Eneide

Tradotto da Annibal Caro

 

Libro I

Quell'io che già tra selve e tra pastori
di Titiro sonai l'umil sampogna,
e che, de' boschi uscendo. a mano a mano
fei pingui e cólti i campi, e pieni i vóti
d'ogn'ingordo colono, opra che forse
agli agricoli è grata; ora di Marte

L'armi canto e 'l valor del grand'eroe
che pria da Troia, per destino, a i liti
d'Italia e di Lavinio errando venne;
e quanto errò, quanto sofferse, in quanti
e di terra e di mar perigli incorse,
come il traea l'insuperabil forza
del cielo, e di Giunon l'ira tenace;
e con che dura e sanguinosa guerra
fondò la sua cittade, e gli suoi dèi
ripose in Lazio: onde cotanto crebbe
il nome de' Latini, il regno d'Alba,
e le mura e l'imperio alto di Roma.
  Musa, tu che di ciò sai le cagioni,
tu le mi detta. Qual dolor, qual onta
fece la dea ch'è pur donna e regina
de gli altri dèi, sí nequitosa ed empia
contra un sí pio? Qual suo nume l'espose
per tanti casi a tanti affanni? Ahi! tanto
possono ancor là su l'ire e gli sdegni?
  Grande, antica, possente e bellicosa
colonia de' Fenici era Cartago,
posta da lunge incontr'Italia e 'ncontra
a la foce del Tebro: a Giunon cara
sí, che le fûr men care ed Argo e Samo.
Qui pose l'armi sue, qui pose il carro,
qui di porre avea già disegno e cura
(se tale era il suo fato) il maggior seggio,
e lo scettro anco universal del mondo.
  Ma già contezza avea ch'era di Troia
per uscire una gente, onde vedrebbe
le sue torri superbe a terra sparse,
e de la sua ruina alzarsi in tanto,
tanto avanzar d'orgoglio e di potenza,
che ancor de l'universo imperio avrebbe:
tal de le Parche la volubil rota
girar saldo decreto. Ella, che téma
avea di ciò, non posto anco in oblio
come, a difesa de' suoi cari Argivi,
fosse a Troia acerbissima guerriera,
ripetendone i semi e le cagioni,
se ne sentia nel cor profondamente
or di Pari il giudicio, or l'arroganza
d'Antígone, il concúbito d'Elettra,
lo scorno d'Ebe, alfin di Ganimede
e la rapina e i non dovuti onori.
  Da tante, oltre al timor, faville accesa,
quei pochi afflitti e miseri Troiani
ch'avanzaro agl'incendi, a le ruine,
al mare, ai Greci, al dispietato Achille,
tenea lunge dal Lazio; onde gran tempo,
combattuti da' vènti e dal destino,
per tutti i mari andâr raminghi e sparsi:
di sí gravoso affar, di sí gran mole
fu dar principio a la romana gente.
  Eran di poco, e del cospetto a pena
de la Sicilia navigando usciti,
e già, preso de l'alto, a piene vele
se ne gian baldanzosi, e con le prore
e co' remi facean l'onde spumose,
quando, punta Giunon d'amara doglia:
«Dunque, - disse - ch'io ceda? e che di Troia
venga a signoreggiar Italia un re,
ch'io nol distorni? Oh, mi son contra i fati!
Mi sieno: osò pur Pallade, e poteo
ardere e soffocar già degli Argivi
tanti navili, e tanti corpi ancidere
per lieve colpa e folle amor d'un solo,
Aiace d'Oïlèo. Contra costui
ella stessa vibrò di Giove il tèlo
giú dalle nubi; ella commosse i vènti
e turbò 'l mare, e i suoi legni disperse:
e quando ei già dal fulminato petto
sangue e fiamme anelava, a tale un turbo
in preda il diè, che per acuti scogli
miserabil ne fe' rapina e scempio.
Tanto può Palla? Ed io, io de gli dèi
regina, io sposa del gran Giove e suora,
son di quest'una gente omai tant'anni
nimica in vano? E chi piú de' mortali
sarà che mi sacrifichi, e m'adori?»
  Ciò fra suo cor la dea fremendo ancora,
giunse in Eòlia, di procelle e d'àustri
e de le furie lor patria feconda.
Eolo è suo re, ch'ivi in un antro immenso
le sonore tempeste e i tempestosi
vènti, sí com'è d'uopo, affrena e regge.
Eglino impetuosi e ribellanti
tal fra lor fanno e per quei chiostri un fremito,
che ne trema la terra e n'urla il monte.
Ed ei lor sopra, realmente adorno
di corona e di scettro, in alto assiso,
l'ira e gl'impeti lor mitiga e molce.
Se ciò non fosse, il mar, la terra e 'l cielo
lacerati da lor, confusi e sparsi
con essi andrian per lo gran vano a volo;
ma la possa maggior del padre eterno
provvide a tanto mal serragli e tenebre
d'abissi e di caverne; e moli e monti
lor sopra impose; ed a re tale il freno
ne diè, ch'ei ne potesse or questi or quelli
con certa legge o rattenere o spingere.
A cui davanti l'orgogliosa Giuno
allor umíle e supplichevol disse:
«Eölo, poi che 'l gran padre del cielo
a tanto ministerio ti prepose
di correggere i vènti e turbar l'onde,
gente inimica a me, mal grado mio,
naviga il mar Tirreno; e giunta a vista
è già d'Italia, al cui reame aspira;
e d'Ilio le reliquie, anzi Ilio tutto
seco v'adduce e i suoi vinti Penati.
Sciogli, spingi i tuoi vènti, gonfia l'onde,
aggiragli, confondigli, sommergigli,
o dispergigli almeno. Appo me sono
sette e sette leggiadre ninfe e belle;
e di tutte piú bella e piú leggiadra
è Deiopèa. Costei vogl'io, per merto
di ciò, che sia tua sposa; e che tu seco
di nodo indissolubile congiunto,
viva lieto mai sempre, e ne divenga
padre di bella e di te degna prole».
  Eolo a rincontro: «A te, regina, - disse -
conviensi che tu scopra i tuoi desiri,
ed a me ch'io gli adempia. Io ciò che sono
son qui per te. Tu mi fai Giove amico,
tu mi dài questo scettro e questo regno;
se re può dirsi un che comandi a' vènti.
Io, tua mercé, su co' celesti a mensa
nel ciel m'assido; e co' mortali in terra
son di nembi possente e di tempeste».
  Cosí dicendo, al cavernoso monte
con lo scettro d'un urto il fianco aperse,
onde repente a stuolo i vènti usciro.
Avean già co' lor turbini ripieni
di polve e di tumulto i colli e i campi,
quando quasi in un gruppo ed Euro e Noto
s'avventaron nel mare, e fin da l'imo
lo turbâr sí, che ne fêr valli e monti;
monti, ch'al ciel, quasi di neve aspersi,
sorti l'un dopo l'altro, a mille a mille
volgendo, se ne gian caduchi e mobili
con suono e con ruina i liti a frangere.
Il grido, lo stridore, il cigolare
de' legni, de le sarte e de le genti,
i nugoli che 'l cielo e 'l dí velavano,
la buia notte, ond'era il mar coverto,
i tuoni, i lampi spaventosi e spessi,
tutto ciò che s'udia, ciò che vedevasi
rappresentava orror, perigli e morte.
Smarrissi Enea di tanto, e tale un gelo
sentissi, che tremante al ciel si volse
con le man giunte, e sospirando disse:
  «O mille volte fortunati e mille
color che sotto Troia e nel cospetto
de' padri e de la patria ebbero in sorte
di morir combattendo! O di Tidèo
fortissimo figliuol, ch'io non potessi
cader per le tue mani, e lasciar ivi
questa vita affannosa, ove lasciolla
vinto per man del bellicoso Achille,
Ettor famoso e Sarpedonte altero?
E se d'acqua perire era il mio fato,
perché non dove Xanto o Simoenta
volgon tant'armi e tanti corpi nobili?»
  Cosí dicea; quand'ecco d'Aquilone
una buffa a rincontro, che stridendo
squarciò la vela, e 'l mar spinse a le stelle,
Fiaccârsi i remi; e là 've era la prua,
girossi il fianco; e d'acqua un monte intanto
venne come dal cielo a cader giú.
Pendono or questi or quelli a l'onde in cima;
or a questi or a quei s'apre la terra
fra due liquidi monti, ove l'arena,
non men ch'ai liti, si raggira e ferve.
  Tre ne furon dal Noto a l'Are spinte;
- Are chiaman gli Ausoni un sasso alpestro
da l'altezza de l'onde allor celato,
che sorgea primo in alto mare altissimo -
e tre ne fûr dal pelago a le Sirti,
(miserabile aspetto) ne le secche
tratte da l'Euro, e ne l'arene immerse.
Una, che 'l carco avea del fido Oronte
con le genti di Licia, avanti agli occhi
di lui perí. Venne da Bora un'onda,
anzi un mar, che da poppa in guisa urtolla,
che 'l temon fuori e 'l temonier ne spinse;
e lei girò sí che 'l suo giro stesso
le si fe' sotto e vortice e vorago,
da cui rapita, vacillante e china,
quasi stanco palèo, tre volte volta,
calossi gorgogliando, e s'affondò.
  Già per l'ondoso mar disperse e rare
le navi e i naviganti si vedevano;
già per tutto di Troia, a l'onde in preda,
arme, tavole, arnesi a nuoto andavano;
già quel ch'era piú valido e piú forte
legno d'Ilïonèo, già quel d'Acate
e quel d'Abante e quel del vecchio Alete,
ed alfin tutti sconquassati, a l'onde
micidïali aveano i fianchi aperti;
quando, a tanto rumor, da l'antro uscito
il gran Nettuno, e visto del suo regno
rimescolarsi i piú riposti fondi:
«Oh - disse irato - ond'è questa importuna
tempesta?» E grazïoso il capo fuori
trasse de l'onde; e rimirando intorno,
per lo mar tutto dissipati e laceri
vide i legni d'Enea; vide lo strazio
de' suoi ch'a la tempesta, a la ruina
e del mare e del cielo erano esposti.
E ben conobbe in ciò, come suo frate,
che ne fôra cagion l'ira e la froda
de l'empia Giuno. Euro a sé chiama e Zefiro,
e 'n tal guisa acremente li rampogna:
  «Tanta ancor tracotanza in voi s'alletta,
razza perversa? Voi, voi, senza me,
nel regno mio la terra e 'l ciel confondere,
e far nel mare un sí gran moto osate?
Io vi farò... Ma di mestiero è prima
abbonazzar quest'onde. Altra fiata
in altra guisa il fio mi pagherete
del fallir vostro. Via tosto di qua,
spirti malvagi; e da mia parte dite
al vostro re che questo regno e questo
tridente è mio, e che a me solo è dato.
Per lui sono i suoi sassi e le sue grotte,
case degne di voi; quella è sua reggia;
quivi solo si vanti; e per regnare,
de la prigion de' suoi vènti non esca».
  Cosí dicendo, in quanto a pena il disse,
la tempesta cessò, s'acquetò 'l mare,
si dileguâr le nubi, apparve il sole.
Cimòtoe e Triton, l'una con l'onde,
l'altro col dorso, le tre navi indietro
ritirâr da lo scoglio in cui percossero.
Le tre che ne l'arena eran sepolte,
egli stesso, le vaste sirti aprendo,
sollevò col tridente ed a sé trassele.
Poscia sovra al suo carro d'ogn'intorno
scorrendo lievemente, ovunque apparve,
agguagliò 'l mare, e lo ripose in calma.
  Come addivien sovente in un gran popolo,
allor che per discordia si tumultua,
e imperversando va la plebe ignobile,
quando l'aste e le faci e i sassi volano
e l'impeto e 'l furor l'arme ministrano,
se grave personaggio e di gran merito
esce lor contro, rispettosi e timidi,
fatto silenzio, attentamente ascoltano,
ed al detto di lui tutti s'acquetano;
cosí d'ogni ruina e d'ogni strepito
fu 'l mar disgombro, allor che umíle e placido
a ciel aperto il gran rettor del pelago
co' suoi lievi destrier volando scórselo.
Stanchi i Troiani, ai liti ch'eran prossimi
drizzaro il corso, e 'n Libia si trovarono.
  È di là lungo a la riviera un seno,
anzi un porto; ché porto un'isoletta
lo fa, che in su la bocca al mare opponsi.
Questa si sporge co' suoi fianchi in guisa
ch'ogni vento, ogni flutto, d'ogni lato
che vi percuota, ritrovando intoppo,
o si frange, o si sparte, o si riversa.
Quinci e quindi alti scogli e rupi altissime,
sotto cui stagna spazïoso un golfo
securo e queto: e v'ha d'alberi sopra
tale una scena, che la luce e 'l sole
vi raggia, e non penètra: un'ombra opaca,
anzi un orror di selve annose e folte.
D'incontro è di gran massi e di pendenti
scogli un antro muscoso, in cui dolci acque
fan dolce suono; e v'ha sedili e sponde
di vivo sasso: albergo veramente
di ninfe, ove a fermar le stanche navi
né d'àncora v'è d'uopo, né di sarte.
Qui sol con sette, che raccolse a pena
di tanti legni, Enea ricoverossi.
Qui stanchi tutti e maceri, e del mare
ancor paurosi, i liti a pena attinsero,
che a terra avidamente si gittarono.
Acate fece in pria selce e focíle
scintillar foco, e dièlli esca e fomento.
Altri poscia d'intorno ad altri fuochi
(come quei che di vitto avean disagio,
e le biade trovâr corrotte e molli)
si diêr con vari studi e vari ordigni
a rasciugarle, a macinarle, a cuocerle.
  Intanto Enea sovr'un de' scogli asceso,
quanto si discopria con l'occhio intorno,
stava mirando s'alcun legno fosse
per alcun luogo apparso, o quel d'Antèo,
o quel di Capi, o pur quel di Caíco
che in poppa avea la piú sublime insegna.
Nïun ne vide: ma ben vide errando
gir per la spiaggia tre gran cervi, e dietro
d'altri minori innumerabil torma,
che in sembianza d'armenti empian le valli.
Fermossi: e pronto a cotal uso avendo
l'arco e 'l turcasso (ché quest'armi appresso
gli portava mai sempre il fido Acate),
diè lor di piglio: e saettando prima
i primi tre, che piú vide altamente
erger le teste e inalberar le corna,
contra 'l volgo si volse; e 'l lito e 'l bosco,
ovunque gli scorgea, folgorò tutto.
Ne cacciò, ne ferí, strage ne fece
a suo diletto; né si vide prima
sazio che, come sette eran le navi,
sette non ne vedesse a terra stesi.
In questa guisa ritornando al porto,
gli spartí parimente a' suoi compagni;
e con essi del vin, che 'l buon Aceste
a l'uscir di Sicilia in don gli diede,
molt'urne dispensò per ricrearli;
poscia a conforto lor cosí lor disse:
  «Compagni, rimembrando i nostri affanni,
voi n'avete infiniti omai sofferti
vie piú gravi di questi. E questi fine,
(quando che sia) la dio mercede, avranno.
Voi la rabbia di Scilla, voi gli scogli
di tutti i mari omai, voi de' Ciclopi
varcaste i sassi; ed or qui salvi siete.
Riprendete l'ardir, sgombrate i petti
di téma e di tristizia. E' verrà tempo
un dí che tante e cosí rie venture,
non ch'altro, vi saran dolce ricordo.
Per vari casi e per acerbi e duri
perigli è d'uopo far d'Italia acquisto.
Ivi riposo, ivi letizia piena
vi promettono i fati, e nuova Troia
e nuovi regni al fine. Itene intanto:
soffrite, mantenetevi, serbatevi
a questo, che dal ciel si serba a voi,
sí glorioso e sí felice stato».
  Cosí dicendo a' suoi, pieno in se stesso
d'alti e gravi pensier, tenea velato
con la fronte serena il cuor doglioso.
  Fecer tutti coraggio; e di cibo avidi
già rivolti a la preda, altri le tèrgora
le svelgon da le coste, altri sbranandola
mentre è tiepida ancor, mentre che palpita,
lunghi schidioni e gran caldaie apprestano,
e l'acqua intorno e 'l fuoco vi ministrano.
Poscia d'un prato e seggio e mensa fattisi,
taciti prima sopra l'erba agiandosi,
d'opima carne e di vin vecchio empiendosi,
quanto puon lietamente si ricreano.
  Poiché fûr sazi, a ragionar si diêro,
con voce or di timore or di cordoglio,
de' perduti compagni, in dubbio ancora
se fosser vivi, e se pur giunti al fine
piú de' richiami lor nulla curassero.
Enea vie piú di tutti e di pietate
e di dolor compunto, il caso acerbo
or d'Àmico, or d'Oronte, e Lico e Gía
ne' sospir richiamava e 'l buon Cloanto.
  Erano al fine omai; quando il gran Giove
da l'alta spera sua mirando in giuso
la terra e 'l mar di questo basso globo,
mentre di lito in lito, e d'uno in altro
scerne i popoli tutti, al cielo in cima
fermossi, e ne la Libia il guardo affisse.
Venere, allor ch'a le terrene cose
lo vide intento, dolcemente afflitta
il volto, e molle i begli occhi lucenti,
gli si fece davanti, e cosí disse:
  « Padre, che de' mortali e de' celesti
siedi eterno monarca, e folgorando
empi di téma e di spavento il mondo,
e quale ha contra te fallo sí grave
commesso Enea mio figlio, o i suoi Troiani,
che, dopo tanti affanni e tante stragi,
c'han di lor fatto il ferro, il fuoco e il mare,
non trovin pace, né pietà, né loco
pur che gli accetti? In cotal guisa omai
del mondo son, non che d'Italia, esclusi.
Io mi credea, signor (quel che promesso
n'era da te), che tornasse anco un giorno,
quando che fosse, il generoso germe
di Dardano a produr quei glorïosi
eroi, quei duci invitti, quei Romani
de l'universo domatori e donni:
e tu ne 'l promettesti. Or come, padre,
il ciel cangia destino, e tu consiglio?
Questa sola credenza era cagione
di consolarmi in parte de l'eccidio
de la mia Troia, ch'io soffrissi in pace
tante ruine sue, fato con fato
ricompensando. Or la fortuna stessa
e vie piú fera la persegue e dura.
E quanto durerà, signore, ancora?
Tal non fu già d'Antènore l'esilio;
ch'ei non piú tosto de l'achive schiere
per mezzo uscio, che con felice corso
penetrò d'Adria il seno; entrò securo
nel regno de' Liburni; andò fin sopra
al fonte di Timavo; e là 've il fiume
fremendo il monte intuona, e là 've aprendo
fa nove bocche un mare, e, mar già fatto,
inonda i campi e rumoreggia e frange,
Padoa fondò, pose de' Teucri il seggio,
e diè lor nome e le lor armi affisse.
Ivi ridotto il suo regno, e composto
quïetamente, or lo si gode in pace.
E noi, noi del tuo sangue, e che da te
avemo anco del cielo arra e possesso,
ad una sola indegnamente in ira,
perdute, ohimè! le proprie navi, fuori
siamo d'Italia e di speranza ancora
di non mai piú vederla. Or questo è 'l pregio
che si deve a pietade? E questo è il regno
che da te, padre mio, ne si promette?»
  Sorrise Giove, e con quel dolce aspetto
con che 'l ciel rasserena e le tempeste,
rimirolla, basciolla, e cosí disse:
  «Non temer, Citerèa, ché saldi e certi
stanno i fati de' tuoi. S'adempieranno
le mie promesse; sorgeran le torri
de la novella Troia; vedrai le mura
di Lavinio; porrai qui fra le stelle
il magnanimo Enea. Ché né 'l destino
in ciò si cangerà, né 'l mio consiglio.
Ma per trarti d'affanni, io te 'l dirò
piú chiaramente; e scoprirotti intanto
de' fati i piú reconditi secreti.
Figlia, il tuo figlio Enea tosto in Italia
sarà; farà gran guerra, vincerà:
domerà fere genti: imporrà leggi:
darà costumi, e fonderà città:
e di già, vinti i Rutuli, tre verni
e tre stati regnar Lazio vedrallo.
Ascanio giovinetto, or detto Iulo,
ed Ilo prima infin ch'Ilio non cadde,
succederagli; e trenta giri interi
del maggior lume, il sommo imperio avrà.
Trasferirallo in Alba: Alba la lunga
sarà la reggia sua possente e chiara.
Qui regneranno poi sotto la gente
d'Ettorre un dopo l'altro un corso d'anni
tre volte cento; finch'Ilia regina
d'un parto produrrà gemella prole.
Indi capo ne fia Romolo invitto.
Questi, in vece di manto, adorno il tergo
de la sua marzïal nudrice lupa,
di Marte fonderà la gran cittade:
e dal nome di lui Roma diralla.
A Roma non pongo io termine o fine:
ché fia del mondo imperatrice eterna.
E l'aspra Giuno, ch'or la terra e 'l mare
e 'l ciel per téma intorbida e scompiglia,
con piú sano consiglio al mio conforme,
procurerà che la romana gente
in arme e 'n toga a l'universo imperi.
E cosí stabilisco: e cosí tempo
ancor sarà ch'Argo, Micene e Ftia
e i Greci tutti tributari e servi
de la casa di Assàraco saranno.
Di questa gente, e de la Iulia stirpe,
che da quel primo Iulo il nome ha preso,
Cesare nascerà, di cui l'impero
e la gloria fia tal, che per confine
l'uno avrà l'Oceàno, e l'altra il cielo.
Questi, già vinto il tutto, poi che onusto
de le spoglie sarà de l'Orïente,
anch'egli avrà da te qui seggio eterno,
e là giú fra' mortali incensi e vóti.
L'aspro secolo allor, l'armi deposte,
si farà mite. Allor la santa Vesta
e la candida Fede e 'l buon Quirino
col frate Remo il mondo in cura avranno.
Allor con salde e ben ferrate sbarre
de la guerra saran le porte chiuse:
e dentro in fra la ruggine sepolto
con cento nodi incatenato e stretto
gran tempo si starà l'empio Furore;
e rabbioso fremendo orribilmente,
con fuoco a gli occhi, e bava e sangue a i denti
morderà l'armi e le catene indarno».
  Cosí detto, spedí tosto da l'alto
di Maia il figlio a far sí ch'a' Troiani
fosse Cartago e il suo paese amico,
perché del fato la regina ignara,
non fosse lor, per ferità de' suoi
o per sua téma, inospitale e cruda.
Vassene il messaggier per l'aria a volo
velocemente, e ne la Libia giunto,
quel ch'imposto gli fu ratto eseguisce.
E già, la dio mercé, lasciano i Peni
la lor fierezza; e la regina in prima
s'imbeve d'un affetto e d'una mente
verso i Troiani affabile e benigna.
  La notte intanto, del pietoso Enea
molti furo i sospir, molti i pensieri.
Conchiuse alfin ch'a l'apparir del giorno
spïar dovesse, e riportarne avviso
a suoi compagni, in qual paese il vento
gli avesse spinti; e s'uomini o pur fere
(perché incolto il vedea) quivi abitassero.
Cosí tra selve ombrose e cave rupi
fatti i legni appiattar, sol con Acate,
e con due dardi in mano in via si pose.
  In mezzo de la selva una donzella,
ch'era sua madre, sí com'era avanti
che madre fosse incontro gli si fece.
Donzella a l'armi, a l'abito, al sembiante
parea di Sparta, o quale in Tracia Arpàlice
leggiera e sciolta, il dorso affaticando
di fugace destrier, l'Ebro varcava.
Al collo avea di cacciatrice un arco
abile e lesto, i crini a l'aura sparsi,
nudo il ginocchio; e con bel nodo stretto
tenea raccolto della gonna il seno.
  Ella fu prima a dire: «Avreste voi,
giovani, de le mie sorelle alcuna
vista errar quinci, o ch'aggia l'arco al fianco,
o che gli omeri vesta d'una pelle
di cervier maculato, o che gridando
d'un zannuto cignal segua la traccia?»
Cosí Venere disse. Ed, a rincontro,
di Venere il figliuol cosí rispose:
  «Nïuna ho de le tue veduta, o 'ntesa,
vergine... qual ti dico, e di che nome
chiamar ti deggio? Ché terreno aspetto
non è già 'l tuo, né di mortale il suono.
Dea sei tu veramente, o suora a Febo,
o figlia a Giove, o de le ninfe alcuna:
e chïunque tu sii, propizia e pia
vèr noi ti mostra, e i nostri affanni ascolta.
Dinne sotto qual cielo, in qual contrada
siamo or del mondo: ché raminghi andiamo;
e qui dal vento e da fortuna spinti
nulla o de gli abitanti o de' paesi
notizia abbiamo. A te, s'a ciò m'aíti,
di nostra man cadrà piú d'una vittima».
  Venere allor soggiunse: «Io non m'arrogo
celeste onore. In Tiro usan le vergini
di portar arco, e di calzar coturni;
e di Tiro e d'Agènore le genti
traggon principio, che qui seggio han posto:
ma 'l paese è di Libia, ed avvi in guerra
gente feroce. Or n'è capo e regina
Dido che, da l'insidie del fratello
fuggendo, è qui venuta. A dirne il tutto
lunga fôra novella e lungo intrico.
Ma toccandone i capi, avea costei
Sichèo per suo consorte, uno il piú ricco
di terra e d'oro, che in Fenicia fosse,
da la meschina unicamente amato,
anzi il suo primo amore. Il padre intatta
nel primo fior di lei seco legolla.
Ma del regno di Tiro avea lo scettro
Pigmalïon suo frate, un signor empio,
un tiranno crudele e scellerato
piú ch'altri mai. Venne un furor fra loro
tal, che Sichèo da questo avaro e crudo,
per sete d'oro, ove men guardia pose,
fu tra gli altari ucciso; e non gli valse
che la germana sua tanto l'amasse.
Ciò fe' celatamente: e per celarlo
vie piú, con finzïoni e con menzogne
deluse un tempo ancor l'afflitta amante.
Ma nel fin, di Sichèo la stessa imago,
fuor d'un sepolcro uscendo, sanguinosa,
pallida, macilenta e spaventevole,
le apparve in sogno, e presentolle, avanti
gli empi altari ove cadde, il crudo ferro
che lo trafisse, e del suo frate tutte
l'occulte scelleraggini le aperse.
Poscia: "Fuggi di qua, fuggi" le disse
"tostamente, e lontano". E per sussidio
de la sua fuga, le scoperse un loco
sotterra, ov'era inestimabil somma
d'oro e d'argento, di molt'anni ascoso.
Quinci Dido commossa, ordine occulto
di fuggir tenne, e d'adunar compagni;
ché molti n'adunò, parte per odio,
parte per téma di sí rio tiranno.
Le navi che trovâr nel lito preste,
caricâr d'oro, e fêr vela in un súbito.
Cosí 'l vento portossene la speme
de l'avaro ladrone. E fu di donna
questo sí degno e memorabil fatto.
  Giunsero in questi luoghi, ov'or vedrai
sorger la gran cittade e l'alta ròcca
de la nuova Cartago, che dal fatto
Birsa nomossi, per l'astuta merce
che, per fondarla, fêr di tanto sito
quanto cerchiar di bue potesse un tergo.
  Ma voi chi siete? onde venite? e dove
drizzate il corso vostro?» A tai richieste
pensando Enea, dal piú profondo petto
trasse la voce sospirosa, e disse:
«O dea, se da principio i nostri affanni
io contar ti volessi, e tu con agio
udissi una da me sí lunga istoria,
non finirei che fine avrebbe il giorno.
Noi siam Troiani (se di Troia antica
il nome ti pervenne unqua a gli orecchi),
e la tempesta che per tanti mari
già cotant'anni ne travolve e gira,
n'ha qui, come tu vedi, al fin gittati.
Io sono Enea, quel pio che da' nemici
scampati ho meco i miei patrii Penati,
fino a le stelle ormai noto per fama.
Italia vo cercando, che per patria
Giove m'assegna, autor del sangue mio.
Con diece e diece ben guarnite navi
uscii di Frigia, il mio destin seguendo
e lo splendor de la materna stella.
Or sette me ne son restate appena,
scommesse, aperte e disarmate tutte.
Ed io mendíco, ignoto e peregrino,
de l'Asia in bando, da l'Europa escluso,
e 'n fin dal mar gittato or ne la Libia
vo per deserti inospiti e selvaggi.
E qual m'è piú del mondo or luogo aperto?»
  Venere intenerissi; e nel suo figlio
tant'amara doglienza non soffrendo,
cosí 'l duol con la voce gl'interruppe:
  «Chïunque sei, tu non sei già, cred'io,
al cielo in ira; poi ch'a sí grand'uopo
ti diè ricovro a sí benigno ospizio.
Segui pur francamente: e quinci in corte
va' di questa magnanima regina;
ch'io già t'annunzio le tue navi, e i tuoi
da miglior vènti in miglior parte addotti
salvi e securi omai, se i miei parenti
non m'ingannâr quando gli augúri appresi.
Mira là sovra a quel tranquillo stagno
dodici allegri cigni, che pur dianzi
confusi e dissipati a cielo aperto
erano in preda al fero augel di Giove,
com'or sottratti dal suo crudo artiglio
rimessi in lunga ed ozïosa riga
si rivolgono a terra, e già la radono.
E sí com'essi con gioiose ruote
trattando l'aria, col cantar, col plauso
mostrato han d'allegria segno e di scampo;
cosí, placato il mare, a piene vele,
e le tue navi e gli tuoi naviganti
o preso han porto, o tosto a prender l'hanno:
vattene or lieto ove 'l sentier ti mena».
  Ciò detto, nel partir, la neve e l'oro
e le rose del collo e de le chiome,
come l'aura movea, divina luce
e divino spirâr d'ambrosia odore:
e la veste, che dianzi era succinta,
con tanta maestà le si distese
infino a' piè, ch'a l'andar anco, e dea
veracemente e Venere mostrossi.
  Poscia che la conobbe, e la sua fuga
o fermare, o seguir piú non poteo,
con un rammarco tal dietro le tenne:
  «Ahi! madre, ancora tu vèr me crudele,
a che tuo figlio con mentite larve
tante volte deludi? A che m'è tolto
di congiunger la mia con la tua destra?
Quando fia mai ch'io possa a viso aperto
vederti, udirti, ragionarti, e vera
riconoscerti madre?» Egli in tal guisa
si querelava; e verso la cittade
se ne giano invisibili ambidue:
ché la dea, sospettando non tra via
fossero distornati o trattenuti,
di folta nebbia intorno gli coverse.
Ella in alto levossi, e Cipri e Pafo
lieta rivide, ov'entro al suo gran tempio
da cento altari ha cento volte il giorno
d'incensi e di ghirlande odori e fumi.
Ed essi intanto in vèr le mura a vista
giunser de la città, ch'al colle incontro
fe' lor superba e specïosa mostra.
  Maravigliasi Enea che sí gran macchina
già sorga, ove pur dianzi non vedevasi
fors'altro che foreste, o che tuguri.
Mira il travaglio, mira la frequenzia
e le porte e le vie piene di strepito.
Vede con quanto ardor le turbe tirie
altri a le mura, altri a la ròcca intendono
e i gravi legni e i gran sassi che volgono
questi, che i siti ai propri alberghi insolcano;
e quei, che del senato e de gli offici
piantan le curie e i fòri e le basiliche.
Scorge là presso al mar che 'l porto cavano,
qua, sotto al colle, che un teatro fondano,
per le cui scene i gran marmi che tagliano,
e le colonne, che tant'alto s'ergono,
le rupi e i monti, a cui son figli, adeguano.
  Con tal sogliono industria a primavera
le sollecite pecchie al sole esposte
per fiorite campagne esercitarsi,
quando le nuove lor cresciute genti
mandano in campo a côr manna e rugiada,
di celeste liquor le celle empiendo;
o quando incontro a scaricare i pesi
van de l'altre compagne; o quando a stuolo
scacciano i fuchi, ingorde bestie e pigre,
che, solo intente a logorar l'altrui,
de le conserve lor si fan presepi,
allor che l'opra ferve, allor che 'l mèle
sparge di timo d'ogn'intorno odore.
  «O fortunati voi, di cui già sorge
il desïato seggio!», Enea dicendo,
a parte a parte lo contempla e loda.
Arriva intanto a la muraglia, e chiuso
ne la sua nube, maraviglia a dirlo!
tra gente e gente va, che non è visto.
Era nel mezzo a la cittade un bosco
di sacro rezzo e grato, ove sospinti
da la tempesta capitaro i Peni
primieramente; e nel fondar trovaro
quel che pria da Giunon fu lor predetto
di barbaro destrier teschio fatale,
la cui sembianza imagine e presagio
fu poi che quella gente e quella terra
saria per molte età ferace e fera.
Qui fabbricava la sidonia Dido
un gran tempio a Giunone, il cui gran nume
e i doni e la materia e l'artificio
lo facean prezïoso e venerando.
Mura di marmo avea; colonne e fregi
di mischi, e gradi e travi e soglie e porte
di risonante e solido metallo.
Qui si ristette Enea: qui vide cosa
che téma gli scemò, speme gli accrebbe,
e di pace affidollo e di salute;
ché mentre, in aspettando la regina
ch'ivi s'attende, la città vagheggia,
mentre nel tempio l'apparato e l'opre
e 'l valor degli artefici contempla,
a gli occhi una parete gli s'offerse,
in cui tutta per ordine dipinta
era di Troia la famosa guerra.
E, conosciuti a le fattezze conte
prima il troiano re, poscia l'argivo
e 'l fero d'ambidue nimico Achille,
fermossi, e lagrimando: «Oh, - disse - Acate,
mira fin dove è la notizia aggiunta
de le nostre ruine! Or quale ha 'l mondo
loco che pien non sia de' nostri affanni?
Ecco Priamo, ecco Troia; e qui si pregia
ancor virtú; ché ferità non regna
là 've umana miseria si compiagne.
Or ti conforta, ché tal fama ancora
di pro ti fia cagione e di salvezza».
  Cosí dicendo, e la già nota istoria
mirando, or con sospiri, ed or con lutto
va di vana pittura il cor pascendo.
E come quei ch'a Troia il tutto vide,
i siti rammentandosi e le zuffe,
col sembiante riscontra il vivo e 'l vero.
Quinci vede fuggir le greche schiere,
quindi le frigie: a quelle Ettorre infesto,
a queste Achille, a cui parea d'intorno
che solo il suon del carro e solo il moto
del cimiero avventasse orrore e morte.
  Né senza lagrimar Reso conobbe
ai destrier bianchi, ai bianchi padiglioni,
fatti di sangue in mille parti rossi:
che sotto v'era Dïomede, anch'egli
insanguinato; e si facea d'intorno
alta strage di gente che nel sonno,
prima che da lui morta, era sepolta.
Vedea quindi i cavalli al campo addotti,
che non potêr (fato a' Troiani avverso!)
di Troia erba gustare, o ber del Xanto.
  Scorge d'un'altra parte in fuga vòlto
Troïlo, già senz'armi e senza vita:
giovinetto infelice, che di tanto
diseguale ad Achille, ebbe ardimento
di stargli a fronte. Egli in su 'l vòto carro
giacea rovescio, e strascinato e lacero
da' suoi cavalli, avea la destra ancora
a le redini involta, e 'l collo e i crini
traea per terra; e l'asta, onde trafitto
portava il petto, con la punta in giuso
scrivea note di sangue in su la polve.
  Ecco intanto venir di Palla al tempio
in lunga schiera ed ordinata pompa
le donne d'Ilio a far del peplo offerta.
Battonsi i petti, e scapigliate e scalze
paion pregar divotamente afflitte
perdóno e pace; ed ella irata e fera,
vòlte le luci a terra e 'l tergo a loro,
mostra fastidio di mirarle e sdegno.
Vede il misero Ettòr che già tre volte
tratto era d'Ilio a la muraglia intorno.
Vede il padre piú misero, ch'in forza
del dispietato e suo nimico Achille,
oro in premio gli dà del suo cadavero;
spettacolo crudel che gli trafigge
profondamente e piú d'ogn'altro il core,
ove il carro, gli arnesi e 'l corpo stesso
vede d'un tanto amico, ed un re tale,
che solo e disarmato e supplichevole
stassi a l'ucciditor del figlio avanti.
  Vi riconobbe ancor se stesso, ov'era
a dura mischia incontro a' greci eroi.
Riconobbe lo stuol che d'Orïente
addusse de l'Aurora il negro figlio:
e lui raffigurò, che di Vulcano
avea lo sbergo e l'armatura in dosso.
  Scorge d'altronde di lunati scudi
guidar Pentesilèa l'armate schiere
de l'Amazzoni sue: guerriera ardita,
che succinta, e ristretta in fregio d'oro
l'adusta mamma, ardente e furïosa
tra mille e mille, ancor che donna e vergine,
di qual sia cavalier non teme intoppo.
  Stava da tante meraviglie ad una
sola vista ristretto, attento e fiso
Enea pien di vaghezza e di stupore:
quand'ecco la regina accompagnata
da real corte, con real contegno
entro al tempio bellissima comparve.
Qual su le ripe de l'Eurota suole,
o ne' gioghi di Cinto, allor Dïana
ch'a l'Orèadi sue la caccia indíce,
a mille che le fan cerchio d'intorno,
divisar vari offici, e faretrata
da la faretra in su gir sovra l'altre
neglettamente altera, onde a Latona
s'intenerisce per dolcezza il core;
tale era Dido, e tal per mezzo a' suoi
se ne gia lieta, e dava ordine e forma
al nuovo regno, a i magisteri, a l'opre.
Giunta al cospetto de la diva, in mezzo
de la maggior tribuna, in alto assisa,
cinta d'armati, in maestà si pose:
e mentre con dolcezza editti e leggi
porge a la gente, e con egual compenso
l'opre distribuisce e le fatiche;
rivolgendosi Enea, nel tempio stesso
vede da gran concorso attorneggiati
entrar Sergesto, Anteo, Cloanto e gli altri
Troiani, che da sé disgiunti e sparsi
avea dianzi del mar l'aspra tempesta.
Stupor, timor, letizia, tenerezza
e disio d'abbracciarli e di mostrarsi
assaliro in un tempo Acate e lui.
Ma, dubii del successo, entro la nube
dissimulando se ne stêro, e cheti,
per ritrar che seguisse e che seguito
fosse già de le navi e de' compagni,
di cui questi eran primi e li piú scelti
di ciascun legno. E già pieno era il tempio
di tumulto e di vóti ch'altamente
si sentian vènia risonare e pace.
  Poiché furo entromessi, e ch'udïenza
fur lor concessa, il saggio Ilïoneo
prese umilmente in cotal guisa a dire:
  «Sacra regina, a cui dal cielo è dato
fondar nuova cittade, e con giustizia
por freno a gente indomita e superba,
noi miseri Troiani, a tutti i vènti,
a tutti i mari omai ludibrio e scherno,
caduti dopo l'onde in preda al foco
che da' tuoi si minaccia ai nostri legni,
preghiamti a proveder che nel tuo regno
non si commetta un sí nefando eccesso.
Fa cosa di te degna, abbi di noi
pietà, che pii, che giusti, ch'innocenti
siamo, non predatori, non corsari
de le vostre marine o de l'altrui:
tanto i vinti d'ardire, e gl'infelici
d'orgoglio e di superbia, ohimè! non hanno.
  Una parte d'Europa è, che da' Greci
si disse Esperia, antica, bellicosa
e fertil terra, dagli Enotrei cólta.
Prima Enotria nomossi, or, come è fama,
preso d'Italo il nome, Italia è detta.
Qui 'l nostro corso era diritto, quando
Orïon tempestoso i vènti e 'l mare
sí repente commosse, e mar sí fero,
vènti sí pertinaci, e nembi e turbi
cosí rabbiosi, che sommersi in parte
e dispersi n'ha tutti: altri a le secche,
altri a gli scogli, ed altri altrove ha spinti:
e noi pochi, di tanti, ha qui condotti.
Ma qual sí cruda gente, qual sí fera
e barbara città quest'uso approva,
che ne sia proibita anco l'arena?
Che guerra ne si muova, e ne si vieti
di star ne l'orlo de la terra a pena?
Ah! se de l'armi e de le genti umane
nulla vi cale, a dio mirate almeno,
che dal ciel vede e riconosce i meriti
e i demeriti altrui. Capo e re nostro
era pur dianzi Enea, di cui piú giusto,
piú pio, piú pro' ne l'armi, piú sagace
guerrier non fu già mai. Se questi è vivo,
se spira, se il destin non ce l'invidia,
quanto ne speriam noi, tanto potresti
tu non pentirti a provocarlo in prima
a cortesia. Ne la Sicilia ancora
avem terre, avem armi, avemo Aceste
che n'è signore, ed è de' nostri anch'egli.
Quel che vi domandiamo è spiaggia, è selva,
è vitto da munir, da risarcire
i vòti e stanchi e sconquassati legni,
per poter lieti (ritrovando il duce
e gli altri nostri, o se pur mai n'è dato
veder l'Italia) ne l'Italia addurne;
ma se nostra salute in tutto è spenta,
se te, nostro signor, nostro buon padre,
di Libia ha 'l mare, e piú speranza alcuna
non ci riman del giovinetto Iulo,
almen tornar ne la Sicania, ond'ora
siam qui venuti e dove il buon Aceste
n'è parato mai sempre ospite e rege».
  Al dir d'Ilïoneo fremendo tutti
assentirono i Teucri, e la regina
con gli occhi bassi e con benigna voce
brevemente rispose: «O miei Troiani,
toglietevi dal cuore ogni timore,
ogni sospetto. Gli accidenti atroci,
la novità di questo regno a forza
mi fan sí rigorosa, e sí guardinga
de' miei confini. E chi di Troia il nome,
chi de' Troiani i valorosi gesti,
e l'incendio non sa di tanta guerra?
Non han però sí rozzo core i Peni:
non sí lunge da lor si gira il sole,
che né pietà né fama unqua v'arrive.
Voi di qui sempre, o de la grand'Esperia
e di Saturno che cerchiate i campi,
o che vogliate pur d'Aceste e d'Èrice
tornare ai liti, in ogni caso liberi
ve n'andrete e sicuri. Ed io d'aíta
scarsa non vi sarò, né di sussidio:
e se qui dimorar meco voleste,
questa è vostra città. Tirate al lito
vostri navili: ché da' Teucri a' Tiri
nulla scelta farò, nullo divario.
Cosí qui fosse il vostro re con voi!
cosí ci capitasse! Ma cercando
io manderò di lui fino a l'estremo
de' miei confini la riviera tutta,
se per sorte gittato in queste spiagge
per selve errando o per cittadi andasse».
  Rincorossi a tal dire il padre Enea
e 'l forte Acate; e di squarciare il velo
stavan già disïosi. Acate il primo
mosse dicendo: «Omai, signor, che pensi?
Tutto è sicuro, e tutti a salvamento
i nostri legni e i nostri amici avemo.
Sol un ne manca; e questo a noi davanti
il mar sorbissi. Ogni altra cosa al detto
di tua madre risponde». A pena Acate
ciò disse, che la nugola s'aperse,
assottigliossi e col ciel puro unissi.
Rimase in chiaro Enea, tale ancor egli
di chiarezza e d'aspetto e di statura,
che come un dio mostrossi: e ben a dea
era figliuol, che di bellezza è madre.
Ei degli occhi spirava e de le chiome
quei chiari, lieti e giovenili onori
ch'ella stessa di lui madre gl'infuse.
Tale aggiunge l'artefice vaghezza
a l'avorio, a l'argento, al pario marmo,
se di fin oro li circonda e fregia.
Cotal, comparso d'improvviso a tutti,
si fece avanti a la regina, e disse:
  «Quegli che voi cercate, Enea troiano,
son qui, dal mar ritolto. A te ricorro,
vera regina, a te sola pietosa
de le nostre ineffabili fatiche.
Tu noi, rimasi al ferro, al fuoco, a l'onde
d'ogni strazio bersaglio, d'ogni cosa
bisognosi e mendíci, nel tuo regno
e nel tuo albergo umanamente accogli.
A renderti di ciò merito eguale
bastante non son io, né fôran quanti
de la gente di Dardano discesi
vanno per l'universo oggi dispersi.
Ma gli dèi (s'alcun dio de' buoni ha cura,
se nel mondo è giustizia, se si truova
chi d'altamente adoperar s'appaghe)
te ne dian guiderdone. Età felice!
Avventurosi genitori e grandi
che ti diedero al mondo! Infin che i fiumi
si rivolgono al mare, infin ch'a' monti
si giran l'ombre, infin c'ha stelle il cielo,
i tuoi pregi, il tuo nome e le tue lodi
mi saran sempre, ovunque io sia, davanti».
  Ciò detto, lietamente a' suoi rivolto,
al caro Ilïonèo la destra porse,
la sinistra a Sergesto, e poscia al forte
Cloanto, al forte Gía: l'un dopo l'altro
tutti gli salutò. Stupí Didone
nel primo aspetto d'un sí nuovo caso,
e d'un uom tale; indi riprese a dire:
  «Qual forza o qual destino a tanti rischi
t'hanno in sí strani, in sí feri paesi
esposto, o de la dea famoso figlio?
E sei tu quell'Enea che in su la riva
di Simoenta il gran dardanio Anchise
di Venere produsse? Io mi ricordo
quel che n'intesi già da Teucro, quando,
fuor di sua patria, il suo padre fuggendo,
nuovi regni cercava. Egli a Sidone
venne in quel tempo a dar sussidio a Belo.
Belo mio padre allor facea l'impresa
e 'l conquisto di Cipro. Infin d'allora
io del caso di Troia e del tuo nome
e de l'oste de' Greci ebbi notizia.
Ed ei ch'era sí rio nimico vostro,
celebrava il valor di voi Troiani,
e trar volea da Troia il suo legnaggio.
Voi da me dunque amico e fido ospizio,
giovini, arete. E me fortuna ancora,
a la vostra simíle, ha similmente
per molti affanni a questi luoghi addotta:
sí che natura e sofferenza e pruova
de' miei stessi travagli ancor me fanno
pietosa e sovvenevole a gli altrui».
  Ciò detto, Enea cortesemente adduce
ne la sua reggia. In ogni tempio indíce
feste e preci solenni. Ordina appresso
che si mandino al mar venti gran tori,
cento gran porci, cento grassi agnelli,
con cento madri, e ciò ch'a' suoi compagni
per vitto e per letizia è di mestiero.
Dentro al real palagio, realmente,
de' piú gentili e sontuosi arnesi
il convito e le stanze orna e prepara;
cuopre d'ostro le mura; empie le mense
d'argento e d'oro, ove per lunga serie
son de' padri e degli avi i fatti egregi.
  Enea, cui la paterna tenerezza
quetar non lascia, a le sue navi innanzi
ratto spedisce Acate, che di tutto
Ascanio avvisi, ed a sé tosto il meni;
ché in Ascanio mai sempre intento e fiso
sta del suo caro padre ogni pensiero.
Gli comanda, oltre a ciò, ch'a la regina
porti alcune a donar spoglie superbe
che si salvâr da la ruina appena
e dal foco di Troia: un ricco manto
ricamato a figure, e di fin'oro
tutto contesto: un prezïoso velo,
cui di pallido acanto un ampio fregio
trapunto era d'intorno: ambi ornamenti
d'Elena argiva, e di sua madre Leda
mirabil dono. In questo avea le bionde
sue chiome avvolte il dí che di Micene
a nuove nozze, e non concesse, uscio;
e porti anco lo scettro, onde superba
Ilïone di Prïamo sen giva
primogenita figlia, e 'l suo monile
di gran lucide perle; e quella stessa,
onde 'l fronte cingea, doppia corona,
di gemme orïentali ornata e d'oro.
Tutto ciò procurando il fido Acate
in vèr le navi accelerava il piede.
  Venere in tanto con nuov'arte e nuovi
consigli s'argomenta a far che in vece
e 'n sembianza d'Ascanio il suo Cupído
se ne vada in Cartago; e con quei doni,
con le dolcezze sue, con la sua face
alletti, incenda, amor desti e furore
nel petto a la regina, onde sospetto
piú non aggia o 'l suo regno, o 'la perfidia
de la sua gente, o di Giunon l'insidie,
che da pensare e da vegghiar le danno
tutte le notti. E fatto a sé venire
l'alato dio, cosi seco ragiona:
  «Figlio, mia forza e mia maggior possanza:
figlio, che del gran padre anco non temi
l'orribil tèlo, onde percosso giacque
chi ne diè fin nel ciel briga e spavento,
a te ricorro e dal tuo nume aíta
chieggio a l'altro mio figlio Enea tuo frate.
Come Giuno il persegua, e come l'aggia
per tutti i mari omai spinto e travolto,
tu 'l sai che del mio duol ti sei doluto
piú volte meco. Or la sidonia Dido
l'ave in sua forza, e con benigni e dolci
modi fin qui l'accoglie e lo trattiene.
Ma là dov'è, lassa! che val, comunque
sia caramente accolto? in casa a Giuno
da le carezze ancor chi m'assicura?
Ch'ella piú neghittosa o meno atroce,
in un caso non fia di tanto affare.
E però con astuzia e con inganno
cerco di prevenirla, e del tuo foco
ardere il cuor de la regina in guisa,
ch'altro nume nol mute, e meco l'ami
d'immenso affetto. Or come agevolmente
ciò porre in atto e conseguir si possa,
ascolta. Enea manda testé chiamando
il suo regio fanciullo, amor supremo
del caro padre, e mio sommo diletto,
perché de' Tiri a la città sen vada
con doni a la regina, che di Troia
a l'incendio avanzarono ed al mare.
Questo vinto dal sonno, o sopra l'alta
Citèra, o dentro al sacro bosco Idalio
terrò celato sí ch'ei non s'accorga,
ed accorto di ciò non faccia altrui
con alcun suo rintoppo. E tu che puoi,
fanciullo, il noto fanciullesco aspetto
mentire acconciamente, in lui ti cangia
sola una notte, e gli suoi gesti imita.
E quando Dido al suo real convito
riceveratti, e, come a mensa fassi,
sarà, bevendo e ragionando, allegra;
quando, come farà, cortese in grembo
terratti, abbracceratti, e dolci baci
porgeratti sovente, a poco a poco
il tuo foco le spira e 'l tuo veleno».
  Al voler della sua diletta madre
pronto mostrossi e baldanzoso Amore,
e gittò l'ali; ed in un tempo l'abito
e 'l sembiante e l'andar prese di Iulo.
Ciprigna intanto al giovinetto Ascanio
tale un profondo e dolce sonno infuse,
e 'n guisa l'adattò, che agiatamente
in grembo lo si tolse; e ne la cima
de la selvosa Idalia, entro un cespuglio
di lieti fiori e d'odorata persa,
a la dolce aura, a la fresc'ombra il pose.
Cupído co' suoi doni allegramente,
per far quanto gli avea la madre imposto,
con la guida si pon d'Acate in via.
Giunse che giunta era Didone appunto
ne la gran sala, che di fini arazzi,
di fior, di frondi e di festoni intorno
era tutta vestita, ornata e sparsa.
E già sopra la sua dorata sponda
con real maestà s'era nel mezzo
a tutti gli altri alteramente assisa.
Appresso Enea, poscia di mano in mano
sopra drappi di porpora e di seta
si stendea la troiana gioventute.
Già con l'acqua e con Cerere a le mense
gli aurati vasi e i nitidi canestri
e i bianchissimi lini eran comparsi.
Stavano dentro, a le vivande intorno,
intorno a' fuochi, a dar ordine a' cibi,
cinquanta ancelle, ed altre cento fuori
con altrettanti di una stessa etade
tra scudieri e pincerni; e gli atrii tutti
si rïempiêr di Tiri, a cui le mense
di tappeti dipinti eran distese.
  A l'apparir del giovinetto Iulo
corser tutti a mirare il manto e 'l velo
e gli altri ch'adducea leggiadri arnesi,
a sentir quelle sue finte parole,
a contemplar quel grazïoso aspetto,
ch'ardore e deità raggiava intorno.
Ma sopra tutti l'infelice Dido
non potea né la vista, né 'l pensiero
saziar, mirando or gli suoi doni, or lui;
e com' piú gli rimira, e piú s'accende.
  Poiché lunga fïata umile e dolce
del non suo genitor pendé dal collo,
e finse di figliuol verace affetto,
si volse a la regina. Ella con gli occhi,
col pensier tutto lo contempla e mira:
lo palpa, e 'l bacia, e 'n grembo lo si reca.
Misera! che non sa quanto gran dio
s'annidi in seno. Ei de la madre intanto
rimembrando il precetto, a poco a poco
de la mente Sichèo comincia a trarle,
con vivo amore e con visibil fiamma
rompendole del core il duro smalto,
e 'ntroducendo il suo già spento affetto.
  Cessati i primi cibi, e da' ministri
già le mense rimosse, ecco di nuovo
comparir nuove tazze e vino e fiori,
per lietamente incoronarsi e bere.
  Quinci un rumoreggiare, un riso, un giubilo
che d'allegrezza empian le sale e gli atrii.
E i torchi e le lumiere che pendevano
da i palchi d'oro, poiché notte fecesi,
vinceano 'l giorno e 'l sol, non che le tenebre.
Qui fattosi Didone un vaso porgere
d'oro grave e di gemme, ov'era solito
ne' conviti e ne' dí solenni e celebri
ber Belo, e gli altri che da Belo uscirono,
di fiori ornollo, e di vin vecchio empiendolo,
orò, cosí dicendo: «Eterno Giove,
che, Albergator nomato, hai de gli alberghi
e de le cortesie cura e diletto,
priegoti ch'a' Fenici ed a' Troiani
fausto sia questo giorno, e memorando
sempre a' posteri loro. E te, Lièo,
largitor di letizia, e te, celeste
e bionda Giuno, a questa prece invoco.
Voi co' vostri favori, e Tiri e Peni,
prestate a' prieghi miei divoto assenso».
  Ciò detto, riversollo, e lievemente
del sacrato liquor la mensa asperse,
poscia ella in prima con le prime labbia
tanto sol ne sorbí quanto n'attinse.
Indi con dolce oltraggio e con rampogne
a Bizia il diè, che valorosamente
a piena bocca infino a l'aureo fondo
vi si tuffò col volto, e vi s'immerse.
Ciò seguîr gli altri eroi. Comparve intanto
co' capei lunghi e con la cetra d'oro
il biondo Iopa: e, qual Febo novello,
cantò del ciel le meraviglie e i moti
che dal gran vecchio Atlante Alcide apprese.
Cantò le vie che drittamente torte
rendon vaga la luna e buio il sole;
come prima si fêr gli uomini e i bruti;
com'or si fan le piogge e i venti e i folgori:
cantò l'Iade e l'Orse e 'l Carro e 'l Corno,
e perché tanto a l'Oceàno il verno
vadan veloci i dí, tarde le notti.
  Un novo plauso incominciaro i Tiri:
seguiro i Teucri: e l'infelice Dido,
che già fea dolce con Enea dimora,
quanto bevesse amor non s'accorgendo,
a lungo ragionar seco si pose
or di Priamo, or d'Ettorre, or con qual'armi
venisse a Troia de l'Aurora il figlio,
or qual fosse Diomede, or quanto Achille.
«Anzi, se non t'è grave, - al fin gli disse -
incomincia a contar fin da principio
e l'insidie de' Greci e la ruina
e l'incendio di Troia, e 'l corso intero
de gli errori vostri: già che 'l settim'anno
e per terra e per mar raminghi andate».

Libro II

 

Stavan taciti, attenti e disïosi
d'udir già tutti, quando il padre Enea
in sé raccolto, a cosí dir da l'alta
sua sponda incominciò: «Dogliosa istoria
e d'amara e d'orribil rimembranza,
regina eccelsa, a raccontar m'inviti:
come la già possente e glorïosa
mia patria, or di pietà degna e di pianto,
fosse per man de' Greci arsa e distrutta.
E qual ne vid'io far ruina e scempio:
ch'io stesso il vidi, ed io gran parte fui
del suo caso infelice. E chi sarebbe,
ancor che Greco e Mirmidóne e Dòlopo,
che a ragionar di ciò non lagrimasse?
E già la notte inchina, e già le stelle
sonno, dal ciel caggendo,
a gli occhi infondono:
ma se tanto d'udire i nostri guai,
se brevemente di saver t'aggrada
l'ultimo eccidio, ond'ella arse e cadeo,
benché lutto e dolor mi rinnovelle,
e sol de la memoria mi sgomente,
io lo pur conterò. Sbattuti e stanchi
di guerreggiar tant'anni, e risospinti
ancor da' fati, i greci condottieri
a l'insidie si diêro; e da Minerva
divinamente instrutti, un gran cavallo
di ben contesti e ben confitti abeti
in sembianza d'un monte edificaro.
Poscia, finto che ciò fosse per vóto
del lor ritorno, di tornar sembiante
fecero tal, che se ne sparse il grido.
Dentro al suo cieco ventre e ne le grotte,
che molte erano e grandi, in sí gran mole,
rinchiuser di nascosto arme e guerrieri
a ciò per sorte e per valore eletti.
  Giace di Troia un'isola in cospetto
(Tènedo è detta) assai famosa e ricca,
mentre ch'Ilio fioriva. Ora un ridotto
è sol di naviganti e di navili,
infido seno, e mal sicura spiaggia.
Qui, poiché di Sigèo sciolse e spario,
la greca armata si rattenne, e dietro
appiattossi al suo lito ermo e deserto:
e noi credemmo che veracemente
fosse partita, e che a spiegate vele
gisse a Micene. Onde la Teucria tutta,
già cotant'anni lagrimosa e mesta,
volta ne fu subitamente in gioia.
S'aprîr le porte, uscîr d'Ilio e d'intorno
le genti tutte, disïose e liete
di veder vòti i campi e sgombri i liti,
ch'eran coverti pria di navi e d'armi.
"Qui s'accampava Achille, e qui de' Dòlopi
eran le tende, ivi solean le zuffe
farsi de' cavalieri e là de' fanti"
dicean parte vagando; e parte accolti
facean mirando al gran destriero intorno
meraviglie e discorsi: e chi per sacro,
e chi per esecrando il vóto e 'l dono
avean di Palla. Il primo fu Timete
a dir ch'entro le mura, e ne la ròcca
quindi si conducesse, o froda, o fato
che ciò fosse de' miseri Troiani.
Ma Capi e gli altri, il cui piú sano avviso
o per insidïose, o per sospette,
quantunque sacre, avea le greche offerte,
voleano o che del mar fosse nel fondo
precipitato, o che di fiamme ardenti
si circondasse, o che forato e lacero
gli fosse il petto e sviscerato il fianco.
  Stava tra questi due contrari in forse
in due parti diviso il volgo incerto;
quando con gran caterva e con gran furia
da la ròcca discese, e di lontano
gridò Laocoonte: "O ciechi, o folli,
o sfortunati! agli nemici, a' Greci
date credenza? a lor credete voi
che sian partiti? e sarà mai che doni
siano i lor doni, e non piú tosto inganni?
Cosí v'è noto Ulisse? O in questo legno
sono i Greci rinchiusi, o questa è macchina
contra alle nostre mura, o spia per entro
ai nostri alberghi, o scala o torre o ponte
per di sopra assalirne. E che che sia,
certo o vi cova o vi si ordisce inganno,
ché de' Pelasgi e de' nemici è 'l dono".
  Ciò detto, con gran forza una grand'asta
avventogli, e colpillo, ove tremante
stette altamente infra due coste infissa:
e 'l destrier, come fosse e vivo e fiero,
fieramente da spron punto cotale,
si storcé, si crollò, tonogli il ventre,
e rintonâr le sue cave caverne.
E se 'l fato non era a Troia avverso,
se le menti eran sane, avea quel colpo
già commossi infiniti a lacerarlo,
e del tutto a scovrir l'agguato argolico:
ond'oggi e tu, grand'Ilio, e tu, diletta
Troia, staresti. Ma si vide intanto
de' pastor paesani una masnada
venir gridando al re, ch'ivi era giunto,
e trargli avanti un giovine prigione
ch'avea dietro le mani al tergo avvinte.
Questi era greco; e da' suoi Greci avea
di salvare il destrier, d'aprir lor Troia
assunto impresa; e per condurla, a tempo
ascosto, a tempo a quei pastori offerto
s'era per se medesmo, in sé disposto
e fermo di due cose una a finire,
o quest'opra, o la vita. A ciò concorso,
per desio di vedere, il popol tutto
dal caval si distolse, e diessi a gara
a schernire il prigione. Or ascoltate
le malizie de' Greci; e da quest'uno
conosceteli tutti. Egli nel mezzo
cosí com'era a le nemiche schiere,
turbato, inerme e di catene avvinto,
fermossi: e poi che rimirolle intorno,
con voce di pietà proruppe, e disse:
  "Or quale o terra, o mare, o loco altrove
sarà, misero me! che mi raccolga,
o che m'affidi omai? poiché tra' Greci
non ho dov'io ricovri, e da' Troiani
non deggio altro aspettar che strazio e morte?"
Ne commosse a pietà, n'acquetò l'ira
sí doglioso rammarco: e con dolcezza
e con promesse il confortammo a dire
chi, di che loco e di che sangue fosse,
e che portasse, e qual fidanza avesse
a darnesi prigione. Egli, in tal guisa
assecurato, al re si volse e disse:
"Signor, segua che vuole, in tuo cospetto
io dirò tutto; e dirò vero. E prima
d'esser greco io non niego; ché fortuna
può ben far che Sinon sia gramo e misero,
ma non già mai che sia bugiardo e vano.
  Non so se, ragionandosi, a gli orecchi
ti venne mai di Palamède il nome,
che nomato e pregiato e glorïoso,
e da Belo altamente era disceso;
se ben con falso e scelerato indizio
di tradigion, per detestar la guerra,
ei fu da' Greci indegnamente occiso:
com'or, che ne son privi, i Greci stessi
lo piangon tutti! A questo Palamede,
a cui per parentela era congiunto,
il pover padre mio ne' miei prim'anni
pria per valletto nel mestier de l'armi
poi per compagno a questa guerra diemmi.
Infin ch'ei visse, e fu 'l suo stato in fiore,
fioriro anco i miei giorni; e l'opre e 'l nome
e 'l grado mio ne fûr talvolta in pregio.
Estinto lui (che per invidia avvenne,
com'ognun sa, del traditore Ulisse),
amaramente il piansi. E 'l caso indegno
d'un tanto amico, e la mia vita oscura
tra me sdegnando, come soro e folle
ch'io fui, nol tacqui. Anzi, se mai la sorte
mel consentisse, o se mai fossi in Argo
vincitor ritornato, alta vendetta
ne gli promisi, e con minacce e motti
acerbi acerbamente il provocai.
  Questo fu del mio mal prima radice;
e quinci de' suoi falli e del mio duolo
consapevole Ulisse, a spaventarmi,
a travagliarmi, a seminar susurri
si diè nel volgo, e procurarmi inciampi
ond'io cadessi. E non cessò, ch'ordimmi
per mezzo di Calcante... Ma dov'entro,
lasso! senza profitto a fastidirvi
con noiose novelle? A voi sol basta
di saver ch'io son greco, già che i Greci
tutti egualmente per nimici avete.
Or datemi, signor, supplizio e morte
qual a voi piace, ché piacere e gioia
n'aranno i regi ancor d'Itaca e d'Argo".
E qui si tacque. Allor brama ne venne,
non che disio, di piú sapere avanti;
non ben sapendo ancor, miseri noi!
quanta scelleratezza e quanta astuzia
fosse ne' Greci. Egli, a seguir costretto,
mostrossi in prima paventoso, e poscia
di nuovo assicurossi, e finse, e disse:
  "Hanno molte fïate i Greci, afflitti
già da la guerra, e dal disagio astretti,
disïato e tentato anco piú volte
di qui ritrarsi, e lasciar Troia in pace.
Cosí fatto l'avessero! Ma sempre
or il verno, or i vènti, or le procelle
gli han distornati. E pur dianzi che l'opra
del caval che vedete era fornita,
di nuovo in sul partire, e 'n sul far vela,
di tempeste, di turbini e di nembi
risonò 'l cielo, e conturbossi il mare.
Onde, sospesi, Eurípilo mandammo
a spïar sopra a ciò quel che da Febo
ne s'avvertisse. Riportonne un empio
e spaventoso oracolo; e fu questo:
-<I> Col sangue e con la morte d'una vergine
placaste i vènti per condurvi in Ilio;
col sangue e con la morte ora d'un giovine
convien placarli per ridurvi in Grecia.</I> -
A cosí fiera voce sbigottissi,
impallidissi, e tremò 'l volgo tutto,
ciascun per sé temendo; e nessun certo
qual di loro accennasse Apollo e 'l fato.
  Qui fece Ulisse in mezzo al greco stuolo
con gran tumulto appresentar Calcante:
e del volere in ciò de' santi numi
interrogollo. Ed ei rispose in guisa
che la sua fellonia, benché da tutti
fusse prevista, fu però da molti
simulata e taciuta, e da molti anco
a me predetta: pur ei tacque ancora
per dieci giomi; e scaltramente al niego
si mise di voler che per suo detto
fosse alcun destinato o spinto a morte.
Ma poi, come da gridi astretto e vinto,
di conserto con lui ruppe il silenzio,
sí ch'io fui dichiarato al fin per vittima;
consentîr tutti, perché tutti ancora
finian con la mia morte il lor periglio.
  Era già da vicino il giorno orribile,
in che doveano al sacrificio offrirmi:
e già 'l farro e già 'l sale e già le bende
erano a le mie tempie intorno avvolte,
quando, rotto (io nol niego) ogni ritegno,
da la morte mi tolsi: e fin ch'a' vènti
desser le vele (ch'eran presti a darle)
di buia notte in un pantan m'ascosi,
ove nel fango infra le scarde e i giunchi
stava qual mi vedete. Ora son qui
privo d'ogni conforto e d'ogni speme
di mai piú riveder la patria antica,
i dolci figli e 'l desïato padre,
che saran, lasso me! per la mia fuga,
benché innocenti, ancor forse in mia vece
incarcerati, e tormentati, e morti.
  Or io, signor, per quelli eterni dèi
che scorgon di là su se 'l vero io parlo,
per quella pura e 'ntemerata fede
(se tra' mortali in alcun loco è tale)
ond'io già tutto a rivelar ti vegno,
priegoti che pietà di me ti prenda,
e de' miei tanti e sí gravosi affanni
ch'indegnamente io soffro". A cotal pianto
commossi, e da noi fatti anco pietosi,
vita e vènia gli diamo. E di sua bocca
comanda il re che si disferri e sciolga;
poi dolcemente in tal guisa gli parla:
"Qual tu ti sia, de' tuoi perduti Greci
ti dimentica omai; ché per innanzi
sarai de' nostri. Or mi rispondi il vero
di quel ch'io ti domando. A che fine hanno
qui sí grande edificio i Greci eretto?
Per consiglio di cui? Con qual avviso
l'han fabbricato? È vóto? è magia? è macchina?
Che trama è questa?" Avea 'l re detto a pena,
quand'ei, d'inganni e d'arte greca instrutto,
le già disciolte mani al cielo alzando,
disse: "Voi fochi eterni e 'nvïolabili,
voi fasce ond'io portai le tempie avvinte,
voi sacri altari, e voi cultri nefandi,
cui fuggendo anco adoro, a quel ch'io dico
per testimoni invoco. A me lece ora
ch'io mi disciolga, e mi dissacri in tutto
da l'obbligo de' Greci. E mi lece anco
che non gli ami, e che gli odii, e che divolghi
quel che da lor si cela, già ch'astretto
piú non son de la patria a legge alcuna.
Tu, se vero io ti dico, e se gran merto
di ciò ti rendo, e te, Troia, conservo,
conserva a me la già promessa fede.
  Nel cominciar di questa guerra i Greci
riposero ogni speme, ogni fidanza
ne l'aiuto di Palla; e ben riposte
fûr sempre, infin che l'empio Dïomede,
e l'inventor d'ogni mal'opra Ulisse,
il sacro tempio suo non vïolaro:
come fêr quando, ne la ròcca ascesi,
n'uccisero i custodi, e n'involaro
il Palladio fatale, osando impuri
por le man sanguinose al sacrosanto
suo simulacro; e macular le intatte
e 'ntemerate sue verginee bende.
Da indi in qua d'ardir sempre e di forze
scemâr, non che di speme; e Palla infesta
ne fu lor sempre; e ne diè chiari segni
e portentosi, allor ch'al campo addotta
fu la sua statua, che, posata a pena,
torvamente mirogli, e lampi e fiamme
vibrò per gli occhi, e per le membra tutte
versò salso sudore. Indi tre volte,
meraviglia a contarlo! alto da terra
surse, e 'mbracciò lo scudo, e brandí l'asta.
Allor gridando indovinò Calcante
che fuggir si dovesse, e tosto a' vènti
spiegar le vele: ché di Troia in vano
era l'assedio, se con altri augúri
d'Argo non si tornava un'altra volta,
e de la dea non si placava il nume,
ch'or, per ciò fare, han seco in Grecia addotto.
Onde giunti a Micene, incontinente
si daranno a dispor l'armi e le genti
e gli dèi che gli aíti, e gli accompagni.
Poi, ripassando il mar, con maggior forza
di nuovo assaliranvi e d'improvviso:
cosí Calcante interpreta, e predice.
  Or questa mole, che tant'alto sorge,
qui per consiglio di Calcante è posta
in vece del Palladio, e per ammenda
del nume offeso, a bello studio intesta
di legni cosí gravi e cosí grandi,
ed a sí smisurata altezza eretta,
a fin che per le porte entro a le mura
quinci addur non si possa, ove per segno
e per memoria poi del nume antico
riverita da voi, sacrata e cólta
sia ricovro e tutela al popol vostro.
Ché allor che questo dono a Palla offerto
per vostra man sia vïolato e guasto,
ruina estrema (la qual sopra lui
caggia piú tosto) a voi vuol che ne venga,
ed al gran vostro impero: ed, a rincontro,
quando da voi sia dentro al vostro cerchio
condotto e custodito, allor che l'Asia
congiurerà con le sue forze tutte
a l'esterminio d'Argo, e che tal fato
sopra a' nostri nepoti in cielo è fisso".
  Con tal arte Sinon, con tali insidie
fe' sí che gli credemmo; e quelli stessi
cui non potêr né 'l figlio di Tideo,
né di Larissa il bellicoso alunno,
né diece anni domar, né mille navi,
furon da lagrimette e da menzogne
sforzati e vinti. In questa a gl'infelici
un altro sopravvenne assai maggiore
e piú fiero accidente; onde a ciascuno
d'improvviso spavento il cor turbossi.
  Era Laocoonte a sorte eletto
sacerdote a Nettuno; e quel dí stesso
gli facea d'un gran toro ostia solenne:
quand'ecco che da Tènedo (m'agghiado
a raccontarlo) due serpenti immani
venir si veggon parimente al lito,
ondeggiando coi dorsi onde maggiori
de le marine allor tranquille e quete.
Dal mezzo in su fendean coi petti il mare,
e s'ergean con le teste orribilmente,
cinte di creste sanguinose ed irte.
Il resto con gran giri e con grand'archi
traean divincolando, e con le code
l'acque sferzando sí che lungo tratto
si facean suono e spuma e nebbia intorno.
Giunti a la riva, con fieri occhi accesi
di vivo foco e d'atro sangue aspersi,
vibrâr le lingue, e gittâr fischi orribili.
Noi, di paura sbigottiti e smorti,
chi qua, chi là ci dispergemmo; e gli angui
s'affilâr drittamente a Laocoonte,
e pria di due suoi pargoletti figli
le tenerelle membra ambo avvinchiando,
sen fêro crudo e miserabil pasto.
Poscia a lui, ch'a' fanciulli era con l'arme
giunto in aiuto, s'avventaro, e stretto
l'avvinser sí che le scagliose terga
con due spire nel petto e due nel collo
gli racchiusero il fiato; e le bocche alte,
entro al suo capo fieramente infisse,
gli addentarono il teschio. Egli, com'era
d'atro sangue, di bava e di veleno
le bende e 'l volto asperso, i tristi nodi
disgroppar con le man tentava indarno,
e d'orribili strida il ciel feriva;
qual mugghia il toro allor che dagli altari
sorge ferito, se del maglio appieno
non cade il colpo, ed ei lo sbatte e fugge.
I fieri draghi alfin dai corpi esangui
disviluppati, in vèr la ròcca insieme
strisciando e zufolando, al sommo ascesero:
e nel tempio di Palla, entro al suo scudo
rinvolti, a' piè di lei si raggrupparo.
Rinnovossi di ciò nel volgo orrore
e tremore e spavento; e mormorossi
che degnamente avea Laocoonte
di sua temerità pagato il fio,
e del furor che contra al sacro legno
gli armò l'impura e scelerata mano:
e gridâr tutti che di Palla al tempio
si conducesse, e con preghiere e vóti
de la dea si facesse il nume amico.
A ciò seguire immantinente accinti,
ruiniamo la porta, apriam le mura,
adattiamo al cavallo ordigni e travi,
e ruote e curri a' piedi, e funi al collo.
Cosí mossa e tirata agevolmente
la macchina fatale il muro ascende,
d'armi pregna e d'armati, a cui d'intorno
di verginelle e di fanciulli un coro,
sacre lodi cantando, con diletto
porgean mano a la fune. Ella, per mezzo
tratta de la città, mentre si scuote,
mentre che ne l'andar cigola e freme,
sembra che la minacci. O patria, o Ilio,
santo de' numi albergo! inclita in arme
dardania terra! Noi la pur vedemmo
con tanti occhi a l'entrar, che quattro volte
fermossi, e quattro volte anco n'udimmo
il suon de l'armi: e pur, da furia spinti,
ciechi e sordi che fummo, i nostri danni
ci procurammo: ché 'l dí stesso addotto
e posto in cima a la sacrata ròcca
fu quel mostro infelice. Allor Cassandra
la bocca aperse, e quale esser solea
verace sempre e non creduta mai,
l'estremo fine indarno ci predisse:
e noi di sacra e di festiva fronde
velammo i templi il dí, miseri noi,
che de' lieti dí nostri ultimo fue.
  Scende da l'Oceàn la notte intanto,
e col suo fosco velo involve e copre
la terra e 'l cielo e de' Pelasgi insieme
l'ordite insidie. I Teucri a i loro alberghi,
a i lor riposi addormentati e queti
giacean securamente; e già da Tènedo
a l'usata riviera in ordinanza
vèr noi se ne venia l'argiva armata,
col favor de la notte occulta e cheta;
quando da la sua poppa il regio legno
ne diè cenno col foco. Allor Sinone,
che per nostra ruina era da noi
e dal fato maligno a ciò serbato,
accostossi al cavallo, e 'l chiuso ventre
chetamente gli aperse, e fuor ne trasse
l'occulto agguato. Usciro a l'aura in prima
i primi capi baldanzosi e lieti,
tutti per una fune a terra scesi.
E fûr Tisandro e Stènelo ed Ulisse,
Atamante e Toante e Macaóne
e Pirro e Menelao con lo scaltrito
fabbricator di questo inganno, Epèo.
Assalîr la città che già ne l'ozio
e nel sonno e nel vino era sepolta;
ancisero le guardie; aprîr le porte;
miser le schiere congiurate insieme;
e diêr forma a l'assalto. Era ne l'ora
che nel primo riposo hanno i mortali
quel ch'è dal cielo a i loro affanni infuso
opportuno e dolcissimo ristoro:
quand'ecco in sogno (quasi avanti gli occhi
mi fosse veramente) Ettòr m'apparve
dolente, lagrimoso, e quale il vidi
già strascinato, sanguinoso e lordo
il corpo tutto, e i piè forato e gonfio.
Lasso me! quale e quanto era mutato
da quell'Ettòr che ritornò vestito
de le spoglie d'Achille, e rilucente
del foco ond'arse il gran navile argolico!
Squallida avea la barba, orrido il crine
e rappreso di sangue; il petto lacero
di quante unqua ferite al patrio muro
ebbe d'intorno. E mi parea che 'l primo
foss'io che lagrimando gli dicessi:
"O splendor di Dardania, o de' Troiani
securissima speme, e quale indugio
t'ha fin qui trattenuto? Ond'or ne vieni
tanto da noi bramato? Ahi, dopo quanta
strage de' tuoi, dopo quanti travagli
de la nostra città già stanchi e domi
ti riveggiamo! E qual fero accidente
fa sí deforme il tuo volto sereno?
E che piaghe son queste?". Egli a ciò nulla
rispose, come a vani miei quesiti:
ma dal profondo petto alti sospiri
traendo: "Oh! fuggi, Enea, fuggi, - mi disse -
togliti a queste fiamme. Ecco che dentro
sono i nostri nemici. Ecco già ch'Ilio
arde tutto e ruina. Infino ad ora
e per Priamo e per Troia assai s'è fatto.
Se difendere omai piú si potesse,
fôra per questa man difesa ancora:
ma dovendo cader, le sue reliquie
sacre e gli santi suoi numi Penati
a te solo accomanda; e tu li prendi
per compagni a' tuoi fati; e, come è d'uopo,
cerca loro altre terre, ergi altre mura;
ché dopo lungo e travaglioso esilio
l'ergerai piú di Troia altere e grandi".
Detto ciò, da le chiuse arche riposte
trasse, e mi consegnò le sacre bende
e l'effigie di Vesta e 'l foco eterno.
  Spargonsi intanto per diverse parti
de la presa città le grida e 'l pianto
e 'l tumulto de l'armi; e rinforzando
via piú di mano in man, tanto s'avanza
che a l'antica magion del padre Anchise
(come che fosse assai remota, e chiusa
d'alberi intorno) il gran rumore aggiunge.
Allor dal sonno mi riscuoto, e salgo
subitamente d'un terrazzo in cima,
e porgo per udir gli orecchi attenti.
  Cosí rozzo pastor, se da gran suono
è da lunge percosso, in alto ascende,
e mirando si sta confuso e stupido
o foco che al soffiar d'un torbid'Austro
stridendo arda le biade e le campagne;
o tempestoso e rapido torrente
che dal monte precipiti, e le selve
ne meni e i cólti e le ricolte e i campi.
Allor tardi credemmo; allor le insidie
ne fûr conte de' Greci. E già 'l palagio
era di Deïfòbo arso e distrutto;
già 'l suo vicino Ucalegón ardea,
e l'incendio di Troia in ogni lato
rilucea di Sigèo ne la marina;
e s'udian gridar genti e sonar tube.
Io m'armo, e, forsennato, anco ne l'armi
non veggio ove m'adopri. Al fin risolvo,
raunati i compagni, avventurarmi,
menar le mani, e ne la ròcca addurmi;
mi fan l'impeto e l'ira ad ogni rischio
precipitoso; e solo a mente vienmi
che un bel morir tutta la vita onora.
  Eravam mossi; quando ecco tra via
ne si fa Panto d'improvviso avanti,
Panto figlio d'Otrèo, che de la ròcca
era custode, e sacerdote a Febo.
Questi, scampato da' nemici a pena,
inverso il lito attonito fuggendo,
i sacri arredi e i santi simulacri
de gli dèi vinti, e 'l suo picciol nipote
si traea seco."O Panto, o Panto, - io dissi -
a che siam giunti? Ove ricorso abbiamo,
se la ròcca è già presa?". Ei sospirando
e piangendo rispose: " È giunto, Enea,
l'ultimo giorno e 'l tempo inevitabile
de la nostra ruina. Ilio fu già;
e noi Troiani fummo: or è di Troia
ogni gloria caduta. Il fero Giove
tutto in Argo ha rivolto; e tutti in preda
siam de' Greci e del foco. Il gran cavallo,
ch'era a Palla devoto, altero in mezzo
stassi de la cittade, e d'ogni lato
arme versa ed armati. Il buon Sinone
gode de la sua frode, e d'ogn'intorno
scorrendo si rimescola, e s'aggira
gran maestro d'incendi e di ruine.
A porte spalancate entran le schiere
senza ritegno ed a migliaia, quante
né d'Argo usciron mai né di Micene.
Gli altri che prima entraro, han già le strade
assedïate: e stan con l'armi infeste,
parate a far di noi strage e macello.
Soli son fino a qui sorti in difesa
i corpi de le guardie: e questi al buio
fanno con lievi e repentini assalti
tale una cieca resistenza a pena".
  Dal parlar di costui, dal nume avverso
spinto, mi caccio tra le fiamme e l'armi,
ove mi chiama il mio cieco furore,
e de le genti il fremito e le strida
che feriscono il cielo. E per compagni
primieramente al lume de la luna
mi si scopron Rifèo, Ifito il vecchio
ed Ipane e Dimante: indi comparve
il giovine Corèbo. Era costui
figlio a Migdóne, insanamente acceso
de l'amor di Cassandra; e, come fosse
già suo consorte, pochi giorni avanti
in soccorso del suocero e de' Frigi
s'era a Troia condotto. Infortunato!
che non avea la sua sposa indovina
ben anco intesa. A questi insieme accolti,
per accendergli piú mi volgo e dico:
  "Giovini forti e valorosi, in vano
omai fia la fortezza e 'l valor vostro;
poiché perduti siamo e che Troia arde,
e gli dèi tutti, a cui tutela e cura
si reggea questo impero, in abbandono
lasciano i nostri templi e i nostri altari.
Ma se voi cosí fermi e cosí certi
siete pur, com'io veggio, a seguitarmi,
ancor che a morte io vada, in mezzo a l'armi
avventiamci, e moriamo. Un sol rimedio
a chi speme non have è disperarsi".
  Cosí l'ardir di quegli animi accesi
furor divenne. Usciam di lupi in guisa
che rapaci, famelici e rabbiosi,
col ventre vòto e con le canne asciutte
sentan de' lupicini urlar per fame
pieno un digiun covile. Andiam per mezzo
de' nemici e de l'armi a morte esposti,
senza riservo, e via dritti fendiamo
la città tutta, a la buia ombra occulti,
che l'altezza facea de gli edifici.
  Or chi può dir la strage e la ruina
di quella notte? E qual è pianto eguale
a tante occisïoni, a tanto eccidio?
Troia ruina, la superba, antica
e glorïosa Troia, che tant'anni
portò scettro e corona. Era, dovunque
s'andava, di cadaveri, di sangue,
d'ogni calamità pieno ogni loco,
le vie, le case, i templi. E non pur soli
caddero i Teucri, ché l'antico ardire
destossi, e surse alcuna volta ancora
negli lor petti. I vincitori e i vinti
giacean confusamente, e d'ogni lato
s'udian pianti e lamenti; e questi e quelli
eran da la paura e da la morte
in mille guise aggiunti. Andrògeo il primo
de' Greci fu ch'avanti ne s'offerse,
condottier di gran gente. Egli, avvisando
parte sollecitar de la sua schiera:
"Affrettatevi, - disse - a che badate?
che 'ndugio è 'l vostro? Altri espugnata ed arsa
e depredata han di già Troia, e voi
testé venite?" Avea ciò detto a pena,
che 'l segno e la risposta indarno attesa,
tra nemici si vide; e come attonito
restando, con la voce il piè ritrasse.
Come repente il vïator s'arretra,
se d'improvviso fra le spine un angue
avvien che prema, ed ei premuto e punto
d'ira gonfio e di tosco gli s'avventi;
cosí dal nostro subitano incontro
sovraggiunto in un tempo e spaventato,
Andrògeo per fuggir ratto si volse.
Ma noi che, impauriti e sconcertati,
a la sprovvista gli assalimmo in lochi
a lor non consueti, in breve spazio
li circondammo, e gli uccidemmo alfine:
tanto nel primo assalto amica e presta
ne fu la sorte. E qui fatto Corèbo
d'un tal successo e di coraggio altero:
"Compagni, - disse - poi che la fortuna
con questo sí felice agli altri incontri
ne porge aíta, a nostro scampo usiamla.
Mutiam gli scudi, accomodiamci gli elmi
e l'insegne de' Greci. O biasmo o lode
che ciò ne sia, chi co' nemici il cerca?
L'arme ne daranno essi". E, cosí detto,
la celata e 'l cimier d'Andrògeo stesso
e la sua scimitarra e la sua targa
per lui si prese, armi onorate e conte,
Cosí fece Rifèo, cosí Dimante,
e cosí tutti: ché per sé ciascuno
di nuove spoglie allegramente armossi.
  Ci mettemmo tra lor, che i nostri dii
non eran nosco; e ne l'oscura notte
con ogni occasïone in ogni loco
ci azzuffammo con essi; e di lor molti
mandammo a l'Orco, e ritirar molt'altri
ne facemmo a le navi: e fûr di quelli
che per viltà nel cavernoso e cieco
ventre si racquattâr del gran cavallo.
Ma che? Contra 'l voler de' regi eterni
indarno osa la gente. Ecco dal tempio
trar veggiam di Minerva, con le chiome
sparse, e con gli occhi indarno al ciel rivolti,
la vergine Cassandra. Io dico gli occhi,
perché le regie sue tenere mani
eran da' lacci indegnamente avvinte.
  A sí fero spettacolo Corèbo
infurïato, e di morir disposto,
anzi che di soffrirlo, a quella schiera
scagliossi in mezzo; e noi ristretti insieme
tutti il seguimmo. Or qui fessi di noi
una strage crudele e miserabile
e da' nostri medesmi, che la cima
tenean del tempio, e dardi e sassi e travi
ne versarono addosso, imaginando
da l'armi, da' cimieri e da l'insegne
di ferir Greci: e i Greci d'ogni intorno,
tratti dal gran rumore e da lo sdegno
de la ritolta vergine, s'uniro
ai nostri danni. Il bellicoso Aiace,
i fieri Atridi, i Dòlopi e gli Argivi,
tutti ne furon sopra in quella guisa
ch'opposti un contra l'altro Affrico e Bora
e Garbino e Volturno accolte in mezzo
han le selve stridenti o 'l mare ondoso,
quando col suo tridente in fin dal fondo
il gran Nereo il conturba. E tornâr anco
incontro a noi quei che da noi pur dianzi
sen gîr rotti e dispersi; e questi in prima
scoprîr le nostre insidie, e fêr palesi
le cangiate armi e gli mentiti scudi,
e 'l parlar che dal greco era diverso.
Cosí ne fu subitamente addosso
un diluvio di gente. E qui per mano
di Penelèo, davanti al sacro altare
de l'armigera Dea cadde Corèbo:
cadde Rifèo, ch'era ne' Teucri un lume
di bontà, di giustizia e d'equitate
(cosí a Dio piacque); ed Ipane e Dimante
caddero anch'essi; e questi, ohimè! trafitti
per le man pur de' nostri. E tu, pietoso
Panto, cadesti; e la tua gran pietate,
e l'ínfola santissima d'Apollo
in ciò nulla ti valse. O fiamme estreme,
o ceneri de' miei! fatemi fede
voi che nel vostro occaso io rischio alcuno
non rifiutai né d'arme, né di foco,
né di qual fosse incontro, né di quanti
ne facessero i Greci: e se 'l fato era
ch'io dovessi cader, caduto fôra:
tal ne feci opra. Ne spiccammo al fine
da quel mortale assalto. Ifito e Pelia
ne venner meco: Ifito afflitto e grave
già d'anni; e Pelia indebolito e tardo
d'un colpo, che di mano ebbe d'Ulisse.
  Quinci divelti, al gran palagio andammo
da le grida chiamati. Ivi era un fremito,
un tumulto, un combatter cosí fiero,
come guerra non fosse in altro loco,
e quivi sol si combattesse, e quivi
ognun morisse, e nessun altro altrove:
tal v'era Marte indomito, e de' Greci
tanto concorso. Avean la porta cinta
di schiere e di testuggini e di travi,
e d'ambi i lati a la parete in alto
appoggiate le scale; onde saliti
e spinti un dopo l'altro, con gli scudi
si ricoprian di sopra, e con le destre
rampicando salian di grado in grado.
  A rincontro i Troiani, altri di sopra
muri e tetti versando e torri intere,
i travi e i palchi d'oro e i fregi tutti
de la reggia e de' regi avean per armi;
fermi a far sí (poich'eran giunti al fine)
ch'ogni cosa con lor finisse insieme;
ed altri unitamente entro a la porta
stavan coi ferri bassi, in folta schiera
a guardia de l'entrata. E qui di novo
a sovvenir la corte, a far difesa
per entro, a dare a' vinti animo e forza
mi posi in core: e 'n cotal guisa il fei.
Era un andito occulto ed una porta
secretamente accomodata a l'uso
de le stanze reali, onde solea
Andromaca infelice al suo buon tempo
gir a' suoceri suoi soletta, e seco
per domestica gioia al suo grand'avo
il pargoletto Astïanatte addurre.
Quinci entromesso, me ne salsi in cima
a l'alto corridore, onde i meschini
facean di sopra a le nemiche schiere
tempesta in vano. Era dal tetto a l'aura
spiccata, e sopra la parete a filo
un'altissima torre, onde il paese
di Troia, il mar, le navi e 'l campo tutto
si scopria de' nemici. A questa intorno
co' ferri ci mettemmo e co' puntelli;
e da radice ov'era al palco aggiunta,
e da' suoi tavolati e da' suoi travi
recisa in parte la tagliammo in tutto,
e la spingemmo. Alta ruina e suono
fece cadendo; e di piú greche squadre
fu strage e morte e sepoltura insieme.
Gli altri vi salîr sopra; e d'ogni parte
senz'intermissïon d'ogni arme un nembo
volava intanto. In su la prima entrata
stava Pirro orgoglioso; e d'armi cinto
sí luminose, e da' riflessi accese
di tanti incendi, che di foco e d'ira
parean lunge avventar raggi e scintille.
  Tale un colúbro mal pasciuto e gonfio,
di tana uscito, ove la fredda bruma
lo tenne ascoso, a l'aura si dimostra,
quando, deposto il suo ruvido spoglio,
ringiovenito, alteramente al sole
lubrico si travolve, e con tre lingue
vibra mille suoi lucidi colori.
  Seco il gran Perifante e 'l grand'auriga
d'Achille, Automedonte, e lo stuol tutto
era de' Sciri: e di già sotto entrati,
fiamme a' tetti avventando, ogni difesa
ne facean vana. E qui co' primi, avanti
Pirro con una in man grave bipenne
le sbarre, i legni, i marmi, ogni ritegno
de la ferrata porta abbatte e frange,
e per disgangherarla ogni arte adopra.
Tanto al fin ne recide che nel mezzo
v'apre un'ampia finestra. Appaion dentro
gli atrii superbi, i lunghi colonnati,
e di Priamo e degli altri antichi regi
i reconditi alberghi. Appaion l'armi
che davanti eran pronte a la difesa.
S'ode piú dentro un gemito, un tumulto,
un compianto di donne, un ululato,
e di confusïone e di miseria
tale un suon che feria l'aura e le stelle.
Le misere matrone spaventate,
chi qua, chi là per le gran sale errando,
battonsi i petti; e con dirotti pianti
dànno infino a le porte amplessi e baci.
Pirro intanto non cessa, e furïoso,
in sembianza del padre, ogni riparo,
ogni intoppo sprezzando, entro si caccia.
  Già l'arïete a fieri colpi e spessi
aperta, fracassata, e d'ambi i lati
da' cardini divelta avea la porta;
quand'egli a forza urtò, ruppe e conquise
i primi armati; e quinci in un momento
di Greci s'allagò la reggia tutta.
Qual è se, rotti gli argini, spumoso
esce e rapido un fiume, allor che gonfio
e torbo e ruinoso i campi inonda,
seco i sassi traendo e i boschi interi,
e gli armenti e le stalle e ciò che avanti
gli s'attraversa; in cotal guisa io stesso
vidi Pirro menar ruina e strage;
e vidi ne l'entrata ambi gli Atridi;
vidi Ecúba infelice, ed a lei cento
nuore d'intorno; e Prïamo vid'anco
ch'estinguea col suo sangue, ohimè! quei fochi
che da lui stesso eran sacrati e cólti.
  Cinquanta maritali appartamenti
eran ne' suo serraglio: quale, e quanta
speranza de' figlioli e de' nipoti!
Quanti fregi, quant'oro, quante spoglie,
e quant'altre ricchezze! e tutte insieme
periro incontinente: e dove il foco
non era, erano i Greci. Or, per contarvi
qual di Prïamo fosse il fato estremo,
egli, poscia che presa, arsa e disfatta
vide la sua cittade, e i Greci in mezzo
ai suoi piú cari e piú riposti alberghi;
ancor che vèglio e debole e tremante,
l'armi, che di gran tempo avea dismesse,
addur si fece; e d'esse inutilmente
gravò gli omeri e 'l fianco; e come a morte
devoto, ove piú folti e piú feroci
vide i nemici, incontr' a lor si mosse.
  Era nel mezzo del palazzo a l'aura
scoperto un grand'altare, a cui vicino
sorgea di molti e di molt'anni un lauro
che co' rami a l'altar facea tribuna,
e con l'ombra a' Penati opaco velo.
Qui, come d'atra e torbida tempesta
spaventate colombe, a l'ara intorno
avea le care figlie Ecuba accolte;
ove agl'irati dèi pace ed aíta
chiedendo, agli lor santi simulacri
stavano con le braccia indarno appese.
Qui, poiché la dolente apparir vide
il vecchio re giovenilmente armato:
"O, - disse - infelicissimo consorte,
qual dira mente, o qual follia ti spinge
a vestir di quest'armi? Ove t'avventi,
misero? Tal soccorso a tal difesa
non è d'uopo a tal tempo: non, s'appresso
ti fosse anco Ettor mio. Con noi piú tosto
rimanti qui; ché questo santo altare
salverà tutti; o morren tutti insieme".
  Ciò detto, a sé lo trasse; e nel suo seggio
in maestate il pose. Ecco davanti
a Pirro intanto il giovine Polite,
un de' figli del re, scampo cercando
dal suo furore, e già da lui ferito,
per portici e per logge armi e nemici
attraversando, in vèr l'altar sen fugge:
e Pirro ha dietro che lo segue e 'ncalza
sí che già già con l'asta e con la mano
or lo prende, or lo fère. Alfin qui giunto,
fatto di mano in man di forza esausto
e di sangue e di vita, avanti agli occhi
d'ambi i parenti suoi cadde, e spirò.
  Qui, perché si vedesse a morte esposto,
Prïamo non di sé punto oblïossi,
né la voce frenò, né frenò l'ira:
anzi esclamando: "O scelerato, - disse -
o temerario! Abbiati in odio il cielo,
se nel cielo è pietate; o se i celesti
han di ciò cura, di lassú ti caggia
la vendetta che merta opra sí ria.
Empio, ch'anzi a' miei numi, anzi al cospetto
mio proprio fai governo e scempio tale
d'un tal mio figlio, e di sí fera vista
le mie luci contamini e funesti.
Cotal meco non fu, benché nimico,
Achille, a cui tu menti esser figliolo,
quando, a lui ricorrendo, umanamente
m'accolse, e riverí le mie preghiere;
gradí la fede mia; d'Ettor mio figlio
mi rendé 'l corpo esangue: e me securo
nel mio regno ripose". In questa, acceso,
il debil vecchio alzò l'asta, e lanciolla
sí che senza colpir languida e stanca
ferí lo scudo, e lo percosse a pena,
che dal sonante acciaro incontinente
risospinta e sbattuta a terra cadde.
A cui Pirro soggiunse: "Or va' tu dunque
messaggiero a mio padre, e da te stesso,
le mie colpe accusando e i miei difetti,
fa' conto a lui come da lui traligno:
e muori intanto". Ciò dicendo, irato
afferrollo, e, per mezzo il molto sangue
del suo figlio, tremante e barcolloni,
a l'altar lo condusse. Ivi nel ciuffo
con la sinistra il prese, e con la destra
strinse il lucido ferro, e fieramente
nel fianco infino agli elsi gliel'immerse.
  Questo fin ebbe, e qui fortuna addusse
Prïamo, un re sí grande, un sí superbo
dominator di genti e di paesi,
un de l'Asia monarca, a veder Troia
ruinata e combusta; a giacer quasi
nel lito un tronco desolato, un capo
senza il suo busto, e senza nome un corpo.
  Allor pria mi sentii dentro e d'intorno
tale un orror, che stupido rimasi.
E, di Prïamo pensando al caso atroce,
mi si rappresentò l'imago avanti
del padre mio, ch'era a lui d'anni eguale.
Mi sovvenne l'amata mia Creúsa,
il mio picciolo Iulo, e la mia casa
tutta a la vïolenza, a la rapina,
ad ogni ingiuria esposta. Allora in dietro
mi volsi per veder che gente meco
fosse de' miei seguaci; e nullo intorno
piú non mi vidi: ché tra stanchi e morti
e feriti e storpiati, altri dal ferro,
altri da le ruine, altri dal foco,
m'avean già tutti abbandonato. In somma
mi trovai solo. Onde, smarrito errando,
e d'ogn'intorno rimirando, al lume
del grand'incendio, ecco mi s'offre a gli occhi
di Tindaro la figlia, che nel tempio
se ne stava di Vesta, in un reposto
e secreto ridotto ascosa e cheta:
Elena, dico, origine e cagione
di tanti mali, e che fu d'Ilio e d'Argo
furia comune. Onde comunemente
e de' Greci temendo e de' Troiani
e de l'abbandonato suo marito,
s'era in quel loco, e 'n se stessa ristretta,
confusa, vilipesa ed abborrita
fin dagli stessi altari. Arsi di sdegno,
membrando che per lei Troia cadea;
e 'l suo castigo e la vendetta insieme
de la mia patria rivolgendo: "Adunque -
dicea meco - impunita e trïonfante
ritornerà la scelerata in Argo?
E regina vedrà Sparta e Micene?
Goderà del marito, de' parenti,
de' figli suoi? Farà pompe e grandezze,
e d'Ilio avrà per serve e per ministri
l'altere donne e i gran donzelli intorno?
E qui Priamo sarà di ferro anciso,
e Troia incensa, e la dardania terra
di tanto sangue tante volte aspersa?
Non fia cosí; che se ben pregio e lode
non s'acquista a punire o vincer donna,
io lodato e pregiato assai terrommi,
se si dirà ch'aggia d'un mostro tale
purgato il mondo. Appagherommi almeno
di sfogar l'ira mia: vendicherommi
de la mia patria; e col fiato e col sangue
di lei placherò l'ombre, e farò sazie
le ceneri de' miei". Ciò vaneggiando,
infurïava; quand'ecco una luce
m'aprio la notte, e mi scoverse avanti
l'alma mia genitrice in un sembiante,
non come l'altre volte in altre forme
mentito o dubbio, ma verace e chiaro,
e di madre e di dea, qual, credo, e quanta
su tra gli altri Celesti in ciel si mostra.
Cotal la vidi, e tale anco per mano
mi prese; e con pietà le sante luci
e le labbia rosate aperse, e disse:
"Figlio, a che tanto affanno? a che tant'ira?
Ché non t'acqueti omai? Questa è la cura
che tu prendi di noi? Ché non piú tosto
rimiri ov'abbandoni il vecchio Anchise
e la cara Creúsa e 'l caro Iulo,
cui sono i Greci intorno? E se non fosse
che in guardia io gli aggio, in preda al ferro, al foco
fôran già tutti. Ah! figlio, non il volto
de l'odïata Argiva, non di Pari
la biasmata rapina, ma del cielo
e de' celesti il voler empio atterra
la troiana potenza. Alza su gli occhi,
ch'io ne trarrò l'umida nube, e 'l velo
che la vista mortal t'appanna e grava:
poscia credi a tua madre, e senza indugio
tutto fa' che da lei ti si comanda:
vedi là quella mole, ove quei sassi
son da' sassi disgiunti, e dove il fumo
con la polve ondeggiando al ciel si volve,
come fiero Nettuno infin da l'imo
le mura e i fondamenti e 'l terren tutto
col gran tridente suo sveglie e conquassa.
Vedi qui su la porta come Giuno
infurïata a tutti gli altri avanti
si sta cinta di ferro, e da le navi
le schiere d'Argo a' nostri danni invita:
vedi poi colà su Pallade in cima
a l'alta rocca, entro a quel nembo armata,
con che lucenti e spaventosi lampi
il gran Górgone suo discopre e vibra.
Che piú? mira nel ciel, che Giove stesso
somministra a gli Argivi animo e forza,
e incontro a le vostre armi a l'arme incita
gli eterni dèi. Cedi lor, figlio, e fuggi,
poi che indarno t'affanni. Io sarò teco
ovunque andrai, sí che securamente
ti porrò dentro a' tuoi paterni alberghi".
  Cosí disse; e per entro a le folt'ombre
de la notte s'ascose. Allor vid'io
gl'invisibili aspetti, e i fieri volti
de' numi a Troia infesti, e Troia tutta
in un sol foco immersa, e fin dal fondo
sottosopra rivolta. In quella guisa
che d'alto monte in precipizio cade
un orno antico, i cui rami pur dianzi
facean contrasto a' vènti e scorno al sole,
quando con molte accette al suo gran tronco
stanno i robusti agricoltori intorno
per atterrarlo, e gli dan colpi a gara,
da cui vinto e dal peso, a poco a poco
crollando e balenando, il capo inchina,
e stride e geme e dal suo giogo al fine
e con parte del giogo si diveglie,
o si scoscende; e ciò che intoppa urtando,
di suono e di ruina empie le valli.
Allor discesi; e la materna scorta
seguendo, da' nemici e da le fiamme
mi rendei salvo: ché dovunque il passo
volgea, cessava il foco, e fuggian l'armi.
  Poi ch'io fui giunto a la magione antica
del padre mio, di lui prima mi calse
e del suo scampo, e per condurlo a' monti
m'apparecchiava, quand'ei disse:"O figlio,
io decrepito, io misero, che avanzi
ai dí de la mia patria? Io posso, io deggio
sopravvivere a Troia? E fia ch'io soffra
sí vile esiglio? Voi, che ne' vostri anni
siete di sangue e di vigore intieri,
voi vi salvate. A me, s'io pur dovea
restare in vita, avrebbe il ciel serbato
questo mio nido. Assai, figlio, e pur troppo
son vissuto fin qui; poi ch'altra volta
vidi Troia cadere, e non cadd'io.
Fatemi or di pietà gli ultimi offici;
iteratemi il vale, e per defunto
cosí composto il mio corpo lasciate,
ch'io troverò chi mi dia morte; e i Greci
medesmi o per pietate, o per vaghezza
de le mie spoglie, mi trarran di vita
e di miseria: e se d'esequie io manco,
se manco di sepolcro, il danno è lieve.
Da l'ora in qua son io visso a la terra
disutil peso, ed al gran Giove in ira,
che dal vento percosso e da le fiamme
fui dal folgore suo". Ciò memorando
stava il misero padre a morte additto;
e d'intorno gli er'io, Creúsa, Iulo,
la casa tutta con preghiere e pianti
stringendolo a salvarsi, a non trar seco
ogni cosa in ruina, a non offrirsi
da se stesso a la morte. Ei fermo e saldo
né di proponimento, né di loco
punto si cangia; ond'io pur: "L'armi!" grido,
di morir desïoso. E qual v'era altro
rimedio o di consiglio, o di fortuna?
"Ah! che di questa soglia io tragga il piede,
padre mio, per lasciarti? Ah! che tu possa
creder tanto di me? Da la tua bocca
tanto di sceleranza e di viltate
è d'un tuo figlio uscito? Or s'è destino
che di sí gran città nulla rimanga,
se piace a te, se nel tuo core è fermo
che né di te, né de gli tuoi si scemi
la ruina di Troia; e cosí vada,
e cosí fia: ch'io veggio a mano a mano
qui del sangue del re tutto cosperso,
e bramoso del nostro, apparir Pirro,
ch'i padri occide anzi a gli altari, e i figli
anzi agli occhi de' padri. Ah! madre mia,
per questo fine qui salvo e difeso
m'hai da l'armi e dal foco, acciò ch'io veggia
con gli occhi miei ne la mia casa stessa
i miei nimici e 'l mio padre e 'l mio figlio
e la mia donna crudelmente occisi
l'un nel sangue de l'altro? Mano a l'arme!
Chi mi dà l'armi? Ecco che 'l giorno estremo
a morte ne chiama. Or mi lasciate
ch'io torni infra i nimici, e che di nuovo
mi razzuffi con essi: ché non tutti
abbiam senza vendetta oggi a perire".
  E già di ferro cinto, a la sinistra
m'adattavo lo scudo, e fuori uscia,
quand'ecco in su la soglia attraversata
Creúsa avanti a' piè mi si distende,
e me li abbraccia; e 'l fanciulletto Iulo
m'appresenta, e mi dice: "Ah! mio consorte,
dove ne lasci? S'a morir ne vai,
ché non teco n'adduci? E se ne l'armi
e nell'esperïenza hai speme alcuna,
ché non difendi la tua casa in prima?
ove Ascanio abbandoni? ove tuo padre?
ove Creúsa tua, che tua s'è detta
per alcun tempo?". E ciò gridando empiea
di pianto e di stridor la magion tutta:
quand'ecco innanzi a gli occhi, e fra le mani
de gli stessi parenti, un repentino
e mirabile a dir portento apparve;
ché sopra il capo del fanciullo Iulo
chiaro un lume si vide, e via piú chiara
una fiamma che tremola e sospesa
le sue tempie rosate e i biondi crini
sen gia come leccando, e senza offesa
lievemente pascendo. Orrore e téma
ne presi in prima. Indi a quel santo foco
d'intorno, altri con acqua, altri con altro,
ognun facea per ammorzarlo ogn'opra.
Ma 'l padre Anchise a cotal vista allegro,
le man, gli occhi e la voce al ciel rivolto,
orò dicendo: "Eterno onnipotente
signor, se umana prece unqua ti mosse,
vèr noi rimira, e ne fia questo assai.
Ma se di merto alcuno in tuo cospetto
è la nostra pietà, padre benigno,
danne anco aíta; e con felice segno
questo annunzio ratifica e conferma".
  Avea di ciò pregato il vecchio appena,
che tonò da sinistra e dal convesso
del ciel cadde una stella, che per mezzo
fendé l'ombrosa notte, e lunga striscia
di face e di splendor dietro si trasse.
Noi la vedemmo chiaramente sopra
da' nostri tetti ire a celarsi in Ida,
sí che lasciò, quanto il suo corso tenne,
di chiara luce un solco; e lunge intorno
fumò la terra di sulfureo odore.
  Allor vinto si diede il padre mio;
e tosto a l'aura uscendo, al santo segno
de la stella inchinossi, e con gli dèi
parlò devotamente: "O de la patria
sacri numi Penati, a voi mi rendo.
Voi questa casa, voi questo nipote
mi conservate. Questo augurio è vostro,
e nel poter di voi Troia rimansi".
Poscia, rivolto a noi: " Fa', figliuol mio,
ormai - disse - di me che piú t'aggrada;
ch'al tuo voler son pronto, e d'uscir teco
piú non recuso". Avea già 'l foco appresa
la città tutta, e già le fiamme e i vampi
ne ferian da vicino, allor che 'l vecchio
cosí dicea: "Caro mio padre, adunque, -
soggiuns'io - com'è d'uopo, in su le spalle
a me ti reca, e mi t'adatta al collo
acconciamente: ch'io robusto e forte
sono a tal peso: e sia poscia che vuole:
ch'un sol periglio, una salute sola
fia d'ambedue. Seguami Iulo al pari;
Creúsa dopo: e voi, miei servi, udite
quel ch'io diviso. È de la porta fuori
un colle, ov'ha di Cerere un antico
e deserto delúbro, a cui vicino
sorge un cipresso, già molt'anni e molti
in onor de la dea serbato e cólto.
Qui per diverse vie tutti in un loco
vi ridurrete; e tu con le tue mani
sosterrai, padre mio, de' santi arredi
e de' patrii Penati il sacro incarco,
che a me, sí lordo e sí recente uscito
da tanta uccisïon, toccar non lece
pria che di vivo fiume onda mi lave".
  Ciò detto, con la veste e con la pelle
d'un villoso leon m'adeguo il tergo;
e 'l caro peso a gli omeri m'impongo.
Indi a la destra il fanciulletto Iulo
mi s'aggavigna e non con moto eguale
ei segue i passi miei, Creúsa l'orme.
Andiam per luoghi solitari e bui:
e me, cui dianzi intrepido e sicuro
vider de l'arme i nembi e de gli armati
le folte schiere, or ogni suono, ogni aura
empie di téma: sí geloso fammi
e la soma e 'l compagno. Era vicino
a l'uscir de la porta, e fuori in tutto,
com'io credea, d'ogni sinistro incontro;
quand'ecco d'improvviso udir mi sembra
un calpestío di gente, a cui rivolto
disse il vecchio gridando: "Oh! fuggi, figlio,
fuggi, ché ne son presso. Io veggio, io sento
sonar gli scudi, e lampeggiar i ferri".
Qui ridir non saprei come, né quale
avverso nume a me stesso mi tolse:
ché mentre da la fretta e dal timore
sospinto esco di strada, e per occulte
e non usate vie m'aggiro e celo,
restai, misero me! senza la mia
diletta moglie, in dubbio se dal fato
mi si rapisse, o travïata errasse,
o pur lassa a posar posta si fosse.
Basta ch'unqua di poi non la rividi,
né per vederla io mi rivolsi mai,
né mai me ne sovvenne, infin che giunti
di Cerere non fummo al sagro poggio.
Ivi ridotti, ne mancò di tanti
sola Creúsa, ohimè! con quanto scorno
e con quanto dolor del suo consorte
e del figlio e del suocero e di tutti!
Io che non feci allora, e che non dissi?
Qual degli uomini, folle! e degli dèi
non accusai! Qual vidi in tanto eccidio,
o ch'io provassi, o che avvenisse altrui,
caso piú miserando e piú crudele?
  Qui mio figlio, mio padre e i patrii numi
lascio in guardia a' compagni, ed io de l'armi
pur mi rivesto, e 'ndietro me ne torno,
disposto a ritentar ogni fortuna,
a cercar Troia tutta, a por la vita
ad ogni repentaglio. Incominciai
in prima da le mura e da la porta,
ond'era uscito; e le vie stesse e l'orme
ripetei tutte per cui dianzi io venni,
gli occhi portando per vederla intenti.
Silenzio, solitudine e spavento
trovai per tutto. A casa aggiunsi in prima,
cercando se per sorte ivi smarrita
si ricovrasse. Era già presa e piena
di nemici e di foco; e già da' tetti
uscian da' vènti e da le furie spinte
rapide fiamme e minacciose al cielo.
Torno quinci al palagio; indi a la ròcca:
seguo a le piazze, a' portici, a l'asilo
di Giunon, che già fatti eran conserve
de la preda di Troia, a cui Fenice
e 'l fiero Ulisse eran custodi eletti.
Qui d'ogni parte le troiane spoglie
fin de le sacristie, fin de gli altari
le sacre mense, i prezïosi vasi
di solid'oro, e i paramenti e i drappi
e le delizie e le ricchezze tutte
a gli incendi ritolte, erano addotte.
D'intorno innumerabili prigioni
stavan di funi e di catene avvinti,
e matrone e donzelle e pargoletti,
che di sordi lamenti e di muggiti
facean ne l'aria un tuono; e men fra loro
era la donna mia: né dove fosse,
piú ripensar sapendo, osai dolente
gridar per le vie tutte; e, benché in vano,
mille volte iterai l'amato nome.
Mentre cosí tra furïoso e mesto
per la città m'aggiro, e senza fine
la ricerco e la chiamo, ecco davanti
mi si fa l'infelice simulacro
di lei, maggior del solito. Stupii,
m'aggricciai, m'ammutii. Prese ella a dirmi,
e consolarmi: "O mio dolce consorte,
a che sí folle affanno? A gli dèi piace
che cosí segua. A te quinci non lece
di trasportarmi. Il gran Giove mi vieta
ch'io sia teco a provar gli affanni tuoi;
ché soffrir lunghi esigli, arar gran mari
ti converrà pria ch'al tuo seggio arrivi,
che fia poi ne l'Esperia, ove il tirreno
Tebro con placid'onde opimi campi
di bellicosa gente impingua e riga.
Ivi riposo e regno e regia moglie
ti si prepara. Or de la tua diletta
Creúsa, signor mio, piú non ti doglia:
ché i Dòlopi superbi, o i Mirmidóni
non vedranno già me, dardania prole,
e di Prïamo figlia, e nuora a Venere,
né donna lor, né di lor donne ancella:
ché la gran genitrice degli dèi
appo sé tiemmi. Or il mio caro Iulo,
nostro comune amore, ama in mia vece;
e lui conserva, e te consola. Addio".
  Cosí detto, disparve. Io, che dal pianto
era impedito, ed avea molto a dirle,
me le avventai, per ritenerla, al collo;
e tre volte abbracciandola, altrettante,
come vento stringessi o fumo o sogno,
me ne tornai con le man vòte al petto.
  E cosí scorsa e consumata indarno
tutta la notte, al poggio mi ritrassi
a' miei compagni, ove trovai con molta
mia maraviglia d'ogni parte accolta
una gran gente, un miserabil volgo
d'ogni età, d'ogni sesso e d'ogni grado,
a l'esiglio parati, e 'nsieme additti
a seguir me, dovunque io gli adducessi,
o per mare o per terra. Uscia già d'Ida
la mattutina stella, e 'l dí n'apria,
quando in dietro mi volsi, e vidi Troia
fumar già tutta; e de la ròcca in cima,
e di sovr'ogni porta inalberate
le greche insegne; onde né via, né speme
rimanendomi piú di darle aíta,
cedei; ripresi il carco, e salsi al monte».

 

Libro III

 

«Poi che fu d'Asia il glorïoso regno
e 'l suo re seco e 'l suo legnaggio tutto,
com'al cielo piacque, indegnamente estinto,
Ilio abbattuto e la nettunia Troia
desolata e combusta; i santi augúri
spïando, a vari esigli, a varie terre
per ricovro di noi pensando andammo:
e ne la Frigia stessa, a piè d'Antandro,
ne' monti d'Ida, a fabbricar ne demmo
la nostra armata, non ben certi ancóra
ove il ciel ne chiamasse, e quale altrove
ne desse altro ricetto. Ivi le genti
d'intorno accolte, al mar ne riducemmo,
e n'imbarcammo alfine. Era de l'anno
la stagion prima, e i primi giorni a pena,
quando, sciolte le sarte e date a' venti
le vele, come volle il padre Anchise,
piangendo abbandonai le rive e i porti
e i campi ove fu Troia, i miei compagni
meco traendo e 'l mio figlio e i miei numi
a l'onde in preda, e de la patria in bando.
  È de la Frigia incontro un gran paese
da' Traci arato, al fiero Marte additto,
ampio regno e famoso, e seggio un tempo
del feroce Licurgo. Ospiti antichi
s'eran Traci e Troiani; e fin ch'a Troia
lieta arrise fortuna, ebbero entrambi
comuni alberghi. A questa terra in prima
drizzai 'l mio corso, e qui primieramente
nel curvo lito con destino avverso
una città fondai, che dal mio nome
Enèade nomossi; e mentre intorno
me ne travaglio, e i santi sacrifici
a Venere mia madre ed agli dèi,
che sono al cominciar propizi, indico:
mentre che 'n su la riva un bianco toro
al supremo Tonante offro per vittima,
udite che m'avvenne. Era nel lito
un picciol monticello, a cui sorgea
di mirti in su la cima e di corniali
una folta selvetta. In questa entrando
per di fronde velare i sacri altari,
mentre de' suoi piú teneri e piú verdi
arbusti or questo, or quel diramo e svelgo;
orribile a veder, stupendo a dire,
m'apparve un mostro: ché, divelto il primo
da le prime radici, uscîr di sangue
luride gocce, e ne fu 'l suolo asperso.
Ghiado mi strinse il core; orror mi scosse
le membra tutte; e di paura il sangue
mi si rapprese. Io le cagioni ascose
di ciò cercando, un altro ne divelsi;
ed altro sangue uscinne: onde confuso
vie piú rimasi; e nel mio cor diversi
pensier volgendo, or de l'agresti ninfe,
or del scitico Marte i santi numi
adorando, porgea preghiere umíli,
che di sí fiera e portentosa vista
mi si togliesse, o si temprasse almeno
il diro annunzio. Ritentando ancora,
vengo al terzo virgulto, e con piú forza
mentre lo scerpo, e i piedi al suolo appunto,
e lo scuoto e lo sbarbo (il dico, o 'l taccio?),
un sospiroso e lagrimabil suono
da l'imo poggio odo che grida e dice:
  "Ahi! perché sí mi laceri e mi scempi?
Perché di cosí pio, cosí spietato,
Enea, vèr me ti mostri? A che molesti
un ch'è morto e sepolto? A che contamini
col sangue mio le consanguinee mani?
Ché né di patria, né di gente esterno
son io da te; né questo atro liquore
esce da sterpi, ma da membra umane.
Ah! fuggi, Enea, da questo empio paese:
fuggi da questo abbominevol lito:
ché Polidoro io sono, e qui confitto
m'ha nembo micidiale, e ria semenza
di ferri e d'aste che, dal corpo mio
umor preso e radici, han fatto selva".
  A cotal suon, da dubbia téma oppresso,
stupii, mi raggricciai, muto divenni,
di Polidoro udendo. Un de' figliuoli
era questi del re, ch'al tracio rege
fu con molto tesoro occultamente
accomandato allor che da' Troiani
incominciossi a diffidar de l'armi,
e temer de l'assedio. Il rio tiranno,
tosto che a Troia la fortuna vide
volger le spalle, anch'ei si volse, e l'armi
e la sorte seguí de' vincitori;
sí che, de l'amicizia e de l'ospizio
e de l'umanità rotta ogni legge,
tolse al regio fanciul la vita e l'oro.
  Ahi de l'oro empia ed esecrabil fame!
E che per te non osa, e che non tenta
quest'umana ingordigia? Or poi che 'l gelo
mi fu da l'ossa uscito, a' primi capi
del popol nostro ed a mio padre in prima
il prodigio refersi, e di ciascuno
il parer ne spiai. "Via, - disser tutti
concordemente - abbandoniam quest'empia
e scelerata terra; andiam lontano
da questo infame e traditore ospizio;
rimettiamci nel mare". Indi l'esequie
di Polidoro a celebrar ne demmo;
e, composto di terra un alto cumulo,
gli altar vi consacrammo a i numi inferni,
che di cerulee bende e di funesti
cipressi eran coverti. Ivi le donne
d'Ilio, com'è fra noi rito solenne,
vestite a bruno e scapigliate e meste
ulularono intorno; e noi di sopra
di caldo latte e di sacrato sangue
piene tazze spargemmo, e con supremi
richiami amaramente al suo sepolcro
rivocammo di lui l'anima errante.
Né pria ne si mostrâr l'onde sicure,
e fidi i venti, che, del porto usciti,
incontinente ne vedemmo avanti
sparir l'odiosa terra, e gir da noi
di mano in man fuggendo i liti e i monti.
  È nel mezzo a l'Egeo, diletta a Dori
ed a Nettuno, un'isola famosa,
che già mobile e vaga intorno a' liti
agitata da l'onde errando andava,
ma fatta di Latona e de' suoi figli
ricetto un tempo, dal pietoso arciero
tra Gïaro e Micon fu stretta in guisa,
ch'immota, e cólta, e consacrata a lui,
ebbe poi le tempeste e i vènti a scherno.
Qui porto placidissimo e securo
stanchi ne ricevette, e già smontati
veneravam d'Apollo il santo nido;
quand'ecco Anio suo rege, e rege insieme
e sacerdote, che di sacre bende
e d'onorato alloro il crine adorno,
ne si fa 'ncontro. Era al mio padre Anchise
già di molt'anni amico; onde ben tosto
lo riconobbe, e con sembiante allegro
lui primamente, indi noi tutti accolti,
n'abbracciò, ne 'nvitò, seco n'addusse.
  Quinci al delúbro, ch'ad Apollo in cima
era d'un sasso anticamente estrutto,
tutti salimmo; ed io devoto orai:
"Danne, padre Timbrèo, propria magione,
e propria terra, ove già stanchi abbiamo
posa e ristoro, e ne da' stirpe e nido
opportuno, durabile e securo;
danne Troia novella; e de' Troiani
serba queste reliquie, che avanzate
sono a pena agli storpi, a le ruine,
al foco, a' Greci, al dispietato Achille.
Mostrane chi ne guidi, ove s'indrizzi
il nostro corso, a qual fia 'l nostro seggio.
Coi tuoi piú chiari e manifesti augúri,
signor, tu ne predici e tu n'ispira".
  Avea ciò detto a pena, che repente
il limitare, il tempio, e 'l monte tutto
crollossi intorno; scompigliârsi i lauri;
aprissi, e dagli interni suoi ridotti
mugghiò la formidabile cortina.
Noi riverenti a terra ne gittammo;
e 'l suon, ch'era confuso, a l'aura uscendo,
articolossi, e cosí dire udissi:
  "Dardanidi robusti, onde l'origine
traeste in prima, ivi ancor lieto e fertile
di vostra antica madre il grembo aspettavi.
Di lei dunque cercate; a lei tornatevi:
ch'ivi sovr'ogni gente, in tutti i secoli
domineranno i glorïosi Enèadi,
e la posterità de gli lor posteri".
  Ciò disse Apollo: e del suo detto fessi
infra noi gran letizia e gran bisbiglio,
interrogando e ricercando ognuno
qual paese, qual madre, qual ricetto
ne s'accennasse. Allora il padre Anchise
da lunge i tempi ripetendo e i casi
dei nostri antichi eroi: "Signori, udite -
ne disse, - ch'io darò lume e compenso
a le vostre speranze. È del gran Giove
Creta quasi gran cuna in mezzo al mare
isola chiara, e regno ampio e ferace,
che cento gran città nodrisce e regge.
Ivi sorge un'altr'Ida, onde nomata
fu l'Ida nostra; ond'ha seme e radice
nostro legnaggio: onde primieramente
Teucro, padre maggior de' maggior nostri
(se ben me ne rammento), errando venne
a le spiagge di Reto, ov'egli elesse
di fondare il suo regno. Ilio non era,
né di Pergamo ancor sorgean le mura
fino in quel tempo: e sol ne l'ime valli
abitavan le genti. Indi a noi venne
la gran Cibele madre; indi son l'armi
de' Coribanti, indi la selva idea,
e quel fido silenzio, onde celati
son quei nostri misteri, e quei leoni
ch'al carro de la dea son posti al giogo.
Di là dunque veniamo, e là vuol Febo
che si ritorni. Or via seguiamo il fato:
plachiamo i vènti e ne la Creta andiamo,
che non è lunge; e se n'è Giove amico,
anzi tre dí n'approderemo ai liti".
  Ciò detto, a ciascun dio, come conviensi,
sacrificando, due gran tori occise:
e l'un diede a Nettuno e l'altro a Febo:
una pecora negra a la Tempesta;
al Sereno una bianca. Era in quei giorni
fama che Idomeneo, cretese eroe,
da la sua patria e da' paterni regni
era scacciato; onde di Creta i liti
d'armi, di duce e di seguaci suoi,
nostri nimici, in gran parte spogliati,
stavano a noi senza contesa esposti.
  Tosto d'Ortigia abbandonammo i porti;
trapassammo di Nasso i pampinosi
colli, e Bacco onorammo: i verdi liti
di Dònisa, e d'Olëaro varcammo:
giungemmo a Paro, e le sue bianche ripe
lasciammo indietro: indi di mano in mano
l'altre Cícladi tutte e 'l mar che rotto
da tant' isole e chiuso ondeggia e ferve;
e seguendo, com'è de' naviganti
marinaresca usanza, - in Creta! in Creta! -
lietamente gridando, con un vento
che ne feria senza ritegno in poppa,
quasi a volo andavamo; onde ben tosto
de' Cureti appressammo i liti antichi;
e gli scoprimmo, e v'approdammo alfine.
Giunti che fummo, avidamente diemmi
a fabricar le desïate mura,
e Pergamea da Pergamo le dissi.
Con questo amato nome amore e speme
destai di nuova patria, e studio intenso
d'alzar le mura e di fondar gli alberghi.
Eran le navi in su la rena addotte
per la piú parte; era la gente intenta
a l'arti, a la coltura, ai maritaggi,
ad ogni affare; ed io lor ministrava
leggi e ragioni, e facea templi e strade,
quando fera, improvvisa pestilenza,
ne sopravvenne; e la stagione e l'anno
e gli uomini e gli armenti e l'aria e l'acque
e tutto altro infettonne; onde ogni corpo
o cadeva o languiva; e la semente
e i frutti e l'erbe e le campagne stesse
da la rabbia di Sirio e dal veleno
de l'orribil contage arse e corrotte,
ci negavano il vitto. Il padre mio
per consiglio ne diè che un'altra volta,
rinavigando il navigato mare,
si tornasse in Ortigia, e che di nuovo
ricorrendo di Febo al santo oracolo,
perdon gli si chiedesse, aíta e scampo
da sí maligno e velenoso influsso,
ed alfin del cammino e de la stanza
chiaro ne si traesse indrizzo e lume.
  Era già notte, e già dal sonno vinta
posa e ristoro avea l'umana gente,
quando le sacre effigi de' Penati,
quelle che meco avea tratte dal foco
de la mia patria, quelle stesse in sogno
vive mi si mostrâr veraci e chiare:
tal piena, avversa e luminosa luna
penetrava, per entro al chiuso albergo,
di puri vetri i lucidi spiragli;
e com'eran visibili, appressando
la sponda ov'io giacea, soavemente
mi si fecero avanti, e 'n cotal guisa
mi confortaro: "Quel che Apollo stesso,
se tornaste in Ortigia, a voi direbbe,
qui mandati da lui vi diciam noi:
e noi siam quei che dopo Troia incensa
per tanti mari a tanti affanni teco
n'uscimmo, e te seguiamo e l'armi tue.
Noi compagni ti siamo, e noi saremo
ch'a la nova città, che tu procuri,
daremo eterno imperio, e i tuoi nipoti
ergeremo a le stelle. Alto ricetto
tu dunque e degno de l'altezza loro
prepara intanto; e i rischi e le fatiche
non rifiutar di piú lontano esiglio.
Cerca loro altro seggio; ergi altre mura
vie piú chiare di queste: ché di Creta
né curiam noi, né lo ti dice Apollo.
  Una parte d'Europa è, che da' Greci
si disse Esperia, antica, bellicosa
e fertil terra. Dagli Enotri cólta,
prima Enotria nomossi: or, com'è fama,
preso d'Italo il nome, Italia è detta.
Questa è la terra destinata a noi.
Quinci Dardano in prima e Iasio usciro;
e Dardano è l'autor del sangue nostro.
Sorgi dunque e riporta al padre Anchise
quel ch'or noi ti diciam, ché diciam vero:
e tu cerca di Còrito e d'Ausonia
l'antiche terre, ché da Giove in Creta
regnar ti s'interdice". Io di tal vista,
e di tai voci, ch'eran voci e corpi
de' nostri dèi, non simulacri e sogni
(ché ne vid'io le sacre bende e i volti
spiranti e vivi), attonito e cosperso
di gelato sudore, in un momento
salto dal letto; e con le mani al cielo
e con la voce supplicando, spargo
di doni intemerati i santi fochi.
Riveriti i Penati, al padre Anchise
lieto men vado, e del portento intera-
mente il successo e l'ordine gli espongo.
Incontinente riconobbe il doppio
nostro legnaggio, e i due padri e i due tronchi
de' cui rami siam noi vette e rampolli;
e d'erro uscito: "Ora io m'avveggio, - disse -
figlio, che segno sei de le fortune
e del fato di Troia; e ciò rincontro
che Cassandra dicea: sola Cassandra
lo previde e 'l predisse. Ella al mio sangue
augurò questo regno; e questa Italia
e questa Esperia avea sovente in bocca.
Ma chi mai ne l'Esperia avria creduto
che regnassero i Teucri? E chi credea
in quel tempo a Cassandra? Ora, mio figlio,
cediamo a Febo; e ciò che 'l dio del vero
ne dà per meglio, per miglior s'elegga".
  Ciò disse, e i detti suoi tosto eseguimmo;
ed ancor questa terra abbandonammo,
se non se pochi. N'andavamo a vela
con second'aura; e già d'alto mirando,
non piú terra apparia, ma cielo ed acqua
vedevam solamente, quando oscuro
e denso e procelloso un nembo sopra
mi stette al capo, onde tempesta e notte
ne si fece repente e di piú siti
rapidi uscendo imperversaro i vènti;
s'abbuiò l'aria, abbaruffossi il mare,
e gonfiaro altamente e mugghiâr l'onde.
Il ciel fremendo, in tuoni, in lampi, in folgori
si squarciò d'ogni parte. Il giorno notte
fessi, e la notte abisso: e l'un da l'altro
non discernendo, Palinuro stesso
de la via diffidossi e de la vita.
  Cosí tolti dal corso, e quinci e quindi
per lo gran golfo dissipati e ciechi,
da buio e da caligine coverti,
tre soli interi senza luce errammo,
tre notti senza stelle. Il quarto giorno
vedemmo al fin, quasi dal mar risorta,
la terra aprirne i monti e gittar fumo.
Caggion le vele; e i remiganti a pruova,
di bianche schiume il gran ceruleo golfo
segnando, inverso i liti i legni affrettano.
Né prima fui di sí gran rischio uscito,
che giunto nelle Stròfadi mi vidi.
Stròfadi grecamente nominate
son certe isole in mezzo al grande Ionio,
da la fera Celeno e da quell'altre
rapaci e lorde sue compagne Arpie
fin d'allora abitate, che per téma
lasciâr le prime mense, e di Finèo
fu lor chiuso l'albergo. Altro di queste
piú sozzo mostro, altra piú dira peste
da le tartaree grotte unqua non venne.
Sembran vergini a' volti; uccelli e cagne
a l'altre membra: hanno di ventre un fedo
profluvio, ond'è la piuma intrisa ed irta,
le man d'artigli armate: il collo smunto,
la faccia per la fame e per la rabbia
pallida sempre e raggrinzata e magra.
  Tosto che qui sospinti in porto entrammo,
ecco sparsi veggiam per la campagna
senza custodi andar gran torme errando
di cornuti e villosi armenti e greggi.
Smontiamo in terra; e per far carne, prese
l'armi, a predare andiamo, e de la preda
gli dèi chiamiamo e Giove stesso a parte.
  Fatta la strage e già parati i cibi
e distese le mense, eravam lungo
al curvo lito a ricrearne assisi,
quand'ecco che da' monti in un momento
con dire voci e spaventoso rombo
ne si fan sopra le bramose Arpie;
e con gli urti e con l'ali e con gli ugnoni,
col tetro, osceno, abbominevol puzzo
ne sgominâr le mense, ne rapiro,
ne infettâr tutti e i cibi e i lochi e noi.
  Era presso un ridotto, ove alta e cava
rupe d'arbori chiusa e d'ombre intorno
facea capace ed opportuno ostello.
Ivi ne riducemmo, e ne le mense
riposti i cibi e ne gli altari i fochi,
a convivar tornammo; ed ecco un'altra
volta d'un'altra parte per occulte
e non previste vie ne si scoverse
l'orribil torma; e con gli adunchi artigli,
co' fieri denti e con le bocche impure
ghermîr la preda, e ne lasciâr di novo
vòte le mense e scompigliate e sozze.
  Allor: "Via, - dico a' miei - di guerra è d'uopo
contra sí dira gente". E tutti a l'arme
ed a battaglia incito. Eglino, in guisa
ch'io li disposi, i ferri ignudi e l'aste
e gli scudi e le frombe e i corpi stessi
infra l'erba acquattaro; il lor ritorno
stêro aspettando. Era Miseno in alto
a la veletta asceso; e non piú tosto
scoprir le vide, e schiamazzare udille,
che col canoro suo cavo oricalco
ne diè cenno a' compagni. Uscîr d'agguato
tutti in un tempo, e nuova zuffa e strana
tentâr contra i marini uccelli in vano:
ché le piume e le terga ad ogni colpo
aveano impenetrabili e secure;
onde securamente al ciel rivolte
se ne fuggiro, e ne lasciâr la preda
sgraffiata, smozzicata e lorda tutta.
Sola Celèno a l'alta rupe in cima
disdegnosa fermossi e, d'infortuni
trista indovina infurïossi, e disse:
"Dunque non basta averne, ardita razza
di Laomedonte, depredati e scórsi
gli armenti e i campi nostri, che ancor guerra,
guerra ancor ne movete? E le innocenti
Arpie scacciar del patrio regno osate?
Ma sentite, e nel cor vi riponete
quel ch'io v'annunzio. Io son Furia suprema
ch'annunzio a voi quel che 'l gran Giove a Febo,
e Febo a me predice. Il vostro corso
è per l'Italia, e ne l'Italia arete
e porto e seggio. Ma di mura avanti
la città che dal ciel vi si destina
non cingerete, che d'un tale oltraggio
castigo arete; e dira fame a tanto
vi condurrà, che fino anco le mense
divorerete". E, cosí detto, il volo
riprese in vèr la selva, e dileguossi.
  Sgomentaronsi i miei, cadde lor l'ira;
e prieghi, invece d'armi, e voti oprando,
mercé chiesero e pace, o dive o dire
che si fosser l'alate ingorde belve:
e 'l padre Anchise in su la riva sporte
al ciel le palme, e i gran celesti numi
umilmente invocando, indisse i sacri
a lor dovuti onori: "O dii possenti,
o dii benigni, voi rendete vane
queste minacce; voi di caso tale
ne liberate; e voi giusti e voi buoni
siate pietosi a noi ch'empi non siamo".
  Indi ratto comanda che dal lito
si disciolgano i legni. Entriam nel mare,
spieghiam le vele agli austri, e via per l'onde
spumose a tutto corso in fuga andiamo
là 've 'l vento e 'l nocchier ne guida e spinge.
E già d'alto apparir veggiam le selve
di Zacinto; passiam Dulichio e Same;
varchiam Nèrito alpestro; e via fuggendo,
e bestemmiando, trapassiam gli scogli
d'Itaca, imperio di Laerte, e nido
del fraudolente Ulisse. Indi ne s'apre
il nimboso Leucàte, e quel che tanto
a' naviganti è spaventoso, Apollo.
Ivi stanchi approdammo; ivi gittate
l'àncore, ed accostati i legni al lito,
ne la picciola sua cittade entrammo.
  Grata vie piú quanto sperata meno
ne fu la terra; onde purgati ergemmo
altari e vóti, ed ostie a Giove offrimmo.
E d'Azio in su la riva festeggiando,
ignudi ed unti, uscîr de' miei compagni
i piú robusti, e, com'è patria usanza,
varie palestre a lotteggiar si diêro:
gioiosi che per tanto mare e tante
greche terre inimiche a salvamento
fosser tant'oltre addotti. Era de l'anno
compito il giro, e i gelidi aquiloni
infestavano il mare; ond'io lo scudo,
che di forbito e concavo metallo
fu già del grande Abante insegna e spoglia,
con un tal motto in su le porte appesi:
<B>A' GRECI VINCITORI ENEA LEVOLLO,
ED A TE 'L SACRA, APOLLO.</B>
Indi al mar giunti
ne rimbarcammo: e remigando a gara,
fummo in un tempo de' Feaci a vista,
e gli varcammo: poi rivolti a destra,
costeggiammo l'Epiro, e di Caonia
giungemmo al porto, ed in Butroto entrammo.
Qui cosa udii, che meraviglia e gioia
mi porse insieme; e fu, ch'Eleno, figlio
di Prïamo re nostro, era a quel regno
di greche terre assunto, e che di Pirro
e del suo scettro e del suo letto erede
troiano sposo a la troiana Andromache
s'era congiunto. Arsi d'immenso amore
di visitarlo, e di spïar da lui
come ciò fosse; e de l'armata uscendo,
scesi nel lito, e me n'andai con pochi
a ritrovarlo. Era quel giorno a sorte
Andromache regina in su la riva
del nuovo Simoenta a far solenne
sepolcral sacrificio; e, come è rito
de la mia patria, avea, fra due grand'are
di verdi cespi una gran tomba eretta,
monumento di lagrime e di duolo.
ove con tristi doni e con lugúbri
voci del grand'Ettòr l'anima e 'l nome
chiamando, il finto suo corpo onorava.
  Poiché venir mi vide, e che di Troia
avvisò l'armi, e me conobbe, un mostro
veder le parve, e forsennata e stupida
fermossi in prima; indi gelata e smorta
disvenne e cadde; e dopo molto, a pena
risensando, mirommi, e cosí disse:
  "Oh! sei tu vero, o pur mi sembri Enea?
Sei corpo od ombra? Se da' morti udito
è il mio richiamo, Ettòr perché te manda?
Perch'ei teco non viene? E sei tu certo
nunzio di lui?" Ciò detto, lagrimando,
empia di strida e di lamenti i campi.
  Io di pietà e di duol confuso, a pena
in poche voci, e quelle anco interrotte,
snodai la lingua: "Io vivo, se pur vita
è menar giorni sí gravosi e duri:
ma cosí spiro ancora, e veramente
son io quel che ti sembro. O da qual grado
scaduta, e da quanto inclito marito!
Andromache d'Ettòr a Pirro, a Pirro
fosti congiunta? Or qual altra piú lieta
t'incontra, e piú di te degna fortuna?"
Abbassò 'l volto, e con sommessa voce
cosí rispose: "O fortunata lei
sovr'ogni donna, che regina e vergine,
ne la sua patria a sacrificio offerta,
del nimico fu vittima e non preda,
né del suo vincitor serva né donna:
io dopo Troia incensa, e dopo tanti
e tanti arati mari, a servir nata,
de la stirpe d'Achille il giogo e 'l fasto,
e 'l superbo suo figlio a soffrir ebbi.
Questi poi con Ermïone congiunto,
e lei, che de la razza era di Leda
e del sangue di Sparta, a me preposta,
volle ch'Eleno ed io, servi ambidue,
n'accoppiassimo insieme. Oreste intanto,
che tôr l'amata sua donna si vide,
da l'amore infiammato e da le faci
de le furie materne, anzi agli altari
del padre Achille, insidïosamente
tolse la vita a lui. Per la sua morte
fu 'l suo regno diviso; e questa parte
de la Caonia ad Eleno ricadde,
che dal nome di Càone troiano
cosí l'ha detta, come disse ancora
Ilio da l'Ilio nostro questa ròcca
che qui su vedi; e Simoenta e Pergamo
queste picciole mura e questo rivo.
Ma te quai vènti, o qual nostra ventura
ha qui condotto, fuor d'ogni pensiero
di noi certo, e tuo forse? Ascanio nostro
vive? cresce? che fa? come ha sentito
la morte di Creúsa? E qual presagio
ne dà ch'Enea suo padre, Ettor suo zio
si rinnovino in lui?" Cotali Andromache
spargea pianti e parole; ed ecco intanto
il teucro eroe che de la terra uscendo,
con molti intorno a rincontrar ne venne.
Tosto che n'adocchiò, meravigliando
ne conobbe, n'accolse, e lietamente
seco n'addusse, de' comuni affanni
molto con me, mentre andavamo, anch'egli
ragionando e piangendo. Entrammo al fine
ne la picciola Troia, e con diletto
un arido ruscello, un cerchio angusto
sentii con finti e rinnovati nomi
chiamar Pergamo e Xanto; e de la Scea
porta entrando abbracciai l'amata soglia.
Cosí fecero i miei, meco godendo
l'amica terra, come propria e vera
fosse lor patria. Il re le sale e i portici
di mense empiendo, fe' lor cibi e vini
da' regii servi realmente esporre
con vaselli d'argento e coppe d'oro.
  Passato il primo giorno e l'altro appresso,
soffiâr prosperi i vènti; ond'io commiato
a l'indovino re chiedendo, seco
mi ristrinsi e gli dissi: "Inclito sire,
cui non son degli dèi le menti occulte,
che Febo spiri e 'l tripode e gli allori
del suo tempio dispensi, e de le stelle
e de' volanti ogni secreto intendi,
danne certo, ti priego, indicio e lume
de le nostre venture. Il nostro corso,
com'ogni augurio accenna ed ogni nume
ne persuade, è per l'Italia; e lieto
e fortunato ancor ne si promette
infino a qui. Sola Celeno Arpia
novi e tristi infortuni, e fame ed ira
degli dèi ne minaccia. Io da te chieggio
avvertenze e ricordi, onde sia saggio
a tai perigli, e forte a tanti affanni".
  Qui pria solennemente Eleno, occisi
i dovuti giovenchi, in atto umíle
impetrò dagli dèi favore e pace;
poscia, raccolto in sé, le bende sciolse
del sacro capo; e me, cosí com'era
a tanto officio attonito e sospeso,
per man prendendo, a la febèa spelonca
m'addusse avanti, e con divina voce
intonando proruppe: "O de la dea
pregiato figlio (quando a gran fortuna
è chiaro in prima che 'l tuo corso è vòlto;
tal è del ciel, de' fati e di colui
che gli regge, il voler, l'ordine e 'l moto),
io di molte e gran cose che antiveggo
del tuo peregrinaggio, acciò piú franco
navighi i nostri mari, e 'l porto ausonio,
quando che sia, securamente attinga,
poche ne ti dirò, ch'a te le Parche
vietan che piú ne sappi; ed a me Giuno,
ch'io piú te ne riveli. In prima il porto,
e l'Italia che cerchi, e sí vicina
ti sembra, è da tal via, da tanti intrichi
scevra da te, ch'anzi che tu v'aggiunga,
ti parrà malagevole, e lontana
piú che non credi; e ti fia d'uopo avanti
stancar piú volte i remiganti e i remi,
e 'l mar de la Sicilia e 'l mar Tirreno,
e i laghi inferni e l'isola di Circe
cercar ti converrà, pria che vi fondi
securo seggio. Io di ciò chiari segni
darotti, e tu ne fa nota e conserva.
  Quando piú stanco e travagliato a riva
sarai d'un fiume, u' sotto un'elce accolta
sarà candida troia, ed arà trenta
candidi figli a le sue poppe intorno,
allor di': - Questo è 'l segno e 'l tempo e 'l loco
da fermar la mia sede, e questo è 'l fine
de' miei travagli -. Or che l'ingorda fame
addur ti deggia a trangugiar le mense,
comunque avvenga, i fati a ciò daranno
opportuno compenso; e questo Apollo
invocato da voi presto saravvi.
Queste terre d'Italia e questa riva
vèr noi vòlta e vicina ai liti nostri,
è tutta da' nimici e da' malvagi
Greci abitata e cólta: e però lunge
fuggi da loro. I Locri di Narizia
qui si posaro; e qui ne' Salentini
i suoi Cretesi Idomeneo condusse;
qui Filottete il melibeo campione
la piccioletta sua Petilia eresse.
Fuggili, dico, e quando anco varcato
sarai di là ne l'alto lito, intento
a sciôrre i vóti, di purpureo ammanto
ti vela il capo, acciò tra i santi fochi,
mentre i tuoi numi adori, ostile aspetto
te coi tuoi sacrifici non conturbi:
e questo rito poi sia castamente
da te servato e da' nepoti tuoi.
  Quinci partito, allor che da vicino
scorgerai la Sicilia, e di Peloro
ti si discovrirà l'angusta foce,
tienti a sinistra, e del sinistro mare
solca pur via quanto a di lungo intorno
gira l'isola tutta, e da la destra
fuggi la terra e l'onde. È fama antica
che questi or due tra lor disgiunti lochi
erano in prima un solo, che per forza
di tempo, di tempeste e di ruine
(tanto a cangiar queste terrene cose
può de' secoli il corso), un dismembrato
fu poi da l'altro. Il mar fra mezzo entrando
tanto urtò, tanto róse, che l'esperio
dal sicolo terreno alfin divise:
e i campi e le città, che in su le rive
restaro, angusto freto or bagna e sparte.
Nel destro lato è Scilla; nel sinistro
è l'ingorda Cariddi. Una vorago
d'un gran baratro è questa, che tre volte
i vasti flutti rigirando assorbe,
e tre volte a vicenda li ributta
con immenso bollor fino a le stelle.
Scilla dentro a le sue buie caverne
stassene insidïando; e con le bocche
de' suoi mostri voraci, che distese
tien mai sempre ed aperte, i naviganti
entro al suo speco a sé tragge e trangugia.
Dal mezzo in su la faccia, il collo e 'l petto
ha di donna e di vergine; il restante,
d'una pistrice immane, che simíli
a' delfini ha le code, ai lupi il ventre.
Meglio è con lungo indugio e lunga volta
girar Pachino e la Trinacria tutta,
che, non ch'altro, veder quell'antro orrendo,
serntir quegli urli spaventosi e fieri
di quei cerulei suoi rabbiosi cani.
  Oltre a ciò, se prudenti, se fedeli
sembrar ti può che sian d'Eleno i detti,
e se scarso non m'è del vero Apollo,
sovr'a tutto io t'accenno, ti predico,
ti ripeto piú volte e ti rammento,
la gran Giunone invoca: a Giunon vóti
e preghi e doni e sacrifici offrisci
devotamente; che, lei vinta alfine,
terrai d'Italia il desïato lito.
  Giunto in Italia, allor che ne la spiaggia
sarai di Cuma, il sacro averno lago
visita, e quelle selve e quella rupe,
ove la vecchia vergine Sibilla
profetizza il futuro, e 'n su le foglie
ripone i fati: in su le foglie, dico,
scrive ciò che prevede, e ne la grotta
distese ed ordinate, ove sian lette,
in disparte le lascia. Elle serbando
l'ordine e i versi, ad uopo de' mortali
parlan de l'avvenire, e quando, aprendo
talor la porta, il vento le disturba,
e van per l'antro a volo, ella non prende
piú di ricôrle e d'accozzarle affanno;
onde molti delusi e sconsigliati
tornan sovente, e mal di lei s'appagano.
Tu per soverchio che ti sembri indugio,
per richiamo de' vènti o de' compagni,
non lasciar di vederla, e d'impetrarne
grazia, che di sua bocca ti risponda,
e non con frondi. Ella daratti avviso
d'Italia, de le guerre e de le genti
che ti fian contra; e mostreratti il modo
di fuggir, di soffrir, d'espugnar tutte
le tue fortune, e di condurti in porto.
Questo è quel che m'occorre, o che mi lice
ch'io ti ricordi. Or vanne, e co' tuoi gesti
te porta e i tuoi con la gran Troia al cielo".
  Poscia che ciò come profeta disse,
comandò come amico ch'a le navi
gli portassero i doni, opre e lavori
ch'avea d'oro e d'avorio apparecchiati,
e gran masse d'argento e gran vaselli
di dodonèo metallo: una lorica
di forbite azzimine; e rinterzate
maglie, dentro d'acciaro e 'ntorno d'oro,
una targa, un cimiero, una celata,
ond'era a pompa ed a difesa armato
Nëottòlemo altero. Il vecchio Anchise
ebbe anch'egli i suoi doni: ebber poi tutti
cavalli e guide; e fu di remi e d'armi
ciascun legno provvisto; e perché 'l vento
che secondo feria, non punto indarno
spirasse, ordine avea di sciôr le vele
già dato Anchise, a cui con molto onore
si fece Eleno avanti, e cosí disse:
  "O ben degno a cui fosse amica e sposo
la gran madre d'Amore: o de' celesti
sovrana cura, ch'a l'eccidio avanzi
già due volte di Troia, eccoti a vista
giunto d'Italia. A questa il corso indrizza:
ma fa mestier di volteggiarla ancora
con lungo giro, poiché lunge assai
è la parte di lei che Apollo accenna.
Or lieto te ne va, padre felice
di sí pietoso figlio. Io, già che l'aura
sí vi spira propizia, indarno a bada
piú non terrovvi". Indi la mesta Andromache
fece con tutti, e con Ascanio al fine
la suprema partenza. Arnesi d'oro
guarniti e ricamati, e drappi e giubbe
di moresco lavoro, ed altri degni
di lui vestiti e fregi, e ricca e larga
copia di biancherie donogli, e disse:
  "Prendi, figlio, da me quest'opre uscite
da le mie mani, e per memoria tienle
del grande e lungo amor che sempre avratti
Andromache d'Ettorre; ultimi doni
che ricevi da' tuoi. Tu mi sei, figlio,
quell'unico sembiante che mi resta
d'Astïanatte mio. Cosí la bocca,
cosí le man, cosí gli occhi movea
quel mio figlio infelice; e, d'anni eguale
a te, del pari or saria teco in fiore".
  Ed io da loro, anzi da me partendo,
con le lagrime agli occhi al fin soggiunsi:
"Vivete lieti voi, cui già la sorte
vostra è compita: noi di fato in fato,
di mare in mar tapini andrem cercando
quel che voi possedete. A noi l'Italia
tanto ognor se ne va piú lunge, quanto
piú la seguiamo; e voi già la sembianza
d'Ilio e di Troia in pace vi godete,
regno e fattura vostra. Ah! che de l'altra
sia sempre e piú felice e meno esposta
a le forze de' Greci. Io, s'unqua il Tebro
vedrò, se fia giammai che ne' suoi campi
sorgan le mura destinate a noi;
come la nostra Esperia e 'l vostro Epiro
si son vicini, e come ambe le terre
fien vicine e cognate, ed ambe avranno
Dardano per autore, e per fortuna
un caso stesso; cosí d'ambedue
mi proporrò che d'animi e d'amore
siamo una Troia: e ciò perpetua cura
sia de' nostri nipoti". Entrati in mare,
ne spingemmo oltre a gli Ceràuni monti
a Butroto vicini, onde a le spiagge
si fa d'Italia il piú breve tragitto.
Già dechinava il sole, e crescean l'ombre
de' monti opachi, quando a terra vòlti
col desire e co' remi in su la riva
pur n'adducemmo, e procurammo a' corpi
cibo, riposo e sonno. Ancor la notte
non era al mezzo, che del suo stramazzo
surse il buon Palinuro; e poscia ch'ebbe
con gli orecchi spiati il vento e 'l mare,
mirò le stelle, contemplò l'Arturo,
l'Iadi piovose, i gemini Trïoni,
ed Orïone armato; e, visto il cielo
sereno e 'l mar sicuro, in su la poppa
recossi, e 'l segno dienne. Immantinente
movemmo il campo, e quasi in un baleno
giunti e posti nel mar, vela facemmo.
  Avea l'Aurora già vermiglia e rancia
scolorite le stelle, allor che lunge
scoprimmo, e non ben chiari, i monti in prima,
poscia i liti d'Italia. - <I>Italia!</I> - Acate
gridò primieramente. - <I>Italia! Italia!</I> -
da ciascun legno ritornando allegri
tutti la salutammo. Allora Anchise
con una inghirlandata e piena tazza
in su la poppa alteramente assiso:
"O del pelago - disse - e de la terra,
e de le tempeste numi possenti,
spirate aure seconde, e vèr l'Ausonia
de' nostri legni agevolate il corso".
  Rinforzaronsi i vènti; apparve il porto
piú da vicino; apparve al monte in cima
di Pallade il delúbro. Allor le vele
calammo, e con le prore a terra demmo.
  È di vèr l'Orïente un curvo seno
in guisa d'arco, a cui di corda in vece
sta d'un lungo macigno un dorso avanti,
ove spumoso il mar percuote e frange.
Ne' suoi corni ha due scogli, anzi due torri,
che con due braccia il mar dentro accogliendo,
lo fa porto e l'asconde; e sovra al porto
lunge dal lito è 'l tempio. Ivi smontati,
quattro destrier vie piú che neve bianchi,
che pascevano il campo, al primo incontro
per nostro augurio avemmo. "Oh! - disse Anchise, -
guerra ne si minaccia; a guerra additti
sono i cavalli; o pur sono anco al carro
talvolta aggiunti, e van del pari a giogo:
guerra fia dunque in prima, e pace dopo".
Quinci devoti venerammo il nume
de l'armigera Palla, a cui gioiosi
prima il corso indrizzammo. In su la riva
altari ergemmo; e noi d'intorno, come
Eleno ci ammoní, le teste avvolte
di frigio ammanto, a la gran Giuno argiva
preghiere e doni e sacrifici offrimmo.
  Poiché solennemente i prieghi e i vóti
furon compiti, al mar ne radducemmo
immantinente; e rivolgendo i corni
de le velate antenne, il greco ospizio
e 'l sospetto paese abbandonammo.
  E prima il tarentino erculeo seno
(se la sua fama è vera) a vista avemmo;
poscia a rincontro di Lacinia il tempio,
la ròcca di Caulóne e 'l Scillacèo,
onde i navili a sí gran rischio vanno;
indi ne la Trinacria al mar discosto
d'Etna il monte vedemmo, e lunge udimmo
il fremito, il muggito, i tuoni orrendi
che facean ne' suoi liti e 'ntorno a' sassi
e dentro a le caverne i flutti e i fuochi,
al ciel ruttando insieme il mare e 'l monte
fiamme, fumo, faville, arene e schiuma.
  Qui disse il vecchio Anchise:
"È forse questa
quella Cariddi? Questi scogli certo,
e questi sassi orrendi Eleno  dianzi
ne profetava. Via, compagni, a' remi
tutti in un tempo, e vincitori usciamo
d'un tal periglio". Palinuro il primo
rivolse la sua vela e la sua proda
al manco lato; e ciò gli altri seguendo,
con le sarte e co' remi in un momento
ne gittammo a sinistra; e 'l mar sorgendo
prima al ciel ne sospinse; indi calando,
ne l'abisso ne trasse. In ciò tre volte
mugghiar sentimmo i cavernosi scogli,
e tre volte rivolti in vèr le stelle
d'umidi sprazzi e di salata schiuma
il ciel vedemmo rugiadoso e molle.
  Eravam lassi; e 'l vento e 'l sole insieme
ne mancâr sí, che del vïaggio incerti
disavvedutamente a le contrade
de' Ciclopi approdammo. È per se stesso
a' vènti inaccessibile e capace
di molti legni il porto ove giugnemmo;
ma sí d'Etna vicino, che i suoi tuoni
e le sue spaventevoli ruine
lo tempestano ognora. Esce talvolta
da questo monte a l'aura un'atra nube
mista di nero fumo e di roventi
faville, che di cenere e di pece
fan turbi e groppi, ed ondeggiando a scosse
vibrano ad ora ad or lucide fiamme
che van lambendo a scolorir le stelle;
e talvolta, le sue viscere stesse
da sé divelte, immani sassi e scogli
liquefatti e combusti al ciel vomendo
in fin dal fondo romoreggia e bolle.
  È fama, che dal fulmine percosso
e non estinto, sotto a questa mole
giace il corpo d'Encèlado superbo;
e che quando per duolo e per lassezza
ei si travolve, o sospirando anela,
si scuote il monte e la Trinacria tutta;
e del ferito petto il foco uscendo
per le caverne mormorando esala,
e tutte intorno le campagne e 'l cielo
di tuoni empie e di pomici e di fumo.
  A questi mostri tutta notte esposti,
entro una selva stemmo, non sapendo
le cagion d'essi, e di cercarle ogn'uso
ne si togliea, poiché 'l paese conto
non c'era: né stellato, né sereno
si vedea 'l ciel, ma fosco e nubiloso,
e tra le nubi era la luna ascosa.
  Già del giorno seguente era il mattino,
e 'l chiaro albore avea l'umido velo
tolto dal mondo, quando ecco dal bosco
ne si fa 'ncontro un non mai visto altrove
di strana e miserabile sembianza,
scarno, smunto e distrutto: una figura
piú di mummia che d'uomo. Avea la barba
lunga, le chiome incolte, indosso un manto
ricucito di spini: orrido tutto,
e squallido e difforme, con le mani
verso il lito distese, a lento passo
venia mercé chiedendo. Era costui,
come prima ne parve e poscia udimmo,
greco, e di quei che militaro a Troia.
Onde noi per Troiani e i nostri arnesi
e le nostr'armi conoscendo, in prima
attonito fermossi; e poscia quasi
rincomato a noi venne e con preghiere
e con pianto ne disse: "Oh! se le stelle,
se gli dèi, se quest'aura onde spiriamo,
generosi e magnanimi Troiani,
serbin la vita a voi, quinci mi tolga
la pietà vostra, e vosco m'adducete,
ove che sia; ché mi fia questo assai;
poi ch'io son greco, e di quei Greci ancora
che venner (lo confesso) a i danni vostri.
Se 'l fallo è tale, e se 'l vostro odio è tanto
ch'io ne deggia morir, morte mi date,
e (se cosí v'aggrada) a brano a brano
mi lanïate, e ne fate esca a' pesci;
ché se per man d'umana gente io pèro,
perir mi giova". E, cosí detto, a' piedi
ne si gittò. Noi l'esortammo a dire
chi fosse e di che patria e di che sangue,
e qual era il suo caso. Il vecchio Anchise
la sua destra gli porse, e con tal pegno
l'affidò di salute; ond'ei securo
tosto soggiunse: "Itaca è patria mia,
Achemènide il nome. Io fui compagno
de l'infelice Ulisse; e venni a Troia,
la povertà del mio padre Adamasto
fuggendo (cosí povero mai sempre
foss'io stato con lui!); qui capitai
con esso Ulisse; e qui, mentr'ei fuggia
con gli altri suoi questo crudele ospizio,
per téma abbandonommi e per oblio
ne l'antro del Ciclopo. È questo un antro
opaco, immenso, che macello è sempre
d'umana carne, onde ancor sempre intriso
è di sanie e di sangue: ed è 'l Ciclopo
un mostro spaventoso, un che col capo
tocca le stelle (o Dio, leva di terra
una tal peste!), ch'a mirarlo solo,
solo a parlarne, orror sento ed angoscia.
Pascesi de le viscere e del sangue
de la misera gente; ed io l'ho visto
con gli occhi miei nel suo speco rovescio
stender le branche e, due presi de' nostri,
rotargli a cerco e sbattergli e schizzarne
infra quei tufi le midolle e gli ossi.
Vist'ho quando le membra de' meschini
tiepide, palpitanti e vive ancora,
di sanguinosa bava il mento asperso,
frangea co' denti a guisa di maciulla.
  Ma nol soffrí senza vendetta Ulisse;
né di se stesso in sí mortal periglio
punto oblïossi; ché non prima steso
lo vide ebbro e satollo a capo chino
giacer ne l'antro, e sonnacchioso e gonfio
ruttar pezzi di carne e sangue e vino,
che ne restrinse; ed invocati in prima
i santi numi, divisò le veci
sí che parte il tenemmo in terra saldo,
parte, con un gran palo al foco aguzzo,
sopra gli fummo; e quel ch'unico avea
di targa e di febèa lampade in guisa
sotto la torva fronte occhio rinchiuso,
gli trivellammo, vendicando alfine,
col tôr la luce a lui, l'ombre de' nostri.
  Ma voi che fate qui? ché non fuggite,
miseri voi? Fuggite, e senza indugio
tagliate il fune e v'allargate in mare;
che cosí smisurati e cosí fieri,
com'è costui che Polifemo è detto,
ne son via piú di cento in questo lito,
tutti Ciclopi, e tutti antropofàgi,
che vanno il dí per questi monti errando.
Già visto ho la cornuta e scema luna
tornar tre volte luminosa e tonda,
da che son qui tra selve e tra burroni
con le fere vivendo. Entro una rupe
è 'l mio ricetto; e quindi, benché lunge
gli miri, ad or ad or d'avergl'intorno
mi sembra, e 'l suon n'abborro e 'l calpestio
de la voce e de' piè. Pascomi d'erbe,
di còccole e di more e di corniali,
e di tali altri cibi acerbi e fieri:
vita e vitto infelice. In questo tempo,
quanto ho scoperto intorno, unqua non vidi
ch'altro legno giammai qui capitasse,
salvo ch'i vostri. A voi dunque del tutto
m'addico: e, che che sia, parrammi assai
fuggir questa nefanda e dira gente.
Voi, pria che qui lasciarmi, ogni supplicio
mi date ed ogni morte". A pena il Greco
avea ciò detto, ed ecco in su la vetta
del monte avverso Polifemo apparve.
Sembrato mi sarebbe un altro monte
a cui la gregge sua pascesse intorno,
se non che si movea con essa insieme,
e torreggiando, inverso la marina
per l'usato sentier se ne calava.
Mostro orrendo, difforme e smisurato,
che avea come una grotta oscura in fronte
in vece d'occhio, e per bastone un pino,
onde i passi fermava. Avea d'intorno
la greggia a' piedi, e la sampogna al collo,
quella il suo amore, e questa il suo trastullo,
ond'orbo alleggeriva il duolo in parte.
Giunto a la riva, entrò ne l'onde a guazzo:
e pria de l'occhio la sanguigna cispa
lavossi, ad or ad or per ira i denti
digrignando e fremendo: indi si stese
per entro 'l mare, e nel piú basso fondo
fu pria co' piè che non fûr l'onde a l'anche.
Noi per paura, ricevuto in prima,
come ben meritò, l'ospite greco,
di fuggir n'affrettammo; e chetamente
sciolte le funi, a remigar ne demmo
piú che di furia. Udí 'l Ciclopo il suono
e 'l trambusto de' remi; e vòlti i passi
vèr quella parte e 'l suo gran pino a cerco,
poiché lungi sentinne, e lungamente
pensò seguirne per l'Ionio in vano,
trasse un mugghio, che 'l mare e i liti intorno
ne tremâr tutti; ne sentí spavento
fino a l'Italia; ne tonaron quanti
la Sicania avea seni, Etna caverne.
L'udir gli altri Ciclopi, e da le selve
e da' monti calando, in un momento
corsero al porto, e se n'empiero i liti.
Gli vedevam da lunge in su l'arena,
quantunque indarno, minacciosi e torvi
stender le braccia a noi, le teste al cielo:
concilio orrendo, ché ristretti insieme
erano quai di querce annose a Giove,
di cipressi coniferi a Dïana
s'ergono i boschi alteramente a l'aura.
  Fero timor n'assalse; e da l'un canto
pensammo di lasciar che 'l vento stesso
ne portasse a seconda ovunque fosse,
purché lunge da loro; ma da l'altro,
d'Eleno ce 'l vietava il detto espresso,
che per mezzo di Scilla e di Cariddi
passar non si dovesse a sí gran rischio,
e di sí poco spazio e quinci e quindi
scevri da morte. In questa, che già fermi
eravam di voltar le vele a dietro,
ecco che da lo stretto di Peloro,
ne vien Bora a grand'uopo, onde repente
a la sassosa foce di Pantagia,
al megarico seno, ai bassi liti
ne trovammo di Tapso. In cotal guisa
riferiva Achemenide, compagno
che s'è detto d'Ulisse, esser nomati
quei lochi, onde pria seco era passato.
  Giace de la Sicania al golfo avanti
un'isoletta che a Plemmirio ondoso
è posta incontro, e dagli antichi è detta
per nome Ortigia. A quest'isola è fama
che per vie sotto al mare il greco Alfeo
vien da Dòride intatto, infin d'Arcadia
per bocca d'Aretusa a mescolarsi
con l'onde di Sicilia. E qui del loco
venerammo i gran numi; indi varcammo
del paludoso Eloro i campi opimi.
Rademmo di Pachino i sassi alpestri,
scoprimmo Camarina, e 'l fato udimmo,
che mal per lei fôra il suo stagno asciutto.
La pianura passammo de' Geloi,
di cui Gela è la terra, e Gela il fiume.
Molto da lunge il gran monte Agragante
vedemmo, e le sue torri e le sue spiagge
che di razze fur già madri famose.
Col vento stesso indietro ne lasciammo
la palmosa Seline; e 'n su la punta
giunti di Lilibeo, tosto girammo
le sue cieche seccagne, e 'l porto alfine
del mal veduto Drepano afferrammo.
  Qui, lasso me! da tanti affanni oppresso,
a tanti esposto, il mio diletto padre,
il mio padre perdei. Qui stanco e mesto,
padre, m'abbandonasti; e pur tu solo
m'eri in tante gravose mie fortune
quanto avea di conforto e di sostegno.
Ohimè! che indarno da sí gran perigli
salvo ne ti rendesti. Ah, che fra tanti
orrendi e miserabili infortuni,
ch'Eleno ci predisse e l'empia Arpia,
questo non era già, ch'era il maggiore!
Oh fosse questo ancor l'ultimo affanno,
com'è l'ultimo corso! Ché partendo
da Drepano, se ben fera tempesta
qui m'ha gittato, certo amico nume
m'ha, benigna regina, a voi condotto».
  Cosí da tutti con silenzio udito,
poich'ebbe Enea distesamente esposto
la ruina di Troia e i rischi e i fati
e gli error suoi, fece qui fine e tacque.

Libro IV

 

Ma la regina d'amoroso strale
già punta il core, e ne le vene accesa
d'occulto foco, intanto arde e si sface;
e de l'amato Enea fra sé volgendo
il legnaggio, il valore, il senno, l'opre,
e quel che piú le sta ne l'alma impresso,
soave ragionar, dolce sembiante,
tutta notte ne pensa e mai non dorme.
  Sorgea l'Aurora, quando surse anch'ella
cui le piume parean già stecchi e spini;
e con la sua diletta e fida suora
si ristrinse e le disse: «Anna sorella,
che vigilie, che sogni, che spaventi
son questi miei? che peregrino è questo
che qui novellamente è capitato?
Vedestu mai sí grazioso aspetto?
Conoscesti unqua il piú saggio, il piú forte,
e 'l piú guerriero? Io credo (e non è vana
la mia credenza) che dal ciel discenda
veracemente. L'alterezza è segno
d'animi generosi. E che fortune,
e che guerre ne conta! Io, se non fusse
che fermo e stabilito ho nel cor mio
che nodo marital piú non mi stringa,
poiché 'l primo si ruppe, e se d'ognuno
schiva non fossi, solamente a lui
forse m'inchinerei. Ché, a dirti 'l vero,
Anna mia, da che morte e l'empio frate
mi privâr di Sichèo, sol questi ha mosso
i miei sensi e 'l mio core, e solo in lui
conosco i segni de l'antica fiamma.
Ma la terra m'ingoi, e 'l ciel mi fulmini,
e ne l'abisso mi trabocchi in prima
ch'io ti vïoli mai, pudico amore.
Col mio Sichèo, con chi pria mi giungesti,
giungimi sempre, e 'ntemerato e puro
entro al sepolcro suo seco ti serba».
E qui piangendo e sospirando tacque.
Anna rispose: «O piú de la mia vita
stessa, amata sorella, adunque sola
vuoi tu vedova sempre e sconsolata
passar questi tuoi verdi e florid'anni?
Abbiti insino a qui fatto rifiuto
e del getúlo Iarba e di tant'altri
possenti, generosi e ricchi duci
peni e fenici; ch'io di ciò ti scuso,
com'allor dolorosa, e non amante.
Ma poich'ami, ad amor sarai rubella,
e ritrosa a te stessa? Ah! non sovvienti
qual cinga il tuo reame assedio intorno?
com'ha gl'insuperabili Getúli
da l'una parte, i Numidi da l'altra,
fera gente e sfrenata? indi le secche,
quinci i deserti, e piú da lunge infesti
i feroci Barcèi? Taccio le guerre
che già sorgon di Tiro, e le minacce
del fiero tuo fratello. Io penso certo
che la gran Giuno, e tutto 'l ciel benigno
ne si mostrasse allor che a' nostri liti
questi legni approdaro. O qual cittade,
qual imperio fia questo ! Quanto onore,
quanto pro, quanta gloria a questo regno
ne verrà, quando ei teco, e l'armi sue
saran giunte a le nostre! Or via, sorella,
porgi preci a gli dèi, fa' vezzi a lui,
assecuralo, onoralo, intrattienlo:
ché 'l crudo verno, il tempestoso mare,
il piovoso Orïone, i vènti, il cielo,
le sconquassate navi in ciò ne dànno
mille scuse di mora e di ritegno».
  Con questo dir, che fu qual aura al foco
ond'era il cor de la regina acceso,
l'infiammò, l'incitò, speme le diede
e vergogna le tolse. Andaro in prima
a visitare i templi, a chieder pace
e favor de' celesti, a porger doni,
a far d'elette pecorelle offerta
a Cerere, ad Apollo, al padre Bacco,
e, pria che a tutti gli altri, a la gran Giuno,
cui son le nozze e i maritaggi a cura.
La regina ella stessa ornata e bella
tien d'oro un nappo, e fra le corna il versa
d'una candida vacca; o si ravvolge
intorno a' pingui altari, ed ogni giorno
rinnova i doni, e de le aperte vittime
le palpitanti fibre, i vivi moti,
e le spiranti viscere contempla,
e con lor si consiglia. O menti sciocche
de gl'indovini! E che ponno i delúbri,
e i vóti, esterni aiuti, a mal ch'è dentro?
Nel cor, ne le midolle e ne le vene
è la piaga e la fiamma, ond'arde e père.
Arde Dido infelice, e furïosa
per tutta la città s'aggira e smania:
qual ne' boschi di Creta incauta cerva
d'insidïoso arcier fugge lo strale
che l'ha già colta; e seco, ovunque vada,
lo porta al fianco infisso. Or a diporto
va con Enea per la città, mostrando
le fabbriche, i disegni e le ricchezze
del suo novo reame; or disïosa
di scoprirgli il suo duol, prende consiglio:
poi non osa, o s'arresta. E quando il giorno
va dechinando, a convivar ritorna,
e di nuovo a spïar de gli accidenti
e de' fati di Troia, e nuovamente
pende dal volto del facondo amante.
Tolti da mensa, allor che notte oscura
in disparte gli tragge, e che le stelle
sonno, dal ciel caggendo, a gli occhi infondono;
dolente, in solitudine ridotta,
ritirata da gli altri, è sol con lui
che le sta lunge, e lui sol vede e sente.
Talvolta Ascanio, il pargoletto figlio
per sembianza del padre in grembo accolto,
tenta, se cosí può, l'ardente amore
o spegnere, o scemare, o fargli inganno.
  Le torri, i templi, ogn'edificio intanto
cessa di sormontar; cessa da l'arme
la gioventú. Le porte, il porto, il molo
non sorgon piú; dismesse ed interrotte
pendon l'opere tutte e la gran macchina
che fea dianzi ira a' monti e scorno al cielo.
Vide da l'alto la saturnia Giuno
il furor di Didone, e tal che fama
e rispetto d'onor piú non l'affrena;
onde Venere assalse, e 'n cotal guisa
disdegnosa le disse: «Una gran loda
certo, un gran merto, un memorabil nome
tu col fanciullo tuo, Ciprigna, acquisti
d'aver due sí gran dii vinta una femina!
Io so ben che guardinga e sospettosa
di me ti rende e de la mia Cartago
il temer di tuo figlio. Ma fia mai
che questa téma e questa gelosia
si finisca tra noi? Ché non piú tosto
con una eterna pace e con un saldo
nodo di maritaggio unitamente
ne ristringemo? Ecco hai già vinto; e vedi
quel che piú desïavi. Ama, arde, infuria:
con ogni affetto è verso Enea tuo figlio
la mia Dido rivolta. Or lui si prenda;
e noi concordemente in pace abbiamo
ambedue questo popolo in tutela;
né ti sdegnar che sí nobil regina
serva a frigio marito, e ch'ei le genti
n'aggia di Tiro e di Cartago in dote».
  Venere, che ben vide ove mirava
il colpo di Giunone; e che l'occulto
suo bersaglio era sol con questo avviso
distor d'Italia il destinato impero
e trasportarlo in Libia, incontro a lei
cosí scaltra rispose: «E chi sí folle
sarebbe mai ch'un tal fesse rifiuto
di quel ch'ei piú desia, per teco averne,
teco che tanto puoi, gara e tenzone,
quando ciò che tu di' possibil fosse?
Ma non so che si possa, né che 'l fato,
né che Giove il permetta, che due genti
diverse, come son Tiri e Troiani,
una sola divenga. Tu consorte
gli sei; tu ne 'l dimanda, e tu l'impetra,
ch'io, per me, me n'appago ». «Ed io, - soggiunse
Giuno - sopra di me l'incarco assumo,
ch'ei ne 'l consenta. Or odi brevemente
il modo che a ciò far già ne si porge.
Tosto che 'l sol dimane uscirà fuori,
uscire ancor l'innamorata Dido
col troian duce a caccia s'apparecchia.
Ove opportunamente a la foresta,
mentre de' cacciatori e de' cavalli
andran le schiere in volta, io loro un nembo
spargerò sopra tempestoso e nero,
con un turbo di grandine e di pioggia,
e di sí fieri tuoni il cielo empiendo,
ch'indi percossi i lor seguaci tutti,
andran dispersi e d'atra nube involti.
Solo con sola Dido Enea ridotto
in un antro medesimo accôrrassi.
Io vi sarò; saravvi anco Imeneo;
e se del tuo voler tu m'assecuri,
io farò sí ch'ivi ambidue saranno
di nodo indissolubile congiunti».
Venere in ciò non disdicendo, insieme
chinò la testa: e de la dolce froda
dolcemente sorrise. Uscio del mare
l'Aurora intanto; ed ecco fuori armati
di spiedi e di zagaglie, a suon di corni,
venirne i cacciatori, altri con reti,
altri con cani. Ha questi un gran molosso,
quegli un veltro a guinzaglio, e lunghe file
van di segugi incatenati avanti.
Scorrono intorno i cavalier Massíli:
e i maggior Peni, e' piú chiari Fenici
stanno in sella aspettando anzi al palagio,
mentre ad uscir fa la regina indugio;
e presto intanto d'ostro e d'oro adorno
il suo ginnetto, e, vagamente fiero,
ringhia, e sparge la terra, e morde il freno.
  Esce a la fine accompagnata intorno
da regio stuolo, e non con regio arnese,
ma leggiadro e ristretto. È la sua veste
di tirio drappo, e d'arabo lavoro
riccamente fregiata: è la sua chioma
con nastri d'oro in treccia al capo avvolta,
tutta di gemme come stelle aspersa;
e d'oro son le fibbie, onde sospeso
le sta d'intorno de la gonna il lembo.
Da gli omeri le pende una faretra,
dal fianco un arco. I Frigi, e 'l bello Iulo
le cavalcano avanti; e via piú bello,
ma di beltà feroce e grazïosa,
le giva Enea con la sua schiera a lato.
Qual se ne va da Licia e da le rive
di Xanto, ove soggiorna il freddo inverno,
a la materna Delo il biondo Apollo,
allor che festeggiando accolti e misti
infra gli altari i Drïopi, i Cretesi,
e i dipinti Agatirsi in varie tresche
gli s'aggirano intorno; o quando spazia
per le piagge di Cinto, a l'aura sparsi
i bei crin d'oro, e de l'amata fronde
le tempie avvolto, e di faretra armato;
tal fra la gente si mostrava, e tale
era ne' gesti e nel sembiante Enea,
sovra d'ogni altro valoroso e vago.
  Poscia che furo a' monti, e nel piú folto
penetrâr de le selve, ecco da i balzi
de l'alte rupi uscir capri e camozze;
e cervi altronde, che, d'armenti in guisa,
quasi in un gruppo, spaventati a torme
fuggono al piano, e fan nubi di polve.
Di ciò gioioso il giovinetto Iulo
sul feroce destrier per la campagna
gridando e traversando, or questo arriva,
or quel trapassa: e nel suo core agogna
tra le timide belve o d'un cignale
aver rincontro, o che dal monte scenda
un velluto leone. In questa il cielo
mormorando turbossi, e pioggia e grandine
diluvïando, d'ogni parte in fuga
Ascanio, i Teucri, i Tiri ai piú propinqui
tetti si ritiraro; e fiumi intanto
sceser da' monti, ed allagaro i piani.
Solo con sola Dido Enea ridotto
in un antro medesimo s'accolse.
Diè, di quel che seguí, la terra segno
e la pronuba Giuno. I lampi, i tuoni
fûr de le nozze lor le faci e i canti;
testimoni assistenti e consapevoli
sol ne fûr l'aria e l'antro; e sopra 'l monte
n'ulularon le ninfe. Il primo giorno
fu questo, e questa fu la prima origine
di tutti i mali, e de la morte alfine
de la Regina; a cui poscia non calse
né de l'indegnità, né de l'onore,
né de la secretezza. Ella si fece
moglie chiamar d'Enea; con questo nome
ricoverse il suo fallo; e di ciò tosto
per le terre di Libia andò la Fama.
  È questa Fama un mal, di cui null'altro
è piú veloce; e com' piú va, piú cresce;
e maggior forza acquista. È da principio
picciola e debil cosa, e non s'arrischia
di palesarsi; poi di mano in mano
si discopre e s'avanza, e sopra terra
sen va movendo e sormontando a l'aura,
tanto che 'l capo infra le nubi asconde.
  Dicon che già la nostra madre antica,
per la ruina de' Giganti irata
contr'a' celesti, al mondo la produsse,
d'Encèlado e di Ceo minor sorella;
mostro orribile e grande, d'ali presta
e veloce de' piè; che quante ha piume,
tanti ha sotto occhi vigilanti, e tante
(meraviglia a ridirlo) ha lingue e bocche
per favellare, e per udire orecchi.
Vola di notte per l'oscure tenebre
de la terra e del ciel senza riposo,
stridendo sempre, e non chiude occhi mai.
Il giorno sopra tetti, e per le torri
sen va de le città, spïando tutto
che si vede e che s'ode: e seminando,
non men che 'l bene e 'l vero, il male e 'l falso
di rumor empie e di spavento i popoli.
Questa, gioiosa, bisbigliando in prima,
poscia crescendo, del seguíto caso
molte cose dicea vere e non vere.
  Dicea, ch'un di troiana stirpe uscito,
venuto era in Cartago, a cui degnata
s'era la bella Dido esser congiunta.
  Queste e cose altre assai, la sozza dea
per le bocche degli uomini spargendo,
tosto in Getulia al gran Iarba pervenne;
e con parole e con punture acerbe
sí de l'offeso re l'animo accese,
ch'arse d'ira e di sdegno. Era d'Ammone,
e de la garamantide Napea,
già rapita da lui, questo re nato,
onde a Giove suo padre entro a' suoi regni
cento gran templi e cento pingui altari
avea sacrati, e di continui fochi
mantenendo agli dèi vigilie eterne
di vittime, di fiori e di ghirlande
gli tenea sempre riveriti e cólti.
Ei sí com'era afflitto e conturbato
da l'amara novella, anzi agli altari
e fra gli dèi, le mani al cielo alzando,
cotali, umile insieme e disdegnoso,
porse prieghi e querele: «Onnipotente
padre, a cui tanti opimi e sontuosi
conviti, e di Lenèo sí larghi onori
offrisce oggi de' Mauri il gran paese,
vedi tu queste cose? o pure invano
tonando e folgorando ci spaventi?
Una femina errante, una che dianzi
ebbe a prezzo da me nel mio paese,
per fondar la sua terra un picciol sito:
una ch'arena ha per arare, ha vitto,
loco e leggi da me, me per marito
rifiuta; e di sé donno e del suo regno
ha fatto Enea. Questo or novello Pari
mitrato il mento e profumato il crine,
va del mio scorno e del suo furto altero:
ed io qui me ne sto vittime e doni
a te porgendo, e son tuo figlio indarno».
  Cosí Iarba dicea; né da l'altare
s'era ancor tolto, quando il padre udillo;
e gli occhi in vèr Cartagine torcendo
vide gli amanti ch'a gioire intesi
avean posti in oblio la fama e i regni.
Onde vòlto a Mercurio: «Va, figliuolo, -
gli disse, - chiama i vènti, e ratto scendi
là 've sí neghittoso il troian duce
bada in Cartago, e 'l destinato impero
non gradisce e non cura; e ciò gli annunzia
da parte mia, che Venere sua madre
non per tal lo mi diede, e ch'a tal fine
non è stato da lei da l'armi greche
già due volte scampato. EIla promise
ch'ei sarebbe atto a sostener gl'imperi
e le guerre d'Italia, a trar qua suso
la progenie di Teucro, a porre il freno,
a dar le leggi al mondo. A ciò se 'l pregio
di sí gran cose e de la gloria stessa
non muove lui, perché non guarda al figlio?
Perché di tanta sua grandezza il froda,
di quanta fian Lavinio ed Alba e Roma
ne' secoli a venire? E con che speme,
con che disegno in Libia fa dimora,
e co' nemici suoi? Navighi in somma.
Questo dilli in mio nome». Udito ch'ebbe
Mercurio, ad eseguir tosto s'accinse
i precetti del padre; e prima a' piedi
i talari adattossi. Ali son queste
con penne d'oro, ond'ei l'aria trattando,
sostenuto da' vènti, ovunque il corso
volga, o sopra la terra, o sopra al mare,
va per lo ciel rapidamente a volo.
Indi prende la verga, ond'ha possanza
fin ne l'inferno, onde richiama in vita
l'anime spente, onde le vive adduce
ne l'imo abisso, e dà sonno e vigilia
e vita e morte; aduna e sparge i vènti,
e trapassa le nubi. Era volando
giunto là 've d'Atlante il capo e 'l fianco
scorgea, de le cui spalle il cielo è soma;
d'Atlante la cui testa irta di pini,
di nubi involta, a piogge, a vènti, a nembi
è sempre esposta; il cui mento, il cui dorso,
e per nevi e per gel canuto e gobbo,
è da fiumi rigato. In questo monte,
che fu padre di Maia, avo di lui,
primamente fermossi. Indi calando
si gittò sovra l'onde, e lungo al lito
di Libia se n'andò, l'aure secando
in quella guisa che marino augello
d'un'alta ripa, a nuova pesca inteso,
terra terra sen va tra rive e scogli
umilmente volando. A pena giunto
era in Cartago, che davanti Enea
si vide, intento a dar siti e disegni
ai superbi edifici. Avea dal manco
lato una storta, di dïaspro e d'oro
guarnita, e di stellate gemme adoma.
Dal tergo gli pendea di tiria ardente
porpora un ricco manto, arnesi e doni
de la sua Dido, ch'ella stessa intesta
avea la tela, e ricamati i fregi.
Né 'l vide pria, che gli fu sopra, e disse:
  «Tu te ne stai sí neghittosamente,
Enea, servo d'amor, ligio di donna,
a fondar l'altrui regno; e 'l tuo non curi?
A te mi manda il regnator celeste,
ch'io ti dica 'n sua vece: "Che pensiero,
che studio è il tuo? con che speranza indugi
in queste parti? Se 'l tuo proprio onore,
se la propria grandezza non ti spinge;
ché non miri a' tuoi posteri, al destino,
a la speranza del tuo figlio Iulo,
a cui si deve il glorïoso impero
de l'Italia e di Roma?"» E piú non disse,
né piú risposta attese; anzi dicendo,
uscio d'umana forma, e dileguossi.
  Stupí, si raggricciò, tremante e fioco
divenne il troian duce, il gran precetto,
e chi 'l portava, e chi 'l mandava udendo.
Già pensa di ritrarsi. Ma che modo
terrà con Dido ad impetrar commiato?
Con quai parole assalirà, con quali
disporrà mai la furïosa amante?
Pensa, volge, rivolge: in un momento
or questo, or quel partito, or tutti insieme
va discorrendo; ed ora ad un s'appiglia,
ed ora a l'altro. Si risolve al fine:
e fatto a sé venir Memmo, Sergesto,
e l'ardito Cloanto: «Andate, - disse -
raunate i compagni; itene al porto,
e con bel modo chetamente l'arme
apprestate e l'armata; e non mostrate
segno di novità, né di partenza.
Intanto io troverò loco opportuno,
e tempo accomodato e destro modo
d'ottener da quest'ottima regina
che da lei con dolcezza mi diparta,
nulla sapendo ancor di mia partita,
né sperando tal fine a tanto amore».
  A l'ordine d'Enea lieti i compagni
obbedîr tutti; e prestamente in punto
fu ciò che impose. Ma Didon del tratto
tosto s'avvide: e che non vede amore?
Ella pria se n'accorse; ch'ogni cosa
temea, benché secura. E già la stessa
Fama importunamente le rapporta
armarsi i legni, esser i Teucri accinti
a navigare. Onde d'amore e d'ira
accesa, infurïata, e fuori uscita
di se medesma, imperversando scorre
per tutta la città. Quale a i notturni
gridi di Citeron Tïade, allora
che 'l trïennal di Bacco si rinnova,
nel suo moto maggior si scaglia e freme,
e scapigliata e fiera attraversando,
e mugolando al monte si conduce;
tal era Dido, e da tal furia spinta
Enea da sé con tai parole assalse:
  «Ah perfido! Celar dunque sperasti
una tal tradigione, e di nascosto
partir de la mia terra? E del mio amore,
de la tua data fé, di quella morte
che ne farà la sfortunata Dido,
punto non ti sovviene, e non ti cale?
Forse che non t'arrischi in mezzo al verno
tra' piú fieri Aquiloni a l'onde esporti?
Crudele! Or che faresti, se straniere
non ti fosser le terre, ignoti i lochi
che tu procuri? E che faresti, quando
fosse ancor Troia in piede? A Troia andresti
di questi tempi? E me lasci, e me fuggi?
Deh! per queste mie lagrime, per quello
che tu della tua fé pegno mi desti
(poiché a Dido infelice altro non resta
che a sé tolto non aggia), per lo nostro
marital nodo, per l'imprese nozze,
per quanti ti fei mai, se mai ti fei
commodo o grazia alcuna, o s'alcun dolce
avesti unqua da me; ti priego ch'abbi
pietà del dolor mio, de la ruina
che di ciò m'avverrebbe; e (se piú luogo
han le preci con te) che tu del tutto
lasci questo pensiero. Io per te sono
in odio a Libia tutta, a' suoi tiranni,
a' miei Tiri, a me stessa. Or come in preda
solo a morte mi lasci, ospite mio?
ch'ospite sol mi resta di chiamarti,
di marito che m'eri. E perché deggio,
lassa, viver io piú? Per veder forse
che 'l mio fratel Pigmalïon distrugga
queste mie mura, o 'l tuo rivale Iarba
in servitú m'adduca? Almeno avanti
la tua partita avess'io fatto acquisto
d'un pargoletto Enea che per le sale
mi scherzasse d'intorno, e solo il volto,
e non altro, di te sembianza avesse;
ch'esser non mi parrebbe abbandonata,
né delusa del tutto». A tai parole
Enea di Giove al gran precetto affisso
tenea il pensiero e gli occhi immoti e saldi;
e brevemente le rispose al fine:
  «Regina, e' non fia mai ch'io non mi tenga
doverti quanto forse unqua potessi
rimproverarmi. E non fia mai ch'Elisa
non mi ricordi, infin che ricordanza
avrò di me medesmo, e che 'l mio spirto
reggerà queste membra. Ora in discarco
di me dirò sol questo, che sperato,
né pensato ho pur mai d'allontanarmi
da te, come tu di'. Se 'l mio destino
fosse che la mia vita e i miei pensieri
a mia voglia reggessi, a Troia in prima
farei ritorno: raccôrrei le dolci
sue disperse reliquie: a la mia patria
di nuovo renderei la vita e i figli,
e la reggia e le torri e me con loro.
Ma ne l'Italia il mio fato mi chiama.
Italia Apollo in Delo, in Licia, ovunque
vado, o mando a spïarne, mi promette.
Quest'è l'amor, quest'è la patria mia.
Se tu, che di Fenicia sei venuta,
siedi in Cartago, e ti diletti e godi
del tuo libico regno; qual divieto,
qual invidia è la tua, che i miei Troiani
prendano Ausonia? Non lece anco a noi
cercar de' regni esterni? E non cuopre ombra
la terra mai, non mai sorgon le stelle,
che del mio padre una turbata imago
non veggia in sogno, e che di ciò ricordo
non mi porga e spavento. A tutte l'ore
del mio figlio sovviemmi e de l'ingiuria
che riceve da me sí caro pegno,
se del regno d'Italia io lo defraudo,
che gli son padre, quando il fato e Giove
ne 'l privilegia. E pur dianzi mi venne
dal ciel mandato il messaggier celeste
a portarmi di ciò nuova imbasciata
dal gran re degli dèi. Donna, io ti giuro
per la lor deità, per la salute
d'ambedue noi, che con quest'occhi il vidi
qui dentro in chiaro lume; e la sua voce
con quest'orecchi udii. Rimanti adunque
di piú dolerti; e con le tue querele
né te, né me piú conturbare. Italia
non a mia voglia io seguo». E piú non disse.
  Ella, mentre dicea, crucciata e torva
lo rimirava, e volgea gli occhi intorno
senza far motto. Alfin, da sdegno vinta
cosí proruppe: «Tu, perfido, tu
sei di Venere nato? Tu del sangue
di Dardano? Non già; ché l'aspre rupi
ti produsser di Caucaso, e l'Ircane
tigri ti fûr nutrici. A che tacere?
Il simular che giova? E che di meglio
ne ritrarrei? Forse ch'a' miei lamenti
ha mai questo crudel tratto un sospiro,
o gittata una lagrima, o pur mostro
atto o segno d'amore, o di pietade?
Di che prima mi dolgo? di che poi?
Ah! che né Giuno omai, né Giove stesso
cura di noi: né con giust'occhi mira
piú l'opre nostre. Ov'è qua giú piú fede?
E chi piú la mantiene? Era costui
dianzi nel lito mio naufrago, errante,
mendíco. Io l'ho raccolto, io gli ho ridotti
i suoi compagni, e i suoi navili insieme,
ch'eran morti e dispersi; ed io l'ho messo
(folle!) a parte con me del regno mio,
e di me stessa. Ahi, da furor, da foco
rapir mi sento! Ora il profeta Apollo,
or le sorti di Licia, ora un araldo,
che dal ciel gli si manda, a gran faccende
quinci lo chiama. Un gran pensiero han certo
di ciò gli dèi. D'un gran travaglio è questo
a lor quïete. Or va', che per innanzi
piú non ti tegno, e piú non ti contrasto.
Va' pur, segui l'Italia, acquista i regni
che ti dan l'onde e i venti. Ma se i numi
son pietosi, e se ponno, io spero ancora
che da' vènti e da l'onde e da gli scogli
n'avrai degno castigo; e che piú volte
chiamerai Dido, che lontana ancora
co' neri fuochi suoi ti fia presente:
e tosto che di morte il freddo gelo
l'anima dal mio corpo avrà disgiunta,
passo non moverai che l'ombra mia
non ti sia intorno. Avrai, crudele, avrai
ricompensa a' tuoi merti, e ne l'inferno
tosto me ne verrà lieta novella».
Qui 'l suo dire interruppe; e lui per téma
confuso e molto a replicarle inteso
lasciando, con disdegno e con angoscia
gli si tolse davanti. Incontanente
le fûr l'ancelle intorno; e sí com'era
egra e dolente, entro al suo ricco albergo
le diêr sovra le piume agio e riposo.
  Enea, quantunque pio, quantunque afflitto
e d'amore infiammato e di desire
di consolar la dolorosa amante,
nel suo core ostinossi. E fermo e saldo
d'obbedire a gli dèi fatto pensiero,
calossi al mare, e i suoi legni rivide.
Allor furo in un tempo unti e rispinti
e posti in acqua; e, per la fretta, i remi
diventarono i rami che dal bosco
si portavano allor frondosi e rozzi.
  Era a veder da la cittade al porto
de' Teucri, de le ciurme, e de le robe
ch'al mar si conducean, pieno il sentiero:
qual è, quando le provvide formiche
de le lor vernaricce vettovaglie
pensose e procaccevoli, si dànno
a depredar di biade un grande acervo;
che va dal monte ai ripostigli loro
la negra torma, e per angusta e lunga
sèmita le campagne attraversando,
altre al carreggio intese o lo s'addossano,
o traendo o spingendo lo conducono;
altre tengon le schiere unite, ed altre
castigan l'infingarde; e tutte insieme
fan che tutta la via brulica e ferve.
  Che cor, misera Dido, che lamenti
erano allora i tuoi, quando da l'alto
un tal moto scorgevi, e tanti gridi
ne sentivi dal mare? Iniquo amore,
che non puoi tu ne' petti de' mortali?
Ella di nuovo al pianto, a le preghiere,
a sottoporsi a l'amoroso giogo
da la tua forza è suo malgrado astretta.
Ma per fare ogni schermo, anzi che muoia,
la sorella chiamando: «Anna, - le disse -
tu vedi che s'affrettano, e sen vanno.
Vedi già loro in su la spiaggia accolti,
le vele in alto, e le corone in poppa.
Sorella mia, s'avessi un tal dolore
antiveder potuto, io potrei forse
anco soffrirlo. Or questo solo affanno
prendi per la tua misera sirocchia,
poiché te sola quel crudele ascolta,
e sol di te si fida, e i lochi e i tempi
sai d'esser seco e di trattar con lui;
truova questo superbo mio nimico,
e supplichevolmente gli favella.
Dilli che Dido io sono, e che non fui
in Aulide co' Greci a far congiura
contra a' Troiani; e che di Troia a' danni
né i miei legni mandai, né le mie genti.
Dilli che né le ceneri, né l'ombre
né del suo padre mai, né d'altri suoi
non vïolai. Qual dunque o mio demerto
o sua durezza fa ch'ei non ascolti
il mio dire, e me fugga, e sé precipiti?
Chiedili per mercé dell'amor mio,
per salvezza di lui, per la mia vita,
ch'indugi il suo partir tanto che 'l mare
sia piú sicuro e piú propizi i vènti.
Né piú del maritaggio io lo richieggio,
c'ha già tradito, né vo' piú che manchi
del suo bel Lazio, o i suoi regni non curi.
Un picciol tempo, e d'ogni obbligo sciolto
io gli dimando, e tanto o di quïete,
o d'intervallo al mio cieco furore,
ch'in parte il duol disacerbando, impari
a men dolermi. Questo è 'l dono estremo
che da lui per tuo mezzo agogna e brama
questa tua miserabile sorella:
e se tu lo m'impetri, altro che morte
forza non avrà mai ch'io me n'oblii».
  Queste e tali altre cose ella piangendo
dicea con Anna, ed Anna al frigio duce
disse, ridisse, e riportò piú volte
or da l'una or da l'altro, e tutte in vano;
ché né pianti, né preci, né querele
punto lo muovon piú. Gli ostano i fati,
e solo in ciò gli ha dio chiuse l'orecchie;
benché dolce e trattabile e benigno
fusse nel resto. Come annosa e valida
quercia, che sia ne l'alpi esposta a Borea,
s'or da l'uno or da l'altro de' suoi turbini
è combattuta, si scontorce e títuba:
stridono i rami e 'l suol di frondi spargesi,
e 'l tronco al monte infisso immoto e solido
se ne sta sempre; e quanto sorge a l'aura
con la sua cima, tanto in giú stendendosi
se ne va con le barbe infino agl'inferi:
cosí, da preci e da querele assidue
battuto, duolsi il gran Troiano ed angesi,
e con la mente in sé raccolta e rigida
gitta indarno per lei sospiri e lagrime.
  La sfortunata Dido, poiché tronca
si vide ogni speranza, spaventata
dal suo fato, e di sé schiva e del sole,
disïò di morire; e gran portenti
di ciò presagio e fretta anco le fêro.
Ella, mentre a gli altari incensi e doni
offria devota (orribil cosa a dire!),
vide avanti di sé cogli occhi suoi
farsi lurido e negro ogni liquore,
e 'l puro vin cangiarsi in tetro sangue:
e 'l vide, e 'l tacque, e 'nfino a la sorella
lo tenne ascoso. Entro al suo regio albergo
avea di marmo un bel delúbro eretto,
e dedicato al suo marito antico.
Questo con molto studio, e molt'onore
fu mai sempre da lei di bianchi velli
e di festiva fronde ornato e cinto.
Quinci notturne voci udir le parve
del suo caro Sichèo che la chiamasse;
e nel suo tetto un solitario gufo
molte fïate con lugúbri accenti
fe' di pianto una lunga querimonia.
Oltre a ciò da l'antiche profezie,
da pronostici orrendi e spaventosi
de la vicina morte era ammonita.
Vedeasi Enea tutte le notti avanti
con fera imago, che turbata e mesta
la tenea sempre. Le parea da tutti
restare abbandonata, e per un lungo
e deserto cammino andar solinga
de' suoi Tiri cercando. In cotal guisa
le schiere de l'Eumènidi vedea
Pèntëo forsennato, e doppio il sole
e doppia Tebe. In cotal guisa Oreste
per le scene imperversa, e furïoso
vede, fuggendo, la sua madre armata
di serpenti e di faci, e 'n su le porte
le Furie ultrici. Or poi che la meschina
fu da tanto furor, da tanto affanno
oppressa e vinta, e di morir disposta,
divisò fra se stessa il tempo e 'l modo:
ed Anna, sí com'era afflitta e mesta,
a sé chiamando, il suo fiero consiglio
celò nel core, e nel sereno volto
spiegò gioia e speranza: «Anna, - dicendo -
rallegrati con me, che al fin trovato
ho com'io debba o racquistar quell'empio,
o ritôrmi da lui. Nel lito estremo
de l'Oceàn, là dove il sol si corca,
de l'Etïopia a l'ultimo confino,
e presso a dove Atlante il ciel sostiene,
giace un paese, ond'ora è qui venuta
una sacerdotessa incantatrice,
che, massíla di gente, è stata poi
del tempio de l'Espèridi ministra,
e del drago nudrice, e de le piante
del pomo d'oro guardïana un tempo.
  Questa, d'umido mèle e d'oblïosi
papaveri composto un suo miscuglio,
promette con parole e con malíe
altri sciôr da l'amore, altri legare,
com'a lei piace; distornare i fiumi,
ritrar le stelle, e convocar per forza
le notturne fantasme. Udrai la terra
mugghiar sotto a' tuoi piè. Vedrai da' monti
calar gli orni e le querce. Io per gli dèi,
per te, per la tua vita a me sí cara,
ti giuro, suora mia, che mal mio grado
m'adduco a questi magici incantesmi;
ma gran forza mi spinge. Or va, sorella;
scegli per entro a le mie stanze un luogo
il piú remoto e solo, a l'aura esposto.
Ivi ergi una gran pira, e vi conduci
l'armi che a la mia camera sospese
lasciò quel disleale, e quelle spoglie,
in somma ogni suo arnese. Ché la maga
cosí m'impone, e vuol ch'ogni memoria,
ogni segno di lui si spenga e pèra».
  Cosí detto, si tacque, e di pallore
tutta si tinse. Non però s'avvide
Anna che sotto a' nuovi sacrifici
si celasse di lei morte sí fera:
ché sí fero concetto non le venne,
e non temé che peggio le avvenisse
che in morte di Sichèo. Tosto fe' dunque
quel ch'imposto le fu. Fatta la pira,
e d'ilici e di tede aride e scisse
altamente composta, la regina
d'atre ghirlande e di funeste frondi
ornar la fece intorno: indi le spoglie
e la spada e l'effigie de l'amante
sopra a giacer vi pose, ben secura
di ciò che n'avverrebbe. Eran d'intorno
gli altari eretti; era tra lor la maga
scapigliata e discinta; e con un tuono
di voce formidabile invocava
trecento deità, l'Erebo, il Cao,
Ècate con tre forme, e con tre facce
la vergine Dïana. Avea già sparse
le finte acque d'Averno, e i suffumigi
fatti de le nocive erbe novelle
che per punti di luna, e con la falce
d'incantato metallo eran segate.
Si fe' venir la malïosa carne
che de la fronte al tenero pulledro
con l'amor de la madre si divelle.
Essa stessa regina il farro e 'l sale
con le man pie sovr'a gli altari impone,
e d'un piè scalza, e di tutt'altro sciolta,
solo accinta a morir, per testimoni
chiama li dèi. Protestasi a le stelle
del suo fato consorti: e s'alcun nume
mira a gli afflitti e sfortunati amanti,
questo prega e scongiura che ragione
e ricordo ne tenga, e ne gli caglia.
  Era la notte; e già di mezzo il corso
cadean le stelle; onde la terra e 'l mare,
le selve, i monti e le campagne tutte,
e tutti gli animali, i bruti, i pesci,
e i volanti e i serpenti e ciò che vive
avea da ciò che la lor vita affanna
tregua, silenzio, oblio, sonno e riposo.
Ma non Dido infelice, a cui la notte
né gli occhi grava, né 'l pensiero alleggia;
anzi maggior col tramontar del sole
in lei risorge l'amorosa cura:
e non men che d'amor, d'ira avvampando,
cosí fra sé farnetica e favella:
  «E che farò cosí delusa poi?
Chi piú mi seguirà de' primi amanti?
Proferirommi per consorte io stessa
d'un Zingaro, d'un Moro, o d'un Aràbo,
quando n'ho vilipesi e rifiutati
tanti e tai, tante volte? Andrò co' Teucri
in su l'armata? Mi farò soggetta,
di regina ch'io sono, e serva a loro?
Sí certo, che gran pro fin qui riporto
de le mie loro usate cortesie;
e grado me n'avranno, e grazia poi.
Ma ciò, dato ch'io voglia, chi permette
ch'io l'eseguisca? Chi cosí schernita
volentier mi raccoglie? Ahi sfortunata
Dido! ch'ancor non vedi a che sei giunta,
e le frodi non sai di questa iniqua
schiatta di Laomedonte. E poi, che fia
per questo? Deggio sola in compagnia
di marinari andar femina errante?
o condur meco i miei Fenici tutti
con altra armata? e trarli un'altra volta
d'un'altra patria in mare, in preda a' vènti
senz'alcun pro, senza cagione alcuna,
quando anco a pena di Sidon gli trassi
per ritôrli da man d'empio tiranno?
Ah! muor piú tosto, come degnamente
hai meritato; e pon col ferro fine
al tuo grave dolore. Ah, mia sorella!
tu sei prima cagion di tanto male;
tu, vinta dal mio pianto, in quest'angoscia
m'hai posta, e data ad un nemico in preda;
ché dovea vita solitaria e fera
menar piú tosto, che commetter fallo
sí dannoso e sí grave, e romper fede
al cener di Sichèo». Questi lamenti
uscian del petto a l'affannata Dido;
quando già di partir fermo e parato
Enea, per riposar pria che sciogliesse,
s'era a dormir sopra la poppa agiato.
Ed ecco un'altra volta in sogno, avanti
del medesmo celeste messaggiero
gli appar l'imago, con quel volto stesso,
con quel color, con quella chioma d'oro
con che lo vide pria giovane e bello;
e da la stessa voce udir gli parve:
  «Tu corri, Enea, sí gran fortuna, e dormi?
Non senti qual ti spira aura seconda?
Dido cose nefande ordisce ed osa
certa già di morire, e d'ira accesa
a dire imprese è vòlta; e tu non fuggi,
mentre fuggir ti lece? A mano a mano
di legni travagliar vedrassi il mare,
di fochi il lito, e di furor le genti
incontra a te, se tu qui 'l giorno aspetti.
Via di qua tosto: da' le vele a' vènti.
Femina è cosa mobil per natura,
e per disdegno impetuosa e fera».
E qui tacendo entrò nel buio, e sparve.
  Enea, preso da súbito spavento,
destossi, e fe' destar la gente tutta:
«Via, compagni, - dicendo - a i banchi, e a i remi;
ch'or d'altro uopo ne fa che di riposo.
Fate vela, sciogliete: ché di nuovo
precetto ne si fa dal cielo e fretta.
Ecco, qual tu ti sia, messo celeste,
che 'l tuo detto seguiamo; e tu benigno
n'aíta e 'l cielo e 'l mar ne rendi amico».
  Ciò detto, il ferro strinse, e fulminando
del suo legno la gómona recise.
Cosí fêr gli altri, e col medesmo ardore
tutti insieme sciogliendo, travasando,
e spingendosi in alto, in un momento
lasciaro il lito; e 'l mar, da i legni ascoso,
si fe' per tanti remi e tante vele
spumoso e bianco. Era vermiglio e rancio
fatto già de la notte il bruno ammanto,
lasciando di Titon l'Aurora il letto:
quando d'un'alta loggia la regina
tutto scoprendo, poi ch'a piene vele
vide le frige navi irne a dilungo,
e vòti i liti, e senza ciurma il porto;
contra sé fatta ingiurïosa e fera,
il delicato petto e l'auree chiome
si percoté, si lacerò piú volte;
e 'ncontra al ciel rivolta: «Ah, Giove!, - disse -
dunque pur se n'andrà? Dunque son io
fatta d'un forestier ludibrio e scherno
nel regno mio? Né fia chi prenda l'armi?
Né chi lui segua, né i suoi legni incenda?
Via tosto a le lor navi, a l'armi, al foco;
mano a le vele, a' remi; oltre, nel mare!
Che parlo? O dove sono? E che furore
è 'l tuo, Dido infelice? Iniquo fato,
misera, ti persegue. Allor fu d'uopo
ciò che tu di', quando di te signore
e del tuo regno il festi. Ecco la destra,
ecco la fede sua. Questi è quel pio
che seco adduce i suoi patrii Penati,
e 'l vecchio padre a gli omeri s'impose.
Non potea farlo prendere e sbranarlo?
e gittarlo nel mare? ancider lui
con tutti i suoi? dilanïare il figlio,
e darlo in cibo al padre? Oh, perigliosa
fôra stata l'impresa! E di periglio
la si fosse, e di morte; in ogni guisa
morir dovendo, a che temere indarno?
Arsi avrei gli steccati, incesi i legni,
occiso il padre, il figlio, il seme in tutto
di questa gente, e me spenta con loro.
  Sole, a cui de' mortali ogni opra è conta;
Ècate, che ne' trivi orribilmente
sei di notte invocata; ultrici Furie,
spiriti inferni, e dii de l'infelice
Dido ch'a morte è giunta, il mio non degno
caso riconoscete, e insieme udite
queste dolenti mie parole estreme.
Se forza, se destino, se decreto
è di Giove e del cielo, e fisso e saldo
è pur che questo iniquo in porto arrivi
e terra acquisti; almen da fiera gente
sia combattuto, e, de' suoi fini in bando,
da suo figlio divelto implori aiuto,
e perir veggia i suoi di morte indegna.
Né leggi che riceva, o pace iniqua
che accetti, anco gli giovi; né del regno,
né de la vita lungamente goda:
ma caggia anzi al suo giorno, e ne l'arena
giaccia insepolto. Questi prieghi estremi
col mio sangue consacro. E voi, miei Tiri,
coi discesi da voi, tenete seco
e co' posteri suoi guerra mai sempre.
Questi doni al mio cenere mandate,
morta ch'io sia. Né mai tra queste genti
amor nasca, né pace; anzi alcun sorga
de l'ossa mie, che di mia morte prenda
alta vendetta, e la dardania gente
con le fiamme e col ferro assalga e spenga
ora, in futuro e sempre; e sian le forze
a quest'animo eguali: i liti ai liti
contrari eternamente, l'onde a l'onde,
e l'armi incontro a l'armi, e i nostri ai loro
in ogni tempo». E ciò detto, imprecando,
schiva di piú veder l'eterea luce,
affrettò di morire. E Barce in prima
vistasi intorno, una nutrice antica
del suo Sichèo (ché la sua propria in Tiro
era cenere già): «Cara nutrice, -
le disse - va', mi chiama Anna mia suora,
e le di' che solleciti, e che l'onda
del fiume e l'ostie e i suffumigi adduca,
e ciò ch'è d'uopo, come pria le dissi,
a prepararmi: ché finire intendo
il sacrifizio che a Plutone inferno
solennemente ho di già fare impreso,
per fine imporre a' miei gravi martiri,
e dar foco a la pira, ov'è l'imago
di quell'empio Troiano». A tal precetto
mossa la vecchiarella, a suo potere
lentamente affrettossi ad eseguirlo.
  Dido nel suo pensiero immane e fiero
fieramente ostinata, in atto prima
di paventosa, poi di sangue infetta
le torve luci, di pallore il volto,
e tutta di color di morte aspersa,
se n'entrò furïosa ove secreto
era il suo rogo a l'aura apparecchiato.
Sopra vi salse; e la dardania spada,
ch'ebbe da lui non a tal uso in dono,
distrinse: e rimirando i frigi arnesi
e 'l noto letto, poich'in sé raccolta
lagrimando e pensando alquanto stette,
sopra vi s'inchinò col ferro al petto,
e mandò fuor quest'ultime parole:
«Spoglie, mentre al ciel piacque, amate e care
a voi rendo io quest'anima dolente.
Voi l'accogliete: e voi di questa angoscia
mi liberate. Ecco, io son giunta al fine
de la mia vita, e di mia sorte il corso
ho già compito. Or la mia grande imago
n'andrà sotterra: e qui di me che lascio?
Fondata ho pur questa mia nobil terra;
viste ho pur le mie mura; ho vendicato
il mio consorte; ho castigato il fiero
mio nimico fratello. Ah, che felice,
felice assai morrei, se a questa spiaggia
giunte non fosser mai vele troiane!»
E qui su 'l letto abbandonossi, e 'l volto
vi tenne impresso; indi soggiunse: «Adunque
morrò senza vendetta? Eh, che si muoia,
comunque sia. Cosí, cosí mi giova
girne tra l'ombre inferne: e poi ch'il crudo,
mentre meco era, il mio foco non vide,
veggalo di lontano; e 'l tristo augurio
de la mia morte almen seco ne porte».
Avea ciò detto, quando le ministre
la vider sopra al ferro il petto infissa,
col ferro e con le man di sangue intrise
spumante e caldo. In pianti, in ululati
di donne in un momento si converse
la reggia tutta, e 'nsino al ciel n'andaro
voci alte e fioche, e suon di man con elle.
N'andò per la città grido e tumulto,
come se presa da' nemici a forza
fosse Tiro, o Cartago arsa e distrutta.
  Anna, tosto ch'udillo, il volto e 'l petto
battessi e lacerossi; e fra la gente
verso la moribonda sua sorella,
stridendo, e 'l nome suo gridando corse:
«E per questo, - dicea - suora, son io
da te cosí tradita? Io t'ho per questo
la pira e l'are e 'l foco apparecchiato?
Deserta me! Di che dorrommi in prima?
Perché, morir dovendo, una tua suora
per compagna rifiuti? E perché teco,
lassa! non m'invitasti? Ch'un dolore,
un ferro, un'ora stessa ambe n'avrebbe
tolte d'affanno. Ohimé! con le mie mani
t'ho posto il rogo. Ohimé! con la mia voce
ho gli dèi de la patria a ciò chiamati.
Tutto, folle! ho fatt'io, perché tu muoia,
perch'io nel tuo morir teco non sia.
Con te, me, questo popol, questa terra
e 'l sidonio senato hai, suora, estinto.
Or mi date che 'l corpo omai componga,
che lavi la ferita, che raccolga
con le mie labbia il suo spirito estremo,
se piú spirto le resta». E, ciò dicendo,
già de la pira era salita in cima.
Ivi lei che spirava in seno accolta,
la sanguinosa piaga, lagrimando,
con le sue vesti le rasciuga e terge.
Ella talor, le gravi luci alzando,
la mira a pena, che di nuovo a forza
morte le chiude; e la ferita intanto
sangue e fiato spargendo anela e stride.
Tre volte sopra il cubito risorse:
tre volte cadde, ed a la terza giacque:
e gli occhi vòlti al ciel, quasi cercando
veder la luce, poiché vista l'ebbe,
ne sospirò. De l'affannosa morte
fatta Giuno pietosa, Iri dal cielo
mandò, che 'l groppo disciogliesse tosto,
che la tenea, malgrado anco di morte,
col suo mortal sí strettamente avvinta;
ch'anzi tempo morendo, e non dal fato,
ma dal furore ancisa, non le avea
Prosèrpina divelto anco il fatale
suo dorato capello; né dannata
era ancor la sua testa a l'Orco inferno.
  Ratto spiegò la rugiadosa dea
le sue penne dorate, e 'ncontra al sole
di quei tanti suoi lucidi colori
lunga striscia traendo; indi sospesa
sopra al capo le stette, e d'oro un filo
ne svelse e disse: «Io qui dal ciel mandata
questo a Pluto consacro, e te disciolgo
da le tue membra». Ciò dicendo, sparve.
Ed ella, in aura il suo spirto converso,
restò senza calore e senza vita.

Libro V

 

Intanto Enea, spinto dal vento in alto,
veleggiava a dilungo; e pur con gli occhi,
da la forza d'amor rivolto indietro,
rimirava a Cartago. Ardea la pira
già d'Elisa infelice; e le sue fiamme
raggiavan di lontan gran luce intorno.
La cagion non sapea; ma la temenza
lo rimordea del vïolato amore,
e 'l saper quel che puote e quel che ardisce
femina furïosa; e 'l tristo augurio
del foco, che lugúbre era e funesto,
lo tenea con lo stuol de' Teucri tutti
disanimato e mesto. Eran di vista
già de la terra usciti, e cielo ed acqua
apparian solamente d'ogn'intorno,
allor ch'un denso e procelloso nembo
si fe' lor sopra; onde tempesta e notte
surse repente, e Palinuro stesso
da l'alta poppa il ciel mirando: «Oh! - disse -
che fia con tante intorno accolte nubi?
E che pensi e che fai, padre Nettuno?»
Indi cornanda: «Via, compagni, armiamci,
opriamo i remi, accomodiam le vele,
tegniamo al vento avverso obliquo il seno».
E rivolto ad Enea: «Con questo cielo,
signor, - diss'egli - ormai piú non m'affido
prender Italia, ancor che Giove stesso
nel promettesse, ed ei nocchier ne fosse.
Vedi il vento mutato, vedi il mare
di vèr ponente, che s'annera e gonfia:
vedi nel ciel qual ne s'accampa stuolo
di folte nubi. Traversia di certo
n'assalirà sí che né girle incontro,
né durar la potremo. Or poi ch'a forza
cosí ne spinge, noi per nostro scampo
assecondiamla; ché già presso i porti
ne son de la Sicilia e 'l fido ospizio
d'Èrice tuo fratello, s'abbastanza
de l'arte mi rammento e de le stelle».
  Rispose Enea: «Ben conosch'io che duro
è 'l contrasto de' vènti; e 'l nostro è vano.
Volgi le vele. E qual piú grata altrove,
o piú commoda riva, o piú sicura
aver mai ponno le mie stanche navi,
di quella che ne serba il caro Aceste,
e l'ossa accoglie del buon padre mio?»
  Cosí, vòlti a levante, e preso in poppa
il vento e 'l flutto, a tutta vela il golfo
correndo, fûr subitamente a proda
de l'amica riviera. Avea di cima
visto d'un monte il cacciatore Aceste
venir la frigia armata: onde in un tempo
fu con essi a la riva; e rincontrolli
allegramente, sí com'era incolto,
di dardi armato e d'irta pelle cinto
di libic'orso, umano insieme e rozzo,
de la troiana Egesta e di Criniso
fiume onorato figlio. Ei degli antichi
suoi parenti membrando, con gioioso
volto, se ben con rustico apparecchio,
gl'invita, gli riceve e gli consola.
  Era de l'altro dí l'aurora e 'l sole
già fuor de l'onde, allor che 'l frigio duce,
convocati i suoi tutti, alto in un greppo
posto in mezzo di lor cosí lor disse:
  «Generosi e magnanimi Troiani,
degna prole di Dardano e del cielo,
questa è l'amica terra, ove oggi è l'anno
ch'a le sante ossa del mio padre Anchise
demmo requie e sepolcro, e i mesti altari
gli consecrammo. Oggi è, s'io non m'inganno,
quel sempre acerbo ed onorato giorno,
ché onorato ed acerbo mi fia sempre
(poi che sí piacque a dio), quantunque ovunque
questo esiglio infelice mi trasporti:
pongami ne l'arene e ne le secche
de la Getulia; spingami agli scogli
del mar di Grecia; ne la Grecia stessa
mi chiugga, e dentro al cerchio di Micene;
ch'io l'arò sempre per solenne, e vóti
farogli ogni anno e sacrifici e ludi.
Or poi che da' celesti, oltre ogni avviso
nostro, tra' nostri siamo in pruova addotti
per onorar le sue ceneri sante,
onoriamle, adoriamle, e dal suo nume
imploriamo devoti amici i vènti,
e stabil seggio, ove gli s'erga un tempio,
in cui sian quest'esequie e questi onori
rinnovellati eternamente ogni anno.
Due pingui buoi per ciascun nostro legno
vi profferisce il buon troiano Aceste.
Voi d'Aceste e di Troia i patri numi
ne convitate; ed io, quando l'Aurora
tranquillo e queto il nono giorno adduca,
a' solenni spettacoli v'invito
di navi, di pedoni e di cavalli,
al corso, a la palestra, al cesto, a l'arco.
Ognun vi si prepari, ognun ne speri
degna del suo valor mercede e palma.
E voi datevi assenso, e tutti insieme
v'inghirlandate». E, ciò dicendo, il primo
del suo mirto materno il crin si cinse.
Èlimo lo seguí, seguillo Alete,
un di verd'anni e l'altro di maturi;
poscia il fanciullo Iulo; e dietro a loro
d'ogni età gli altri tutti. Enea disceso
dal parlamento, in mezzo a quante intorno
avea schiere di genti, umile e mesto
al sepolcro d'Anchise appresentossi:
e con rito solenne in terra sparte
due gran coppe di vino e due di latte
e due di sangue, di purpurei fiori
vi nevigò di sopra un nembo, e disse:
  «A voi sant'ossa, a voi ceneri amate
e famose e felici, anima ed ombra
del padre mio, torno di nuovo indarno
per onorarvi; poi che Italia e 'l Tebro
(se pur Tebro è per noi) ne si contende.
Or, quel ch'io posso con devoto affetto
v'adoro e 'nchino come cosa santa».
  Mentre cosí dicea, di sotto al cavo
de l'alto avello un gran lubrico serpe
uscio placidamente; e sette volte
con sette giri al tumulo s'avvolse.
Indi, strisciando infra gli altari e i vasi,
le vivande lambendo, in dolce guisa,
con le cerulee sue squamose terga
sen gio divincolando, e quasi un'Iri
a sole avverso scintillò d'intorno
mille vari color di luce e d'oro.
Stupissi Enea di cotal vista; e l'angue
di lungo tratto infra le mense e l'are,
ond'era uscito alfin si ricondusse.
Rinnovellò gl'incominciati onori
il frigio duce, del serpente incerto,
se del loco era il genio, o pur del padre
sergente o messo. E com'era uso antico,
cinque pecore elette e cinque porci,
con cinque di morello il tergo aspersi
grassi giovenchi anzi a la tomba occise,
nuove tazze versando, e nuovamente
fin d'Acheronte richiamando il nome
e l'anima d'Anchise. Indi i compagni,
ciascun secondo la sua possa offrendo,
lieti colmâr di doni i santi altari:
altri di lor le vittime immolaro;
altri cibi ne fêro; e tutti insieme
sul verde prato a convivar si diêro.
  Era già 'l nono destinato giorno
sereno e lieto a l'orïente apparso,
e già la vaga fama e 'l chiaro nome
avea d'Aceste convocati intorno
i vicin tutti, e pieni erano i liti
di gente, cui traea parte vaghezza
di vedere i Troiani, e parte ardire
di provarsi con loro. In prima esposti
con pompa riguardevole e solenne
furo in mezzo del circo armi indorate,
purpuree vesti, e tripodi e corone,
e piú guise d'arnesi e di monete,
d'argento e d'oro, e palme ed altri premi
di vincitori. Indi sonora tromba
d'alto diè segno ai desïati ludi,
e dal mar cominciossi. Avean di tutta
la teucra armata quattro legni scelti
piú di remi e di rémigi guarniti,
e di tutti piú destri. Un fu la Pistri,
e Memmo la reggea: Memmo che poi
l'Italo fu nomato, e diede il nome
a la stirpe de' Memmi. La Chimera
fu l'altro, a cui preposto era il gran Gía,
un gran vascello che a tre palchi avea
disposti i remi; e i remiganti tutti
eran troiani e giovani e robusti.
Fu 'l gran Centauro il terzo; e di quest'era
Sergesto il capo, che a la Sergia prole
diede principio. L'ultimo, la Scilla
guidata da Cloanto, onde i Cluenti
trasser nome e legnaggio. È lunge incontra
a la spumosa riva un basso scoglio
che da' flutti percosso, è talor tutto
inondato e sommerso. Il verno i vènti
vi tendon sopra un nubiloso velo
che ricuopre le stelle, e quando è il tempo
tranquillo, ha ne l'asciutto una pianura
ch'è di marini uccelli aprica stanza.
  Qui d'un elce frondoso il segno pose
il padre Enea, fin dove il corso avanti
stender pria si dovesse, e poi dar volta.
Indi, sortiti i luoghi, al suo ciascuno
si pose in fila. I capitani in poppa
addobbati di bisso e d'ostro e d'oro,
risplendean di lontano; e gli altri tutti
d'una livrea di pioppo incoronati
stavano con le terga ignudi ed unti,
sí che tra l'olio e 'l sol lumiere e specchi
parean da lunge. E già ne' banchi assisi,
tese a' remi le braccia, al suon l'orecchie,
aspettavano il segno. I cori intanto
palpitando movea disio d'onore
e timor di vergogna. Avea la tromba
squillato appena, che in un tempo i remi
si tuffâr tutti, e tutti i legni insieme
si spiccâr da le mosse. I gridi al cielo
n'andâr de' marinari. Il mar di schiuma
s'asperse intorno; e 'n quattro solchi eguali
fu con molto stridor da' rostri aperto,
e da' remi stracciato. Impeto pari
non fêr nel Circo mai bighe o quadrighe
da le carceri uscendo, allor ch'a sciolte
ed ondeggianti redini gli aurighi
ai volanti destrier sferzan le terga.
Le grida, il plauso, il fremito e le voci,
in favore or di questi ed or di quelli,
tra i curvi liti avvolte, e da le selve
e da' colli riprese e ripercosse,
facean l'aria intonar fino a le stelle.
  Nel primo uscire, il primo avanti a tutti
si vide Gía, mentre la gente freme;
e dopo lui Cloanto, che de' remi
migliore assai, per la gravezza indietro
rimanea del suo legno. Indi del pari,
o di poco infra loro avean contesa
il Centauro e la Pistri; e quando questa,
quando quello era avanti; e quando entrambi
or le fronti avean giunte ed or le code.
  Eran del sasso già presso a la mèta
e di buon tratto vincitore avanti
Gía se ne gía, quand'ei sen vide in alto
da la ripa piú lunge; onde rivolto
al suo nocchiero: «E dove - disse - andrai,
Menete? Attienti al lito e radi il sasso:
vadano gli altri in alto». Ei tuttavia
d'urtar temendo, in pelago si mise;
e Gía di nuovo: «In qua, Menete, al sasso,
al sasso, a la sinistra, a la sinistra!»
dicea gridando; e vòlto indietro, vide
ch'avea Cloanto addosso. Era Cloanto
già tra lo scoglio e la Chimera entrato;
e via radendo la sinistra riva,
tenne giro sí breve e sí propinquo,
che lui tosto e la mèta anco varcando,
si vide avanti il mare ampio e sicuro.
Grand'ira, gran dolore e gran vergogna
ne sentí 'l fiero giovine; e piangendo
di stizza, e non mirando il suo decoro,
né che Menete del suo legno seco
fosse guida e salute, in mezzo il prese,
e da la poppa in mar lunge avventollo.
Poscia, ei nocchiero e capitano insieme
diè di piglio al timone e, rincorando
i suoi compagni, al sasso lo rivolse.
  Menete, che di veste era gravato,
e via piú d'anni, infino a l'imo fondo
ricevé 'l tuffo; e risorgendo a pena
rampicossi a lo scoglio, e sí com'era
molle e guazzoso, de la rupe in cima
qual bagnato mastino al sol si scosse.
Rise tutta la gente al suo cadere;
rise al notare: e piú rise anco allora
che'a flutti vomitar gli vide il mare.
  Memmo intanto e Sergesto, che del pari
erano addietro, parimente accesi,
su l'indugio di Gía preser baldanza.
Sergesto in vèr lo scoglio avea 'l vantaggio
del primo loco; ma non tutto ancora
era il suo legno avanti, che la Pistri
premea col rostro del Centauro il fianco.
E Memmo, confortando i suoi compagni,
e 'n su e 'n giú per la corsia gridando:
  «Via fratelli, - dicea - via degni alunni
d'Ettore invitto, via! compagni eletti
al grand'uopo di Troia. Ora è mestiero
de' remi, de le forze e del coraggio,
ch'a le Sirti, a Cariddi, a la Malèa
mostraste già. Non piú vincer contendo,
che pur dovrei, se pur Memmo son io:
vinca cui ciò da te, Nettuno, è dato.
Ma ch'ultimi arriviamo, ah! non, fratelli,
questa vergogna; e ciò vincasi almeno
che di tanto rossor tinti non siamo».
  A cotal dir tutti insorgendo, a gara
steser le braccia, ed inarcaro i dorsi,
e fêr per avanzarsi estremo sforzo.
Tremava a i colpi il ben ferrato legno;
fuggia di sotto il mare: ansando i rémigi
aprian l'asciutte bocche; e spesso i fianchi
battendo, a gronde di sudor colavano.
  Diè lor fortuna il desïato onore:
ché, mentre furïoso oltre si spinge
Sergesto, e con la prora arditamente
rade la ripa, ebbe il meschino intoppo,
urtando de lo scoglio in una roccia
che nel mar si sporgea. Scheggiossi il sasso:
fiaccârsi i remi: si scoscese il rostro;
e d'un lato pendente e scossa tutta
tremò la nave, e scompigliossi, e stette.
I remiganti attoniti, con gridi,
con ferrate aste, con tridenti e pali
stavan pingendo e puntellando il legno,
e ripescando i remi. Intanto allegro,
e del successo coraggioso e baldo
Memmo ratto s'avanza, e vince il sasso;
e via vogando ed invocando i vènti
fende a la china ed a l'aperto il mare.
  Qual d'una grotta, ov'aggia i dolci figli
e 'l caro nido, spaventata in prima
da súbito schiamazzo esce rombando
ed arrostando una colomba a l'aura;
che poi, giunta ne' campi, a l'aer queto
quetamente per via dritta e sicura
sen va con l'ali immobili e veloci;
cosí la Pistri pria travolta e vaga
venia da sezzo; indi affilata e stretta
passò prima Sergesto che nel sasso,
come da vischio rattenuto augello
e spennacchiato, i suoi spezzati remi
dibattendo, chiedea soccorso invano;
poscia, spingendo, la Chimera aggiunse
e trapassolla: ché la sua gran mole
e 'l perduto nocchier la fea piú tarda.
  Sol restava Cloanto: e verso lui
affilandosi, al fin quasi del corso
con ogni sforzo il segue, e già l'incalza.
Levossi al cielo un'altra volta il grido
del favor che facea la gente tutta,
perché i secondi divenisser primi.
Quelli caccia lo sdegno e la vergogna
di non tener il conseguito onore,
ché la gloria antepongono a la vita;
questi il successo inanima e la speme
di ciò poter; poich'altrui par che possano.
S'eran già presso e, pareggiati i rostri,
del pari i premi avrian forse ottenuti,
se non ch'ambe le mani al cielo alzando,
cotal fece a gli dèi Cloanto un vóto:
  «Santi numi del pelago ch'io corro,
se 'l corso agevolate al legno mio,
nel medesimo lito un bianco toro
lieto consacrerovvi e de l'opime
sue viscere, e di vin limpido e puro
l'arena spargerovvi e l'onde salse».
  Furon da l'imo fondo i preghi uditi
del buon Cloanto da la schiera tutta
de le ninfe di Nerëo e di Forco,
e da la Panopèa vergine intatta:
e 'l gran padre Portunno di sua mano
gli spinse il legno; onde, qual vento o strale,
lanciossi a terra, e si scagliò nel porto.
  Il padre Enea (com'è costume) avanti
convocati a sé tutti, a suon di tromba
dichiarò vincitor Cloanto il primo,
e le tempie di lauro incoronogli.
Poscia a ciascuna de le navi in dono
diè tre grassi giovenchi, e tre grand'urne
di prezïoso vino, e di contanti
un gran talento. Ornò di maggior doni
i primi condottieri. Al vincitore
presentò di broccato un ricco arnese,
che d'ostro a' groppi sopra l'oro avea
doppio un lavoro di ricamo e d'ago.
  Nel mezzo entro al frondoso bosco idèo
un real giovinetto era tessuto,
ch'anelo e fiero con un dardo in mano
seguia per la foresta i cervi in caccia;
e poco indi lontano un'altra volta
era il medesmo da l'uccel di Giove
rapito in alto; e i suoi vecchi custodi
e i fidi cani lo miravan sotto,
quegli indarno le mani al cielo alzando,
e questi il muso, ed abbaiando a l'aura.
  A l'altro poi, che, per valore il primo,
fu per sorte secondo, in premio diede
per ornamento e per difesa in arme
una lorica che d'antica maglia
e di lucente e rinterzato acciaro,
di massiccio oro avea le fibbie e gli orli.
Questa di Simoenta in su la riva
sotto l'alto Ilio, e di sua propria mano
tolse al vinto Demòleo. Era sí grave,
che da Fegèo e da Sàgari, due forti
e robusti sergenti, ivi condotta
era stata a gran pena; e pur indosso
l'avea Demòleo il dí che combattendo
mise in quella riviera i Teucri in volta.
I terzi doni due gran nappi fôro
di forbito metallo, e due gran coppe,
di puro argento figurate intorno
con mirabile intaglio. E già donati,
e de' lor doni altieri e festeggianti
se ne gian tutti di purpuree bende
le tempie avvinti, e di lentischio adorni;
quando ecco da lo scoglio con grand'arte
e con molta fatica appena svelto
Sergesto, col suo legno infranto e monco
e tarpato de' remi, in vèr la terra
se ne venia disonorato e mesto.
  Com'angue suol, ch'o sia da ruota oppresso
tra la ripa e 'l sentiero, o sia di sasso
dal vïator percosso o di randello,
procacciando fuggir, con lunghe spire
s'arrosta indarno, e inalberato e fiero
dal mezzo in suso arde negli occhi e fischia:
e d'altra parte dilombato e tardo
debilmente guizzando, in se medesmo
si ripiega, s'attorce e si raggroppa:
cosí co' remi la fiaccata nave
se ne gia lenta, e con le vele a volo,
ch'a piene vele alfine in porto aggiunse.
  Ed a Sergesto anco i suoi doni assegna
il padre Enea, di ricovrar contento
il suo buon legno e i suoi fidi compagni,
e furo i doni una Cretese ancella,
Fòloe di nome, e di telaro e d'ago
maestra esperta e da Minerva instrutta,
giovine e bella, e con due figli al petto.
  Questo primo spettacolo compito,
Enea per gli altri una pianura elegge
che di teatro in guisa d'ogn'intorno
ha selve e colli, ed un gran circo avanti,
ove in un palco alteramente estrutto
tra molti mila collocossi in mezzo.
Qui prima al corso i corridori invita
con prezïosi premi, e i premi espone;
e de' Teucri e de' Sicoli mostrârsi
i piú famosi. Appresentossi in prima
Eurïalo con Niso. Un giovinetto
di singolar bellezza Eurïalo era;
e Niso un di lui fido e casto amante.
dopo questi Dïòro. Era costui
del legnaggio di Prïamo un rampollo,
giovine generoso; e Sàlio e Patro
vennero appresso: d'Acarnania l'uno,
d'Arcadia I'altro e del tegèo paese:
e due Sicilïani, Èlimo e Pànope,
ambedue cacciatori, ambi seguaci
del vecchio Aceste; e con questi, altri assai
d'oscura nominanza. A cui nel mezzo
stando il gran padre Enea, cosí ragiona:
  «Nissun da me di questa schiera eletta
andrà senza mie' doni, e parimente
una coppia di dardi avrà ciascuno
di rilucente acciaro, ed una d'oro
e d'argento commesso a l'arabesca
non piú vista bipenne. I principali
tre vincitori i primi pregi avranno,
e fian tutti d'oliva incoronati.
E 'l primiero de' tre d'un buon destriero
sarà provvisto ben guarnito e bello.
L'altro avrà d'un'Amazzone un turcasso
pien di tracie saette, un arco d'osso,
ed un bel cinto, a cui sono ambi appesi,
c'han di gemme il fermaglio e d'òr la fibbia.
Il terzo d'un'argolica celata
se ne vada contento; e sarà questa».
  Ciò detto, e presi i luoghi, e 'l segno dato
s'avventâr da la sbarra: e quasi un nembo
l'un da l'altro dispersi, insieme tutti
volâr, mirando al fine. Il primo avanti
si tragge Niso, e di gran lunga avanti:
ché va di vento e di saetta in guisa.
Prossimo a lui, ma prossimo d'un tratto
molto lontano, è Salio. A Salio, Eurïalo;
Eurïalo ha di poco Èlimo addietro;
ad Èlimo Dïòro appresso tanto
che già sopra gli anela e già l'incalza;
e se 'l corso durava, anco l'arebbe
o prevenuto o pareggiato almeno.
Eran presso a la mèta, ed eran lassi,
quando ne l'erba, pria di sangue intrisa
degli occisi giovenchi, il piè fermando
sinistramente e sdrucciolando a terra
cadde Niso infelice, e 'l volto impresse
nel sacro loto, sí che gramo e sozzo
ne surse poi. Ma del suo amore intanto
non obliossi: ché sorgendo, intoppo
si fece a Salio; onde con esso avvolto
stramazzò ne l'arena: e mentre ei giacque,
Eurïalo del danno e del favore
s'avanzò de l'amico, e de le grida,
con che gli diêr le genti animo e forza:
ond'ei fu 'l primo, ed Èlimo il secondo;
Dïòro il terzo. E tal fin ebbe il corso.
  Ma di rumor se n'empie e di tenzone
il circo tutto; e Salio anzi il cospetto
de' giudici e de' padri or si protesta,
or detesta, or esclama; e del tradito
suo valor si rammarca, e ragion chiede.
In difesa d'Eurïalo a rincontro,
è il favor de la gente, e quel decoro
suo dolce lagrimare, e quell'invitta
forza c'ha la vertú con beltà mista.
Grida Dïòro anch'egli, e lui sovviene,
e se stesso difende, poi ch'il terzo
essere non può quando sia Salio il primo.
  Enea cosí decise: «Aggiate voi,
generosi garzoni, i pregi vostri;
e nulla in ciò de l'ordine si muti:
ch'io supplirò con degna ammenda al caso,
ond'ha fortuna indegnamente afflitto
l'amico mio». Ciò detto, una gran pelle
presenta a Salio d'un leon getúlo,
c'ha il tergo irto di velli e l'unghie d'oro.
E qui Niso: «O signor, - disse, - di tanto
guiderdonate i perditori, e tale
di chi cade pietà vi prende; ed io
di pietà non son degno né di pregio,
io che son di fortuna a Salio eguale,
e di valore a tutti gli altri avanti?»
E ciò dicendo, sanguinoso il volto
e livido mostrossi e lordo tutto.
  Rise il buon padre Enea, poscia un pregiato
e degno scudo, ch'a le porte appeso
era già di Nettuno, ed ei riscosso
l'avea da' Greci, con mirabil arte
dal saggio Didimàone construtto,
venir tosto si fece, e Niso armonne.
  Finiti i corsi e dispensati i doni,
«Or - disse Enea - qual sia che vaglia ed osi
di forza e d'ardimento, al cesto invito.
Chïunque accetta, col suo braccio in alto
si mostri accinto». E ciò dicendo, in mezzo
propon due pregi: al vincitore un toro
di bende il tergo adorno e d'òr le corna:
un elmo ed un cimiero ed una spada
per conforto del vinto. Incontinente
uscio Darete poderoso in campo,
e con gran plauso si mostrò del volgo.
Era Darete un, che, di forze estreme,
fu solo ardito a star con Pari a fronte,
e che a la tomba del famoso Ettorre
in su l'arena il gran Bute distese:
e fu Bute un atleta, anzi un colosso,
di corpo immane, che in Bebrizia nato,
d'Àmico si vantava esser disceso.
Per tal da tutti avuto, e tal comparso
in su la lizza, altero ed orgoglioso
squassò la testa: e, i grandi omeri ignudo,
le muscolose braccia e 'l corpo tutto
brandí piú volte, e menò colpi a l'aura.
  Cercossi un pari a lui, né fu fra tanti
chi rispondesse, o che di cesto armato
s'appresentasse. Ond'ei lieto e sicuro,
come d'ogni tenzon libero fosse,
al toro avvicinossi, e 'l destro corno
con la sinistra sua gli prese, e disse:
«Signor, poiché non è chi meco ardisca
di stare a prova, a che piú bado? e quanto
badar piú deggio? Or di' che 'l pregio è mio
perch'io meco l'adduca». A ciò fremendo
assentirono i Teucri; e già co' gridi
de l'onor lo facean degno e del dono;
quando verso d'Entello il vecchio Aceste,
sí com'egli era in un cespuglio a canto,
si volse: e rampognando: «Ah, - disse - Entello,
tu sei pur fra gli eroi de' nostri tempi
il piú noto e 'l piú forte; e come soffri
ch'un sí gradito pregio or ti si tolga
senza contesa? Adunque è stato invano
fin qui da noi rammemorato e cólto
Èrice, in ciò nostro maestro e dio?
Ov'è la fama tua che ancor si spande
per la Trinacria tutta? Ove son tante
appese a i palchi tue famose spoglie?»
  Rispose Entello: «Né disio d'onore,
né vaghezza di gloria unqua, signore,
mi lasciâr mai, né mai viltà mi prese;
ma l'incarco de gli anni, il freddo sangue,
e la scemata mia destrezza e forza
mi ritraggono addietro. Io quando avessi
o men quei giorni, o non men quel vigore
onde costui di sé tanto presume,
già per diletto mio seco a le mani
sarei venuto, e non dal premio indotto,
ché premio non ne chero. E pur qui sono».
Disse, e sorgendo, due gran cesti e gravi
gittò nel campo, e quelli stessi, ond'era
solito a le sue pugne Èrice armarsi.
Stupîr tutti a quell'armi che di sette
dorsi di sette buoi, di grave piombo
e di rigido ferro eran conserti.
Stupí Darete in prima, e ricusolle
a viso aperto: onde d'Anchise il figlio
le prese avanti, e i lor volumi e 'l pondo
stava mirando, quando il vecchio Entello
cosí soggiunse: «Or che diria costui
se visto avesse i cesti e l'armi stesse
d'Ercole invitto, e l'infelice pugna,
onde in su questo lito Èrice cadde?
D'Èrice tuo fratello eran quest'armi.
Vedi che sono ancor di sangue infette
e d'umane cervella. Il grande Alcide
con queste Èrice assalse: e con quest'io
m'esercitai, mentre le forze e gli anni
eran piú verdi, e non canuti i crini.
Ma poscia che Darete or le rifiuta,
se piace a te, se mel consente Aceste
per cui son qui, di ciò, Troiano ardito,
non vo' che ti sgomenti. Io mi rimetto,
e cedo a queste; e tu cedi a le tue:
combattiam con altr'armi e siam del pari».
Cosí detto spogliossi; e sí com'era
de le braccia, de gli omeri e del collo
e di tutte le membra e d'ossa immane,
quasi un pilastro in su l'arena stette.
  Allora Enea fece due cesti addurre
d'ugual peso e grandezza; ed egualmente
ne fûro armati. In prima su le punte
de' piè l'un contra l'altro si levaro:
brandîr le braccia; ritirârsi in dietro
con le teste alte: in guardia si posaro
or questi, or quelli: al fine ambi ristretti
mischiâr le mani, ed a ferir si diêro.
Era giovine l'uno, agile e destro
in su le gambe: era membruto e vasto
l'altro, ma fiacco in su' ginocchi e lento,
e per lentezza (il fiato ansio scotendo
le gravi membra e l'affannata lena)
palpitando anelava. In molte guise
in van pria si tentaro, e molte volte
s'avvisâr, s'accennaro e s'investiro.
A le piene percosse un suon s'udia
de' cavi fianchi, un rintonar di petti,
un crosciar di mascelle orrendo e fiero.
Cadean le pugna a nembi, e vèr le tempie
miravan la piú parte; e s'eran vòte,
rombi facean per l'aria e fischi e vento.
  Stava Entello fondato; e quasi immoto,
poco de la persona, assai de gli occhi
si valea per suo schermo. A cui Darete
girava intorno, qual chi ròcca oppugna,
quantunque indarno, che per ogni via
con ogni arte la stringe e la combatte.
Alzò la destra Entello, ed in un colpo
tutto s'abbandonò contro Darete;
ed ei, che lo previde, accorto e presto
con un salto schivollo: onde ne l'aura
percosse a vôto, e dal suo pondo stesso
e da l'impeto tratto, a terra cadde.
Tal un alto, ramoso, antico pino
carco de' gravi suoi pomi si svelle
d'un cavo greppo, e con la sua ruina
d'Ida una parte, o d'Erimanto ingombra.
Allor gridò, gioí, temé la gente,
si com'eran de' Siculi e de' Teucri
gli animi e i vóti a i due compagni affetti.
Le grida al ciel ne giro. Aceste il primo
corse per sollevare il vecchio amico;
ma né dal caso ritardato Entello,
né da téma sorpreso, in un baleno
risurse e piú spedito e piú feroce;
ché l'ira, la vergogna e la memoria
del passato valor forza gli accrebbe.
Tornò sopra a Darete, e per lo campo
tutto a forza di colpi orrendi e spessi
lo mise in volta, or con la destra in alto,
or con la manca, senza posa mai
dargli, né spazio di fuggirlo almeno.
  Non con sí folta grandine percuote
oscuro nembo de' villaggi i tetti,
come con infiniti colpi e fieri
sopra Darete riversossi Entello.
Allor il padre Enea, l'un ritogliendo
da maggior ira, e l'altro da stanchezza
e da periglio, entrò nel mezzo; e prima
fermato Entello, a consolar Darete
si rivolse dicendo: «E che follia
ti spinge a ciò? Non vedi a cui contrasti?
Non senti e le sue forze e i numi avversi?
Cedi a dio, cedi». E, cosí detto, impose
fine a l'assalto. I suoi fidi compagni
cosí com'era afflitto, infranto e lasso,
col capo spenzolato, e con la bocca
che sangue insieme vomitava e denti,
lo portaro a le navi; e fu lor dato
l'elmo, il cimiero e la promessa spada.
Rimase al vincitor la palma e 'l toro,
di che lieto e superbo: «O de la dea -
disse - famoso figlio, e voi Troiani,
quinci vedete qual ne' miei verd'anni
fu la mia possa, e da qual morte aggiate
liberato Darete». E, ciò dicendo,
recossi anzi al giovenco, e 'l duro cesto
gli vibrò fra le corna. Al fiero colpo
s'aperse il teschio, si schiacciaron l'ossa,
schizzò 'l cervello; e 'l bue tremante e chino
si scosse, barcollò, morto cadé.
Ed ei soggiunse: «Èrice, a te quest'alma
piú degna di morire offrisco in vece
di quella di Darete, e vincitore
qui 'l cesto appendo, e qui l'arte ripongo».
  Immantinente Enea l'altra contesa
propon de l'arco, e i suoi premi dichiara.
Ma l'albero condur pria de la nave
fa di Sergesto, e ne l'arena il pianta:
suvvi una fune, e ne la fune appende
una viva colomba, e per bersaglio
la pon de le saette e degli arcieri.
Fêrsi i piú chiari avanti, e i nomi loro
del fondo si cavâr d'un elmo a sorte.
Uscio primiero Ippocoonte, il figlio
d'Irtaco generoso, a cui con lieto
grido la gente applause. A lui secondo
fu Memmo, che pur dianzi il pregio ottenne
del naval corso: e Memmo, sí com'era,
di verde oliva incoronato apparve.
Apparve Eurizio il terzo; ed era questi
minor, ma ben di te degno fratello,
Pàndaro glorïoso, che de' Teucri
rompesti i patti, e saettasti in mezzo
a l'oste greca il gran campione argivo.
Ultimo si restò de l'elmo in fondo
il vecchio Aceste, che sí vecchio anch'egli
ardí di porsi a giovenil contrasto.
Tesero gli archi, e trasser le quadrella
da le faretre. A tutti gli altri avanti
d'Irtaco il figlio a saettare accinto
col suon del nervo e del pennuto strale
l'aura percosse e sí dritto fendella
che l'albero investí. Tremonne il legno,
spaventossi l'augello; e d'alte grida
risonò 'l campo e la riviera tutta.
  Memmo vien dopo, e pon la mira, e scocca:
e 'l misero fra' piè colpisce appunto
in su la corda, e ne recide il nodo.
Libera la colomba a volo alzossi,
e per lo ciel veloce a fuggir diessi.
Eurizio allor, ch'avea già l'arco teso
e la cocca in sul nervo, al suo fratello
votossi, e trasse; e ne le nubi stesse
(sí come lieta se ne giva e sciolta)
la ferí sí che con lo strale a terra
cadde trafitta, e lasciò l'alma in cielo.
  Sol vi restava Aceste, a cui la palma
era già tolta: ond'ei scoccò ne l'alto
lo strale a vòto, e la destrezza e l'arte
mostrò nel gesto e nel sonar de l'arco.
Quinci subitamente un mostro apparve
di meraviglia e di portento orrendo;
come si vide, e come interpretato
fu poi da formidabili indovini.
Ché la saetta in su le nubi accesa
quanto volò, tanto di fiamma un solco
si trasse dietro, infin ch'ella nel foco,
e 'l foco in aura dileguossi e sparve.
Tal sovente dal ciel divelta cade
notturna stella, e trascorrendo lascia
dopo sé lungo e luminoso il crine.
A questo augurio attoniti i Sicani
e i Teucri tutti, umilemente a terra
gittârsi, ed agli dii pace chiedero.
Solo Enea per sinistro e per infausto
non l'ebbe; e 'l vecchio Aceste, che gioioso
era di ciò, gioiosamente accolse,
e molti doni appresentogli, e disse:
  «Prendi, padre, da me questi che scevri
dagli altri onori a te destina il cielo
con questi auspici, e questa coppa in prima,
un de' piú cari a me paterni arredi,
e caro e prezïoso al padre mio,
e per l'intaglio, e per la rimembranza
del buon re Cisso, che fra gli altri doni
questo in Tracia gli diè pegno e ricordo
de l'amor suo». Cosí dicendo, il fronte
gli ornò di verde alloro, e dichiarollo
vincitor primo. Né di ciò sentissi
il buon Eurizio offeso, ancor ch'ei solo
fosse de la colomba il feritore.
Di lui fu poscia il guiderdon secondo.
Chi recise la corda ottenne il terzo:
e l'ultim'ebbe chi confisse il legno.
Non era ancor questa contesa al fine,
quando in disparte Epítide chiamando
un che di Iulo era custode e guida:
«Va, - gli disse a l'orecchio, - e fa che Ascanio
si spinga avanti, se le schiere in punto
ha de' fanciulli, e ch'armeggiando onori
la memaria de l'avo». Impone intanto
che la gente s'apparti, e il circo tutto
quanto è largo si sgombri e quant'è lungo.
  Già si mettono in via; già nel cospetto
vengon de' padri i pargoletti eroi
su frenati destrier lucenti e vaghi.
Solo a veder gli abbigliamenti e i gesti,
ne sta di Troia e di Sicilia il volgo
meraviglioso, e ne gioisce e freme.
Parte ha di lor una ghirlanda in testa,
e sotto accolto e raccorciato il crine:
parte ha l'arco e 'l turcasso, e d'oro un fregio
che da le spalle attraversando il petto
sen va di serpe attorcigliato in guisa.
  Eran tutti in tre schiere; avean tre duci,
e ciascun duce conducea di loro
tre volte quattro, e 'n tre luoghi spartiti,
facean pomposa ed ordinata mostra.
L'una de le tre schiere avea per capo
Priamo novello, di Políte il figlio,
e di cui nome avea nipote illustre,
grand'acquisto d'Italia. Il suo destriero
era nato di Tracia d'un mantello
vario, balzàn d'un piè, stellato in fronte.
  Ati fu l'altro, onde i Latini han dato
nome a l'Attia famiglia: un fanciul caro
al garzonetto Iulo. Iulo il terzo,
ma di bellezza e di valore il primo,
cavalcava un corsier che sorïano
era di razza, e de la bella Dido
l'avea per un ricardo e per un pegno
de l'amor suo. Gli altri fanciulli tutti
eran d'Aceste in su' cavalli assisi.
  Con gran letizia, e con gran plauso i Teucri
gli ricevêr come che timidetti
fossero in prima, e le sembianze in loro
avvisaro e 'l valor de' padri stessi.
  Poscia che passeggiando al circo intorno
girârsi in lenta e grazïosa mostra,
si disposero al corso; e mentre accolti
se ne stavano a ciò schierati in fila
da l'un de' capi, Epítide da l'altro
diè lor col suon de la sua sferza il cenno.
Corsero a tre per tre, pari e disgiunti
l'una schiera da l'altra, e rivolgendo
tornâr di dardi e di saette armati.
Indi a cacciarsi, a rincontrarsi, a porsi
in varie assise, ad uno ad uno, a molti,
a tutti insieme, a far volte, rivolte,
e giri e mischie in piú modi si diêro;
or fuggendo, or seguendo; or come infesti
or come amici. In quante guise a zuffa
si viene in campo; in quante si discorre
per le molte intricate e cieche strade
del labirinto che si dice in Creta
esser costrutto; in tante s'aggiraro,
si confusero insieme, e si spartiro
de' Teucri i figli: e tali anco i delfini
per l'Iönio scherzando o per l'Egeo
fan giravolte e scorribande e tresche.
Questi tornïamenti e queste giostre
rinnovò poscia Ascanio, allor ch'eresse
Alba la lunga; appresongli i Latini;
gli mantenner gli Albani; e d'Alba a Roma
fur trasportati, e vi son oggi; e come
e l'uso e Roma e i giuochi derivati
son da' Troiani, hanno or di Troia il nome.
  Questi eran fino a qui del santo vecchio
celebrati al sepolcro onori e ludi,
allor che la fortuna ai Teucri infida
un nuovo storpio agl'infelici ordio:
ché mentre erano in ciò parte occupati,
e tutti intesi, la saturnia Giuno
da l'antico odio spinta, e de' lor danni
non ancor sazia, Iri coi vènti in prima
venir si fece; e poiché instrutta l'ebbe
di ciò ch'er'uopo, a la troiana armata
le commise ch'andasse. Ella veloce
infra mille suoi lucidi colori
occulta ed invisibile calossi.
Vide sul lito una gran gente accolta
da l'un de' lati; il porto abbandonato
da l'altro, e vòti e senza guardia i legni.
Vide poi che da gli uomini in disparte
stavan le donne d'Ilio, il morto Anchise
piangendo anch'esse; e ne' lor pianti il mare
mirando: «Oh - dicean tutte - ancor di tanto,
e con tanti perigli e tanti affanni
ne resta a navigarlo, e siam già vinte
da la stanchezza!», in ciò desio mostrando
di ricetto e di posa, e téma e tedio
di rimbarcarsi. Ella, che a nuocer luogo
e tempo vide accomodato ed atto,
deposto de la dea l'abito e 'l volto,
tra lor si mise, e Bèröe si fece,
una vecchia d'aspetto e d'anni grave,
che del tracio Doríclo era già moglie,
di famiglia, di nome e di figliuoli
matrona illustre; e, tal sembrando, disse:
  «O meschinelle, a cui per man de' Greci
non fu sotto Ilio di morir concesso,
gente infelice, a che strazio, a che scempio
la fortuna vi serba! Ecco già volge
il settim'anno, da che Troia cadde,
che 'l mar, la terra, il ciel, gli uomini, i sassi
avete incontro; e pur Lazio seguite
che vi fugge davanti? Or che vi toglie
di qui fermarvi? Non fûr questi liti
d'un già frate d'Enea? Non son d'Aceste,
ospite nostro? E perché qui non s'erge
la città che dal ciel ne si destina?
O patria! o da' nemici invan ritolti
santi numi Penati! Invano adunque
aspetterem de la novella Troia
le desïate mura! e non fia mai
che piú Xanto veggiamo e Simoenta?
Su, figlie; mano al foco; e queste infauste
navi ardete con me: ch'io da Cassandra
di cosí far son ammonita in sogno.
Ella con un'ardente face in mano
questa notte m'apparve, e m'era avviso
d'esser, com'or son, vosco, e ch'ella vòlta
vêr noi: "Prendete, - ne dicesse - e Troia
cercate qui; ché qui posar v'è dato".
Or questa è nostra patria, e questo è 'l tempo
di compir l'opra che 'l prodigio accenna.
Piú non s'indugi. Ecco Nettuno stesso
con questi quattro a lui sacrati altari
ne dà l'occasïon, l'animo e 'l foco».
  Ciò disse; ed ella in prima un tizzo ardente
rapí da l'are; e 'l braccio alto vibrando
via piú l'accese, e vèr le navi il trasse.
  Confuse ne restaro e stupefatte
le donne d'Ilio; e Pirgo, una di loro
ch'era d'anni maggiore, e fu di molti
figli del gran re Prïamo nutrice:
«Donne, - disse - non è, non è costei
né Troiana, né Bèröe, né moglie
fu di Doríclo: è dea. Notate i segni:
com'arde ne la vista, e quali spira
ne l'andar, ne la voce e nel sembiante
celesti onori. Io pur testé mi parto
da Bèröe, che, di corpo egra, languendo
stassi, e sdegnando che a quest'atto sola
nosco non intervenga». E qui si tacque.
  Le madri paventose e dubbie in prima
con gli occhi biechi rimirâr le navi,
sospese le meschine infra l'amore
di godersi la terra, e la speranza
che perdean de' reami, a cui chiamate
eran dal fato. Intanto alto in su l'ali
la dea levossi, e tra le opache nubi
per entro al suo grand'arco ascese, e sparve.
  Allor dal mostro spaventate, e spinte
da cieca furia, s'avventâr gridando:
e di faci e di frondi e di virgulti
spogliaro altre gli altari, altre infocaro
i legni sí che in un momento appresi
i banchi, i remi e l'impeciate poppe
mandâr fiamme e scintille e fumo al cielo.
Portò di questo incendio Eumelo avviso
là 've al sepolcro era la gente accolta,
e de l'incendio stesso un atro nembo
ne diè fumando e scintillando indizio.
  Ascanio il primo (sí com'era avanti,
duce del corso) al mar si spinse in guisa
che i suoi maestri impallidîr per téma,
e richiamando lo seguiro in vano.
Giunto che fu: «Che furor - disse - è questo?
Dove, dove ne gite? e che tentate,
misere cittadine? Ah! che non questi
de' Greci i legni o gli steccati sono.
Voi di voi stesse le speranze ardete.
Io sono il vostro Ascanio». E qui l'elmetto,
onde a la giostra era comparso armato,
gittossi a' piè. Córsevi intanto Enea:
vi corsero de' Teucri e de' Sicani
le schiere tutte. Allor per téma sparse
le donne per lo lito e per le selve
se ne fuggiro, ed appiattârsi ovunque
ebber di rupi o di spelonche incontro:
ché, pentite del fallo, odiâr la luce,
cangiâr pensieri, e con l'amor de' suoi
Iri del petto disgombrârsi e Giuno.
  Ma non però l'indomito furore
cessò del foco; ché la secca stoppa,
e l'unta pece, e gli aridi fomenti
l'avean fin dentro a le giunture appreso;
onde nel molle, ancor vivo, esalava
un lento fumo, e penetrava i fondi
sí ch'ogni forza, ogni argomento umano,
e 'l mare stesso, che da tante genti
sopra gli si versava, erano in vano.
  Squarciossi Enea da gli omeri la veste
ch'avea lugúbre, e da' celesti aíta
chiedendo, al ciel volse le palme, e disse:
  «Onnipotente Giove, se de' Teucri
ancor non t'è, senza riservo, in ira
la gente tutta, e se, qual sei, pietoso
miri gli umani affanni, a tanto incendio
ritogli, padre, i male addotti legni;
ritogli a morte queste poche afflitte
reliquie de' Troiani; o quel che resta
tu col tuo proprio tèlo, e di tua mano
(se tale è il merto mio) folgora e spegni».
  Ciò disse a pena, che da torbidi Austri,
e da nera tempesta il cielo involto
in disusata pioggia si converse.
Tremaro i campi, si crollaro i monti
al suon de' tuoni: a cateratte aperte
traboccâr da le nubi i nembi e i fiumi.
Cosí sotto dal mar, sovra dal cielo
le già quasi arse navi in mezzo accolte
furon da l'acque: onde le fiamme in prima,
poscia il vapor s'estinse, e tutte spente,
se non se quattro, si salvaro al fine.
  Di sí fero accidente Enea turbato,
molti e gravi pensier tra sé volgendo,
stava infra due, se per suo novo seggio
(posto il fato in non cale) ei s'eleggesse
de la Sicilia i campi, o pur di lungo
cercasse Italia. In ciò Naute, un vecchione,
ch'era (mercé di Pallade e degli anni)
di molta esperïenza e di gran senno,
o fosse ira di dio che lo movesse,
o pur ch'era cosí nel ciel prescritto,
in cotal guisa a suo conforto disse:
  «Magnanimo signor, comunque il fato
ne tragga o ne ritragga, e che che sia,
vincasi col soffrire ogni fortuna.
Aceste è qui, ch'è del dardanio seme
e di stirpe celeste un ramo anch'egli.
Prendi lui per compagno al tuo consiglio,
e con lui ti confedera e t'aduna,
che in grado prenderallo; e tu de' tuoi
ciò che t'avanza per gli adusti legni,
o fastidito è di sí lungo esiglio,
o che langua o che tema, o che sia manco
per etate o per sesso, a lui si lasci,
ch'è pur troiano; ed ei lor patria assegni,
che dal nome di lui si nomi Acesta».
  S'accese al detto del suo vecchio amico
il troian duce; e trapassando d'uno
in un altro pensiero, era già notte,
quando l'imago del suo padre Anchise
veder gli parve, che dal ciel discesa
in tal guisa dicesse: «O figlio, amato
vie piú de la mia vita infin ch'io vissi,
figlio, che segno sei de le fortune,
e del fato di Troia, io qui mandato
son dal gran Giove, che dal ciel pietoso
ti mirò dianzi, e i tuoi legni ritolse
da l'orribile incendio. Attendi al detto
del vecchio Naute, e ne l'Italia adduci
(sí come ei fedelmente ti consiglia)
de la tua gioventú soli i piú scelti,
i piú sani, i piú forti e i piú famosi,
ch'ivi aspra gente e ruvida e feroce
domar convienti. Ma convienti in prima
per via d'Averno, ne l'inferno addurti,
e meco ritrovarti, ov'ora io sono,
figlio, non già nel Tartaro, o fra l'ombre
de le perdute genti; ma felice
tra i felici e tra' pii, per quelli ameni
elisi campi mi diporto e godo.
A questi lochi, allor che molto sangue
avrai di negre pecorelle sparso,
ti condurrà la vergine Sibilla.
Ivi conto saratti il tuo legnaggio,
e 'l tuo seggio fatale: e qui ti lascio,
già che varcato è de la notte il mezzo,
e del nimico sol dietro anelando
i veloci destrier venir mi sento».
E ciò dicendo, allontanossi e sparve.
  «Dove, padre, ne vai, dove t'ascondi? -
dicendo Enea, - chi fuggi? o chi ti toglie
da le mie braccia?» al già sopito foco
si trasse, e lo raccese; e incenso e farro
offrí devoto ai sacrosanti numi
de l'alma Vesta e de' suoi patrii Lari.
  Indi i compagni, e pria di tutti Aceste,
de l'imperio di Giove e de' ricordi
del caro padre incontinente avvisa,
e 'l suo parer ne porge. In un momento
si propon, si consulta, e s'eseguisce.
Aceste non recusa; e già descritti
i nomi de le madri, degl'infermi,
e de le genti che mestiero o cura
avean piú di riposo che di lode,
essi pochi, ma scelti, e guerrier tutti,
rivolti a risarcir gli adusti legni,
rinnovaron le sarte, i remi, i banchi,
e ciò che 'l foco avea corroso ed arso.
  Enea de la città le mura intanto
insolca, e i lochi assegna; e parte Troia,
e parte Ilio ne chiama, e re n'appella
il buon troiano Aceste. Ei lieto il carco
ne prende; indíce il fòro, elegge i padri,
ode, giudica e manda. Allora in cima
de l'Ericinio giogo il gran delúbro
surse a Venere idalia: e i sacerdoti
gli si addissero in prima. Allor s'aggiunse
al tumulo d'Anchise il sacro bosco.
  Avea già nove dí fatti solenni
sarifici e conviti; e 'l mare e i vènti
eran placidi e queti. Austro sovente
spirando, in alto i lor legni invitava,
quando un pianto dirotto per lo lito
levossi, un condolersi, un abbracciarsi
che tutto il dí durò, tutta la notte.
Le meschinelle donne, e quegli stessi,
cui dianzi spaventosa era la faccia
e 'l nome intollerabile del mare,
voglion di nuovo ogni marin disagio
soffrire, e de l'esiglio ogni fatica.
Ma li racqueta e li consola Enea
con dolci modi, e lagrimando alfine
da lor si parte, ed al suo caro Aceste
quanto può caramente gli accomanda.
Poscia, fatta al grand'Èrice in sul lito
di tre giovenchi offerta, e d'un'agnella
a le Tempeste, si rimbarca e scioglie.
Ed ei stesso altamente in su la proda,
cinto il capo d'oliva, una gran tazza
in man si reca, e di lenèo liquore
e di viscere sacre il mare asperge.
  Sorgea da poppa il vento, e le sals'onde
ne gian solcando i remiganti a gara,
quando del figlio Citerea gelosa
Nettuno assalse, e seco querelossi
in cotal guisa: «La grav'ira e l'odio
di Giuno insazïabile m'inchina
ad ogni priego; poscia che né 'l tempo,
né la pietà, né Giove, né 'l destino
acquetar non la ponno. E non le basta
d'aver già Troia desolata ed arsa,
che le reliquie, il nome e l'ossa e 'l cenere
ne perseguita ancora. Ella ne sappia,
ella ne dica la cagione. Io chiamo
te per mio testimon de l'improvisa
micidïal tempesta che pur dianzi
per mezzo de l'eolide procelle
mosse lor contra (tua mercede) invano.
Or ha l'iniqua per le mani stesse
de le teucre matrone i teucri legni
dati sí bruttamente al foco in preda,
perché i meschini, arse le navi loro,
sian di lasciare i lor compagni astretti
per le terre straniere. Or quel che resta,
e ch'a te chieggo, è che il tuo regno omai
sia lor sicuro, e ch'una volta alfine
tocchin del Tebro e di Laurento i campi:
se però quel ch'io chieggo è che dal cielo
al mio figlio si debba, e se quel seggio
ne dan le Parche e 'l Fato». A lei de l'onde
rispose il domatore: «Ogni fidanza
prender puoi, Citerea, ne' regni miei
onde tu pria nascesti. E non son pochi
ancor teco i miei merti; ché piú volte
ho per  Enea l'ira e il furore estinto
e del mare e del cielo. Ed anco in terra
non ebb'io (Xanto e Simoenta il sanno)
de la salute sua cura minore,
allor ch'Achille a le troiane schiere
sí parve amaro, e che fin sotto al muro
le cacciò d'Ilio, e tal di lor fe' strage,
che ne gîr gonfi e sanguinosi i fiumi:
e Xanto da' cadaveri impedito
sboccò ne' campi, e deviò dal mare.
Era quel giorno Enea d'Achille a fronte,
né dii, né forze avea ch'a lui del pari
stessero incontro. Io fui che ne la nube
allor l'ascosi; io che di man ne 'l trassi,
quando piú d'atterrar avea desio
quelle mura odïose e disleali,
che pur de le mie mani eran fattura.
Or ti conforta che vèr lui son io
qual fui mai sempre, e come agogni, il porto
attingerà sicuramente; e 'l lago
vedrà d'Averno, e de' suoi tutti un solo
gli mancherà. Sol un convien che pèra
per condur gli altri suoi lieti e sicuri».
  Poiché di Citerea la mente queta
ebbe de l'onde il padre, i suoi cavalli
giunti insieme e frenati, a lente briglie
sovra de l'alto suo ceruleo carro
abbandonossi, e lievemente scórse
per lo mar tutto. S'adeguaron l'onde,
si dileguâr le nubi: ovunque apparve,
tutto sgombrossi, del suo corso al suono,
ch'avea di torbo il ciel, di gonfio il mare.
  Cingean Nettuno allor da la man destra
torme di pistri e di balene immani,
di Glauco il vecchio coro, e d'Ino il figlio,
e i veloci Tritoni, e tutto insieme
lo stuol di Forco. Da sinistra intorno
gli era Teti, Melite e Panopèa,
Spïo, Nisea, Cimòdoce e Talía.
  Qui per l'amara dipartenza afflitto,
il padre Enea rasserenossi in parte,
e ciò che a navigar facea mestiero
gioiosamente a' suoi compagni impose.
Tirâr l'antenne, inalberâr le vele,
sciolsero, ammaïnâr, calaro, alzaro,
fêr le marinaresche lor bisogne
tutti in un tempo, ed in un tempo insieme
drizzâr le prore al mar, le poppe al vento.
Innanzi a tutti con piú legni in frotta
gia Palinuro, il provvido nocchiero,
e gli altri dietro lui di mano in mano.
  Era l'umida notte a mezzo il cerchio
del ciel salita, e già languidi e stanchi
su i duri legni i naviganti agiati
prendean quïete; quando ecco da l'alte
stelle placido e lieve il Sonno sceso
si fece quanto avea d'aëre intorno
sereno e queto: e te, buon Palinuro,
senza tua colpa, insidïoso assalse,
portando a gli occhi tuoi tenebre eterne.
Ei di Forbante, marinaro esperto,
presa la forma, come noto, appresso
in su la poppa gli si pose, e disse:
«Tu vedi, Palinuro: il mar ne porta
con le stesse onde, e 'l vento ugual ne spira.
Temp'è che pòsi omai: china la testa,
e fura gli occhi a la fatica un poco,
poscia ch'io son qui teco, e per te veglio».
  Cui Palinuro, già gravato il ciglio,
cosí rispose: «Ah! tu non credi adunque
ch'io conosca del mar le perfid'onde,
e 'l falso aspetto? A tale infido mostro
ch'io fidi il mio signore e i legni suoi?
ch'al fallace sereno, a i vènti instabili
presti fede io, che son da lor deluso
già tante volte? E, ciò dicendo, avea
le man ferme al timon, gli occhi a le stelle.
  Il Sonno allora di letèo liquore
e di stigio veleno un ramo asperso
sovra gli scosse, e l'una tempia e l'altra
gli spruzzò sí che gli occhi ancor rubelli
gli strinse, gli gravò, gli chiuse al fine.
  A pena avean le prime gocce infusa
la lor virtú, che 'l buon nocchier disteso
ne giacque: e 'l dio col suo mentito corpo
sopra gli si recò, pinse e sconfisse
un gheron de la poppa, e lui con esso
e col temon precipitò nel mare.
Né gli valse a gridar, cadendo, aíta;
ché l'un qual pesce, e l'altro qual augello,
questi ne l'onda, e quei ne l'aura sparve.
Né l'armata ne gio però men ratta,
né men sicura; ché Nettuno stesso,
come promesso avea, la resse e spinse.
  Era delle Sirene omai solcando
giunta agli scogli, perigliosi un tempo
a' naviganti; onde di teschi e d'ossa
d'umana gente si vedean da lunge
biancheggiar tutti. Or sol, di canti in vece,
se n'ode un roco suon di sassi e d'onde.
Era, dico, qui giunta, allor ch'Enea
al vacillar del suo legno s'accorse
che di guida era scemo e di temone:
ond'egli stesso, infin che 'l giorno apparve,
se ne pose al governo, e 'l caso indegno
del caro amico in tal guisa ne pianse:
«Troppo al sereno, e troppo a la bonaccia
credesti, Palinuro. Or ne l'arena
dal mar gittato in qualche strano lito
ignudo e sconosciuto giacerai,
né chi t'onori avrai, né chi ti copra».

 

Libro VI

 

Cosí piangendo disse: e navigando
di Cuma in vèr l'euboïca riviera
si spinse a tutto corso, onde ben tosto
vi furon sopra, e v'approdaro alfine.
Volser le prue, gittâr l'ancore; e i legni,
sí come stêro un dopo l'altro in fila,
di lungo tratto ricovrîr la riva.
  Lieta la gioventú nel lito esperio
gittossi: ed in un tempo al vitto intesi,
chi qua, chi là si diêro a picchiar selci,
a tagliar boschi, a cercar fiumi e fonti.
Intanto Enea verso la ròcca ascese,
ove in alto sorgea di Febo il tempio,
e là dov'era la spelonca immane
de l'orrenda Sibilla, a cui fu dato
dal gran delio profeta animo e mente
d'aprir l'occulte e le future cose.
  Avea di Trivia già varcato il bosco,
quando avanti di marmo ornato e d'oro
il bel tempio si vide. È fama antica
che Dedalo, di Creta allor fuggendo
ch'ebbe ardimento di levarsi a volo
con piú felici e con piú destre penne
che 'l suo figlio non mosse, il freddo polo
vide piú presso; e per sentier non dato
a l'uman seme, a questo monte alfine
del calcidico seno il corso volse.
Qui giunto e fermo, a te, Febo, de l'ali
l'ordigno appese, e 'l tuo gran tempio eresse,
ne le cui porte era da l'un de' lati
d'Andrògëo la morte, e quella pena
che di Cècrope i figli a dar costrinse
sette lor corpi a l'empio mostro ogn'anno:
miserabil tributo! e v'era l'urna,
onde a sorte eran tratti. Eravi Creta
da l'altro lato, alto dal mar levata,
ch'avea del tauro istorïata intorno
e di Pasífe il bestïale amore,
e la bestia di lor nata biforme,
di sí nefando ardor memoria infame.
Eravi l'intricato laberinto:
eravi il filo, onde gl'intrighi suoi
e le sue cieche vie Dedalo stesso,
per pietà ch'ebbe a la regina, aperse.
E tu, se 'l pianto del tuo padre e 'l duolo
nol contendea, saresti, Icaro, a parte
di sí nobil lavoro. Ma due volte
tentò ritrarti in oro, ed altrettante
sí l'abborrí, che l'opera e lo stile
di man gli cadde. Era con gli altri Enea
tutto a mirar sospeso, quando Acate
tornò, ch'era precorso, e seco addusse
Deïfobe di Glauco, una ministra
di Dïana e d'Apollo. Ella rivolta
al frigio duce: «Non è tempo, - disse, -
ch'a ciò si badi. Or è d'offrir mestiero
sette non domi ancor giovenchi, e sette
negre pecore elette». E ciò spedito
tosto, come s'impose, ella nel tempio
seco i Teucri condusse. È da l'un canto
dell'euboïca rupe un antro immenso
che nel monte penètra. Avvi d'intorno
cento vie, cento porte; e cento voci
n'escono insieme, allor che la Sibilla
le sue risposte intuona. Era a la soglia
il padre Enea, quando: «Ora è 'l tempo - disse
la vergine. - Di', di'; chiedi tue sorti:
ecco lo dio ch'è già comparso e spira».
Ciò dicendo, de l'antro in su la bocca
in piú volti cangiossi e in piú colori;
sconmpigliossi le chionme; aprissi il petto;
le batté 'l fianco, e 'l cor di rabbia l'arse.
Parve in vista maggior; maggior il tuono
fu che d'umana voce; e poiché 'l nume
piú le fu presso: «A che badi, - soggiunse -
figlio d'Anchise? Se non di', non s'apre
questa di Febo attonita cortina».
E qui si tacque. Orror per l'ossa e gelo
corse allor de' Troiani; e 'l teucro duce
infin de l'imo petto orò dicendo:
  «Febo, la cui pietà mai sempre a Troia
fu propizia e benigna, onde di Pari
già reggesti la man, drizzasti il tèlo
contro al corpo d'Achille, io, dal tuo lume
scòrto fin qui, tanto di mare ho corso,
tante terre ho girate, a tanti rischi
mi son esposto; insino a le remote
massíle genti, insin dentro a le Sirti
son penetrato; ed or, per tua mercede,
di questa fuggitiva Italia il lito
ecco già tocco, e ci son giunto al fine.
Ah, che questo sia il fine, e qui rimanga
l'infortunio di Troia! È tempo omai,
dii tutti e dee, cui la dardania gente
unqua fece onta, che perdono e pace
le concediate. E tu, vergine santa,
del futuro presaga, or ne dimostra
il seggio e 'l regno che ne dànno i fati
(se pur nel dànno) ove i Troiani afflitti,
ove di Troia i travagliati numi,
e i dispersi Penati alberghi e posi;
ch'allor di saldo marmo a Trivia, a Febo
ergerò i templi, e del suo nome i ludi
consacrerolli, e i dí fèsti e solenni;
ed ancor tu nel nostro regno avrai
sacri luoghi reposti, ove serbati
per lumi e specchi a le future genti
da venerandi a ciò patrizi eletti
saranno i detti e i vaticini tuoi.
Quel che prima ti chieggio è che i tuoi carmi
s'odan per la tua lingua, e non che in foglie
sian da te scritti, onde ludibrio poi
sian di rapidi vènti». E piú non disse.
  Ella già presa, ma non doma ancóra
dal febèo nume, per di sotto trarsi
a sí gran salma, quasi poltra e fiera
scapestrata giumenta, per la grotta
imperversando e mugolando andava.
Ma com' piú si scotea, piú dal gran dio
era affrenata, e le rabbiose labbia
e l'efferato core al suo misterio
piú mansueto e piú vinto rendea.
Eran da lor già della grotta aperte
le cento porte, allor ch'ella gridando
cosí mandò la sua risposta a l'aura:
  «Compíti son del mar tutti i pericoli;
restan quei de la terra, che terribili
saran veracemente e formidabili.
Verranno i Teucri al regno di Lavinio:
di ciò t'affido. Ma ben tosto d'esservi
si pentiranno. Guerre, guerre orribili
sorger ne veggio, e pien di sangue il Tevere.
Saravvi un altro Xanto, un altro Simoi,
altri Greci, altro Achille, che progenie
ancor egli è di dea. Giuno implacabile
allor piú ti sarà, che supplichevole
andrai d'Italia a quai non terre o popoli
d'aíta mendicando e di sussidii!
E fian di tanto mal di nuovo origine
d'esterna moglie esterne sponsalizie.
Ma 'l tuo cor non paventi, anzi con l'animo
supera le fatiche e gl'infortunii;
ché tua salute ancor da terra argolica
(quel che men credi) avrà lume e principio».
  Questi intricati e spaventosi detti
dal piú reposto loco alto mugghiando,
la cumèa profetessa empiea lo speco
d'orribil tuoni: e come il suo furore
era da Febo raffrenato o spinto,
o dal suo raggio avea barbaglio o lume,
cosí miste le tenebre col vero
sciogliea la lingua, e disgombrava il petto.
Poiché la furia e la rabbiosa bocca
quetossi, Enea ricominciando, disse:
«Vergine, a me nulla si mostra omai
faccia né di fatica né d'affanno,
che mi sia nuova, o non pensata in prima.
Tutto ho previsto, tutto ho presentito,
che da te m'è predetto; e tutto io sono
a soffrir preparato. Or sol ti chieggio
(poscia che qui si dice esser l'intrata
de' regni inferni, e d'Acheronte il lago)
che per te quinci nel cospetto io venga
del mio diletto padre; e tu la porta,
tu 'l sentier me ne mostra, e tu mi guida.
Io lui dal fuoco e da mill'armi infeste
tratto ho di mezzo a le nimiche schiere
su queste spalle; ed ei scorta e compagno
del mio viaggio e del mio esiglio, meco
i perigli, i disagi e le tempeste
del mar, del cielo e de l'età soffrendo,
vèglio, debile e stanco ha me seguíto;
ed egli stesso m'ha nel sonno imposto
che a te ne venga, e per tuo mezzo a lui
mi riconduca. Abbi pietà, ti priego,
e del padre e del figlio; ed ambi insieme,
come puoi (che puoi tutto), or ne congiungi:
ch'Ècate non indarno a queste selve
t'ha d'Averno preposta. Il tracio Orfeo
(sola mercé de la sonora cetra)
scender potevvi, e richiamarne in vita
l'amata donna. Ne poté Polluce
ritrarre il frate, ed a vicenda seco
vita e morte cangiando, irvi e redirvi
tante fïate. Andovvi Tèseo; andovvi
il grande Alcide; ed ancor io dal cielo
traggo principio, e son da Giove anch'io».
  Cosí pregando avea le braccia avvinte
al sacro altare, allor che la Sibilla
a dir riprese: Enea, germe del cielo,
lo scender ne l'Averno è cosa agevole
ché notte e dí ne sta l'entrata aperta;
ma tornar poscia a riveder le stelle,
qui la fatica e qui l'opra consiste.
Questo a pochi è concesso, ed a quei pochi
ch'a Dio son cari, o per uman valore
se ne poggiano al cielo. A questi è dato
come a' celesti. Il loco tutto in mezzo
è da selve intricato, e da negre acque
de l'infernal Cocíto intorno è cinto.
Ma se tanto disio, se tanto amore
t'invoglia di veder due volte Stige
e due volte l'abisso, e soffrir osi
un cosí grave affanno, odi che prima
oprar convienti. È ne la selva opaca,
tra valli oscure e dense ombre riposto
e ne l'arbore stesso un lento ramo
con foglie d'oro, il cui tronco è sacrato
a Giuno inferna: e chi seco divelto
questo non porta, ne' secreti regni
penetrar di Plutone unqua non pote.
Ciò la bella Prosèrpina comanda,
che per suo dono il chiede; e svèlto l'uno,
tosto l'altro risorge, e parimente
ha la sua verga e le sue chiome d'oro.
Entra nel bosco, e con le luci in alto
lo cerca, il trova, e di tua man lo sterpa;
ch'agevolmente sterperassi, quando
lo ti consenta il fato. In altra guisa
né con man, né con ferro, né con altra
umana forza mai fia che si schianti,
o che si tronchi. Oltre di ciò, nel lito
(mentre qui badi e la risposta attendi)
giace, lasso! d'un tuo, che tu non sai,
disanimato e non sepolto un corpo,
che tutti rende i tuoi legni funesti.
A questo procurar seggio e sepolcro
pria converratti. Or per sua purga in prima
negre pecore adduci; e 'n cotal guisa
vedrai gli elisi campi, e i stigi regni
cui vedere a' mortali anzi a la morte
non è concesso». E qui la bocca chiuse.
  Enea gli occhi abbassando, afflitto e mesto
de l'antro uscio, tra se stesso volgendo
l'oscure profezie. Giva con lui
il fido Acate, e con lui parimente
traea pensieri e passi. Erano entrambi
ragionando in pensar di qual amico,
di qual corpo insepolto ella parlasse,
che coprir si dovesse: allor che giunti
nel secco lito in su l'arena steso
vider Miseno indegnamente estinto;
Miseno il figlio d'Eolo, ch'araldo
era supremo e col suo fiato solo
possente a suscitar Marte e Bellona.
Era costui del grand'Ettòr compagno,
e de' piú segnalati intorno a lui
combattendo, or la tromba ed or la lancia
adoperava: e poi che 'l fiero Achille
Ettore ancise, come ardito e fido,
seguí l'arme d'Enea: ché non fu punto
inferiore a lui. Stava sul mare
sonando il folle con Tritone a gara,
quando da lui, ch'astio sentinne e sdegno
(se creder dêssi), insidïosamente
tratto giú da lo scoglio ov'era assiso,
fu ne l'onde sommerso. Al corpo intorno
convocati già tutti, amaro pianto
ed alte strida insieme ne gittaro;
e piú de gli altri Enea. Poscia seguendo
quel ch'era lor da la Sibilla imposto,
gli apprestaron l'esequie. Entrâr nel bosco,
di fere antico albergo; ed elci ed orni
e frassini atterrando, alzâr gli altari;
poser la tomba, fabbricâr la pira,
e la spinsero al cielo. Il frigio duce
fra le sue schiere di bipenne armato
a par degli altri, e piú di tutti ardente,
di propria mano adoperando, a l'opra
esortava i compagni; e fra se stesso
pensoso, inverso il bosco il guardo inteso,
cosí pregava: «Oh se quel ramo d'oro
ne si scoprisse in questa selva intanto,
come n'ha la Sibilla, ahimè, pur troppo
di te, Miseno, annunzïato il vero!»
  Ciò disse a pena, ed ecco da traverso
due colombe venir dal ciel volando,
ch'avanti a lui sul verde si posaro.
Conobbe il magno eroe le messaggiere
de la sua madre, e lieto orando: «O, - disse, -
siatemi guide voi, materni augelli,
s'a ciò sentier si truova; ite per l'aura
drizzando il nostro corso, ov'è de l'ombra
del prezïoso arbusto il bosco opaco.
E tu, madre benigna, in sí dubbioso
passo, del lume tuo ne porgi aíta».
E, ciò detto, fermossi. Elle pascendo,
andando, saltellando, a scosse, a volo,
quanto l'occhio scorgea, di mano in mano
giunsero ove d'Averno era la bocca:
e 'l tetro alito suo schivando, in alto
ratte l'ali spiegaro, e dal ciel puro
al desïato loco in giú rivolte,
si posâr sopra a la gemella pianta;
indi tra frondi e frondi il color d'oro,
che diverso dal verde uscia raggiando,
di tremulo splendor l'aura percosse.
  Come ne' boschi al brumal tempo suole
di vischio un cesto in altrui scorza nato
spiegar verdi le frondi e gialli i pomi,
e con le sue radici ai non suoi rami
abbarbicarsi intorno; cosí 'l bronco
era de l'oro avviticchiato a l'elce,
ond'era surto, e cosí lievi al vento
crepitando movea l'aurate foglie.
Tosto che 'l vide Enea, di piglio dielli,
e disïoso, ancor che duro e valido
gli sembrasse, a la fin lo svelse; e seco
a l'indovina vergine lo trasse.
  Non s'intermise di Miseno in tanto
condur l'esequie al suo cenere estremo.
E primamente la gran pira estrutta,
di pingui tede e di squarciati roveri
v'alzâr cataste: di funeste frondi,
d'atri cipressi ornâr la fronte e i lati,
e piantâr ne la cima armi e trofei.
Parte di loro al foco, e parte a l'acque,
e parte intorno al freddo corpo intenti,
chi lo spogliò, chi lo lavò, chi l'unse.
  Poiché fu pianto, in una ricca bara
lo collocaro, e di purpuree vesti
de' suoi piú noti e piú graditi arnesi
gli feron fregi e mostre e monti intorno.
Altri (pietoso e tristo ministero)
il gran feretro agli omeri addossârsi;
altri, com'è de' piú stretti congiunti
antica usanza, vòlti i volti indietro,
tenner le faci, e diêr foco a la pira;
e gran copia d'incenso e di liquori
e di cibi e di vasi ancor con essi,
sí come è l'uso antico, entro gittârvi.
  Poiché cessâr le fiamme, e 'ncenerissi
il rogo e 'l corpo; le reliquie e l'ossa
furon da Corinèo tra le faville
ricerche e scelte; e di vin puro asperse,
poi di sua mano acconciamente in una
di dorato metallo urna reposte.
Lo stesso Corinèo tre volte intorno
con un rampollo di felice oliva
spruzzando di chiar'onda i suoi compagni,
li purgò tutti, e 'l vale ultimo disse.
Oltre a ciò, fece Enea per suo sepolcro
ergere un'alta e sontuosa mole,
e l'armi e 'l remo e la sonora tuba
al monte appese, che d'Aërio il nome
fino allor ebbe, ed or da lui nomato
Miseno è detto, e si dirà mai sempre.
Ciò finito, a finir quel che gl'impose
la profetessa, incontinente mosse.
  Era un'atra spelonca, la cui bocca
fin dal baratro aperta, ampia vorago
facea di rozza e di scheggiosa roccia.
Da negro lago era difesa intorno,
e da selve ricinta annose e folte.
Uscia de la sua bocca a l'aura un fiato
anzi una peste, a cui volar di sopra
con la vita agli uccelli era interdetto;
onde da' Greci poi si disse Averno.
  Qui pria quattro giovenchi Enea condotti
di negro tergo, la Sibilla in fronte
riversò lor di vin le tazze intere;
e da ciascun di mezzo le due corna
di setole maggiori il ciuffo svèlto,
diè per saggio primiero al santo foco,
Ecate ad alta voce in ciò chiamando,
de l'Erebo e del ciel nume possente.
Parte di lor con le coltella in mano
le vittime svenando, e parte in vasi
stava il sangue accogliendo. Egli a la Notte,
che de le Furie è madre, ed a la Terra
ch'è sua sorella, con la propria spada
di negro vello un'agna, ed una vacca
sterile a te, Proserpina, percosse.
Poscia a l'imperador de' regni inferni
notturni altari ergendo, i tauri interi
sopra a le fiamme impose, e di pingue olio
le bollenti lor viscere consperse.
  Ed ecco a l'apparir del primo sole
mugghiò la terra, si crollaro i monti,
si sgominâr le selve, urlâr le Furie
al venir de la dea». «Via, via profani, -
gridò la profetessa, - itene lunge
dal bosco tutto; e tu meco te n'entra,
e la tua spada impugna. Or d'uopo, Enea,
fa d'animo e di cor costante e fermo».
Ciò disse, e da furor spinta, con lui,
ch'adeguava i suoi passi arditamente,
si mise dentro a le secrete cose.
  O dii, che sopra l'alme imperio avete,
o tacit'ombre, o Flegetonte, o Cao,
o ne la notte e nel silenzio eterno
luoghi sepolti e bui, con pace vostra
siami di rivelar lecito a' vivi
quel ch'ho de' morti udito. Ivan per entro
le cieche grotte, per gli oscuri e vòti
regni di Dite; e sol d'errori e d'ombre
avean rincontri: come chi per selve
fa notturno viaggio, allor che scema
la nuova luna è da le nubi involta,
e la grand'ombra del terrestre globo
priva di luce e di color le cose.
  Nel primo entrar del doloroso regno
stanno il Pianto, l'Angoscia, e le voraci
Cure, e i pallidi Morbi e 'l duro Affanno
con la debil Vecchiezza. Evvi la Téma,
evvi la Fame: una ch'è freno al bene,
l'altra stimolo al male: orrendi tutti
e spaventosi aspetti. Avvi il Disagio,
la Povertà, la Morte, e, de la Morte
parente, il Sonno. Avvi de' cor non sani
le non sincere Gioie. Avvi la Guerra,
de le genti omicida, e de le Furie
i ferrati covili, il Furor folle,
l'empia Discordia, che di serpi ha 'l crine,
e di sangue mai sempre il volto intriso.
  Nel mezzo erge le braccia annose al cielo
un olmo opaco e grande, ove si dice
che s'annidano i Sogni, e ch'ogni fronda
v'ha la sua vana imago e 'l suo fantasma.
Molte, oltre a ciò, vi son di varie fere
mostruose apparenze. In su le porte
i biformi Centauri, e le biformi
due Scille: Brïarèo di cento doppi;
la Chimera di tre, che con tre bocche
il fuoco avventa: il gran serpe di Lerna
con sette teste; e con tre corpi umani
Erilo e Gerïone; e con Medusa
le Górgoni sorelle; e l'empie Arpie,
che son vergini insieme, augelli e cagne.
  Qui preso Enea da súbita paura
strinse la spada, e la sua punta volse
incontro a l'ombre; e se non ch'ombre e vite
vòte de' corpi e nude forme e lievi
conoscer ne le fe' la saggia guida,
avrebbe impeto fatto, e vanamente
in vane cose ardir mostro e valore.
  Quinci preser la via là 've si varca
il tartareo Acheronte. Un fiume è questo
fangoso e torbo, e fa gorgo e vorago,
che bolle e frange, e col suo negro loto
si devolve in Cocito. È guardiano
e passeggiero a questa riva imposto
Caron demonio spaventoso e sozzo,
a cui lunga dal mento incolta ed irta
pende canuta barba. Ha gli occhi accesi
come di bragia. Ha con un groppo al collo
appeso un lordo ammanto; e con un palo,
che gli fa remo, e con la vela regge
l'affumicato legno, onde tragitta
su l'altra riva ognor la gente morta.
Vecchio è d'aspetto e d'anni; ma di forze,
come dio, vigoroso e verde è sempre.
  A questa riva d'ogn'intorno ognora
d'ogni età, d'ogni sesso e d'ogni grado
a schiere si traean l'anime spente,
e de' figli anco innanzi a' padri estinti.
Non tante foglie ne l'estremo autunno
per le selve cader, non tanti augelli
si veggon d'alto mar calarsi a terra,
quando il freddo li caccia ai liti aprichi,
quanti eran questi. I primi avanti orando
chiedean passaggio, e con le sporte mani
mostravan il disio de l'altra ripa:
ma 'l severo nocchiero or questi or quelli
scegliendo o rifiutando, una gran parte
lunge tenea dal porto e da l'arena.
  Enea la moltitudine, e 'l tumulto
meravigliando: «Ond'è, vergine, - disse -
questo concorso al fiume? e qual disio
mena quest'alme? e qual grazia o divieto
fa che queste dan volta, e quelle approdano?»
  A ciò la profetessa brevemente
cosí rispose: «Enea, stirpe divina
veracemente (che di ciò n'accerta
il qui vederti), là Cocito stagna;
quinci va Stige, la palude e 'l nume
per cui di spergiurar fino a gli dèi
del cielo è formidabile e tremendo.
Questi è Caronte, il suo tristo nocchiero:
quella turba che passa, è de' sepolti:
questa che torna, è de' meschini estinti
che né tomba, né lacrime, né polve
ebber morendo. A lor non è concesso
traiettar queste ripe e questo fiume,
se pria l'ossa non han seggio e coverchio.
Erran cent'anni vagolando intorno
a questi liti, e 'l desïato stagno
visitando sovente, infin ch'al passo
non sono ammessi». Enea di ciò pensando,
mosso a pietà de la lor sorte iniqua,
fermossi; ed ecco incontro gli si fanno
mesti, d'esequie privi e di sepolcro,
Leucaspi, e 'l conduttor de' Lici Oronte,
ambi Troiani, ambi dal vento insieme
coi Lici tutti, e con l'intera nave
nel mar sommersi. Appresso Palinuro,
il gran nocchier de la troiana armata,
che dianzi nel tornar di Libia, il cielo
e le stelle mirando, in mar fu tratto.
A costui si rivolse, e poiché l'ebbe
per entro una grand'ombra a pena scorto,
cosí prima gli disse: «O Palinuro,
e qual fu de gli dèi ch'a noi ti tolse,
ed a l'onde ti diede? Or lo mi conta:
ché deluso da Febo unqua non fui,
se non se in te: Febo predisse pure
che tu nosco del mar securo e salvo
Italia attingeresti. Ah! dunque un dio,
e dio del vero, in tal guisa ne froda?»
  Rispose Palinuro: «Inclito duce,
né l'oracol d'Apollo ha te deluso,
né l'ira ha me di dio nel mar sommerso;
ché 'l temone, ond'io mai non mi divelsi
per tua salute, ancor per man ritenni
allor ch'in mare io caddi. Io giuro, Enea,
per l'onde irate, che di me non tanto,
quanto del tuo periglio ebbi timore,
che non la nave tua, del mio governo
spogliata e del suo freno, al mar già gonfio
restasse in preda. Austro tre notti intere
con la sua correntia per l'ampio mare
mi trasse a forza. Il quarto giorno a pena
discoverta l'Italia, a poco a poco
m'accostava a la terra; e giunto omai
cosí com'era ancor di veste grave,
e stanco e molle, con l'adunche mani
m'aggrappava a la ripa, e salvo fôra:
se non ch'ignara e fera gente incontro,
com'a preda marina, mi si fece,
e col ferro m'ancise. Or lungo ai liti
vassene il corpo mio ludibrio a' vènti,
e scherzo a' flutti. Ed io, signore invitto,
per la superna luce, per quell'aura
onde si vive, per tuo padre Anchise,
per le speranze del tuo figlio Iulo,
priegoti a sovvenirmi; o che di terra
mi cuopra (come puoi) cercando il corpo
per la spiaggia di Velia, o in altra guisa,
s'altra ne ti sovviene, o ti si mostra
da la tua diva madre; ché non senza
nume divino un tal passaggio imprendi.
Porgimi la tua destra, e teco trammi
oltre a quell'acque, perché morto almeno
pace truovi e riposo». Avea ciò detto,
quando cosí la vergine rispose:
  «Ah, Palinuro, e qual dira follia
a ciò t'invoglia? Non sepolto adunque
l'acque di Stige e la severa foce
traiettar de l'Eumènidi presumi?
Tu di qui tôrti a l'altra riva intendi
senza commiato? Indarno, indarno speri
che per nostro pregar fato si cangi.
Ma con questo t'acqueta, e ti conforta
de l'infortunio tuo: ché quelle terre
vicine al luogo, ove il tuo corpo giace,
da pestilenza e da prodigi astrette,
lo raccôrranno, e con solenne rito
gli faran sacrifici, esequie e tomba;
e da te per innanzi avrà quel loco
di Palinuro eternamente il nome».
Lieto d'un tanto onore, e consolato
da tale annunzio, il travagliato spirto
restò contento ed appagato in parte.
  Indi il cammin seguendo, a la riviera
s'approssimaro; e il passeggier da lunge,
poiché senza far motto entro a la selva
passar gli vide e 'ndirizzarsi al vado:
«Olà, ferma costí, - disse gridando -
qual che tu sei, ch'al nostro fiume armato
ten vai sí baldanzoso; e di costinci
di' chi sei, quel che cerchi, e perché vieni:
ché notte solamente e sonno ed ombre
han qui ricetto, e non le genti vive,
cui di varcare al mio legno non lece.
E s'Ercole e Tesèo e Piritòo
già v'accettai, scorno e dolore n'ebbi;
ché l'un d'essi il tartarëo custode
incatenovvi, e, di sotto anco al seggio
del proprio re, tremante a l'aura il trasse;
e gli altri alfin dal maritale albergo
rapir di Dite la regina osaro».
  «Nulla di queste insidie - gli rispose
la profetessa - a macchinar si viene.
Stanne sicuro; e quest'arme a difesa
si portan solamente, e non ad onta.
Spaventi il can trifauce a suo diletto
le pallid'ombre; eternamente latri
ne l'antro suo; col suo marito e zio
si stia casta Prosèrpina mai sempre,
ché di nulla cen cale. Enea troiano
è questi, di pietà famoso e d'armi,
che per disio del padre infino al fondo
de l'Èrebo discende; e se l'esempio
di tanta carità non ti commove,
questo almen riconosci». E, fuor del seno
d'oro il tronco traendo, altro non disse.
  Ei, rimirando il venerabil dono
de la verga fatal, già di gran tempo
non veduto da lui, l'orgoglio e l'ira
tosto depose, e la sua negra cimba
a lor rivolse, e ne la ripa stette.
Indi i banchi sgombrando e 'l legno tutto,
l'anime, che già dentro erano assise,
con súbito scompiglio uscir ne fece,
e 'l grand'Enea v'accolse. Allor ben d'altro
parve che d'ombre carco; e sí com'era
mal contesto e scommesso, cigolando
chinossi al peso, e piú d'una fissura
a la palude aperse. Alfin pur salvi
ne l'altra ripa, tra le canne e i giunchi,
sul palustre suo limo ambi gli espose.
  Giunti che furo, il gran Cèrbero udiro
abbaiar con tre gole, e 'l buio regno
intonar tutto; indi in un antro immenso
sel vider pria giacer disteso avanti,
poi sorger, digrignar, ràbido farsi,
con tre colli arruffarsi, e mille serpi
squassarsi intorno. Allor la saggia maga,
tratta di mèle e d'incantate biade
una tal soporifera mistura,
la gittò dentro a le bramose canne.
Egli ingordo, famelico e rabbioso
tre bocche aprendo, per tre gole al ventre
trangugiando mandolla, e con sei lumi
chiusi dal sonno, anzi col corpo tutto
giacque ne l'antro abbandonato e vinto.
  Cèrbero addormentato, occupa Enea
d'Èrebo il passo, e ratto s'allontana
dal fiume, cui chi varca unqua non riede.
  Sentono al primo entrar voci e vagiti
di pargoletti infanti, che dal latte
e da le culle acerbamente svèlti,
vider ne' primi dí l'ultima sera.
Varcano appresso i condannati e morti
senza lor colpa, e non senza compenso
di giudizio e di sorti. Han quelle genti
cosí disposti e divisati i lochi.
  Sta Minos ne l'entrata, e l'urna avanti
tien de' lor nomi, e le lor vite esamina,
e le lor colpe; e quale è questa o quella,
tal le dà sito, e le rauna e parte.
  Passan di mano in mano a quei che feri
incontro a sé, la luce in odio avendo
e l'alme a vile, anzi al prescritto giorno
si son da loro indegnamente ancisi.
Ma quanto ora vorrebbono i meschini
esser di sopra, e povertà, vivendo,
soffrire e de la vita ogni disagio!
Ma 'l fato il niega, e nove volte intorno
Stige odïosa li ristringe e fascia.
  Quinci non lunge si distende un'ampia
campagna che del Pianto è nominata;
per cui fra chiusi colli e fra solinghe
selve di mirti, occulte se ne vanno
l'alme, c'ha feramente arse e consunte
fiamma d'amor, ch'ancor ne' morti è viva.
  Qui vider Fedra e Procri ed Erifíle,
infida moglie e sfortunata madre,
di cui fu parricida il proprio figlio;
vider Laodamía, Pasífe, Evadne,
e Cènëo con esse, che di donna
in uomo, e d'uomo alfin cangiossi in donna.
  Era con queste la fenissa Dido,
che, di piaga recente il petto aperta,
per la gran selva spazïando andava.
Tosto che le fu presso, Enea la scòrse
per entro a l'ombre, qual chi vede o crede
veder tal volta infra le nubi e 'l chiaro
la nova luna, allor che i primi giorni
del giovinetto mese appena spunta;
e di dolcezza intenerito il core,
dolcemente mirolla e pianse e disse:
  «Dunque, Dido infelice, e' fu pur vera
quell'empia che di te novella udii,
che col ferro finisti i giorni tuoi?
Ah, ch'io cagion ne fui! Ma per le stelle,
per gli superni dèi, per quanta fede
ha qua giú, se pur v'ha, donna, ti giuro
che mal mio grado dal tuo lito sciolsi.
Fato, fato celeste, imperio espresso
fu del gran Giove, e quella stessa forza,
che da l'eteria luce a questi orrori
de la profonda notte or mi conduce,
che da te mi divelse; e mai creduto
ciò di me non avrei, che 'l partir mio
cagion ti fosse ond'a morir ne gissi.
Ma ferma il passo, e le mie luci appaga
de la tua vista. Ah, perché fuggi? e cui?
Quest'è l'ultima volta, ohimè! che 'l fato
mi dà ch'io ti favelli, e teco sia».
  Cosí dicendo e lagrimando intanto
placar tentava o raddolcir quell'alma,
ch'una sol volta disdegnosa e torva
lo rimirò; poscia o con gli occhi in terra,
o con gli omeri vòlta, a i detti suoi
stette qual alpe a l'aura, o scoglio a l'onde.
Alfin, mentre dicea, come nimica
gli si tolse davanti, e ne la selva
al suo caro Sichèo, cui fiamma uguale
e par cura accendea, si ricondusse.
Né però men dolente, e men pietoso
restonne il teucro duce; anzi quant'oltre
poté con gli occhi, e lungo spazio poi
col pianto e coi sospiri accompagnolla.
Poscia tornando al suo fatal vïaggio
giunse là 've accampata era in disparte
gente di ferro e di valore armata.
Qui 'l gran Tideo, qui 'l gran figlio di Marte
Partenopèo, qui del famoso Adrasto
la pallid'ombra incontro gli si fece.
Quinci de' suoi piú nobili Troiani
un gran drappello avanti gli comparve.
Pianse a veder quei glorïosi eroi,
tanto di sopra disïati e pianti,
come Glauco, Tersíloco, Medonte,
i tre figli d'Antenore, il sacrato
a Cerere ministro Polibete,
e 'l chiaro Idèo con l'armi anco e col carro.
Fatto gli avean costor chi da man destra,
chi da sinistra una corona intorno.
Né d'averlo veduto eran contenti,
ché ciascun desïava essergli appresso,
ragionar, passeggiar, far seco indugio,
e spïar come e d'onde e perché venne.
  Ma degli Argivi e le falangi e i duci,
quand'egli apparve, e che tra lor ne l'ombre
i lampi folgorâr de l'armi sue,
da gran timor furo assaliti; e parte
volser le terga, come già fuggendo
verso le navi, e parte alzâr le voci
che per téma sembrâr languide e fioche.
  Deífobo, di Prïamo il gran figlio,
vide ancor qui, che crudelmente anciso
in disonesta e miserabil guisa
avea le man, gli orecchi, il naso e 'l volto
lacerato, incischiato e monco tutto.
Per temenza il meschino e per vergogna
d'esser veduto, con le tronche braccia
un sí brutto spettacolo celando,
indarno si facea schermo e riparo;
ch'al fin lo riconobbe, e con l'usata
domestichezza incontro gli si fece,
cosí dicendo: «Poderoso eroe,
gran germoglio di Teucro, e chi sí crudo
fu mai, chi tanto osò, cui si permise
che facesse di te strazio sí fiero?
La notte che seguí l'orribil caso
de la nostra ruina, io di te seppi
ch'assaliti i nemici e di lor fatta
strage che memorabile fia sempre,
tra le caterve de' lor corpi estinti,
stanco via piú che vinto, alfin cadesti;
ed allor io di Reto in su la riva
a l'ombra tua con le mie mani un vòto
sepolcro eressi, e te gridai tre volte:
e 'l nome e l'armi tue riserba ancora
il loco stesso. Io te, dolce signore,
né veder, né coprir di patria terra
avanti il mio partir mai non potei».
  Deífobo rispose: «Ogni pietoso,
ogni onorato officio, Enea mio caro,
ha l'amor tuo vèr me compito a pieno.
Ma l'empio fato mio, l'empia e malvagia
argiva donna a tal m'ha qui condotto;
e tal di sé lasciò memoria al mondo.
Ben ti ricorda (e ricordar ten dêi)
di quell'ultima notte che sí lieta
mostrossi in pria, poi ne si volse in pianto,
quando il fatal cavallo il salto fece
sopra le nostre mura, e 'l ventre pieno
d'armate schiere ne votò fin dentro
a l'alta ròcca. Allor ella di Bacco
fingendo il coro, e con le frigie donne
scorrendo in tresca, una gran face in mano
si prese, e diè con essa il cenno a' Greci.
  Io dentro alla mia camera (infelice!)
mi ritrovai sol quella notte; e stanco
di tante che n'avea con tanti affanni
vegghiate avanti, un tal prendea riposo
che a morte piú che a sonno era simíle.
Fece la buona moglie ogn'arme intanto
sgombrar di casa, e la mia fida spada
mi sottrasse dal capo. Indi la porta
aperse, e Menelao dentro v'accolse,
cosí sperando un prezïoso dono
fare al marito, e de' suoi falli antichi
riportar vènia. Che piú dico? Basta
ch'entrâr là 'v'io dormia; e con essi era
per consultore Ulisse. O dii, se giusto
è 'l priego mio, ricompensate voi
di quest'opere i Greci. E tu, che vivo
sei qui, dimmi a rincontro, il caso o 'l fato
o l'errore o 'l precetto degli dèi,
o qual altra fortuna t'ha condotto,
ove il sol mai non entra e buio è sempre».
  Cosí tra lor parlando e rispondendo,
avea già 'l sol del suo cerchio dïurno
varcato il mezzo, e l'avria forse intero;
se non che la Sibilla rampognando
cosí li fe' del breve tempo accorti:
  «Enea, già notte fassi, e noi piangendo
consumiam l'ore. Ecco siam giunti al loco
dove la strada in due sentier si parte.
Questo a man dritta a la città ne porta
del gran Plutone e quindi ai campi Elisi;
quest'altro a la sinistra a l'empio abisso
ne guida, ov'hanno i rei supplizio eterno».
  Il figlio a ciò di Prïamo soggiunse:
«Non ti crucciare, o del gran Delio amica,
ch'or da voi mi tolgo, e mi ritiro
ne le tenebre mie. Tu, nostro onore,
vatten felice, già che scòrto sei
da miglior fato; e meglio te n'avvenga».
Tanto sol disse, e sparve. Enea si volse
prima a sinistra, e sotto un'alta rupe
vide un'ampia città che tre gironi
avea di mura, ed un di fiume intorno;
ed era il fiume il negro Flegetonte,
ch'al Tartaro con suono e con rapina
l'onde seco traea, le fiamme e i sassi.
Vede nel primo incontro una gran porta
c'ha la soglia, i pilastri e le colonne
d'un tal diamante, che le forze umane,
né degli stessi dèi, romper nol ponno.
Quindi si spicca una gran torre in alto
tutta di ferro. A guardia de l'entrata
la notte e 'l giorno vigilando assisa
sta la fiera Tesífone succinta,
col braccio ignudo, insanguinata e torva.
Quinci di lai, di pianti e di percosse
e di stridor di ferri e di catene
cotale un suono udissi, che spavento
Enea sentinne; e rattenuto il passo:
«Dimmi, vergine, - disse, - e che delitti
son qui puniti? e che pianti son questi?»
  Ed ella: «Inclito sire, a nessun lece,
che buono e giusto sia, di portar oltre
da quella soglia scelerata il piede.
Ma me di ciò che dentro vi s'accoglie
Ècate instrusse allor ch'ai sacri boschi
mi prepose d'Averno; e d'ogni pena
e d'ogni colpa e d'ogni loco a pieno,
quando seco vi fui, notizia diemmi.
Questo è di Radamanto il tristo regno,
là dov'egli ode, esamina, condanna
e discuopre i peccati che di sopra
son da le genti o vanamente ascosi
in vita, o non purgati anzi a la morte:
né pria di Radamanto esce il precetto,
che Tesífone è presta ad eseguirlo.
Ella con l'una man la sferza impugna,
ne l'altra ha serpi; ed ambe intorno arrosta,
e grida e fère, e de le sue sorelle
le mostruose ed empie schiere tutte
al ministerio de' tormenti invita.
Apronsi l'esecrate orrende porte
stridendo intanto. Tu, che quinci vedi
che faccia è quella che di fuor le guarda,
pensa qual a veder sia dentro un'Idra
ancor piú fiera aprir cinquanta ingorde
rabbiose bocche. Il Tartaro vien dopo;
una vorago che due volte tanto
ha di profondo, quanto in su guardando
è da la terra al cielo: e qui ne l'imo
suo baratro dal fulmine trafitti
son gli antichi Titani al ciel rubelli.
Qui vidi ambi d'Alòo gli orrendi figli,
che scinder con le mani il cielo osaro,
e tôr lo scettro del suo regno a Giove.
Vidivi l'orgoglioso Salmonèo
di sua temerità pagare il fio;
ché temerario veramente ed empio
fu di voler, quale il Tonante in cielo,
tonar qua giuso e folgorare a pruova.
Questi su quattro suoi giunti destrieri,
la man di face armato alteramente
per la Grecia scorrendo, e fin per mezzo
d'Èlide, ov'è di Giove il maggior tempio,
di Giove stesso il nume, e de gli dèi
s'attribuiva i sacrosanti onori.
Folle, che con le fiaccole e co' bronzi,
e con lo scalpitar de' suoi ronzoni
i tuoni, i nembi e i folgori imitava,
ch'imitar non si ponno: e ben fu degno
ch'ei provasse per man del padre eterno
d'altro fulmine il colpo e d'altro vampo
che di tede e di fumo, e degno ancora
che nel baratro andasse. Eravi Tizio,
quei de la terra smisurato alunno,
che tien disteso di campagna quanto
un giogo in nove giorni ara di buoi.
Questi ha sopra un famelico avoltore,
che con l'adunco rostro al cor d'intorno
gli picchia e rode; e perché sempre il pasca,
non mai lo scema sí che 'l pasto eterno
ed eterna non sia la pena sua;
ché fatto a chi lo scempia esca e ricetto,
del suo proprio martir s'avanza e cresce;
e perché sempre langua, unqua non more.
De' Làpiti a che parlo? d'Issïóne
di Piritòo, e di quegli altri tutti
cui sopra al capo un'atra selce pende,
che grave e ruinosa ad ora ad ora
sembra che caggia? Avvi la mensa d'oro
con prezïosi cibi in regia guisa
apparecchiati e proibiti insieme:
ché la Fame, infernal furia maggiore,
gli siede accanto; e com' piú 'l gusto incende
di lui, piú dal gustarne indietro il tragge,
e sorge, e la sua face estolle e grida.
  Quei che son vissi ai lor fratelli amari;
quei c'han battuti i padri; quei che frode
hanno ordito a' clienti; i ricchi avari,
e scarsi a' suoi, di cui la turba è grande:
gli occisi in adulterio; i vïolenti,
gl'infidi, i traditori in questo abisso
han tutti i lor ridotti e le lor pene.
E che pena e che forma e che fortuna
di ciascun sia, non è d'uopo ch'io dica:
ma chi sassi rivolgono, e chi vòlti
son da le ruote, ed altri in altra guisa
son tormentati. In un petron confitto
vi siede e sederavvi eternamente
Tèseo infelice; e Flegia infelicissimo
va tra l'ombre gridando ad alta voce:
"Imparate da me voi che mirate
la pena mia: non vïolate il giusto,
riverite gli dèi". Tra questi tali
è chi vendé la patria; chi la pose
al giogo de' tiranni; chi per prezzo
fece leggi e disfece; e cento lingue
e cento bocche, e voci anco di ferro,
non basterian per divisare i nomi
e le forme de' vizi e de le pene
ch'entro vi sono». Poi che la Sibilla
ebbe ciò detto: «Via - soggiunse, - attendi
a l'impreso viaggio, e studia il passo:
ché già le mura da' Ciclopi estrutte
mi veggio avanti, e sotto a quel grand'arco
la sacra porta che 'l tuo dono aspetta».
  Cosí mossi ambedue, lo spazio tutto,
ch'era nel mezzo, per sentiero opaco
tosto varcando, anzi a la porta furo.
Incontinente Enea l'intrata occúpa;
di viva acqua si spruzza: e 'l sacro ramo
a la regina de l'inferno affigge.
  Ciò fatto, a i luoghi di letizia pieni,
a l'amene verdure, a le gioiose
contrade de' felici e de' beati
giunsero al fine. È questa una campagna
con un aër piú largo, e con la terra
che di un lume di purpura è vestita,
ed ha 'l suo sole e le sue stelle anch'ella.
Qui se ne stan le fortunate genti,
parte in su' prati e parte in su l'arena
scorrendo, lotteggiando, e vari giuochi
di piacevol contesa esercitando;
parte in musiche, in feste, in balli, in suoni
se ne van diportando, ed han con essi
il tracio Orfeo, ch'in lungo abito e sacro
or con le dita, ed or col plettro eburno,
sette nervi diversi insieme uniti,
tragge del muto legno umani accenti.
Qui di Teucro l'antica e bella razza
facea soggiorno; quei famosi eroi
che in quei tempi migliori al mondo furo,
Ilo, Assàraco, Dàrdano, quei primi
de la gran Troia fondatori e regi.
Veggon da lunge le vane arme e i carri
a lor d'intorno, e l'aste in terra fisse,
e gli sciolti destrier per la campagna
vagar pascendo; ché 'l diletto antico
e de l'armi e de' carri e de' cavalli
gli segue anco sotterra. Indi altri altrove
scorgono, che da destra e da sinistra
convivando e cantando, sopra l'erba
si stanno assisi, ed han di lauri intorno
un odorato bosco, onde il Po sorge
sopra la terra, e spazïoso inonda.
  E questi eran color che combattendo
non fûr di sangue a la lor patria avari;
e quei che sacerdoti erano in vita
castamente vissuti, e quei veraci
e quei pii c'han di qua parlato o scritto
cose degne di Febo, e gl'inventori
de l'arti, ond'è gentile il mondo e bello;
e quei che ben oprando han tra' mortali
fatto di fama e di memoria acquisto;
cui tutti, in segno di celeste onore,
candida benda il fronte orna e colora.
  A questi, ch'a la vergine Sibilla
fêr cerchio intorno, ed a Musèo tra loro,
che dagli omeri in su gli altri avanzava,
diss'ella: «Alme felici e tu, buon vate,
ditene in qual contrada, e 'n qual magione
qui tra voi si ripara il grande Anchise,
ché lui cerchiamo, e sol per lui varcati
d'Èrebo i fiumi e le caverne avemo».
  A cui Musèo cosí breve rispose:
«Nullo è di noi che in alcun luogo alloggi
come in suo proprio; e tutti o per le sacre
opache selve, o per l'amene rive
de' chiari fiumi, o per gli erbosi prati
tra rivi e fonti i nostri alberghi avemo.
Ma se di ciò vi cale, itene meco
sovr'a quel giogo; e quindi agevolmente
il sentier ne vedrete». In ciò si mosse
come lor guida, e sopra al colle asceso,
mostrò lor d'alto i luminosi campi,
additò 'l calle, ed invïolli al piano.
  Era per avventura in una valle
Anchise, che da poggi era ricinta,
e di verde coverta. Ivi in disparte
de' suoi nepoti avea l'anime accolte
ch'a la vita di sopra eran chiamate,
e facendo di lor rassegna e mostra
gli annoverava, esaminava i fati,
le fortune, il valor di mano in mano,
gli ordini e i tempi loro. Enea comparve
sul campo intanto; a cui tosto che 'l vide,
lieto Anchise avventossi e con le braccia
in atto d'accoglienza: «O figlio, - disse
dolcemente piangendo - io pur ti veggio.
Pur sei venuto, ha pur la tua pietade
superati i disagi e la durezza
di sí strano vïaggio. Ecco m'è dato
di veder, figlio, il tuo bramato aspetto,
e sentirti e parlarti. Io di ciò punto
non era in forse, e sol pensava al quando,
contando i giorni. Oh, dopo quanti affanni,
dopo quanti perigli, e quanti storpi
e di mare e di terra io ti riveggio!
E quanto ebbi timor che di Cartago
venisse al corso tuo sinistro intoppo!»
  Ed egli a lui: «La sconsolata imago,
che m'è, padre, di te sovente apparsa,
per te, per te veder qua giú m'ha tratto:
e di sopra fin qui salvo a la riva
del mar Tirreno il mio navile è sorto.
Or dammi, padre mio, dammi ch'io giunga
la mia con la tua destra, e grazia fammi
che di vederti e di parlarti io goda».
  Mentre cosí dicea, di largo pianto
rigava il volto, e distendea le palme;
e tre volte abbracciandolo, altrettante
(come vento stringesse o fumo o sogno)
se ne tornò con le man vòte al petto.
  Intanto Enea per entro a la gran valle
vide scevra da l'altre una foresta,
i cui rami sonar da lunge udiva.
A piè di questa era di Lete il rio
ch'ai dilettosi e fortunati campi
correa davanti; e piene avea le ripe
di genti innumerabili, ch'intorno
a caterve alïando ivano in guisa
che fan le pecchie a' chiari giorni estivi,
quando di fiore in fior, di giglio in giglio
si van posando, e per l'apriche piagge
dolcemente ronzando. Enea, che nulla
di ciò sapea, di súbito stupore
fu sopraggiunto, e la cagion spiando:
«O - disse - padre, che riviera è quella?
e che gente, e che mischia, e che bisbiglio?» -
  «L'anime - gli rispose - a cui dovuti
sono altri corpi, a questo fiume accolte
beon dimenticanze e lunghi oblii
de l'altra vita; e questi io desïava
che tu vedessi, e che da me n'udissi
i nomi e i gesti, onde contezza appieno
del nostro sangue, e piena gioia avessi
dell'acquisto d'Italia». «O padre, adunque -
soggiunse Enea - creder si dee che l'alme,
che son qui scarche e libere e felici,
cerchin di nuovo a la terrena salma,
di nuovo a la prigion tornar de' corpi?
E qual, misere loro! empio desire
del lume di lassú tanto le invoglia?»
  «Figlio, - rispose Anchise, - acciò sospeso
piú non vacilli in questo dubbio, ascolta».
E 'n tal guisa per ordine gli narra:
  «Primieramente il ciel, la terra e 'l mare,
l'aër, la luna, il sol, quanto è nascosto,
quanto appare e quant'è, muove, nudrisce
e regge un, che v'è dentro, o spirto o mente
o anima che sia de l'universo;
che sparsa per lo tutto e per le parti
di sí gran mole, di sé l'empie, e seco
si volge, si rimescola e s'unisce.
Quinci l'uman legnaggio, i bruti, i pesci,
e ciò che vola, e ciò che serpe, han vita,
e dal foco e dal ciel vigore e seme
traggon, se non se quanto il pondo e 'l gelo
de' gravi corpi, e le caduche membra
le fan terrene e tarde. E quinci ancora
avvien che téma e speme e duolo e gioia
vivendo le conturba, e che rinchiuse
nel tenebroso carcere, e ne l'ombra
del mortal velo, a le bellezze eterne
non ergon gli occhi. Ed oltre a ciò, morendo,
perché sian fuor de la terrena vesta,
non del tutto si spoglian le meschine
de le sue macchie; ché 'l corporeo lezzo
sí l'ha per lungo suo contagio infette,
che scevre anco dal corpo, in nuova guisa
le tien contaminate, impure e sozze.
Perciò di purga han d'uopo, e per purgarle
son de l'antiche colpe in vari modi
punite e travagliate: altre ne l'aura
sospese al vento, altre ne l'acqua immerse,
ed altre al foco raffinate ed arse:
ché quale è di ciascuna il genio e 'l fallo,
tale è 'l castigo. Indi a venir n'è dato
negli ampi elisi campi; e poche siamo
cui sí lieto soggiorno si destini.
Qui stiamo infin che 'l tempo a ciò prescritto
d'ogni immondizia ne forbisca e terga,
sí ch'a nitida fiamma, a semplice aura,
a puro eterio senso ne riduca.
Quest'alme tutte, poiché di mill'anni
han vòlto il giro, alfin son qui chiamate
di Lete al fiume, e 'n quella riva fanno,
qual tu vedi colà, turba e concorso.
Dio le vi chiama, acciò ch'ivi deposto
ogni ricordo, men de' corpi schive,
e piú vaghe di vita, un'altra volta
tornin di sopra a riveder le stelle».
  Ciò detto, Anchise a quelle genti in mezzo
condusse il figlio, e la Sibilla insieme;
e prese un colle, ove le schiere tutte,
sí come ne venian di mano in mano,
avea d'incontro, e le scorgea nel volto.
  «Or qui ti mostrerò, - soggiunse Anchise, -
quanta sarà ne' secoli futuri
la gloria nostra; quanti e quai nepoti
de la dardania prole a nascer hanno;
e quante del mio sangue anime illustri
sorgeranno in Italia. Indi a te conte
le tue fortune e i tuoi fati saranno.
Vedi colà quel giovinetto ardito
che su quell'asta pura il braccio appoggia?
Quegli a la luce è destinato in prima,
primo che di Lavinia in Lazio avrai
figlio postumo a te già d'anni grave,
ch'alfin da lei fuor de le selve addutto,
re sarà d'Alba, e degli albani regi
autore e padre: e Silvi dal suo nome
fian tutti i nostri, che da lui discesi
ivi poscia gran tempo imperio avranno.
  Proca è quei dopo lui, gloria e splendore
de la stirpe troiana: e quegli è Capi,
e quegli è Numitore: e l'altro appresso
è Silvio Enea, che 'l tuo nome rinnova;
e se fia mai che 'l suo regno ricovri,
non sarà men di te pietoso e forte.
Mira che gioventú, mira che forze
mostran, solo a vederli. Appo costoro
quei che son là di quercia inghirlandati,
di Gabi, di Nomento e di Fidene
parte propagheranti il picciol regno,
parte su' monti il tempio ti porranno
d'Inúo, e la terra che da lui dirassi,
e Collazia e Pomezia e Bola e Cora;
ché questi nomi allor quei luoghi avranno
ch'or ne son senza. In compagnia de l'avo
Romolo se ne vien, di Marte il figlio,
di Roma il padre. Al mondo Ilia darallo
de la stirpe d'Assàraco un rampollo.
Vedil colà, c'ha in su la testa un elmo
con due cimieri, e tal, che il padre stesso
già par ch'in cielo e nel suo seggio il ponga.
Questi, figlio, sarà quel grand'eroe,
onde i suoi primi glorïosi auspici
avrà l'inclita Roma, quella Roma,
che, sette monti entro al suo cerchio accolti,
tanto si stenderà, che fia con l'armi
uguale al mondo, e con le menti al cielo;
Roma di cosí prodi e chiari figli
madre felice. Tal di Berecinto
la maggior madre infra i leoni assisa,
e di torri altamente incoronata,
va per la Frigia, glorïosa e lieta
che tanti ha figli in ciel, nepoti in seno,
tutti che dii già sono o dii si fanno.
  Or qui, figliuolo, ambe le luci affisa
a mirar la tua gente e i tuoi Romani.
Cesare è qui, qui la progenie è tutta
del grande Iulo, a cui già s'apre il cielo.
Questi, questi, è colui che tante volte
t'è già promesso, il gran Cesare Augusto,
di divo padre figlio, e divo anch'egli.
Per lui risorgerà quel secol d'oro,
quel del vecchio Saturno antico regno,
che fe' il Lazio sí bello e 'l mondo tutto.
Quest'oltre ai Garamanti ed oltre agl'Indi
impererà fin dove il sole e l'anno
non giunge, e piú non va se non s'arretra;
trapasserà di là dal mauro Atlante
che con gli omeri suoi folce le stelle.
Al venir di costui, sol de la voce
che ne dànno i profeti, i Caspi regni,
la Meotica terra, e quanto inonda
il sette volte geminato Nilo,
tremar già veggio, e star pensoso e mesto.
Tanto del mondo il glorïoso Alcide
non corse mai, se ben de' Cereniti,
di Lerna e d'Erimanto i mostri ancise:
né tanto ne domò chi domò gl'Indi,
e nel trionfo suo di viti e pampini
a le tigri di Nisa il giogo impose.
E sarà poi che 'l valor nostro manchi
di gloria, e tu di speme e d'ardimento
di far d'Ausonia il desïato acquisto?
Ma chi fia questi che da lungi scorgo
sí venerando, il crin cinto d'olivo,
con quelle bende e con quei sacri arredi?
A la chioma, a la barba irta e canuta
mi sembra, ed è di Roma il santo rege,
che dal picciolo Curi a grande impero
sarà da lei chiamato, e sarà il primo
che cerimonie introdurravvi e leggi.
  A lui Tullo vien dopo, il forte e saggio,
ch'ai dismessi trionfi rivocando
la gente già per lunga pace imbelle,
la tornerà, di neghittosa e mite,
un'altra volta armigera e guerriera.
Anco è quell'altro che lo segue appresso,
che d'onor troppo e del favor del volgo
di già si mostra ambizïoso e vago.
Or vedi là, se di vederli agogni,
anco i Tarquini regi, e quel superbo
vendicator de la superbia loro,
Bruto, consol primiero, e quei suoi fasci
e quelle accette ond'ei, padre crudele,
de la patria buon figlio, i figli suoi
per l'altrui bella libertate ancide.
Infortunato lui! che che dipoi
de la posterità se ne favelle.
Vince il publico amore, e 'l gran desio
d'umana lode in lui l'affetto interno
de la natura e del suo sangue stesso.
  Mira poco in disparte i Deci, i Drusi,
il severo Torquato e 'l buon Camillo;
l'uno che tien già la secure in mano,
e l'altro che da' Galli ne riporta
i perduti vessilli. I due, che vedi
sí risplender ne l'armi, e che rinchiusi
in questa notte, sembrano a la vista
gir di pari e d'accordo, oh se a la vita
vengon di sopra, quanta guerra e quale,
con che strage di genti e con che forze,
faran tra loro! Il suocero da l'Alpi
e da l'occaso, il genero da l'orto
verrà l'un contra l'altro. Ah figli, ah figli,
non cosí rio, non cosí fiero abuso
d'armar voi contr'a voi, contr'a le viscere
de la gran patria vostra! e tu che traggi
dal ciel legnaggio, tu, mio sangue, astienti
da tanta ferità; perdona il primo,
e gitta l'armi in terra. Ecco chi vince
Corinto e 'l popol greco, e 'n Campidoglio
trïonfando ne saglie. Ecco chi d'Argo
e di Micena ancor le torri abbatte,
e chi Pirro debella e 'l seme estingue
del bellicoso Achille; alta vendetta
che ben degli avi ricompensa i danni,
e 'l tempio vïolato di Minerva.
Dove lass'io te, gran Catone, e Cosso?
E i Gracchi, e i due gran folgori di guerra
ambedue Scipïoni, ambi Africani,
strage l'un di Cartago, e l'altro esizio?
Dove Fabrizio il povero, e potente,
con la sua povertà? Dove Serrano,
ch'e di bifolco, al grande imperio assunto?
Dove restano i Fabi? Eccone un solo,
Massimo veramente, che con arte
terrà il nemico tranquillando a bada.
Abbinsi gli altri de l'altre arti il vanto;
avvivino i colori e i bronzi e i marmi;
muovano con la lingua i tribunali,
mostrin con l'astrolabio e col quadrante
meglio del ciel le stelle e i moti loro:
ché ciò meglio sapran forse di voi:
ma voi, Romani miei, reggete il mondo
con l'imperio e con l'armi, e l'arti vostre
sien l'esser giusti in pace, invitti in guerra:
perdonare a' soggetti, accôr gli umíli,
debellare i superbi». In questa guisa
parlava il santo vèglio, ed essi attenti
stavan con maraviglia ad ascoltarlo,
quando soggiunse: «Ecco di qua Marcello;
mira come se n'entra adorno e carco
d'opime spoglie, e quanto a gli altri avanza.
Quest'è quel generoso, ch'a grand'uopo
vien di Roma a domare i Peni, i Galli,
e del gallico duce i fregi e l'armi
la terza volta al gran Quirino appende».
  Qui vide Enea ch'un giovinetto a pari
gli si traea, ch'era d'arnesi e d'armi,
e via piú di beltà, vago e lucente;
se non che poco lieta avea la fronte
e chino il viso. Onde rivolto al padre:
«E chi - disse - è costui che l'accompagna?
Saria de' figli, o de' nipoti alcuno
del gran nostro legnaggio? E che bisbiglio
e che mischia ha d'intorno? O quale e quanto
di già mi sembra! Ma gli veggio al capo
d'atra notte girar di sopra un nembo».
  Anchise lagrimando gli rispose:
«Amaro desiderio il cor ti tocca
a voler, figlio, un gran danno, un gran lutto
udir de' tuoi. Questi a la luce a pena
verrà, che ne fia tolto. O dii superni,
troppo parravvi la romana stirpe
possente allor che in sul fiorir preciso
ne fia sí vago e sí gentile arbusto.
O che duolo, o che pianto, o che funèbre
pompa ne vedrà Roma e 'l Marzio campo!
Qual, Tiberino padre, a la tua riva
nuova se n'ergerà funesta mole!
Germe non sorgerà del seme d'Ilio
piú di questo gradito, né che tanto
de' latini avi suoi la speme estolla:
né la terra di Romolo arà mai
figlio, onde piú si pregi e piú si vanti.
O pietà non piú vista; o fede antica!
O virtú senza pari! E qual ne l'armi
sarà? Chi sosterrà l'incontro suo
pedone o cavalier ch'armato in giostra,
o pur nel campo, il suo nemico assalga?
Miserabil fanciullo! Cosí morte
te non vincesse, come invitto fôra
il tuo valore, e come tu, Marcello,
non men de l'altro, eroica vertute,
e piú splendore e piú fortuna avesti!
Datemi a piene mani, ond'io di gigli
e di purpurei fiori un nembo sparga,
ché, se ben contro al già fisso destino
m'adopro invano, almen con questi doni
l'ombra d'un tanto mio nipote onori».
  Dopo ciò detto, per gli aerei campi
vagando, a parte a parte e l'ombre e i lochi
gli mostrò, l'invaghí, tutto d'amore
de la futura gloria il cor gli accese.
Indi le guerre e le fortune sue
d'Italia, di Laurento, e di Latino
la figlia, il regno, i popoli e lo stato
tutto gli rivelò. D'ogni suo affanno
(come a fuggir, come a soffrir l'avesse)
gli diè lume e compenso. Escono i Sogni
d'inferno per due porte; una è di corno,
l'altra è d'avorio: manda il corno i veri,
l'avorio i falsi; e per l'eburna Anchise
diede (quando lor diè commiato alfine)
a la Sibilla ed al suo figlio uscita.
  Enea verso le navi a' suoi compagni
fece ritorno. Indi sciogliendo, dritto
lungo la riva il suo corso riprese;
e giunto ov'oggi è di Caieta il porto,
l'afferrò, gittò l'àncore, e fermossi.