'errore o 'l precetto degli dèi,
o qual
altra fortuna t'ha condotto,
ove il sol mai non entra e buio è sempre».
Cosí tra lor parlando e rispondendo,
avea già 'l sol del suo cerchio
dïurno
varcato il mezzo, e l'avria forse intero;
se non che la Sibilla
rampognando
cosí li fe' del breve tempo accorti:
«Enea, già notte
fassi, e noi piangendo
consumiam l'ore. Ecco siam giunti al loco
dove la
strada in due sentier si parte.
Questo a man dritta a la città ne porta
del gran Plutone e quindi ai campi Elisi;
quest'altro a la sinistra a
l'empio abisso
ne guida, ov'hanno i rei supplizio eterno».
Il figlio a
ciò di Prïamo soggiunse:
«Non ti crucciare, o del gran Delio amica,
ch'or da voi mi tolgo, e mi ritiro
ne le tenebre mie. Tu, nostro onore,
vatten felice, già che scòrto sei
da miglior fato; e meglio te
n'avvenga».
Tanto sol disse, e sparve. Enea si volse
prima a sinistra, e
sotto un'alta rupe
vide un'ampia città che tre gironi
avea di mura, ed
un di fiume intorno;
ed era il fiume il negro Flegetonte,
ch'al Tartaro
con suono e con rapina
l'onde seco traea, le fiamme e i sassi.
Vede nel
primo incontro una gran porta
c'ha la soglia, i pilastri e le colonne
d'un tal diamante, che le forze umane,
né degli stessi dèi, romper nol
ponno.
Quindi si spicca una gran torre in alto
tutta di ferro. A guardia
de l'entrata
la notte e 'l giorno vigilando assisa
sta la fiera Tesífone
succinta,
col braccio ignudo, insanguinata e torva.
Quinci di lai, di
pianti e di percosse
e di stridor di ferri e di catene
cotale un suono
udissi, che spavento
Enea sentinne; e rattenuto il passo:
«Dimmi,
vergine, - disse, - e che delitti
son qui puniti? e che pianti son questi?»
Ed ella: «Inclito sire, a nessun lece,
che buono e giusto sia, di
portar oltre
da quella soglia scelerata il piede.
Ma me di ciò che
dentro vi s'accoglie
Ècate instrusse allor ch'ai sacri boschi
mi prepose
d'Averno; e d'ogni pena
e d'ogni colpa e d'ogni loco a pieno,
quando
seco vi fui, notizia diemmi.
Questo è di Radamanto il tristo regno,
là
dov'egli ode, esamina, condanna
e discuopre i peccati che di sopra
son
da le genti o vanamente ascosi
in vita, o non purgati anzi a la morte:
né pria di Radamanto esce il precetto,
che Tesífone è presta ad
eseguirlo.
Ella con l'una man la sferza impugna,
ne l'altra ha serpi; ed
ambe intorno arrosta,
e grida e fère, e de le sue sorelle
le mostruose
ed empie schiere tutte
al ministerio de' tormenti invita.
Apronsi
l'esecrate orrende porte
stridendo intanto. Tu, che quinci vedi
che
faccia è quella che di fuor le guarda,
pensa qual a veder sia dentro un'Idra
ancor piú fiera aprir cinquanta ingorde
rabbiose bocche. Il Tartaro vien
dopo;
una vorago che due volte tanto
ha di profondo, quanto in su
guardando
è da la terra al cielo: e qui ne l'imo
suo baratro dal fulmine
trafitti
son gli antichi Titani al ciel rubelli.
Qui vidi ambi d'Alòo
gli orrendi figli,
che scinder con le mani il cielo osaro,
e tôr lo
scettro del suo regno a Giove.
Vidivi l'orgoglioso Salmonèo
di sua
temerità pagare il fio;
ché temerario veramente ed empio
fu di voler,
quale il Tonante in cielo,
tonar qua giuso e folgorare a pruova.
Questi
su quattro suoi giunti destrieri,
la man di face armato alteramente
per
la Grecia scorrendo, e fin per mezzo
d'Èlide, ov'è di Giove il maggior
tempio,
di Giove stesso il nume, e de gli dèi
s'attribuiva i sacrosanti
onori.
Folle, che con le fiaccole e co' bronzi,
e con lo scalpitar de'
suoi ronzoni
i tuoni, i nembi e i folgori imitava,
ch'imitar non si
ponno: e ben fu degno
ch'ei provasse per man del padre eterno
d'altro
fulmine il colpo e d'altro vampo
che di tede e di fumo, e degno ancora
che nel baratro andasse. Eravi Tizio,
quei de la terra smisurato alunno,
che tien disteso di campagna quanto
un giogo in nove giorni ara di buoi.
Questi ha sopra un famelico avoltore,
che con l'adunco rostro al cor
d'intorno
gli picchia e rode; e perché sempre il pasca,
non mai lo scema
sí che 'l pasto eterno
ed eterna non sia la pena sua;
ché fatto a chi lo
scempia esca e ricetto,
del suo proprio martir s'avanza e cresce;
e
perché sempre langua, unqua non more.
De' Làpiti a che parlo? d'Issïóne
di Piritòo, e di quegli altri tutti
cui sopra al capo un'atra selce
pende,
che grave e ruinosa ad ora ad ora
sembra che caggia? Avvi la
mensa d'oro
con prezïosi cibi in regia guisa
apparecchiati e proibiti
insieme:
ché la Fame, infernal furia maggiore,
gli siede accanto; e com'
piú 'l gusto incende
di lui, piú dal gustarne indietro il tragge,
e
sorge, e la sua face estolle e grida.
Quei che son vissi ai lor fratelli
amari;
quei c'han battuti i padri; quei che frode
hanno ordito a'
clienti; i ricchi avari,
e scarsi a' suoi, di cui la turba è grande:
gli
occisi in adulterio; i vïolenti,
gl'infidi, i traditori in questo abisso
han tutti i lor ridotti e le lor pene.
E che pena e che forma e che
fortuna
di ciascun sia, non è d'uopo ch'io dica:
ma chi sassi rivolgono,
e chi vòlti
son da le ruote, ed altri in altra guisa
son tormentati. In
un petron confitto
vi siede e sederavvi eternamente
Tèseo infelice; e
Flegia infelicissimo
va tra l'ombre gridando ad alta voce:
"Imparate da
me voi che mirate
la pena mia: non vïolate il giusto,
riverite gli dèi".
Tra questi tali
è chi vendé la patria; chi la pose
al giogo de' tiranni;
chi per prezzo
fece leggi e disfece; e cento lingue
e cento bocche, e
voci anco di ferro,
non basterian per divisare i nomi
e le forme de'
vizi e de le pene
ch'entro vi sono». Poi che la Sibilla
ebbe ciò detto:
«Via - soggiunse, - attendi
a l'impreso viaggio, e studia il passo:
ché
già le mura da' Ciclopi estrutte
mi veggio avanti, e sotto a quel grand'arco
la sacra porta che 'l tuo dono aspetta».
Cosí mossi ambedue, lo spazio
tutto,
ch'era nel mezzo, per sentiero opaco
tosto varcando, anzi a la
porta furo.
Incontinente Enea l'intrata occúpa;
di viva acqua si
spruzza: e 'l sacro ramo
a la regina de l'inferno affigge.
Ciò fatto,
a i luoghi di letizia pieni,
a l'amene verdure, a le gioiose
contrade
de' felici e de' beati
giunsero al fine. È questa una campagna
con un
aër piú largo, e con la terra
che di un lume di purpura è vestita,
ed ha
'l suo sole e le sue stelle anch'ella.
Qui se ne stan le fortunate genti,
parte in su' prati e parte in su l'arena
scorrendo, lotteggiando, e vari
giuochi
di piacevol contesa esercitando;
parte in musiche, in feste, in
balli, in suoni
se ne van diportando, ed han con essi
il tracio Orfeo,
ch'in lungo abito e sacro
or con le dita, ed or col plettro eburno,
sette nervi diversi insieme uniti,
tragge del muto legno umani accenti.
Qui di Teucro l'antica e bella razza
facea soggiorno; quei famosi eroi
che in quei tempi migliori al mondo furo,
Ilo, Assàraco, Dàrdano, quei
primi
de la gran Troia fondatori e regi.
Veggon da lunge le vane arme e
i carri
a lor d'intorno, e l'aste in terra fisse,
e gli sciolti destrier
per la campagna
vagar pascendo; ché 'l diletto antico
e de l'armi e de'
carri e de' cavalli
gli segue anco sotterra. Indi altri altrove
scorgono, che da destra e da sinistra
convivando e cantando, sopra
l'erba
si stanno assisi, ed han di lauri intorno
un odorato bosco, onde
il Po sorge
sopra la terra, e spazïoso inonda.
E questi eran color che
combattendo
non fûr di sangue a la lor patria avari;
e quei che
sacerdoti erano in vita
castamente vissuti, e quei veraci
e quei pii
c'han di qua parlato o scritto
cose degne di Febo, e gl'inventori
de
l'arti, ond'è gentile il mondo e bello;
e quei che ben oprando han tra'
mortali
fatto di fama e di memoria acquisto;
cui tutti, in segno di
celeste onore,
candida benda il fronte orna e colora.
A questi, ch'a
la vergine Sibilla
fêr cerchio intorno, ed a Musèo tra loro,
che dagli
omeri in su gli altri avanzava,
diss'ella: «Alme felici e tu, buon vate,
ditene in qual contrada, e 'n qual magione
qui tra voi si ripara il
grande Anchise,
ché lui cerchiamo, e sol per lui varcati
d'Èrebo i fiumi
e le caverne avemo».
A cui Musèo cosí breve rispose:
«Nullo è di noi
che in alcun luogo alloggi
come in suo proprio; e tutti o per le sacre
opache selve, o per l'amene rive
de' chiari fiumi, o per gli erbosi
prati
tra rivi e fonti i nostri alberghi avemo.
Ma se di ciò vi cale,
itene meco
sovr'a quel giogo; e quindi agevolmente
il sentier ne
vedrete». In ciò si mosse
come lor guida, e sopra al colle asceso,
mostrò lor d'alto i luminosi campi,
additò 'l calle, ed invïolli al
piano.
Era per avventura in una valle
Anchise, che da poggi era
ricinta,
e di verde coverta. Ivi in disparte
de' suoi nepoti avea
l'anime accolte
ch'a la vita di sopra eran chiamate,
e facendo di lor
rassegna e mostra
gli annoverava, esaminava i fati,
le fortune, il valor
di mano in mano,
gli ordini e i tempi loro. Enea comparve
sul campo
intanto; a cui tosto che 'l vide,
lieto Anchise avventossi e con le braccia
in atto d'accoglienza: «O figlio, - disse
dolcemente piangendo - io pur
ti veggio.
Pur sei venuto, ha pur la tua pietade
superati i disagi e la
durezza
di sí strano vïaggio. Ecco m'è dato
di veder, figlio, il tuo
bramato aspetto,
e sentirti e parlarti. Io di ciò punto
non era in
forse, e sol pensava al quando,
contando i giorni. Oh, dopo quanti affanni,
dopo quanti perigli, e quanti storpi
e di mare e di terra io ti
riveggio!
E quanto ebbi timor che di Cartago
venisse al corso tuo
sinistro intoppo!»
Ed egli a lui: «La sconsolata imago,
che m'è,
padre, di te sovente apparsa,
per te, per te veder qua giú m'ha tratto:
e di sopra fin qui salvo a la riva
del mar Tirreno il mio navile è
sorto.
Or dammi, padre mio, dammi ch'io giunga
la mia con la tua destra,
e grazia fammi
che di vederti e di parlarti io goda».
Mentre cosí
dicea, di largo pianto
rigava il volto, e distendea le palme;
e tre
volte abbracciandolo, altrettante
(come vento stringesse o fumo o sogno)
se ne tornò con le man vòte al petto.
Intanto Enea per entro a la gran
valle
vide scevra da l'altre una foresta,
i cui rami sonar da lunge
udiva.
A piè di questa era di Lete il rio
ch'ai dilettosi e fortunati
campi
correa davanti; e piene avea le ripe
di genti innumerabili,
ch'intorno
a caterve alïando ivano in guisa
che fan le pecchie a' chiari
giorni estivi,
quando di fiore in fior, di giglio in giglio
si van
posando, e per l'apriche piagge
dolcemente ronzando. Enea, che nulla
di
ciò sapea, di súbito stupore
fu sopraggiunto, e la cagion spiando:
«O -
disse - padre, che riviera è quella?
e che gente, e che mischia, e che
bisbiglio?» -
«L'anime - gli rispose - a cui dovuti
sono altri corpi,
a questo fiume accolte
beon dimenticanze e lunghi oblii
de l'altra vita;
e questi io desïava
che tu vedessi, e che da me n'udissi
i nomi e i
gesti, onde contezza appieno
del nostro sangue, e piena gioia avessi
dell'acquisto d'Italia». «O padre, adunque -
soggiunse Enea - creder si
dee che l'alme,
che son qui scarche e libere e felici,
cerchin di nuovo
a la terrena salma,
di nuovo a la prigion tornar de' corpi?
E qual,
misere loro! empio desire
del lume di lassú tanto le invoglia?»
«Figlio, - rispose Anchise, - acciò sospeso
piú non vacilli in questo
dubbio, ascolta».
E 'n tal guisa per ordine gli narra:
«Primieramente
il ciel, la terra e 'l mare,
l'aër, la luna, il sol, quanto è nascosto,
quanto appare e quant'è, muove, nudrisce
e regge un, che v'è dentro, o
spirto o mente
o anima che sia de l'universo;
che sparsa per lo tutto e
per le parti
di sí gran mole, di sé l'empie, e seco
si volge, si
rimescola e s'unisce.
Quinci l'uman legnaggio, i bruti, i pesci,
e ciò
che vola, e ciò che serpe, han vita,
e dal foco e dal ciel vigore e seme
traggon, se non se quanto il pondo e 'l gelo
de' gravi corpi, e le
caduche membra
le fan terrene e tarde. E quinci ancora
avvien che téma e
speme e duolo e gioia
vivendo le conturba, e che rinchiuse
nel tenebroso
carcere, e ne l'ombra
del mortal velo, a le bellezze eterne
non ergon
gli occhi. Ed oltre a ciò, morendo,
perché sian fuor de la terrena vesta,
non del tutto si spoglian le meschine
de le sue macchie; ché 'l corporeo
lezzo
sí l'ha per lungo suo contagio infette,
che scevre anco dal corpo,
in nuova guisa
le tien contaminate, impure e sozze.
Perciò di purga han
d'uopo, e per purgarle
son de l'antiche colpe in vari modi
punite e
travagliate: altre ne l'aura
sospese al vento, altre ne l'acqua immerse,
ed altre al foco raffinate ed arse:
ché quale è di ciascuna il genio e
'l fallo,
tale è 'l castigo. Indi a venir n'è dato
negli ampi elisi
campi; e poche siamo
cui sí lieto soggiorno si destini.
Qui stiamo infin
che 'l tempo a ciò prescritto
d'ogni immondizia ne forbisca e terga,
sí
ch'a nitida fiamma, a semplice aura,
a puro eterio senso ne riduca.
Quest'alme tutte, poiché di mill'anni
han vòlto il giro, alfin son qui
chiamate
di Lete al fiume, e 'n quella riva fanno,
qual tu vedi colà,
turba e concorso.
Dio le vi chiama, acciò ch'ivi deposto
ogni ricordo,
men de' corpi schive,
e piú vaghe di vita, un'altra volta
tornin di
sopra a riveder le stelle».
Ciò detto, Anchise a quelle genti in mezzo
condusse il figlio, e la Sibilla insieme;
e prese un colle, ove le
schiere tutte,
sí come ne venian di mano in mano,
avea d'incontro, e le
scorgea nel volto.
«Or qui ti mostrerò, - soggiunse Anchise, -
quanta
sarà ne' secoli futuri
la gloria nostra; quanti e quai nepoti
de la
dardania prole a nascer hanno;
e quante del mio sangue anime illustri
sorgeranno in Italia. Indi a te conte
le tue fortune e i tuoi fati
saranno.
Vedi colà quel giovinetto ardito
che su quell'asta pura il
braccio appoggia?
Quegli a la luce è destinato in prima,
primo che di
Lavinia in Lazio avrai
figlio postumo a te già d'anni grave,
ch'alfin da
lei fuor de le selve addutto,
re sarà d'Alba, e degli albani regi
autore
e padre: e Silvi dal suo nome
fian tutti i nostri, che da lui discesi
ivi poscia gran tempo imperio avranno.
Proca è quei dopo lui, gloria e
splendore
de la stirpe troiana: e quegli è Capi,
e quegli è Numitore: e
l'altro appresso
è Silvio Enea, che 'l tuo nome rinnova;
e se fia mai
che 'l suo regno ricovri,
non sarà men di te pietoso e forte.
Mira che
gioventú, mira che forze
mostran, solo a vederli. Appo costoro
quei che
son là di quercia inghirlandati,
di Gabi, di Nomento e di Fidene
parte
propagheranti il picciol regno,
parte su' monti il tempio ti porranno
d'Inúo, e la terra che da lui dirassi,
e Collazia e Pomezia e Bola e
Cora;
ché questi nomi allor quei luoghi avranno
ch'or ne son senza. In
compagnia de l'avo
Romolo se ne vien, di Marte il figlio,
di Roma il
padre. Al mondo Ilia darallo
de la stirpe d'Assàraco un rampollo.
Vedil
colà, c'ha in su la testa un elmo
con due cimieri, e tal, che il padre
stesso
già par ch'in cielo e nel suo seggio il ponga.
Questi, figlio,
sarà quel grand'eroe,
onde i suoi primi glorïosi auspici
avrà l'inclita
Roma, quella Roma,
che, sette monti entro al suo cerchio accolti,
tanto
si stenderà, che fia con l'armi
uguale al mondo, e con le menti al cielo;
Roma di cosí prodi e chiari figli
madre felice. Tal di Berecinto
la
maggior madre infra i leoni assisa,
e di torri altamente incoronata,
va
per la Frigia, glorïosa e lieta
che tanti ha figli in ciel, nepoti in seno,
tutti che dii già sono o dii si fanno.
Or qui, figliuolo, ambe le luci
affisa
a mirar la tua gente e i tuoi Romani.
Cesare è qui, qui la
progenie è tutta
del grande Iulo, a cui già s'apre il cielo.
Questi,
questi, è colui che tante volte
t'è già promesso, il gran Cesare Augusto,
di divo padre figlio, e divo anch'egli.
Per lui risorgerà quel secol
d'oro,
quel del vecchio Saturno antico regno,
che fe' il Lazio sí bello
e 'l mondo tutto.
Quest'oltre ai Garamanti ed oltre agl'Indi
impererà
fin dove il sole e l'anno
non giunge, e piú non va se non s'arretra;
trapasserà di là dal mauro Atlante
che con gli omeri suoi folce le
stelle.
Al venir di costui, sol de la voce
che ne dànno i profeti, i
Caspi regni,
la Meotica terra, e quanto inonda
il sette volte geminato
Nilo,
tremar già veggio, e star pensoso e mesto.
Tanto del mondo il
glorïoso Alcide
non corse mai, se ben de' Cereniti,
di Lerna e
d'Erimanto i mostri ancise:
né tanto ne domò chi domò gl'Indi,
e nel
trionfo suo di viti e pampini
a le tigri di Nisa il giogo impose.
E sarà
poi che 'l valor nostro manchi
di gloria, e tu di speme e d'ardimento
di
far d'Ausonia il desïato acquisto?
Ma chi fia questi che da lungi scorgo
sí venerando, il crin cinto d'olivo,
con quelle bende e con quei sacri
arredi?
A la chioma, a la barba irta e canuta
mi sembra, ed è di Roma il
santo rege,
che dal picciolo Curi a grande impero
sarà da lei chiamato,
e sarà il primo
che cerimonie introdurravvi e leggi.
A lui Tullo vien
dopo, il forte e saggio,
ch'ai dismessi trionfi rivocando
la gente già
per lunga pace imbelle,
la tornerà, di neghittosa e mite,
un'altra volta
armigera e guerriera.
Anco è quell'altro che lo segue appresso,
che
d'onor troppo e del favor del volgo
di già si mostra ambizïoso e vago.
Or vedi là, se di vederli agogni,
anco i Tarquini regi, e quel superbo
vendicator de la superbia loro,
Bruto, consol primiero, e quei suoi
fasci
e quelle accette ond'ei, padre crudele,
de la patria buon figlio,
i figli suoi
per l'altrui bella libertate ancide.
Infortunato lui! che
che dipoi
de la posterità se ne favelle.
Vince il publico amore, e 'l
gran desio
d'umana lode in lui l'affetto interno
de la natura e del suo
sangue stesso.
Mira poco in disparte i Deci, i Drusi,
il severo
Torquato e 'l buon Camillo;
l'uno che tien già la secure in mano,
e
l'altro che da' Galli ne riporta
i perduti vessilli. I due, che vedi
sí
risplender ne l'armi, e che rinchiusi
in questa notte, sembrano a la vista
gir di pari e d'accordo, oh se a la vita
vengon di sopra, quanta guerra
e quale,
con che strage di genti e con che forze,
faran tra loro! Il
suocero da l'Alpi
e da l'occaso, il genero da l'orto
verrà l'un contra
l'altro. Ah figli, ah figli,
non cosí rio, non cosí fiero abuso
d'armar
voi contr'a voi, contr'a le viscere
de la gran patria vostra! e tu che
traggi
dal ciel legnaggio, tu, mio sangue, astienti
da tanta ferità;
perdona il primo,
e gitta l'armi in terra. Ecco chi vince
Corinto e 'l
popol greco, e 'n Campidoglio
trïonfando ne saglie. Ecco chi d'Argo
e di
Micena ancor le torri abbatte,
e chi Pirro debella e 'l seme estingue
del bellicoso Achille; alta vendetta
che ben degli avi ricompensa i
danni,
e 'l tempio vïolato di Minerva.
Dove lass'io te, gran Catone, e
Cosso?
E i Gracchi, e i due gran folgori di guerra
ambedue Scipïoni,
ambi Africani,
strage l'un di Cartago, e l'altro esizio?
Dove Fabrizio
il povero, e potente,
con la sua povertà? Dove Serrano,
ch'e di bifolco,
al grande imperio assunto?
Dove restano i Fabi? Eccone un solo,
Massimo
veramente, che con arte
terrà il nemico tranquillando a bada.
Abbinsi
gli altri de l'altre arti il vanto;
avvivino i colori e i bronzi e i marmi;
muovano con la lingua i tribunali,
mostrin con l'astrolabio e col
quadrante
meglio del ciel le stelle e i moti loro:
ché ciò meglio sapran
forse di voi:
ma voi, Romani miei, reggete il mondo
con l'imperio e con
l'armi, e l'arti vostre
sien l'esser giusti in pace, invitti in guerra:
perdonare a' soggetti, accôr gli umíli,
debellare i superbi». In questa
guisa
parlava il santo vèglio, ed essi attenti
stavan con maraviglia ad
ascoltarlo,
quando soggiunse: «Ecco di qua Marcello;
mira come se
n'entra adorno e carco
d'opime spoglie, e quanto a gli altri avanza.
Quest'è quel generoso, ch'a grand'uopo
vien di Roma a domare i Peni, i
Galli,
e del gallico duce i fregi e l'armi
la terza volta al gran
Quirino appende».
Qui vide Enea ch'un giovinetto a pari
gli si traea,
ch'era d'arnesi e d'armi,
e via piú di beltà, vago e lucente;
se non che
poco lieta avea la fronte
e chino il viso. Onde rivolto al padre:
«E chi
- disse - è costui che l'accompagna?
Saria de' figli, o de' nipoti alcuno
del gran nostro legnaggio? E che bisbiglio
e che mischia ha d'intorno? O
quale e quanto
di già mi sembra! Ma gli veggio al capo
d'atra notte
girar di sopra un nembo».
Anchise lagrimando gli rispose:
«Amaro
desiderio il cor ti tocca
a voler, figlio, un gran danno, un gran lutto
udir de' tuoi. Questi a la luce a pena
verrà, che ne fia tolto. O dii
superni,
troppo parravvi la romana stirpe
possente allor che in sul
fiorir preciso
ne fia sí vago e sí gentile arbusto.
O che duolo, o che
pianto, o che funèbre
pompa ne vedrà Roma e 'l Marzio campo!
Qual,
Tiberino padre, a la tua riva
nuova se n'ergerà funesta mole!
Germe non
sorgerà del seme d'Ilio
piú di questo gradito, né che tanto
de' latini
avi suoi la speme estolla:
né la terra di Romolo arà mai
figlio, onde
piú si pregi e piú si vanti.
O pietà non piú vista; o fede antica!
O
virtú senza pari! E qual ne l'armi
sarà? Chi sosterrà l'incontro suo
pedone o cavalier ch'armato in giostra,
o pur nel campo, il suo nemico
assalga?
Miserabil fanciullo! Cosí morte
te non vincesse, come invitto
fôra
il tuo valore, e come tu, Marcello,
non men de l'altro, eroica
vertute,
e piú splendore e piú fortuna avesti!
Datemi a piene mani,
ond'io di gigli
e di purpurei fiori un nembo sparga,
ché, se ben contro
al già fisso destino
m'adopro invano, almen con questi doni
l'ombra d'un
tanto mio nipote onori».
Dopo ciò detto, per gli aerei campi
vagando,
a parte a parte e l'ombre e i lochi
gli mostrò, l'invaghí, tutto d'amore
de la futura gloria il cor gli accese.
Indi le guerre e le fortune sue
d'Italia, di Laurento, e di Latino
la figlia, il regno, i popoli e lo
stato
tutto gli rivelò. D'ogni suo affanno
(come a fuggir, come a
soffrir l'avesse)
gli diè lume e compenso. Escono i Sogni
d'inferno per
due porte; una è di corno,
l'altra è d'avorio: manda il corno i veri,
l'avorio i falsi; e per l'eburna Anchise
diede (quando lor diè commiato
alfine)
a la Sibilla ed al suo figlio uscita.
Enea verso le navi a'
suoi compagni
fece ritorno. Indi sciogliendo, dritto
lungo la riva il
suo corso riprese;
e giunto ov'oggi è di Caieta il porto,
l'afferrò,
gittò l'àncore, e fermossi.
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